I deficit di bilancio dello Stato italiano nella ragioneria e la finanza

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Saggi
I deficit di bilancio dello Stato italiano
I deficit di bilancio dello Stato italiano nella ragioneria e la finanza pubbliche
Renato Camodeca
Associato di Ragioneria nell’Università degli Studi di Brescia
Arnaldo Canziani
Ordinario di Economia Aziendale nell’Università degli Studi di Brescia
Sommario: 1. Introduzione. 2. I deficit del bilancio dello Stato fra spese belliche e approcci keynesiani. 3. Disavanzi
di bilancio e debito pubblico: natura ragioneristica, significato economico. 4. Debito pubblico e deficit in prospettiva
dinamica: il caso italiano 1971-2005. 5. Conclusioni.
I deficit del bilancio pubblico italiano divengono crescenti a muovere dai primi anni Settanta:
finanziati dapprima soprattutto in moneta (fino al 1980 circa), trovano alimento successivo nella
collocazione di volumi via via crescenti di debito pubblico. Intento dell’articolo è di ripercorrere
quella dinamica e di deficit e di debito (1971-2005) dal punto di vista della Ragioneria pubblica,
per indagarne e distinguerne le nature propriamente contabili. Intento ulteriore consiste nel riesaminare il problema dell’equilibrio finanziario-monetario dello Stato italiano sulla base dei principi
economico-aziendali, delineandone le principali problematiche di gestione con riferimento al costo,
alle scadenze, alla sostenibilità del debito pubblico.
In Italy, public deficits run up from earlier Seventies: covered at first by notes and coins issues
(up to 1980), they had been financed by public debt in the last twenty-five years. The aim of the
paper is to retrace the evolution of Italian public deficits and public debt (from 1971 to 2005) in
the accounting perspective and to examine the special nature of the most important key figures of
public finance. Furthermore, the paper examines the problem of financial equilibrium of the Italian
annual public accounts and points out some of the key problems in managing public debt (costs,
due dates, sustainibility).
L’articolo è una elaborazione del paper presentato al II Workshop Nazionale di Azienda Pubblica Teorie e qualità dell’amministrazione pubblica, Università degli Studi di Cagliari, maggio 2006.
I contenuti del presente lavoro sono frutto di riflessioni dibattute fra gli autori, e condivise. Per quanto riguarda la stesura, sono attribuibili a Renato Camodeca i §§ 3. e 4., ad Arnaldo Canziani il § 2., mentre sono comuni Introduzione e Conclusioni.
Parole chiave: bilancio dello Stato – debito pubblico – disavanzo
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I deficit di bilancio dello Stato italiano
1. Introduzione
Agli inizi degli anni Ottanta del secolo XX si ritenevano la base monetaria
e il debito pubblico dello Stato italiano essere già tanto drammaticamente
cresciuti – a causa dei deficit di bilancio – da originarsene un ampio dibattito in sede accademica, almeno fra gli economisti consci del problema
e dunque preoccupati dello stesso anche in quanto filosofi sociali (Franco,
1980, 1981, 1983; Demaria, 1982).
Se quel dibattito si estinse rapidamente negli approcci sraffiani, keynesiani e marxisti all’epoca dominanti, i deficit di bilancio non cessarono tuttavia
di cumularsi, e con essi il debito pubblico particolarmente dopo il 1980.
Questo, ormai dal 1991 superiore al 100% del prodotto interno lordo,
è giunto nel novembre 2006 all’importo di 1.283.917 milioni di euro, in
lire 2.486.010.782.823.400. Il problema quindi, se costituiva “problema”
or è vent’anni, sembra non aver perso la propria attualità.
Nondimeno, pare ai co-autori che la trattazione medesima del tema – si
tratti poi di politiche economiche, di bilancio di previsione nei suoi effetti
anche sociali, di misure di finanza straordinaria – richieda in via previa
alcune puntualizzazioni, rispettivamente relative:
1) alla natura sistematicamente economico-aziendale dei processi delle
aziende pubbliche, la quale non pare trovare sistemazione organica nella
modellistica macroeconomica;
2) alla natura delle quantità economiche rilevanti in tema, natura esclusivamente e perennemente ragionieristica, la quale sola consente successivamente
l’eventuale composizione in equazioni di sistema comunque realistiche, né di
ipotesi o di convenzione come nelle modellistiche lato sensu keynesiane.
Il lavoro accenna alla logica contemporanea del deficit (§ 2), e sviluppa
successivamente l’esame economico-aziendale e ragioneristico dello stesso
(§ 3), nonché l’analisi dei rapporti deficit-debito-Pil (§ 4).
2. I deficit del bilancio dello Stato fra spese belliche e approcci
keynesiani
Storicamente, il deficit del bilancio dello Stato non era favorevolmente percepito dalle mentalità singole e collettive. Esso veniva ricondotto, a parte
le guerre, a fatti speciali o eccezionali e comunque transitori, dunque da
risolversi con provvedimenti adeguati in breve volgere d’anni anche per via
degli effetti negativi che – in regimi di parità aurea – esso avrebbe potuto
nel tempo manifestare.
E per restare all’Italia nei suoi primi ottant’anni di Unità (cfr. tabella 1),
si erano chiusi in deficit i bilanci 1862-1874, in conseguenza dei costi dell’unificazione; erano stati riportati all’avanzo nel 1875-1885 anche grazie
alla tassa sul macinato; erano tornati in deficit nel 1885-1897 sotto i governi
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della sinistra ma in concomitanza prima con la nostra ritardata rivoluzione
industriale, poi con gli scandali della Banca Romana. Nuovamente in attivo
nel 1898-1911, quando la lira-carta faceva aggio sulla lira-oro, il bilancio
dello Stato italiano torna in disavanzo con la guerra di Libia e, quasi senza
soluzione di continuità, con il primo conflitto mondiale e i torbidi ad esso
conseguenti (1912-1924). Riportato in avanzo nel periodo 1925-1930
(Volpi di Misurata, 1935), esso torna al deficit con gli esiti europei della
crisi del 1929 e la crisi finale delle grandi banche-miste, con la guerra
d’Etiopia e il finanziamento dell’Impero, infine con l’ingresso dell’Italia nel
II conflitto mondiale.
Tabella 1 – Avanzi e disavanzi del bilancio pubblico 1862-1942 (*)
Anni Avanzi
Anni
(disavanzi)
Avanzi
Anni (disavanzi)
Avanzi
Anni
Avanzi
Anni
Avanzi
(disavanzi) (disavanzi) 1862
-446
1879
43
1896
-9
1913
-257
1930
(disavanzi)
170
1863
-382
1880
28
1897
9
1914
-164
1931
-501
1864
-367
1881
53
1898
32
1915
-2.835
1932
-3.867
1865
-270
1882
6
1899
38
1916
-6.891
1933
-3.519
1866
-721
1883
3
1900
69
1917
-12.250
1934
-6.377
1867
-214
1884
5
1901
64
1918
-17.766
1935
-2.030
1868
-266
1885
-24
1902
99
1919
-22.776
1936
-12.686
1869
-149
1886
-8
1903
99
1920
-7.886
1937
-16.230
1870
-215
1887
-73
1904
59
1921
-17.409
1938
-11.174
1871
-47
1888
-235
1905
75
1922
-15.760
1939
-12.277
1872
-84
1889
-74
1906
86
1923
-3.029
1940
-28.039
1873
-89
1890
-77
1907
98
1924
-418
1941
-63.989
1874
-13
1891
-43
1908
62
1925
417
1942
-77.346
1875
14
1892
-19
1909
35
1926
468
1876
21
1893
-99
1910
32
1927
436
1877
35
1894
-30
1911
11
1928
497
1878
16
1895
-66
1912
-112
1929
555
(*) I saldi sono riferiti al bilancio di competenza; sono considerati: i) gli anni solari dal
1862 al 1883; ii) gli “esercizi finanziari” (1° luglio-30 giugno) a muovere dal 1884.
Ridotta da Ministero del tesoro, Ragioneria Generale dello Stato (1951), p. 73.
Con i primi anni ’60 del Secolo XX e la diffusione delle vulgatae keynesiane,
vennero viceversa in campo le politiche di deficit spending. Ne nacquero,
a conferma, la teoria del “ciclo politico della spesa”, teoria recentemente
specificata fino a dimostrare su basi empiriche la manipolazione elettoralistica del debito nelle democrazie sviluppate (cfr. Franzese, 1999).
Per quanto approvata da molti (fra cui notoriamente Barro, 1974,
1979; Modigliani, 1987), tuttavia tale sistematica – della spesa in deficit,
in particolare se finanziata con debito – equivale in realtà a distruzione di
ricchezza nazionale in tutti i casi in cui si finanzino spese pubbliche non
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produttive di redditi categorici aggiuntivi (poco importando dunque, a tal
fine, che si tratti di distruzioni belliche, o di lavori pubblici dannosi-inutiliinutilizzati, o addirittura di spesa corrente), per via:
1) del carico di interessi passivi susseguenti (il c.d. servizio del debito);
2) delle cessioni patrimoniali – o delle nuove imposte – necessarie per
finanziare successivamente i rimborsi;
3) per lo spiazzamento (crowding out) che esso produce rispetto al risparmio-investimento privati;
4) per gli ulteriori problemi finanziari, monetari e valutari che il debito
medesimo induce in quanto collocato sull’estero;
5) dunque per i minori redditi categorici futuri (i.e. per il minore valore
attuale scontato dei redditi futuri; né vi sarebbe differenza sistematica – se
non di tempi e di modi – ove i rimborsi successivi del debito venissero
effettuati monetizzandolo, dunque creando inflazione cartacea prima, di
prezzi poi).
I problemi da studiare sono in realtà differenti. Il bilancio dello Stato va,
infatti, apprezzato come qualsivoglia altro bilancio sia nel succedersi degli
esercizi, sia nel vario comporsi di classi di valori che adducono al risultato
finale, e inoltre nel plesso interattivo costituito da componenti positive e
negative (il termine “deficit da finanziare” è dunque una variabile, e può
comparire come dato solo in modelli econometrici).
Non tanto quindi il disavanzo rileva, ma prima ancora a) la politica
delle entrate, b) la qualificazione della spesa pubblica: che esso dunque (il
disavanzo) – transeunte, o viceversa ripetuto, continuato, crescente – derivi
da pressione tributaria carente, o da eccesso di spese; che si ecceda in
politiche di investimenti pubblici, o in spesa corrente; che le uscite all’uno
e all’altro titolo siano responsabilmente orientate all’incivilimento collettivo,
o viceversa motivate da più opportunistici fattori causali.
Gli effetti del disavanzo pubblico dipendono d’altra parte – congiuntamente – e dalla natura del medesimo e dai mezzi prescelti a “copertura”.
Non risulta infatti neutrale la preferenza assegnata nel tempo alla circolazione eccedente o all’incremento del debito pubblico (Sargent, Wallace,
1993; Woodford, 1996), con più rapidi effetti inflattivi nel primo caso, con
dinamiche più rallentate – ma talora cumulate e crescenti – nel secondo.
Ancora, gli effetti citati dipendono nel tempo dall’interazione fra l’una e
l’altra misura, in alcuni casi frutto di lucide scelte aziendali, in altri co-determinate dai mercati, in altri infine sia indotte dalla ricerca di vie di minor
resistenza, sia imposte dal sistema di vincoli che i processi in discorso non
possono eludere nel lungo periodo (Canziani, 1986).
Si tratta di un insieme sistemico di problemi – economico-patrimoniali,
finanziario-monetario, gestionali –, da improntarsi fra l’altro all’economicità
e da indagarsi in modo sistematico. Al fine di chiarirli, pare non eludibile
l’apporto dell’Economia aziendale, la quale si fonda da sempre su ipotesi
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esclusivamente realistiche, indagate con il metodo sintetico riferito a vaste
fenomeniche di soli “fatti scientifici”, per inferirne strutture teoriche dalla
sistematicità intrinseca e dall’ampia validità spazio-temporale.
In particolare, per quanto riguarda la Finanza pubblica – cioè in realtà
le branche speciali della Ragioneria pubblica e dell’Economia delle pubbliche amministrazioni –, queste postulano ulteriori canoni veritativi specifici,
fondati nella teoria della misura.
Essa richiede di venire riferita:
1) a fatti scientifici espressivi delle fenomenologie indagate, descrivibili
tramite variabili effettive (i.e. riscontrabili nella realtà), connotative dei
fenomeni oggetto di indagine;
2) variabili manifestate in quantità definite in moneta (misura appunto
economica);
3) derivanti da obbligazioni (anche tributarie);
4) riscontrabili in scambi, ove si formano le quantità economiche-valori.
Al riguardo, dobbiamo a Zappa e alle scuole zappiane l’identificazione
dello scambio e dei valori-moneta che ne derivano quale base sistematica
per le misure economiche di cui sopra.
Rileva dunque, sul punto: a) identificare il momento nel quale la variazione di moneta o di credito si manifesti, b) misurarla con tecniche
adeguate, c) tramite tale misura determinare analiticamente prezzi-costo
e prezzi-ricavo.
Unica tecnica che possa compiere le misurazioni di cui ai nn. 2-3-4
supra è la Ragioneria generale, la quale sola:
• identifica i fenomeni caratteristicamente rappresentativi dell’economia
delle aziende;
• li coglie nel cuore del sistema al momento del loro manifestarsi misurabile, anche contrattuale (cioè all’atto dello scambio inter-aziendale, i.e. fra
soggetti aziendali);
• li misura nei loro fondi e flussi di moneta assegnandoli sistematicamente
a classi di valori;
• li connette in modo altrettanto sistematico – per variazioni singole e per
classi –, tramite le sistematiche della partita doppia, dei piani dei conti,
delle procedure dei piani dei conti;
• li sintetizza in prospetti unitari – i bilanci – che, pur nella loro nota complessità tecnica prima che giuridica, ne rappresentano i risultati e servono
dunque anche a fini di controllo, analisi, previsione.
I fenomeni economici così identificati, misurati, sistematizzati, sono – si
diceva – i più rappresentativi dell’economia delle aziende: a) valori-flusso,
i.e. variazioni di esercizio, i.e. costi e ricavi, b) valori-fondo, i.e. attività
e passività e loro variazioni (comprese le variazioni finanziarie). I valori
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realistici della ragioneria (dunque dell’economia aziendale) si differenziano
proprio per tali motivi dai valori astratti (i.e. irrealistici) sia della microeconomia classica, sia di molta macro-economia contemporanea.
In particolare, la Ragioneria pubblica – misurate inoltre le Entrate e
le Uscite in prospettiva finanziaria –, consente, per le aziende pubbliche
territoriali, di vagliarne equilibri e squilibri, di misurarne le “erogazioni
di ricchezza” in generale, e in particolare di qualificare le funzioni pubbliche di i) raccolta di risorse (tributi), ii) effettuazione di spesa corrente
e di investimenti (comprese le destinazioni della prima e gli indirizzi
dei secondi), iii) gestione della moneta e del debito, iv) gestione dei
beni pubblici. Soprattutto, consente di imprimere prospetticamente al
sistema misure prime di Politica economica, pur nei vincoli noti degli
effetti di “trascinamento” da un lato, della citata “spesa elettoralistica”
dall’altro.
3. Disavanzi di bilancio e debito pubblico: natura ragionieristica, significato economico
L’andamento della Finanza pubblica, e le conseguenti valutazioni di
Politica economica, trovano fondamentale misura negli indicatori di sintesi
dei conti dello Stato. Tali misurazioni riguardano alcune variabili di fondo
dell’economia nazionale, nel contempo grandezze – cioè valori – direttamente desumibili dai bilanci pubblici.
Gli indicatori della Finanza pubblica, pertanto, se pur fanno oggetto lato
sensu del discorso macro-economico, sono in realtà grandezze di natura
ragionieristica in quanto fondate – direttamente, o indirettamente per il
tramite di aggregazioni statistiche – sui valori del bilancio dello Stato, delle
amministrazioni locali e degli enti di previdenza.
Fra tali grandezze – da sempre (Repaci, 1937), ma soprattutto dopo
l’approvazione del Trattato di Maastricht (1992) e del successivo “patto di
stabilità e crescita”–, hanno acquisito rilievo le seguenti:
1) l’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche, denominazione
del sistema europeo dei conti nazionali che indica in realtà l’avanzo/disavanzo di bilancio, ovvero la somma algebrica fra entrate e uscite dello
Stato, del settore statale o, ancora, delle amministrazioni pubbliche nel
loro complesso;
2) il debito pubblico, cioè – in sintesi – l’esposizione finanziaria delle amministrazioni pubbliche nei confronti di terzi, specialmente se fruttifero.
L’indagine che qui si conduce attiene all’analisi economico-aziendale delle
quantità-valori ora ricordate:
i. il disavanzo del bilancio pubblico;
ii. il debito pubblico, quale modalità particolare di «copertura» del predetto
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disavanzo.
Tale analisi, tuttavia, non pare potersi utilmente condurre senza aver annotato alcune considerazioni preliminari, di ordine metodologico e tecnicocontabile, appunto in relazione alla natura delle grandezze “disavanzo” e
“debito”, e al conseguente significato economico che esse possono assumere
nel quadro interpretativo del sistema dei conti pubblici nazionali.
Occorre allora individuare preliminarmente:
a) il perimetro definitorio delle grandezze;
b) i procedimenti di calcolo relativi agli aggregati in questione, chiarendone
dapprima la natura ragionieristica, per poi trarre da questa l’effettivo valore
segnaletico, solo successivamente macroeconomico.
I concetti di avanzo e di disavanzo del bilancio pubblico si esprimono nell’equazione che definisce l’equilibrio finanziario dell’azienda di erogazione e dunque
anche dello Stato, economia complessa ma sintetizzabile – in logica economico-aziendale – nel plesso “servizi pubblici-imposte” (e nel più ampio binomio
“servizi pubblici e sociali – imposte e contributi” nell’ipotesi di allargamento del
perimetro della pubblica amministrazione); quel plesso si traduce poi nell’altro,
“uscite/entrate monetarie”, unitario e sempre in divenire nello spazio-tempo
(Amaduzzi, 1936; Marcantonio, 1950; Cassandro, 1958, 1979).
Pur nella nota complessità dell’Economia pubblica, uno dei profili
tipici di osservazione è fondato sulla rilevazione (nella contabilità) e sulla
rappresentazione (nel bilancio) delle Entrate e delle Uscite, suddivise per
“categorie-tipo”, e variamente articolate in funzione dei risultati differenziali
che si intendono misurare.
L’equazione citata – in forme semplificate, ma non meno rispondenti alla
realtà – così si esprime:
(Et + Eet) + (Edis + Ecr) = Uc + (Uinv + Ucr)
[1],
ove è:
Et = entrate tributarie;
Eet = entrate extra-tributarie;
Edis = entrate da disinvestimenti;
Ecr = entrate da rimborso di crediti;
Uc = uscite correnti;
Uinv = uscite per investimenti;
Ucr = uscite per concessione di crediti.
Dalla [1] si evince, come – dal confronto fra entrate e uscite monetarie
– emerga di volta in volta a) l’avanzo o il pareggio del bilancio, b) il disavanzo, esprimibili in forme algebriche come:
Ef ≥ Uf = avanzo o pareggio;
Ef < Uf = disavanzo;
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ove è:
Ef = entrate finali (in simboli, Et + Eet + Edis + Ecr);
Uf = uscite finali (in simboli, Uc + Uinv +Ucr).
Tali termini, auto-evidenti nel proprio significato logico-contabile, danno
conto di come concretamente si svolga l’economia dell’amministrazione
pubblica ove classificati (ed esaminati) nei valori di sintesi che i) evidenziano,
per tipo ed oggetto, rispettivamente le entrate e le uscite, ii) al contempo
offrono gli elementi per il calcolo di risultati parziali e differenziali.
Il disavanzo allora – sia esso misurato ex post nei consuntivi, o ex ante
nei bilanci di previsione – per definizione misura le risorse mancanti alla pubblica amministrazione in un periodo definito. Esso evidenzia uno squilibrio
sul piano finanziario che, in termini ragionieristici concreti materialmente e
storicamente, non può che risolversi – in prima battuta, e in assenza della
“variabile debito” – alternativamente o unitariamente in:
a) aumento delle entrate, realizzabile sostanzialmente con l’inasprimento
della pressione tributaria o con il realizzo, diretto o indiretto, di attività
patrimoniali,
b) riduzione delle uscite, attuabile mediante interventi sulla spesa pubblica,
corrente o in conto capitale;
si può risolvere – per dire con terminologia oggi diffusa – solo e soltanto con
l’aumento del cosiddetto avanzo primario, somma algebrica fra entrate e
uscite monetarie che non tiene conto, come nella [1] appunto, della variabile
“indebitamento pubblico” (cfr. § 4).
In questa logica, l’innesto della variabile debito – tipicamente rappresentato dai titoli di Stato – quale via di “copertura” del disavanzo, completa
la [1], e ne consente la rappresentazione seguente:
(Et + Eb) + (Edis + Ecr ) + Eind = Uc +( Uinv + Ucr) + (Ur +Uint)
[2]
ove è, oltre a quanto nella [1]:
Eind = entrate da indebitamento;
Ur = uscite per rimborso di debiti;
Uint = uscite per pagamento di interessi sui debiti.
Dalla [2] si evince come, in questa ipotesi, siano tre le fonti delle risorse finanziarie destinate a dare “copertura” alla spesa e agli investimenti pubblici:
1) le entrate tributarie ed extra-tributarie (fra le quali i frutti degli investimenti
immobiliari e finanziari);
2) le entrate derivanti dal realizzo di beni patrimoniali o di investimenti
finanziari, nonché dal rimborso dei crediti;
3) le entrate derivanti da indebitamento.
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Ognuno dei suddetti canali, noto in dottrina, assume una propria valenza,
sociale ed economica, nel quadro delle azioni di Finanza pubblica adottate dal Governo: le Entrate, in altri termini, si correlano, secondo logiche
sistematiche, al complesso delle Uscite riferite vuoi alla spesa pubblica
– sia di parte corrente, sia in conto capitale – vuoi ai flussi ulteriori relativi
al “servizio del debito” nonché al rimborso dell’indebitamento pregresso
(sempre che quello non venga attuato per il tramite di nuove emissioni di
sempre maggiore importo).
Dalla [2], inoltre, possono ricavarsi molteplici risultati differenziali, tutti
di ampio rilievo nei processi interpretativi del sistema dei conti nazionali:
a) avanzo-disavanzo del bilancio pubblico, espresso quale somma algebrica fra totale Entrate e totale Uscite come definite nella [1], denominato
– si è visto – “indebitamento netto” nel Conto economico consolidato delle
amministrazioni pubbliche redatto secondo le metodologie accolte a livello
europeo;
b) avanzo-disavanzo primario del bilancio pubblico, espresso quale somma
algebrica fra totale entrate e totale uscite, al netto delle spese per interessi
passivi sul debito;
c) indebitamento (debito pubblico), espresso dal volume lordo di debito e
dal volume dello stesso al netto dei rimborsi in quota capitale.
Peraltro, la misura dell’avanzo e del disavanzo, sia esso totale o primario,
appaiono in sé non sempre significative se confrontate per valori assoluti fra
sistemi-Paese; ecco allora che – per convenzione limitativa, e in aderenza
alle prescrizioni valide a livello europeo – esse vengono espresse mediante
il rapporto percentuale con il prodotto interno lordo; tale grandezza, va
subito evidenziato, non è quantità del bilancio pubblico come le altre, ma
unicamente aggregato statistico, elaborato nel quadro delle determinazioni
di contabilità nazionale.
L’indicatore che ne deriva, il noto parametro Deficit/Pil, pur non essendo
sempre soddisfacente vista la natura, l’attendibilità complessiva e il significato economico della grandezza al denominatore (tabella 2), risulta comunque
di un certo rilievo per i confronti spaziali e temporali; vale allora considerare,
soprattutto nel caso italiano, caratterizzato da disavanzi cronici nel bilancio
pubblico, il rapporto che segue, con segno algebrico negativo:
(Ef – Uf) /P.i.l.
[3]
ove è:
Ef = totale delle entrate;
Uf = totale delle uscite, ivi compresa la quota interessi sul debito.
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Tabella 2 – Il Pil italiano 2000-2004 nei dati Istat e del Ministero del tesoro
Tipologia di documento
Ministero del tesoro:
2001
2002
2003
2004
Relazione previsionale
e programmatica 2004
Istat:
1.032.985
1.036.945
1.069.581
1.248.648
1.295.226
1.335.354
“valori a prezzi correnti
1.052.308
- milioni di eurolire 1995”
Conti economici nazionali
1970-2005 – nuova serie –
marzo 2006
Note
1.338.870
“valori a prezzi correnti
- milioni di euro”
Fonte: Istat, Conti nazionali, nuove serie storiche, marzo 2006; Ministero dell’economia, Relazioni generali sulla
situazione economica del Paese 1998-2004
Il concetto di disavanzo, chiaro nella sua natura ragionieristica e nell’identità contabile che lo costituisce, non è però grandezza univoca nel sistema
dei conti pubblici: esso, infatti, varia nella sua dimensione quantitativa in
relazione alla tipologia di entrate e uscite incluse nel perimetro della misurazione (Camodeca, 2005).
Sotto questo profilo, e quale corollario metodologico a quanto sinora
annotato, occorre infatti distinguere il risultato differenziale di cui si discute
a seconda che il riferimento sia:
a) al bilancio dello Stato quale amministrazione centrale, approvato dal
Parlamento e tradizionalmente identificato nel “Bilancio finanziario, di
previsione e consuntivo”, di cui all’art. 2 della legge n. 468 del 5 agosto
1978;
b) al Conto consolidato di cassa del settore statale;
c) al Conto consolidato di cassa del settore pubblico;
d) al Conto economico delle amministrazioni pubbliche.
Il bilancio di previsione, e il correlato conto consuntivo, identificano tradizionalmente i conti entrate-uscite dell’amministrazione centrale dello Stato:
essi sono elaborati dal Ministero del tesoro, per il tramite della Ragioneria
generale dello Stato, e presentano natura intrinsecamente contabile; in
quanto tale, esso è da sempre oggetto di studio della Ragioneria italiana.
I valori differenziali dell’avanzo e del disavanzo, desumibili dai prospetti
in parola, non sono però neutrali in relazione alla tecnica adottata per
redigere i suddetti bilanci.
è noto infatti, sul punto, che il bilancio finanziario – di previsione o
consuntivo –, assume connotati differenti, e dunque diverso significato
economico, a seconda della prospettiva con la quale vengono osservate e
rilevate, nel sistema di contabilità finanziaria, le entrate e le uscite.
In tale logica, il bilancio di competenza rileva entrate e uscite in
relazione alle fasi dell’accertamento e dell’impegno: esso, pertanto,
Azienda Pubblica 4.2006
402
Saggi
I deficit di bilancio dello Stato italiano
è tipicamente rivolto all’azione di controllo esercitata dal Parlamento
ed esalta il criterio della programmazione nel contesto delle azioni di
politica economica.
Il bilancio di cassa, viceversa, accoglie direttamente la manifestazione
monetaria dei fenomeni, risulta svincolato dall’esercizio amministrativo, e
per questi motivi esprime in termini maggiormente realistici la situazione
finanziaria dell’ente con riferimento a un periodo dato. Esso dunque, almeno per quanto attiene all’interpretazione delle vicende della gestione nel
profilo monetario-finanziario, offre spunti interpretativi di maggior rilievo nel
processo di analisi del sistema dei conti pubblici nazionali e, in particolare,
meglio si presta all’analisi del fabbisogno finanziario dell’ente, nonché delle
vie per il suo soddisfacimento.
Ciò posto, l’avanzo-disavanzo del bilancio dello Stato assume allora
significato differente a seconda non solo che il riferimento sia al bilancio di
previsione dello Stato o ad altro prospetto, ma altresì che quello sia redatto
per cassa o per competenza.
Il Conto consolidato del settore statale è redatto dal Ministero del tesoro
sulla base del criterio di cassa e non è approvato dal Parlamento; esso,
tuttavia, esprime l’aggregazione dei valori finanziari riferiti alle gestioni del
bilancio (bilancio di previsione e conto consuntivo), della Tesoreria dello
Stato, nonché dei conti relativi ai bilanci delle aziende autonome e, sino al
2003, della Cassa depositi e prestiti.
è questo documento, in altri termini, il “bilancio di cassa” dello Stato:
da esso, infatti, muovono le analisi del fabbisogno finanziario e vengono
di conseguenza determinate le vie – fra le quali appunto il debito – per il
suo soddisfacimento.
Il Conto consolidato di cassa del settore pubblico aggrega – sempre
e solo in logica di cassa – sia i bilanci appartenenti al settore statale, sia
i conti di tutti gli enti esterni a questo, ma tuttavia lato sensu riferibili alle
amministrazioni pubbliche, fra cui le amministrazioni locali e gli enti di
previdenza.
Il Conto economico delle amministrazioni pubbliche si distingue dai
precedenti per alcuni profili peculiari. Esso infatti:
a) è costruito dall’Istituto nazionale di statistica nel rispetto delle regole
contenute nel sistema dei conti economici integrati comuni a livello europeo, e per questi motivi è l’unico sistema di valori preso in considerazione
nella determinazione degli indicatori di finanza pubblica che si stanno qui
esaminando;
b) si riferisce a un aggregato – le amministrazioni pubbliche – sostanzialmente coincidente con il “settore pubblico” come definito dal Tesoro, ma
articolato sulla base della tripartizione b)1) amministrazioni centrali, b)2)
amministrazioni locali, b)3) enti di previdenza;
c) è fondato sul criterio della competenza economica, secondo una metodologia di rilevazione – approvata con l’European System of Accounts
403
Azienda Pubblica 4.2006
Saggi
I deficit di bilancio dello Stato italiano
(1995) (1) – propria della Contabilità nazionale, diversa per natura e dalla
competenza giuridica e dal criterio di cassa, sui quali si fonda la contabilità
finanziaria dell’amministrazione centrale dello Stato.
Il prospetto in parola, in quanto redatto secondo regole comuni a livello
europeo, è il solo documento che possa oggi venire utilizzato per confronti
internazionali significativi: per questo motivo, viene considerato direttamente
nel Documento di programmazione economica e finanziaria (DPEF) – in
sostituzione dei conti consolidati del settore statale e del settore pubblico
– quale riferimento per la valutazione e la determinazione degli obiettivi
generali dell’azione di politica economica.
La tabella 3, costruita sulla base dei dati al 31 dicembre 2004, illustra
quantitativamente quanto sopra, evidenziando dati di avanzo e disavanzo
differenti, e dunque diversamente interpretabili sia in logica ragionieristica, sia soprattutto per quanto attiene alle successive valutazioni di politica
economica.
Tabella 3 – Entrate, uscite, risultati differenziali nel sistema dei conti pubblici italiani: i saldi 2004
Entrate
Uscite
Avanzo/
(Disavanzo)
Bilancio dello Stato-gestione di cassa
394.159
-434.960
-40.801
Conto consolidato di cassa del settore statale
356.371
-397.624
-41.253
Conto consolidato di cassa del settore pubblico
631.513
-679.437
-47.924
Conto economico delle amministrazioni pubbliche
612.349
-653.226
-40.877
Tipologia di bilancio
Fonte: Ministero dell’economia, Relazione sulla stima del fabbisogno di cassa per l’anno 2005 e situazione di
cassa al 31 dicembre 2004
Il rapporto Deficit/Pil, oggi di comune dominio nel linguaggio tecnico in
materia di Politica economica, pur nella propria indiscutibile rilevanza va
allora letto e interpretato sulla base delle premesse di natura tecnica e metodologica sopra illustrate, tenendo in particolare conto, fra l’altro:
a) dell’esistenza di diverse configurazioni del disavanzo pubblico, alcune
di esse costruite quali aggregazioni statistiche di dati;
b) della peculiare natura del Pil quale parametro di relativizzazione, quantità
fondamentale nelle determinazioni di contabilità nazionale, ma pur sempre
logicamente diversa dalle quantità-valori del bilancio, singolo o aggregato,
dell’amministrazione pubblica.
1 Il Sistema europeo dei conti – c.d. Sec 95 – definisce fra l’altro la logica della competenza economica, avvicinando le rilevazioni del sistema entrate-uscite ai criteri accrual-based utilizzati nelle aziende private.
Azienda Pubblica 4.2006
404
Saggi
I deficit di bilancio dello Stato italiano
4. Debito pubblico e deficit in prospettiva dinamica: il caso
italiano 1971-2005
Il debito pubblico, in senso generale definibile quale stock di risorse finanziarie che lo Stato, o l’insieme delle amministrazioni pubbliche, deve
rimborsare ai terzi ad un tempo dato non risulta univocamente individuabile
nelle determinazioni della contabilità pubblica.
Le problematiche di definizione, e di conseguente valutazione, sono sul
tema ampie e complesse, e come tali non trattabili in questa sede. Basti
ricordare, sul punto, che il concetto in parola include grandezze comuni
nella propria natura ragioneristica, ma pur tuttavia dissimili in funzione
del significato economico e della rilevanza quantitativa che assumono
nel quadro della posizione debitoria complessiva dello Stato all’interno o
all’esterno dell’economia.
Sul punto, infatti, si suole distinguere fra:
1) debito fruttifero, rappresentato dai titoli di Stato e dai debiti generalmente
onerosi;
2) debito infruttifero, tipicamente la moneta in circolazione e i debiti
almeno non esplicitamente onerosi, questi di ampia rilevanza ove la considerazione del deficit di bilancio sia effettuata su base aggregata (debiti
previdenziali).
Accanto al problema della definizione vi è poi il problema della valutazione,
dunque della quantificazione del debito in essere; al riguardo, per riprendere
una terminologia nota in Ragioneria, ci si domanda quale debba essere
il riferimento quantitativo per lo stock di debito pubblico a un tempo dato:
valore nominale o di mercato?
Sotto questo profilo, il riferimento delle autorità europee (Eurostat) è al
valore nominale, ma va tuttavia osservato che, per esprimere in termini
maggiormente realistici la situazione finanziaria dello Stato, meglio sarebbe
riferirsi al valore di mercato: basti ricordare, al riguardo, l’operazione di
concambio, attuata nel 2002, di titoli di Stato immobilizzati nel bilancio
della Banca d’Italia per 39,4 miliardi di euro, scadenza fino al 2044 e
rendimento all’1%, con titoli di analogo valore di mercato, cioè di minore
importo ma con un più elevato rendimento, riducendo così il debito pubblico – a valore nominale – di 27 miliardi di euro, ma non mutando, nella
sostanza, il fair value del debito stesso.
Per concludere, anche per il debito pubblico le misurazioni economiche
si fondano per lo più nell’analisi della sua dinamica evolutiva in rapporto
al prodotto interno lordo: anche qui, allora, valgono le considerazioni già
svolte sulla prospettiva di crescita dinamica del debito pubblico della Nazione, in valore assoluto o appunto in rapporto al Pil.
Il modello di evoluzione del debito pubblico, noto in dottrina, unitamente alla sua espressione relativa in rapporto al Pil, consente di porre
405
Azienda Pubblica 4.2006
Saggi
I deficit di bilancio dello Stato italiano
in evidenza il rilievo critico dell’indicatore in questione per la valutazione
– sintetica ma comunque significativa –, dello stato della finanza pubblica
di una nazione.
La relazione che segue esprime il processo di evoluzione del debito
pubblico in relazione allo sviluppo delle entrate e delle uscite dello Stato o
dell’insieme delle amministrazioni pubbliche; in logica economico-aziendale,
infatti, risulta sempre quanto segue:
∆ D = (Ef - Uf) + Uint + Ur
[4],
ove è:
∆ D = nuove emissioni;
Ef
= totale entrate;
Uf = totale uscite.
Uint = uscite per interessi;
Ur = uscite per rimborsi in quota capitale.
La [4], se opportunamente rielaborata, esprime – sulla base dell’equivalenza
contabile secondo la quale ceteris paribus l’incremento di debito pubblico
da un periodo all’altro dipende dalle uscite legate al servizio del debito
in essere (per quote capitale e interesse), nonché dagli ulteriori disavanzi
primari che potrebbero generarsi per effetto della gestione –, l’equazione
che sta alla base dell’andamento Debito/Pil, l’altro indicatore di rilievo per
la valutazione dell’equilibrio economico statale.
A parità di condizioni, dunque, risulta che il rapporto Debito/Pil dipende fondamentalmente dai fattori che seguono, sempre reciprocamente
interagenti:
• dal tasso di interesse, dunque dal costo complessivo del debito, il quale
– se aumenta, a parità di Pil –, fa aumentare anche lo stock di debito finale
e dunque il rapporto stesso Debito/Pil;
• dalla dimensione programmata dei rimborsi in quota capitale, il cui
aumento/riduzione – sempre a parità di altre condizioni e a parità di Pil
– aumenta o riduce lo stock di debito finale e dunque ancora il rapporto
Debito/Pil;
• dalle risultanze della gestione tipica, dunque dall’avanzo/disavanzo
primario, il quale – se migliora, come già ricordato – non può che determinare una riduzione dello stock di debito finale e dunque un miglioramento
del rapporto Debito/Pil;
• dalla dinamica stessa del Pil, che di per sé non determina automaticamente
un aumento o una riduzione dello stock di debito, ma – nel contesto di un
parametro che misura gli andamenti economici della Nazione in termini
relativi – migliora o peggiora il rapporto in relazione alla sua diminuzione
o al suo aumento quale grandezza posta al denominatore di un rapporto,
così amplificando o compensando effetti di variazione che invece incidoAzienda Pubblica 4.2006
406
Saggi
I deficit di bilancio dello Stato italiano
no in termini sostanziali sullo stato del debito pubblico nazionale nel suo
complesso.
Le affermazioni economico-aziendali antecedenti determinano allora, se
analizzate in prospettiva concreta, l’opportunità di valutare le problematiche
in questione sia nella dimensione relativa del rapporto Debito/Pil, sia in
quella assoluta del volume di debito complessivamente considerato.
Dalle identità contabili che precedono, infatti, emerge con evidenza
che le uniche vie possibili per inquadrare e trattare i problemi c.d. della
“sostenibilità” del debito, i quali dipendono solo e soltanto dalle variabili
che sintetizzano il sistema del bilancio pubblico, sono sostanzialmente
riconducibili a:
1) politica dei tassi e dunque della remunerazione del debito, con i conseguenti ragionamenti in termini di valore di mercato dello stesso;
2) politica dei rimborsi in quota capitale, e relative conseguenze in termini
di possibilità – già riscontrate nel passato – di consolidamento del debito;
3) andamento della gestione tipica dell’ente pubblico, ovvero dinamica delle
entrate e delle uscite, questa però riconducibile – nei profili al contempo
positivi e negativi – ai vari comparti della pubblica amministrazione (Stato,
enti del settore statale, enti previdenziali).
La relazione analizzata, infine, evidenzia la necessità di relazionare deficit
e debito e dunque di individuare, sulla base non di algoritmi, ma dei valori
espressi dai bilanci pubblici, gli elementi che possano chiarire la relazione
fra crescita del debito pubblico e crescita del deficit.
In questo senso, allo stato attuale, si ravvisa un limite nel sistema delle
informazioni prodotte dai conti pubblici nazionali e sovra-nazionali: la
misurazione nazionale, che determina il fabbisogno e fa scattare l’esigenza di “nuovo debito”, è basata sull’analisi dei flussi di cassa, tipicamente
desumibili dai conti di cassa del settore statale e del settore pubblico; la
misurazione europea, associata al rapporto Deficit/Pil che completa il
quadro dello «stato di salute» di un’economia meritevole di appartenere
all’unione monetaria, è invece fondata sui flussi accrual-based del Sec 95,
a propria volta costruiti su base prevalentemente statistico-economica più
che specificamente contabile.
Mancano allora, in questo senso, una ricostruzione e una riconciliazione
che uniscano il profilo contabile e di bilancio – entrate, uscite, fabbisogno
finanziario – con il profilo dell’aggregazione statistica e che consentano di
determinare, muovendo dal parametro dell’indebitamento netto (disavanzo)
risultante dai conti economici delle amministrazioni pubbliche, il volume
di debito al quale si è fatto ricorso quale mezzo di copertura del deficit
medesimo, a propria volta riscontrabile nei conti di cassa che esprimono il
fabbisogno finanziario effettivo dello Stato e delle amministrazioni pubbliche
nel loro insieme.
407
Azienda Pubblica 4.2006
Saggi
I deficit di bilancio dello Stato italiano
Poste le premesse di cui sopra, si può a questo punto entrare nel merito
della dinamica deficit-debito pubblico per il periodo 1971-2005.
A proposito, va innanzitutto osservato che il deficit del bilancio pubblico,
ma soprattutto il reperimento delle risorse mancanti tramite l’indebitamento
dello Stato pare profilo caratteristico dell’andamento delle finanze pubbliche
italiane non solo per il periodo che qui di seguito si prende in esame.
Storicamente infatti – seppur con misure differenti, e con motivazioni di
base ben spiegabili dagli eventi che hanno caratterizzato l’evoluzione sociopolitica ed economica della Nazione – il ricorso al debito pubblico è sempre
stata opzione costante nelle politiche economiche nazionali. La tabella 4
riportata, sotto questo profilo, dimostra quanto ora ricordato giacché pone
in luce, per gli anni che vanno dall’Unità d’Italia fino ai primi anni Settanta
del secolo scorso, il pressoché costante ricorso al debito pubblico quale via
di copertura dei disavanzi di bilancio.
L’opzione per l’indebitamento, peraltro, si pone in termini molto diversi
a seconda del periodo preso in considerazione; l’incidenza del debito
pubblico varia negli anni, e ciò sia per motivi di carattere straordinario – ad
esempio il finanziamento dell’unificazione nazionale o delle due guerre – sia
più in generale per ragioni di politica economica, variamente fondate sulle
logiche del bilancio in pareggio o sul deficit spending, questo a propria
volta perdurante o congiunturale.
Tabella 4 – L’evoluzione del debito pubblico italiano 1865-1971
Anni
Debito/
Pil%
Anni
Debito/
Pil%
Anni
Debito/
Pil%
Anni
Debito/
Pil%
Anni
Debito/
Pil%
Anni
Debito/
Pil%
1915
83
1934
98
1953
29
1861
45
1879
92
1897
120
1916
88
1935
96
1954
32
1862
46
1880
87
1898
117
1917
98
1936
93
1955
32
1863
60
1881
104
1899
114
1918
112
1937
90
1956
31
1864
70
1882
107
1900
111
1919
124
1938
90
1957
31
1865
78
1883
114
1901
108
1920
125
1939
88
1958
31
1866
77
1884
110
1902
108
1921
123
1940
93
1959
33
1867
78
1885
107
1903
102
1922
121
1941
106
1960
31
1868
82
1886
104
1904
103
1923
116
1942
117
1961
29
1869
86
1887
106
1905
100
1924
111
1943
118
1962
29
1870
96
1888
111
1906
100
1925
96
1944
77
1963
28
1871
87
1889
116
1907
93
1926
63
1945
91
1964
27
1872
79
1890
111
1908
92
1927
61
1946
32
1965
30
1873
70
1891
109
1909
88
1928
63
1947
24
1966
31
1874
75
1892
114
1910
87
1929
64
1948
28
1967
31
1875
84
1893
115
1911
84
1930
68
1949
30
1968
33
1876
95
1894
116
1912
79
1931
76
1950
31
1969
33
1877
85
1895
118
1913
80
1932
84
1951
27
1970
34
1878
90
1896
119
1914
81
1933
90
1952
29
1971
40
Fonte: Ministero del tesoro, Direzione generale del debito pubblico (1988)
Azienda Pubblica 4.2006
408
Saggi
I deficit di bilancio dello Stato italiano
Pur tuttavia, e ciò risulta anche dalla tabella 5, per quanto l’avvio di politiche keynesiane possa registrarsi sin dai primi anni successivi alla Grande
Crisi, dunque ante litteram), escludendo il periodo del secondo conflitto,
gli anni Cinquanta e Sessanta evidenziano una politica di contenimento
sia del deficit di bilancio, sia del conseguente ricorso al debito, che per
quasi tutto il periodo si assesta intorno al 30% del prodotto interno lordo,
dinamica – questa – spiegata non tanto dall’assenza di politiche di deficit
spending, quanto piuttosto dagli effetti compensativi dovuti al rilevante tasso
di crescita dell’ economia nazionale nei due decenni ricordati.
Tabella 5 – Deficit/Pil 1951-1971
Anni
Deficit
Deficit/Pil
%
Anni
Deficit
1951
-388
-3,63
1962
-580
-2,00
1952
-584
-5,03
1963
-792
-2,39
1953
-492
-3,84
1964
-817
-2,24
1954
-563
-4,14
1965
-1.546
-3,95
1955
-564
-3,76
1966
-1.831
-4,32
1956
-330
-2,01
1967
-1.269
-2,72
1957
-270
-1,53
1968
-2.028
-4,01
1958
-481
-2,60
1969
-1.720
-3,08
1959
-513
-2,57
1970
-3.234
-4,81
1960
-382
-1,65
-4.777
-6,54
1961
-357
-1,38
1971
Deficit/Pil
%
Fonte: Forte (1999)
La situazione economia italiana, a muovere dagli anni Settanta, muta profondamente, e con essa mutano gli indicatori di andamento della finanza
pubblica e i connessi valori del bilancio dello Stato.
A valle del mutato modello di sviluppo dell’economia, con il passaggio
dalla domanda interna a quella estera quale vettore di crescita; a valle
del biennio 1968-1970 e della sempre maggiore rilevanza delle politiche
sociali (Welfare State); a valle infine degli effetti macroeconomici indotti
dalle crisi del petrolio e dalle congiunture valutarie internazionali (fra cui
l’inconvertibilità del dollaro statunitense), si manifestano pienamente gli effetti
del passaggio dalla finanza neutrale alla finanza funzionale (già Arena,
1963). Tali effetti, fra l’altro, risultano comprovati anche dall’importante
riforma legislativa dettata dalla legge 5 agosto 1978, n. 468, la quale
– introducendo la legge finanziaria e il bilancio pluriennale –, ha di fatto
consacrato su basi legislative il metodo della programmazione finanziaria
nelle scelte di politica economica.
I dati riportati nelle tabelle 6 e 7 che seguono, nell’evidenziare la dina409
Azienda Pubblica 4.2006
Saggi
I deficit di bilancio dello Stato italiano
mica dei rapporti Deficit/Pil, Debito pubblico/Pil e Spesa pubblica/Pil per
il periodo 1971-2005, consentono di comprovare quanto ora ricordato
in termini generali, ma soprattutto di entrare nel merito del caso italiano
di questi ultimi quarant’anni di storia, articolando convenzionalmente la
scansione temporale prescelta in tre sotto-periodi, dal 1971 al 1992, dal
1992 al 2001, infine dal 2001 ai nostri giorni.
Tabella 6 – Deficit/Pil e Debito pubblico/Pil 1971-2005
Anni
Deficit/Pil
(%)
Debito/Pil
Deficit
Debito
pubblico
Pil
1971
-6,54%
38,27%
-4.777
27.939
73.000
1972
-7,38%
42,51%
-5.891
33.926
79.800
1973
-8,29%
43,93%
-8.019
42.477
96.700
1974
-7,34%
43,95%
-8.970
53.713
122.200
1975
-10,44%
49,83%
-14.465
69.059
138.600
1976
-8,50%
48,70%
-14.867
85.182
174.900
1977
-10,53%
51,27%
-22.566
109.923
214.400
1978
-13,53%
57,02%
-34.308
144.547
253.500
1979
-9,81%
56,57%
-30.402
175.256
309.800
1980
-9,55%
54,82%
-37.019
212.556
387.700
1981
-11,49%
57,65%
-53.295
267.505
464.000
1982
-13,35%
62,69%
-72.798
341.707
545.100
1983
-13,93%
68,25%
-88.264
432.287
633.400
1984
-13,18%
73,14%
-95.689
530.817
725.800
1985
-15,13%
80,79%
-122.616
654.900
810.600
1986
-12,24%
85,19%
-110.158
766.627
899.900
1987
-11,61%
89,85%
-114.249
883.941
983.800
1988
-11,51%
92,67%
-125.644
1.011.738
1.091.800
Fonte: Forte (1999); elaborazione su dati Bankitalia e Ministero del tesoro
Tabella 7 – Spesa delle amministrazioni pubbliche in rapporto al Pil 1973-2003
Anni
Spesa
pubblica/Pil
Anni
Spesa
pubblica/Pil
Anni
Spesa
pubblica/Pil
Anni
Spesa
pubblica/Pil
(%)
(%)
(%)
(%)
1973
41,83
1981
46,29
1989
51,89%
1997
50,86%
1974
41,18
1982
48,45
1990
53,59%
1998
49,28%
1975
43,75
1983
50,04
1991
53,41%
1999
48,39%
1976
42,88
1984
50,14
1992
56,10%
2000
46,46%
1977
43,43
1985
51,43
1993
57,34%
2001
48,32%
1978
46,57
1986
51,21
1994
54,37%
2002
47,60%
1979
45,95
1987
50,70
1995
53,16%
2003
48,78%
1980
46,64
1988
50,81
1996
52,89%
Fonte: Zaccaria (2005); elaborazione su dati Bankitalia
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Saggi
I deficit di bilancio dello Stato italiano
Il primo periodo, che muove dal 1971, può convenzionalmente giungere
al 1992, anno di avvio delle politiche di risanamento culminate con l’introduzione dell’euro e con i connessi mutamenti nelle direttrici della politica
economica e monetaria anche a livello europeo. è questo, si è visto, il periodo della progressiva espansione dei disavanzi del bilancio dello Stato,
coperti dapprima prevalentemente con la stampa di biglietti (1971-1980),
successivamente con emissione di debito oneroso. è questo, ancora, il
periodo ove la dinamica della spesa pubblica – in particolare gli interessi
sempre crescenti sul debito e la sempre maggiore incidenza delle uscite
correnti – in parte spiega l’ampliamento progressivo del deficit, contribuendo
altresì ad evidenziare le ragioni che hanno determinato l’incremento del
fabbisogno finanziario.
Il secondo periodo, qui pure convenzionalmente tracciabile fra il 1992
e il 2001, si caratterizza invece per il convergere degli obiettivi di finanza
pubblica verso i parametri di Maastricht, con la dinamica dei rapporti Deficit/Pil e Debito/Pil che si palesa in progressiva riduzione, a livelli giudicati
fisiologici per quanto attiene al parametro del deficit, a livelli non accettabili
secondo le regole europee, ma comunque più contenuti rispetto agli anni
passati, del debito pubblico. Tale risultato, fondamentalmente determinato da politiche di contenimento della spesa, trova altresì giustificazione
nell’inversione di tendenza nella dinamica dei saggi di interesse, che ha
favorevolmente inciso sulla formazione del fabbisogno finanziario.
Il terzo e ultimo periodo, che dal 2001 giunge pressoché fino ai giorni
nostri, non consente ancora di svolgere considerazioni conclusive; di certo
si ravvisano – nel periodo – e un significativo rallentamento nella crescita
dell’economia e un’inversione di tendenza nella dinamica del deficit, anche
spiegata – quest’ultima – da una certa ripresa delle spese per investimenti.
5. Conclusioni
I problemi dell’equilibrio – o del minore squilibrio – del bilancio pubblico dello Stato italiano, e dei grandi aggregati della finanza pubblica,
costituiscono ormai oggetto quotidiano della cronaca economico-politica, e
la complessità della situazione è così nota da consentire di non trattenervisi
in questa sede.
Peraltro, pareva rilevante ai co-autori – prima di trattare il tema in modo
più organico anche per identificare i rimedi ipotetici – precisare alcune
riflessioni riferibili a due punti previ, economico-tecnici.
Il primo riguarda le quantità in discorso le quali – siano esse reddituali,
patrimoniali, monetarie o finanziarie – sono di natura economico-aziendale
e di determinazione ragionieristica, con quanto deve conseguirne dal punto
di vista a) della natura delle grandezze, b) dei principi della loro determinazione, incluso il non irrilevante problema del perimetro di riferimento,
c) dell’analisi di fondi e di flussi e per cassa e per competenza; d) della
combinazione – e della manovra – economico-tecniche delle grandezze.
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Saggi
I deficit di bilancio dello Stato italiano
Il secondo concerne la logica di gestione dell’azienda pubblica territoriale, difficile mixtum – dall’Attica, da Mitridate Eupator Re del Ponto, dalla
Roma repubblicana – di economia e di politica, di idealità e ideologie, di
altruismi e interessi privati: talora l’incivilimento dei filosofi antichi riproposto
poi da Giandomenico Romagnosi, talaltra il sulfureo, non infrequente ladroneccio della cosa pubblica. Quella gestione va cioè pensata (ri-pensata?)
sulla base dei principi propriamente economico-aziendali dell’equilibrio
economico (reddituale, patrimoniale, finanziario-monetario) inter-temporale,
dello sviluppo, della crescita. Abbandonando così ipotesi macroeconomiche
non di rado insensate nelle proprie premesse e dunque nefaste nelle conseguenze, per fondare viceversa proprio in quei principi le prescrizioni (e le
progettualità futuribili) della Politica economica e della Finanza pubbliche.
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