Da Eraclito a Protagora

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Eraclito
Nato ad Efeso da famiglia aristocratica tra la fine del VI e gli inizi del V secolo, non si conosce
quale ruolo abbia svolto negli avvenimenti politici, anche se nei frammenti è presente una
ricorrente polemica antidemocratica. Fu autore di uno scritto in prosa al quale fu dato l’usuale
titolo di “Della natura”. Ne abbiamo un centinaio di frammenti. L’opera, estremamente curata
nello stile e redatta in un linguaggio volutamente oscuro, fu depositata dall’autore nel tempio
di Artemide e, per sua volontà, non fu resa pubblica prima della sua morte.
Per Eraclito il divenire e la contraddizione costituiscono i caratteri essenziali del mondo: la
realtà è un perpetuo fluire e trasformarsi, nel reciproco conflitto, di tutte le cose (“la guerra è
la madre del mondo”). C’è conflitto tra gli uomini e c’è conflitto nella natura, i cui elementi
8aria, acqua, terra, fuoco) lottano per la supremazia, si trasformano l’uno nell’altro, si
sottomettono a vicenda, per cui gli stati di quiete che sono presenti nel mondo sono soltanto
dei precari equilibri tra forze opposte. È questo il principio del convergente-divergente, per
spiegare il quale Eraclito fa uso dell’esempio dell’ arco e della lira: la lira e l’arco hanno una
struttura simile, sono formati da due bracci divergenti che le corde tengono uniti, rendendoli
convergenti. Si tratta dunque di due cose-forza che si contrappongono: finché dura la
contrapposizione, si conserva la cosa sulla quale essi agiscono; quando la contrapposizione
viene meno, anche la cosa si distrugge.
Approfondendo la natura dei contrari, Eraclito scopre, infine, che questi sono uno: “la via
verso l’alto e la via verso il basso sono una sola e la stessa”. Vivo-morto, giovane-vecchio
sembrano concetti diversi, ma nella loro più profonda struttura sono una cosa sola, in quanto
risultano dalla tensione delle stesse due forze contrarie che, trovato un punto di equilibrio,
momento per momento li qualificano in un certo modo. Le forze che costituiscono un contrario,
costituiscono anche l’altro, solo che è diversa la tensione a cui tali forze sono sottoposte
quando si ha l’uno o l’altro contrario.
Il conflitto degli opposti, il perpetuo trasformarsi e fluire della realtà (“tutto scorre”), pur non
essendo illusori, costituiscono però solo l’aspetto esterno della realtà, quello che si coglie
attraverso i sensi. Compito del saggio è pertanto quello di elevarsi a un punto di vista
superiore a quello sensibile per poter comprendere che al di là del divenire universale vi è
qualcosa di stabile, vale a dire la legge immutabile che lo governa. Gli opposti in lotta,
infatti, non sono che frammenti di un’unica realtà, la loro tensione (come quella degli elementi
dell’arco) è al servizio di un’armonia che li sovrasta, essi cioè ubbidiscono ad una legge
superiore in cui il divenire è racchiuso. Tale legge è la legge immutabile del logos (ordine
razionale). Per dare forma sensibile al logos Eraclito fa ricorso al fuoco, elemento che, pur
restando sempre lo stesso, contemporaneamente diviene.
Scuola eleatica (Elea, Lucania, V secolo)
La scuola ionica aveva cercato di rintracciare al di là del divenire l’unità e la permanenza di un
essere, di una sostanza. Tale scuola non aveva tuttavia negato la realtà del divenire, cosa che
invece viene operata dalla scuoal eleatica, la quale riduce il divenire a semplice apparenza
ed afferma che solo la sostanza “è” veramente. Tale principio segna una tappa decisiva
nella storia della filosofia: esso presuppone indubbiamente la ricerca cosmologica degli ionici e
dei pitagorici, ma la sottrae al suo presupposto naturalistico e la porta per la prima volta sul
piano ontologico (ontologia: scienza dell’essere in generale, cioè studio della realtà in quello
che ha di assoluto, nella sua essenza).
1
Parmenide
Di famiglia aristocratica, nacque ad Elea attorno al 515 a.C. Delle vicende della sua vita si sa
soltanto che svolse opera di legislatore nella sua città e che nel 450 circa compì un viaggio ad
Atene. La sua formazione culturale avvenne all’inizio sotto la prevalente influenza del
pitagorismo. Scrisse un’opera filosofica in esametri, alla quale fu in seguito dato il titolo di
“Sulla natura”, divisa in due parti, “Verità” e “Opinione”.
Il tema originale della filosofia di Parmenide è il contrasto tra verità e apparenza; il cammino
della verità può essere seguito solo dalla ragione, giacché i sensi si fermano all’apparenza e
pretendono di testimoniare il mutare e il perire delle cose, cioè, insieme, il loro essere e il loro
non essere.
Parmenide vuole allontanare l’uomo dalla conoscenza sensibile: l’uomo deve giudicare con la
ragione e considerare con essa le cose lontane come se gli stessero innanzi. La ragione
dimostra subito che non si può nè pensare, nè esprimere il non-essere, infatti il pensiero e
l’espressione devono in ogni caso avere un oggetto, e questo oggetto è l’essere, pertanto la
conoscenza non può essere che conoscenza dell’essere.
All’essere Parmenide attribuisce la caratteristica fondamentale della necessità: “L’essere è e
non può non essere”. Questa necessità rispetto al tempo è eternità, la quale non va però
intesa come durata temporale infinita, ma come negazione del tempo, infatti l’essere non può
nè nascere, nè perire, giacché in questi casi dovrebbe derivare dal non-essere o dissolversi in
esso, il che è impossibile, perchè il non-essere non è.
L’essere è inoltre
- indivisibile (perchè è tutto uguale e non può essere in un luogo più o meno che in un altro)
- immobile (perchè risiede nei propri limiti
- finito (perchè, come già avevano affermato i pitagorici, solo ciò che è limitato e concluso è
“perfetto”.
Per queste sue caratteristiche, l’essere è da Parmenide paragonato a una sfera, la quale è
omogenea, immobile e perfettamente uguale in tutti i suoi punti.
Nella seconda parte della sua opera, Parmenide si interessa del mondo molteplice e mutevole
presentato a noi dai sensi, e tenta di dare di questo mondo del non-essere una spiegazione
non già vera, perchè questo sarebbe impossibile, ma almeno razionale. Il filosofo dà, così,
luogo ad una cosmologia destinata a sostituire quella ionica e ispirata in gran parte al pensiero
pitagorico: il mondo è retto da due principi contrastanti, l’uno attivo (luce), l’altro passivo
(tenebre); dall’azione del primo sul secondo prende forma l’intera natura. In questa seconda
parte, scopo di Parmenide è quello di correggere le opinioni correnti, le quali tuttavia restano
lontane dalla verità perchè legate al dominio dell’apparenza e dei sensi e possono pertanto
essere solo opinioni (dòxai).
Con Parmenide per la prima volta vengono formulati, con assoluto rigore logico, i principi
fondamentali di quella scienza filosofica che molto più tardi si chiamerà ontologia: per la prima
volta, infatti, il problema dell’essere viene posto nella sua massima generalità e non più
soltanto come problema fisico. Più precisamente, l’essere di cui parla Parmenide non è soltanto
quello della natura, ma quello di qualsiasi cosa pensabile; esso, inoltre, non ha un rapporto
diretto con le apparenze naturali, perchè è al di là di queste e ne costituisce la struttura
necessaria, riconoscibile solo con il pensiero.
(Alcuni hanno voluto vedere in Parmenide il fondatore della logica. Se per logica si intende una
scienza a sè, che serve come strumento della ricerca filosofica, nulla è più estraneo a
Parmenide di una logica così intesa. Ma se per logica si intende la disciplina intrinseca della
ricerca, in quanto si rende indipendente dall’opinione e si fonda su un proprio principio
autonomo, allora veramente Parmenide è il fondatore della logica).
2
Pluralismo del V secolo a.C.
Le conclusione dell’eleatismo, per il quale il divenire è apparenza e la conoscenza sensibile è
ingannevole, influenzano la successiva indagine per la costruzione di una scienza della natura.
I fenomeni naturali, pertanto, vengono adesso spiegati in base a principi che presentano tutte
quelle caratteristiche di razionalità richieste dall’essere parmenideo (tali principi sono eterni,
ingenerati, sempre identici), salvo che per alcune varianti indispensabili per spiegare il divenire
fisico. Tali varianti sono
- pluralità (presenza di più principi indispensabili a spiegare le pluralità del mondo)
- movimento (anch’esso indispensabile a spiegare il divenire)
- natura materiale
I principi sono come i colori semplici, a partire dai quali la natura, alla maniera dei pittori,
compone l’infinita varietà dei fenomeni. In questa derivazione della realtà dai principi si basa la
possibilità di una spiegazione scientifica dei fenomeni: comprendere infatti i fenomeni
razionalmente significherà ridurli, con opportune procedure logiche, ai principi elementari da
cui derivano. All’interno di questa struttura le opposizioni tra l’eterna identità dell’essere e la
continua mutevolezza del divenire non appaiono più inconciliabili, infatti ogni mutamento è
dovuto all’aggregazione o alla scomposizione di suddetti principi elementari, che in se stessi
restano identici. Ciò che muta sono solo i fenomeni, i quali sono infatti il modo di apparire del
comporsi e scomporsi dei principi.
Anassagora
Nato a Clazomene (Asia Minore) nel 499 a.C., è presentato dalla tradizione come uno
scienziato assorto nella sua speculazione ed estraneo ad ogni attività pratica. Anche
Anassagora accetta il principio parmenideo della sostanziale immutabilità dell’essere: “nessuna
cosa nasce e nessuna perisce, ma ognuna si compone di cose già esistenti o si scompone in
esse, pertanto si dovrebbe chiamare piuttosto “riunirsi” il nascere e “separarsi” il perire”. Come
Empedocle, anch’egli ammette che gli elementi sono qualitativamente distinti l’uno dall’altro,
ma, a differenza di quello, ritiene che tali elementi siano particelle invisibili a cui dà il nome di
“semi” (tali particelle sono chiamate “omeomerie” da Aristotele).
Caratteristiche dei “semi” sono
- infinita divisibilità
- infinita aggregabilità
Ne deriva che, con la divisione dei semi, non si può mai giungere ad elementi indivisibili, allo
stesso modo in cui non si può giungere, con l’aggregazione dei semi, ad un tutto massimo, di
cui non sia possibile il maggiore.
La natura di una cosa è determinata dai semi che prevalgono in essa, per cui apapre oro quella
cosa in cui prevalgono le particelle di oro, sebbene ci siano in essa particelle di tutte le altre
sostanze.
In origine i semi erano mescolati disordinatamente tra loro e costituivano una moltitudine
infinita sia nel senso della grandezza dell’insieme, sia nel senso della piccolezza di ogni sua
parte. Questa mescolanza caotica era immobile e ad introdurre in essa il movimento e l’ordine
intervenne l’Intelletto, il quale è pertanto ritenuto da Anassagora del tutto separato dalla
materia costituita da semi. L’Intelletto è semplice, infinito e dotato di forza propria, della quale
si avvale per operare la separazione degli elementi. Tuttavia, essendo i semi divisibili
all’infinito, la separazione delle parti operata dall’Intelletto non elimina completamente la
mescolanza, cosicché “anche ora, come in principio, tutte le cose sono insieme”.
A questo punto, però, diviene lecita la domanda in che cosa consista l’ordine che l’Intelletto dà
all’universo. La risposta di Anassagora è che quest’ordine consiste nella relativa prevalenza,
che le cose del mondo presentano, di una certa specie di semi: ad esempio, l’acqua è tale
perchè contiene una prevalenza di semi d’acqua, sebbene contenga anche semi di tutte le altre
cose
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Per questa prevalenza, che è l’effetto dell’azione ordinatrice dell’Intelletto, si determinano
anche la separazione e l’opposizione delle qualità, ad esempio del freddo e del caldo. Per
quanto riguarda il problema della conoscenza, Anassagora, al contrario di Empedocle, che
l’aveva spiegato con il principio della somiglianza, lo risolve con il principio dei contrari. Noi
sentiamo il freddo con il caldo, il dolce con l’amaro e ogni qualità con la qualità opposta (poichè
ogni dissidio porta dolore, ogni sensazione è dolorosa e il dolore diventa sensibile con la lunga
durata o con l’eccesso delle sensazioni).
Dal momento che non è possibile percepire la molteplicità dei semi che costituiscono ciascuna
cosa, Anassagora afferma che “la debolezza dei nostri sensi ci impedisce di raggiungere la
verità”, ma aggiunge “ciò che appare è una visione dell’invisibile” e difatti i sensi ci mostrano i
semi che predominano nella cosa che ci sta davanti e ci fanno intendere la sua interna
costituzione.1
Pur rimanendo fedele al metodo naturalistico della filosofia ionica, Anassagora ha innovato
radicalmente la concezione del mondo propria di quella filosofia, sostenendo la presenza di
un’intelligenza separata dal mondo e causa dell’ordine dello stesso.
1 La grandezza di Anassagora sta nell’avere affermato l’esistenza di un principio intelligente come causa dell’ordine del
mondo e per questo motivo lo lodano sia Platone che Aristotele, anche se poi Platone si dichiarerà deluso nel
constatare che Anassagora non si srve dell’Intelletto per spiegare l’ordine delle cose, ma fa ricorso agli elementi
naturali. Analogamente, Aristotele affermerà che Anassagora fa uso dell’intelletto come di un deus ex machina tutte le
volte che è nell’impossibilità di spiegare qualcosa per mezzo di cause naturali.
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Empedocle
Nacque ad Agrigento intorno al 492, partecipò alla vita politica come capo del partito
democratico della sua città (anche se discendente da una stirpe aristocratico-sacerdotale) e fu
anche medico e scienziato (sulla sua figura di mago furono create molte leggende,
specialmente dopo la sua morte: i suoi seguaci dissero che era stato elevato al cielo durante la
notte; i suoi avversari che si era gettato nel cratere dell’Etna per essere creduto un dio).
Anche Empedocle espone in versi le sue teorie filosofiche: di lui ci restano numerosi frammenti
di due poemi, “Sulla natura”, di carattere cosmologico, e “Purificazione”, di carattere teologico
e chiaramente ispirato al pitagorismo.
Essendo consapevole dei limiti della conoscenza umana, Empedocle esorta l’uomo a non
rinunciare a nessuna delle sue possibilità conoscitive e ad usare, pertanto, sia i sensi, sia
l’intelletto. Come già Parmenide, egli ritiene che l’essere non possa né nascere, né perire, ma,
a differenza dell’eleate, egli vuole spiegare l’apparenza della nascita e della morte, ricorrendo
al combinarsi e al dividersi dei quattro elementi fondamentali, fuoco, acqua, terra, aria.
Questi elementi sono eterni e indistruttibili: “come quando i pittori ... scegliendo i vari colori li
mischiano in armonia ... e foggiano figure, così è l’origine degli esseri mortali”.
Proprio in quanto mescolanza dei quattro elementi, l’uomo può conoscere la natura, dato che
“il simile conosce il simile”. Tale conoscenza avviene attraverso la sensazione: dagli elementi
contenuti nelle cose emanavo effluvi che vengono ricevuti dal sangue (sede del pensieroè il
cuore e il pensiero stesso non è altro che sangue circolante in prossimità del cuore) attraverso
i pori, presenti su tutto il nostro corpo. A questa passività della conoscenza sembra far
eccezione la vista: nell’occhio si annida un vivo fuoco che traspare e illumina all’esterno.
Le forze che operano sugli elementi primordiali sono Amore e Discordia, in un rapporto
dialettico, cioè come forze opposte, ma complementari. Il ritmo perenne dell’incontro e dello
scontro dà luogo a processi ciclici:
“Il trionfo della forza aggregatrice è lo Sfero, compatta unità delle quattro radici
che ha espulso da sè la forza disgregatrice; Amore è Gioia e Afrodite, divinità
beata e beatificante; lo Sfero è pace e armonia. L’insinuarsi dell’Odio sconvolge
quella beata unità e produce il Chaos, che è la separazione delle radici (non più
l’abisso tenebroso di Esiodo e dei Pitagorici). Il ritorno dell’Amore produce
dapprima membra disaggregate o mostruose aggregazioni, poi l’universo
ordinato in cui viviamo – il kosmos – vertice momentaneo del ciclo”.2
Vengono ripresi da Empedocle, su questo tema, motivi tipici dell’orfismo e del pitagorismo: egli
propone “pratiche di purificazione” legate alla prospettiva di rinascita, dopo la morte, in altri
esseri viventi (“Anch’io sono stato un tempo fanciullo e fanciulla, arbusto e uccello e muto
pesce del mare”).
2
Casini-Benvenuti, Ragione e Storia, Palermo, 1991, p. 41-42
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Sofistica
Dalla metà del V secolo fino alla fine del IV, in Atene il nuovo ordinamento democratico
richiese capacità nuove, consistenti soprattutto nel saper usare il linguaggio in modo
persuasivo. In relazione a questo bisogno comparve in Atene, a partire dalla metà del V secolo,
un gruppo di intellettuali di formazione filosofica molto diversa tra loro, i quali si dedicarono
professionalmente alla preparazione del ceto dirigente e in particolare all’insegnamento della
retorica. Si tratta dei Sofisti (“i più sapienti”), tutti di origine straniera, in quanto nessun
cittadino ateniese di buona condizione sociale avrebbe acconsentito a prestare un servizio
professionale a pagamento.
Nasce in tal modo una “cultura” diversa, nasce, anzi, la cultura intesa come insieme di
conoscenze e capacità distinte dalla sapienza del sacerdote, dalla produzione teorica dello
scienziato e intesa come “formazione morale, retorica-linguistica, storica dell’uomo politico in
quanto tale. Alla virtù politica (dono elargito da Zeus indistintamente a tutti gli uomini)
indispensabile era la retorica, cioè l’arte di persuadere indipendentemente dalla validità delle
ragioni addotte: la trasmissione di questo tipo di cultura divenne per i sofisti compito
fondamentale dell’attività educativa.
In tal modo venne consolidandosi la tesi, che sarà ripresa dai pensatori successivi, che la virtù
è insegnabile, in quanto essa consiste in una determinata cultura. Ad opera dei sofisti, dunque,
venne sviluppandosi un’idea di cultura umanistica, cioè contrapposta a quella scientifica e
caratterizzata da un relativo disinteresse per i problemi naturalistici e da un forte interesse per
i problemi pratici ed etico-politici. A tale proposito, però, è da precisare che il problema “uomo”
non era del tutto assente dalla speculazione dei naturalisti, che avevano una visione
onnicomprensiva dell’universo, visione in cui l’uomo e la città erano proiettati nella natura
fisica.
Protagora
Nacque ad Abdera (Tracia) verso il 485 e visse circa 70 anni. Svolse attività di oratore e
maestro di retorica in molte città greche, ma soprattutto ad Atene. Fu autore tra l’altro di
un’opera in prosa, “Discorsi demolitori”, di cui restano pochi frammenti.
Secondo Protagora, “l’uomo è misura di tutte le cose che sono in quanto sono, delle cose che
non sono in quanto non sono”; in altre parole, l’uomo è giudice e arbitro insindacabile di tutte
le questioni, sia in campo teorico, sia in campo pratico. Il termine “uomo” non deve però
essere qui inteso nel senso di “essere dotato di ragione”, ma nel senso di individuo che, in
quanto fa uso dei propri sensi, giunge a conclusioni tutte proprie, diverse da quelle degli altri
individui; per l’uomo così inteso, ossia per l’uomo “sensibile”, non vi è nulla di assoluto e di
valido per tutti, ma tutto diventa relativo ai suoi sensi.
Nel campo della conoscenza, pertanto, è vero per il singolo individuo ciò che ai suoi sensi
sembra tale, manca quindi una Verità assoluta, unica, e vi sono tante verità quanti sono gli
individui, proprio perchè nei vari individui i sensi danno risultati diversi. La verità, inoltre, non
muta solo da individuo a individuo: anche nello stesso individuo la verità muta di momento in
momento, in quanto i suoi sensi non rimangono immutati, ma di volta in volta portano a
conclusioni diverse. Muta, ancora, lo stesso oggetto della nostra conoscenza sensibile (una
mela, ieri, quando era matura, era accettata dal palato, oggi che è marcia, risulta disgustosa).
Muta, infine, l’ambiente, ossia quell’insieme di circostanze che possono rendere gradito un
oggetto altrimenti inaccettabile. Per concludere, circa la conoscenza è vero ciò che all’uomo
sembra vero.
Lo stesso avviene, naturalmente, nel campo della morale. Non esiste un Bene assoluto, valido
per tutti gli individui, ma è bene ciò che all’uomo sensibile sembra bene, di conseguenza il
bene si riduce per il singolo individuo al proprio utile (utilitarismo) o al proprio piacere
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(edonismo). Come già la verità, anche questo particolare “bene” dipende dai mutamenti del
soggetto, dell’oggetto, dell’ambiente. Anche di fronte alla legge il comportamento, secondo
Protagora, deve essere ispirato dall’utile particolare, pertanto un individuo dovrà rispettarla se
ciò risulterà a lui conveniente, dovrà violarla se questo potrà procurargli un qualche vantaggio.
Circa infine l’esistenza degli dei, Protagora mantiene un atteggiamento agnostico, in quanto
ritiene che l’uomo non potrà mai riuscire a giungere alla conoscenza della divinità.
Atomisti
La scuola atomistica sorse ad Abdera (Tracia) e i suoi principali maestri furono Leucippo (di cui
si sa pochissimo, tranne che fu allievo di Parmenide e maestro di Democrito) e Democrito, il
quale sviluppò le teorie del maestro in una serie di opere che costituiscono una vera e propria
enciclopedia del sapere. Della sua vasta produzione restano solo pochi frammenti.
Erede della tradizione naturalistica ionica, Democrito, come già Empedocle ed Anassagora,
vuole salvare il naturalismo, pur tenendo conto delle esigenze razionali imposte dalla logica
parmenidea. Per risolvere tale problema, Democrito imbocca una via assai più audace di quella
di Empedocle. Quest’ultimo, infatti, nell’identificare i suoi elementi, era rimasto legato al livello
della sensazione, cioè alle realtà che si possono vedere e toccare, cosa questa che apparve
insufficiente a Democrito, il quale sostiene invece che l’intera realtà è composta da enti eterni,
immutabili, privi di qualsiasi proprietà sensibile (non si possono, cioè, nè vedere, nè
percepire). Tali enti sono indivisibili (atomo = indivisibile) e sono quindi il limite ultimo di ogni
possibile divisione dei corpi materiali.
I caratteri degli atomi rispecchiano in pieno i requisiti dell’essere di Parmenide, ad esse, però,
Democrito aggiunge alcune condizioni minime necessarie per spiegare la nascita della realtà
naturale e il divenire. Tali condizioni sono
- gli atomi sono infiniti;
- gli atomi sono di natura materiale;
- deve esserci uno spazio vuoto in cui gli atomi si muovono.
Privi di qualità sensibili, gli atomi sono pure particelle di materia omogenea, di estensione
minima, e differiscono tra loro per forma e dimensione. Gli atomi, inoltre, sono dotati di un
movimento eterno, il quale non ha principio, nè fine, nè una ragione o scopo. Per giustificare i
processi che avvengono nella natura, occorre attribuire agli atomi il movimento, che, a sua
volta, rende necessaria l’ipotesi dello spazio vuoto in cui gli atomi possono muoversi [secondo
Democrito è inutile introdurre forze di carattere semi-psicologico (come l’odio e l’amore) o
semi-divino (intelletto) per spiegare il movimento della materia].
I risultati del movimento degli atomi dipendono esclusivamente dal caso: ogni atomo, infatti,
continua a muoversi nella stessa direzione finchè non si imbatte casualmente in altri atomi di
configurazione compatibile con la propria.
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