Corso di Elettrotecnica Generale - AIPI Associazione Interforze di

Corso di Elettrotecnica Generale
Capitolo 1 - I circuiti elettrici
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Costituzione della materia ed origine dei fenomeni elettrici
Interazioni tra cariche elettriche; Legge di Coulomb
Generatore elettrico
Tensione elettrica
Corrente elettrica
Convenzioni sulla corrente e sui potenziali elettrici
Resistenza elettrica; Legge di Ohm
Resistività dei materiali; Calcolo della resistenza dei conduttori
Influenza della temperatura sulla resistenza elettrica
pag. 6
pag. 8
pag. 3
pag. 5
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pag. 19
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Capitolo 2 - Reti elettriche
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Generalizzazione della legge di Ohm
Principi di Kirchhoff
Raggruppamento in serie di più resistenze
Raggruppamento in parallelo di più resistenze
Reti serie-parallelo e reti stella-triangolo; Metodo passo-passo
pag. 20
pag. 23
pag. 26
pag. 27
pag. 28
Capitolo 3 - Analisi delle reti in regime stazionario
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Reti elettriche come reti di bipoli
Analisi delle reti mediante i principi di Kirchhoff
Teorema di Millman
Metodo della sovrapposizione degli effetti
Principio del generatore equivalente
Teorema di Thévenin
Teorema di Norton
pag. 29
pag. 32
pag. 33
pag. 34
pag. 36
pag. 37
pag. 39
Capitolo 4 - Potenza elettrica
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Potenza ed energia
Potenza elettrica
Legge di Joule
Bilancio delle potenze nei generatori
Potenza assorbita da una f.c.e.m.
pag. 40
pag. 41
pag. 42
pag. 43
pag. 45
Capitolo 5 - Elettrostatica
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Il campo elettrico
Condensatori elettrici; Capacità elettrostatica
Capacità del condensatore piano
Transitori di carica e scarica
Energia accumulata nel campo elettrico
pag. 46
pag. 51
pag. 53
pag. 57
pag. 59
Capitolo 6 - Elettromagnetismo
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I fenomeni magnetici
Campi magnetici prodotti da correnti elettriche
Fenomeno dell'induzione elettromagnetica; Il flusso magnetico
Densità di flusso o vettore induzione B
F.e.m. indotta nei conduttori in moto nel campo magnetico
Fenomeni d’autoinduzione; Energia del campo magnetico
Fenomeni di mutua induzione
Prof. Piero Scotto - Corso di Elettrotecnica
pag. 1
pag. 60
pag. 61
pag. 65
pag. 67
pag. 68
pag. 70
pag. 74
8 - Le forze elettromagnetiche
9 - Forze elettrodinamiche
pag. 76
pag. 78
Capitolo 7 - Proprietà magnetiche della materia - Circuiti magnetici
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Curve di magnetizzazione del ferro
Isteresi magnetica e perdite nel ferro
Nuclei magnetici per flussi alternativi
Circuiti magnetici; Forza magnetomotrice; Riluttanza
pag.
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Capitolo 8 - Grandezze alternate sinusoidali
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Generalità sulle correnti alternate e loro rappresentazione
Generazione delle correnti alternate
Relazioni di fase; Somma e differenza fra grandezze alternate
Valore efficace e valore medio di correnti e tensioni alternate
Rappresentazione simbolica di grandezze sinusoidali
pag. 83
pag. 86
pag. 87
pag. 90
pag. 92
Capitolo 9 - Funzionamento dei circuiti a corrente alternata
1 - Circuiti ohmico-induttivi
2 - Circuiti ohmico-capacitivi
3 - Impedenze in serie
4 - Impedenze in parallelo; Ammettenza
5 - Circuiti con resistenza, induttanza e capacità; Risonanza
6 - Fenomeni di mutua induzione fra circuiti a corrente alternata
pag. 94
pag. 97
pag. 100
pag. 102
pag. 103
pag. 109
Capitolo 10 - Potenza nei circuiti a corrente alternata
1 - Potenza istantanea e potenza attiva
pag. 110
2 - Potenza associata ad una corrente in fase con la tensione
pag. 111
3 - Potenza associata ad una corrente in quadratura con la tensione;
Potenza reattiva
pag. 112
4 - Potenza associata ad una corrente comunque sfasata rispetto alla tensione;
Potenza apparente; Fattore di potenza
pag. 113
5 - Composizione delle potenze attive, reattive e apparenti; Metodo delle potenze pag. 115
6 – Rifasamento
pag. 117
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pag. 2
Capitolo 1 - I circuiti elettrici
Costituzione della materia ed origine dei fenomeni elettrici
Tutti i fenomeni elettrici derivano dalle forze che interagiscono fra alcune delle
particelle che sono presenti negli atomi della materia. Tali particelle sono i protoni e gli
elettroni.
Esse costituiscono le cariche elettriche elementari, denominate “positive”
e “negative”.
Le cariche elettriche hanno la seguente proprietà:
"cariche d’eguale segno si respingono, di segno opposto si attraggono"
Inoltre: tutte le azioni che sono emanate da una carica positiva, sono eguali ed
opposte a quelle che sarebbero prodotte da una carica negativa, considerate nelle stesse
condizioni.
Ne segue che ogni corpo in cui siano compenetrate cariche elettriche positive e
negative in eguale numero non rilevano all'esterno alcuna delle proprietà specifiche delle
cariche elementari che lo costituiscono, in pratica si presenta elettricamente neutro.
Quando invece si trovano raggruppate cariche elettriche positive e negative in numero
diverso, il complesso presentano le proprietà delle cariche elementari di maggior numero,
e si dice allora che il corpo è elettrizzato.
Un atomo può essere concepito come un minuscolo sistema solare
(modello di Bohr, si veda il fisico danese in foto): nel centro
dell'atomo, al posto del sole, si trova il nucleo; intorno allo stesso
ruotano, a distanze diverse, come i pianeti intorno al sole, gli elettroni.
Oltre al protone e all'elettrone esiste una terza particella costitutiva
della materia, che è chiamata neutrone in quanto essa è
elettricamente neutra.
La prima orbita elettronica è sempre occupata al massimo da due
soli elettroni; la seconda orbita invece può raggiungere il numero
massimo di otto elettroni; le eventuali altre orbite successive sono
tali da contenere sempre un ben determinato numero d’elettroni,
completato il quale si passa a un'altra orbita, fino all'ultima che potrà
essere completa o incompleta secondo i casi.
Naturalmente, ogni corpo si presenta elettricamente neutro,
poiché ciascuno dei suoi atomi è formato da tanti elettroni quanti
sono i protoni del nucleo.
In condizioni opportune però ad un atomo elettricamente neutro
può essere sottratto uno o più elettroni satelliti.
In tal caso l'atomo si presenterà elettrizzato positivamente poiché vengono a prevalere
in esso le cariche positive del nucleo rispetto alle cariche negative periferiche.
Si dirà quindi che un corpo è elettrizzato positivamente quando ad esso sia stato
sottratto un certo numero di elettroni: è invece elettrizzato negativamente ogni corpo il
quale poserà un certo numero di elettroni in eccesso.
La carica elettrica o quantità d’elettricità di un corpo è sempre data dall'eccesso Q di
cariche elettriche positive o negative che esso contiene, rimanendo sottinteso il fatto che
in ogni corpo allo stato neutro esiste sempre un eguale numero di cariche positive e
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negative.
Ai fini delle applicazioni pratiche è di grande
importanza la possibilità di realizzare facilmente il
trasferimento delle cariche dal punto in cui sono
liberate ad un altro, oppure la possibilità opposta di
impedire lo spostamento delle cariche stesse.
Entrambe queste possibilità sono sfruttate nella
tecnica utilizzando, nel primo caso, i cosiddetti
materiali conduttori, e nel secondo i materiali
isolanti.
I materiali conduttori
Si denotano, con il nome di conduttori, quei corpi che si lasciano facilmente
attraversare dalle cariche elettriche e sono capaci di guidarle secondo determinati
percorsi utili.
I materiali conduttori, e in particolare i metalli, sono caratterizzati dalla presenza, al
loro interno, di un certo numero d’elettroni liberi, in altre parole, totalmente svincolati dai
rispettivi nuclei.
Ciò è reso possibile dal fatto che nei metalli alcuni elettroni periferici vengono a
trovarsi in zone interatomiche in cui le azioni esercitate su di essi dai nuclei circostanti si
elidono a vicenda: gli elettroni presenti in tali zone possono così muoversi liberamente e
dare luogo al fenomeno della conduzione.
I materiali isolanti
Si denotano con il nome d’isolanti quei corpi attraverso cui l'elettricità non può
trasmettersi e propagarsi, e perciò sono impiegati a sostenere i conduttori delle macchine
elettriche, delle linee e degli apparecchi, affinché le stesse cariche che li attraversano non
abbiano a disperdersi.
I materiali semiconduttori
Oltre ai materiali conduttori e agli isolanti, nella tecnica sono ampiamente utilizzati
anche i materiali semiconduttori, così chiamati per le loro proprietà intermedie fra i
conduttori e gli isolanti.
Interazioni tra cariche elettriche – La legge di Coulomb
Come si è già osservato, la proprietà fondamentale dei corpi elettrizzati è quella di dar
luogo a reciproche azioni repulsive o attrattive a seconda che le cariche da essi portate
siano dello stesso segno o di segno contrario: a questi tipi di interazione, data la loro
particolare origine, viene dato il nome di forze elettriche.
Lo scienziato francese Charles-Augustin de Coulomb, adottando la bilancia di torsione,
da lui stesso inventata per la misura delle forze, mise in luce
che queste forze (chiamate anche forze coulombiane) sono
tanto più intense quanto maggiori sono le quantità
d’elettricità portate dall'uno o dall'altro dei corpi elettrizzati;
variano notevolmente al variare della distanza che separa i
corpi elettrizzati e sono influenzate dal mezzo fisico che
circonda i corpi elettrizzati.
Egli arrivò all’enunciazione della seguente legge
sperimentale (legge di Coulomb):
"Due cariche elettriche puntiformi Q1 e Q2 si
attraggono (se di segno contrario) o si respingono (se
dello stesso segno) con una forza F che è
proporzionale al prodotto dei loro valori ed
inversamente proporzionale al quadrato della distanza d che le separa"
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Questa legge trova la sua espressione matematica in una formula del tipo:
Il valore numerico della costante di proporzionalità K (costante di Coulomb) dipende
dalle unità di misura adottate per la forza, per la distanza e per le cariche.
E' importante osservare, che in ogni caso la costante K dipende anche dalla natura del
mezzo fisico che circonda e separa le due cariche elettriche.
Per quanto riguarda la misura delle quantità di elettricità Q, essendo in pratica molto
scomoda esprimersi per mezzo del numero, sempre straordinariamente grande, delle
cariche elementari che partecipano ai fenomeni di elettrizzazione, si preferisce adottare
come unità di misura non già la carica elementare, ma una quantità multipla di essa che
viene denominata coulomb (C).
Generatore elettrico
Un generatore elettrico può essere considerato come un sistema capace di separare e
mettere in movimento, nei conduttori di cui è formato, un certo numero degli elettroni
liberi presenti. Indipendentemente dalla loro struttura costruttiva reale i generatori
elettrici possono essere schematizzati come in figura 1.
Lungo il circuito interno del generatore hanno sede e si sviluppano delle forze Fe le
quali tendono a dislocare gli elettroni liberi fra i due punti estremi A e B di tale circuito,
chiamati poli o morsetti del generatore.
Sulla superficie esterna del polo B si realizza un addensamento d’elettroni in eccesso,
mentre sulla superficie del polo A si rende libera un’eguale quantità di cariche elementari
positive.
Il dislocamento degli elettroni cessa quando le azioni intrinseche Fe del generatore
sono equilibrate dalle azioni attrattive F che vengono a manifestarsi nel verso opposto,
secondo la legge di Coulomb, fra le cariche positive e negative separate.
L'aspetto più importante di questo processo è rappresentato dal fatto che ad ogni
elettrone che viene spostato dal polo positivo al polo negativo viene conferita una certa
energia potenziale: quest’energia equivale al lavoro sviluppato dalle forze Fe del
generatore per dislocare tal elettrone vincendo le forze coulombiane di richiamo.
L'energia potenziale che si rende disponibile ai morsetti del generatore è tale da
permettere, agli elettroni che vengono dislocati fra un morsetto e l'altro del circuito
interno, di percorrere poi un circuito esterno che venga direttamente allacciato al
generatore, come in figura 2.
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Nel circuito esterno che conterrà l'apparecchio utilizzatore U, potrà allora instaurarsi
una corrente elettrica, in altre parole uno scorrimento continuo di cariche sostenuto dalle
forze interne del generatore Fe il quale sospinge con continuità gli elettroni di conduzione
mano a mano che essi abbandonano il morsetto negativo B e rientrano nel morsetto
positivo A.
Questo processo continuo di scorrimento delle cariche, è reso possibile dal fatto che
quando un certo numero d’elettroni lascia il morsetto B per attraversare il circuito
esterno e rientrare nel morsetto A, si determina una riduzione delle forze coulombiane di
reazione F (perché cala il numero delle cariche dislocate sui morsetti), con la
conseguenza che le forze intrinseche del generatore Fe tornano a prelevare e a produrre
lo spostamento d’altrettanti elettroni nel circuito interno dal morsetto A al morsetto B.
Il movimento delle cariche elettriche attraverso un circuito utilizzatore non può
avvenire liberamente, ma soltanto a spese di una certa quantità d’energia, poiché in ogni
apparecchio utilizzatore è sempre sottratta una certa energia agli elettroni che lo
attraversano, per essere trasformata in quelle altre forme d’energia che caratterizzano lo
specifico modo di funzionare dell'utilizzatore stesso.
Forza elettromotrice del generatore
La grandezza che caratterizza l'attitudine di un generatore elettrico a fornire quantità
d’energia più o meno grandi alle cariche è denominata: "forza elettromotrice (f.e.m.) del
generatore"
Con questa grandezza (indicata col simbolo E) si vuole rappresentare la quantità di
energia che è fornita, dal generatore, alla carica di valore unitario.
Il numero che esprime il valore della f.e.m. altro non è,
che il numero di joule che quel generatore è in grado di
fornire ad ogni coulomb che è spostato da un morsetto
all'altro.
La f.e.m. rappresenta con ciò anche la misura del lavoro
che il generatore compie per dislocare, lungo il suo circuito
interno, la carica unitaria da un polo all'altro.
L'unità di misura della f.e.m. è il joule/coulomb.
Quest’unità è denominata volt in onore del fisico italiano
Alessandro Volta e indicata col simbolo V.
Essa è definita dalla seguente relazione:
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Tensione elettrica [rivedere]
Nel linguaggio scientifico è chiamato potenziale elettrico di un punto "il valore
dell'energia potenziale posseduta dalla carica unitaria dislocata in quel punto". Il simbolo
del potenziale elettrico è V. La sua formula di definizione è espressa dal rapporto
Tra il valore dell'energia potenziale W posseduta dalla carica e il valore della carica
stessa.
Secondo la definizione l'unità di misura del potenziale è ancora il joule/coulomb e cioè
il volt.
Si dirà pertanto che: "il potenziale di un assegnato punto P, di un circuito elettrico ha il
valore Vp=120V quando l'energia posseduta dalla carica di 1C concentrata in tale punto P
è di 120J"
Il significato di questa grandezza fisica è molto importante.
Il potenziale elettrico esprime, infatti, una misura del contenuto energetico di una
carica che si trova dislocata in un determinato punto.
Il contenuto d’energia sarà maggiore se la carica è dislocata in punti a potenziale più
alto, sarà invece minore se i punti in cui la medesima carica si trova a potenziale più
basso.
Si può dire quindi che l'energia di una carica elettrica dipende sia dal valore Q di tale
carica, che dal valore del potenziale V che si riscontra nel punto in cui la carica si trova.
La relazione per il calcolo di quest’energia si ricava dalla precedente formula ed ha la
forma
Quando i potenziali elettrici VA e VB di due qualsiasi punti A e B sono fra loro diversi,
la differenza
VAB = VA - VB
E’ chiamata differenza di potenziale (d.d.p.) fra i due punti, o tensione elettrica.
La tensione fra due punti rappresenta in tal modo la quantità d’energia che è ceduta
dalla carica unitaria che passa dal primo al secondo punto, o anche il lavoro che è
eseguito dalla carica unitaria. Per questo, l'energia ΔW che è ceduta da una carica di
valore Q che si sposta fra i punti A e B sarà espressa dalla relazione
ΔW = VAB Q
In un generatore l'effetto ultimo delle azioni interne è quello di mantenere i due poli a
potenziale di valore diverso, creando fra essi una tensione che equivale al valore della
f.e.m., e cioè al valore dell’energia che tali azioni interne forniscono alla carica unitaria.
Ne segue che: "la forza elettromotrice di un generatore è misurata dalla differenza di
potenziale che essa determina e mantiene fra i due poli del generatore"
Corrente elettrica
Un movimento ordinato di cariche elettriche attraverso un dato mezzo fisico, è
chiamato corrente elettrica.
Ogni complesso di conduttori comunque collegati a generatori e a utilizzatori
costituisce un circuito elettrico.
Il circuito così definito è sede di una corrente ogni qualvolta esso è chiuso, e cioè ogni
qualvolta è realizzata in esso la continuità metallica fra tutti gli elementi che lo
compongono.
Se tale continuità viene a mancare, il circuito si dice aperto e nessuna corrente può
instaurarsi in esso.
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Il movimento di migrazione delle cariche elettriche lungo un circuito interessato da
corrente può presentarsi con caratteristiche d’uniformità e costanza nel tempo: in questo
caso la corrente è definita come continua.
Si parla invece di corrente variabile quando la circolazione degli elettroni non si
realizza in modo uniforme e costante.
In ogni caso, il movimento degli elettroni in seno ai conduttori metallici è sempre tale
che da ogni elemento di volume esce da una parte tanti elettroni quanti n’entrano da
un'altra (legge della continuità). Perciò ogni sezione dell'intero circuito chiuso percorso da
corrente deve essere attraversato, nello stesso intervallo, da uno stesso numero
d’elettroni, ossia dalla stessa quantità d’elettricità.
"La maggiore o minore intensità di corrente elettrica, può essere definita mediante la
quantità d’elettricità che attraversa una qualsiasi sezione del circuito nel tempo unitario"
Poiché la quantità di elettricità si misura in coulomb, l'intensità di corrente risulta
allora definita dal numero di coulomb che attraversa ogni sezione del circuito nel tempo
di un secondo, e la sua unità diventa il coulomb al secondo.
Quest’unità è stata denominata col nome ampere e indicata col simbolo A.
Se una sezione qualunque di un circuito elettrico è attraversata, in un certo tempo di
Δt secondi, da una quantità di carica di Q coulomb, si dirà che il circuito è percorso da
una corrente elettrica la cui intensità I, espressa in ampere, è data dal rapporto
I=
Q
Δt
Inversamente, se un circuito è percorso dall'intensità di I ampere, tutte le sezioni del
circuito vengono attraversate nel tempo di Δt secondi da un numero di coulomb espresso
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dal prodotto
Rappresentazione cartesiana della corrente continua i(t) in funzione del tempo
Le due relazioni sopra descritte implicano che l'intensità di I resti costante per tutto
l'intervallo Δt, che si tratti perciò di una corrente continua, come quella rappresentata in
figura.
In questa figura è facile controllare che l'area delimitata dall'intervallo Δt fornisce una
rappresentazione della quantità d’elettricità Q.
Rappresentazione cartesiana della corrente alternata i(t) in funzione del tempo
Qualora invece la corrente sia di tipo variabile, la sua intensità non assume più un
valore costante I, ma si presenta diversa da un istante all'altro, come nell'esempio
riportato in figura.
Anche in questo caso l'area sottostante alla curva della corrente i(t) è delimitata
dall'intervallo di tempo Δt rappresenta la quantità di elettricità Q che fluisce durante
questo intervallo entro il circuito.
Se si esegue il rapporto tra tale area e la base Δt si ottiene la corrente media I relativa
all'intervallo Δt considerato: il significato che assume la intensità media è quello di una
corrente continua e costante che nell'intervallo Δt è capace di trasportare la stessa
quantità di elettricità Q che è effettivamente trasportata dalla corrente variabile i(t).
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Nella pratica applicativa, si presenta spesso la necessità di controllare come si
distribuisce il flusso degli elettroni all'interno di un filo conduttore percorso da corrente.
A tal fine è presa in considerazione la densità di corrente, definita dal rapporto fra la
corrente I che attraversa la sezione S del conduttore e la sezione stessa.
La densità di corrente rappresenta il numero di ampere che attraversa ogni unità di
sezione del conduttore: nelle normali applicazioni di calcolo essa è espressa usualmente
in ampere al millimetro quadrato (A/mm2).
Negli ordinari circuiti, la densità di corrente deve essere mantenuta al disotto dei 3
A/mm2 per evitare forti riscaldamenti del conduttore.
Il fisico francese Ampere
Convenzioni sulla corrente e sui potenziali elettrici
In tutti i fenomeni elettrici è facile riscontrare che le cariche elettriche negative
determinano sempre o subiscono effetti uguali ma di segno opposto a quelli determinati o
subiti dalle cariche positive. Da questa proprietà discende che ogni movimento di cariche
negative equivale, a tutti gli effetti esterni, ad un movimento in senso opposto di cariche
positive. Per questo fatto, il verso di una corrente elettrica può essere indifferentemente
riferito sia al movimento d’elettricità negativa, sia al movimento in senso opposto
d’elettricità positiva.
Per consuetudine si considera come verso convenzionale della corrente
elettrica il verso di scorrimento delle cariche positive rispetto alle cariche
negative supposte fisse: tale verso è dunque opposto a quello secondo cui
realmente avviene il movimento degli elettroni lungo il circuito.
Fig.1
Versi convenzionali della f.e.m. e della d.d.p. con inserzione del Voltmetro e
dell'Amperometro
In relazione al verso convenzionale della corrente si fissa anche il verso convenzionale
della f.e.m. dei generatori, supponendo che le azioni interne agiscano nel senso di
spostare le cariche positive dal polo negativo al polo positivo (mentre in effetti accade
l'opposto, in quanto sono gli elettroni che vengono dislocati verso il polo negativo).
Si dirà pertanto che le f.e.m. dei generatori sono dirette convenzionalmente, lungo il
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circuito interno, dal polo negativo al polo positivo, come è indicato dal verso E in figura.
Analogamente si dirà che la d.d.p. che esiste fra i poli di un generatore agisce dal polo
positivo al polo negativo.
Si esprime questo fatto dicendo che il polo positivo di un generatore è mantenuto a un
potenziale elettrico maggiore di quello dell'altro polo e che quindi le cariche positive
tendono a muoversi spontaneamente dai punti a potenziale maggiore verso i punti a
potenziale minore; mentre gli elettroni tendono a spostarsi dai punti a potenziale minore
verso quelli a potenziale maggiore.
Alla superficie della terra viene attribuito un potenziale zero: ne segue che il valore del
potenziale di un dato punto potrà essere inteso come la d.d.p. fra questo punto e la
terra: questo potenziale sarà positivo o negativo a seconda che esso sia maggiore o
minore di quello della terra.
La presenza di una d.d.p. fra due punti di un circuito, o il passaggio della corrente in
un conduttore, possono essere rilevati soltanto per via indiretta, sulla base degli effetti
che si manifestano in presenza appunto di una tensione o di una corrente.
Utilizzando opportunamente taluni di questi effetti si rende possibile costruire degli
strumenti che sono in grado, non solo di indicare, ma anche di fornire una misura della
tensione o della corrente: tali strumenti sono i voltmetri e gli amperometri.
Voltmetri ed amperometri
I voltmetri e gli amperometri sono sempre provvisti di due morsetti di collegamento,
opportunamente contrassegnati per consentire la corretta inserzione nel circuito
rispettando i versi convenzionali della tensione e della corrente.
Per quanto riguarda gli amperometri, il collegamento al circuito deve essere realizzato
in modo che lo strumento venga direttamente attraversato dalla corrente I che si vuol
misurare: questo richiede che l'amperometro venga inserito in serie nel circuito, come lo
strumento A della figura, con l'avvertenza che la corrente entri nello strumento
attraverso il morsetto contrassegnato con (+) affinché la deviazione possa avvenire nel
verso progressivo della scala di lettura.
L'inserzione di un voltmetro si esegue invece collegando in derivazione (parallelo) lo
strumento fra il primo e il secondo punto tra il quale si vuol misurare la d.d.p.: così, nel
circuito in figura, il voltmetro V è allacciato (per mezzo dei suoi cordoni voltmetrici e
relativi puntali) fra i due punti M e N per la misura della tensione UMN esistente fra
l'entrata e l'uscita dell'utilizzatore.
Resistenza elettrica - Legge di Ohm
Si consideri un filo metallico, di sezione e lunghezza opportune, e si applichi fra i suoi
estremi una tensione elettrica. Si faccia poi variare questa tensione al fine di determinare
come varia corrispondentemente l'intensità I della corrente nel filo.
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Figura 1 - Circuito per la dimostrazione sperimentale della legge di Ohm.
Per realizzare una tensione variabile ci si può servire di un certo numero di pile
collegate come in figura. Questa disposizione realizza il collegamento in serie dei
generatori e consente di ottenere una tensione complessiva pari alla somma delle
tensioni prodotte dalle singole pile. Con un amperometro si potrà misurare l'intensità
della corrente che percorre il filo metallico, e mediante un voltmetro derivato fra i
morsetti C e D potrà essere determinata la tensione fra gli estremi del filo. Per eseguire
l'esperienza, si porti innanzitutto il commutatore M sul morsetto 0: in tal caso i due
strumenti non daranno alcuna indicazione, non risultando inserito alcun generatore nel
circuito: si potrà concludere che: "se è nulla la tensione che agisce ai capi di un filo
conduttore, è nulla anche la corrente che lo percorre".
Notare le lancette degli strumenti di misura che in assenza di tensione e corrente
segnano 0.
Se si sposta M sul contatto 1, inserendo nel circuito una sola pila, gli indici del
voltmetro e dell'amperometro subiranno una deviazione indicando sulla scala un certo
valore V1 della tensione e un certo valore I1 della corrente.
Spostando successivamente il commutatore sui contatti 2, 3... ecc. si avranno nuovi e
più elevati valori V2, V3 ecc. indicati dal voltmetro e nuovi corrispondenti valori I2, I3 ecc.
indicati dall'amperometro.
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Notare le lancette degli strumenti di misura che in presenza di tensione e corrente
segnano dei valori.
Si esegua ora il rapporto fra il valore della tensione e il corrispondente valore della
corrente per ogni posizione del commutatore: si potrà constatare che questo rapporto si
mantiene costante e cioè
V1/I1 = V2/I2 = V3/I3 = ... = costante
L'esperienza dimostra quindi che crescendo la tensione agli estremi del filo, cresce
nella stessa proporzione la corrente che lo attraversa.
Se la tensione diventa doppia, tripla ecc. si raddoppia, si triplica ecc. la corrente.
Se l'esperienza viene ripetuta variando le dimensioni (lunghezza e sezione) del
conduttore C, D oppure variando la natura del conduttore (adottando successivamente fili
di rame, alluminio, ferro ecc.) si trova ancora che il rapporto fra le diverse tensioni
applicate e le rispettive correnti si conserva costante: ma questo rapporto ha un valore
diverso da un caso all'altro e cioè sotto la stessa tensione, due o più conduttori diversi
vengono attraversati da correnti diverse. Si esprime questo fatto sperimentale
affermando che: "conduttori diversi offrono al passaggio della corrente diversa
resistenza elettrica"
Intendendo, come resistenza elettrica di un conduttore, il rapporto fra il valore della
tensione applicata ai capi del conduttore e il corrispondente valore dell'intensità della
corrente che lo percorre.
Se pertanto, sotto l'azione della tensione V, un filo metallico è percorso da una
corrente di intensità I, si dirà che esso possiede una resistenza R espressa dal rapporto
R = V/I
Se è nota la resistenza R del conduttore, si può dire che, ogni volta che fra i suoi
estremi si applica una tensione qualunque V, il conduttore sarà percorso da una corrente
che ha l'intensità
I = V/R
Inversamente, ogni qualvolta un conduttore di resistenza R è percorso da una corrente
d'intensità I, fra i suoi capi terminali si manifesta una differenza di potenziale (caduta di
tensione o caduta ohmica) il cui valore è dato dal prodotto
V=RI
Questi fatti sperimentali e le relazioni corrispondenti costituiscono la legge di Ohm.
Se il numero di volt che misura la tensione V applicata agli estremi del conduttore è in
particolare uguale al numero di ampere che misura la corrente I, il valore del rapporto fra
tensione e corrente risulta uguale a 1: si dirà allora che: "il conduttore considerato ha la
resistenza elettrica unitaria"
Ogni conduttore che soddisfa a questa condizione realizza in sé quella resistenza
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elettrica che è assunta come unità di misura della resistenza.
Tale unità rappresenta la resistenza di quel conduttore che richiede ai suoi capi la
tensione di 1V per essere attraversato dalla corrente di 1A.
In onore del fisico tedesco George Simon Ohm, l'unità di
resistenza elettrica è denominata ohm e indicata col simbolo Ω. Si
pone quindi
Sostenendo che un filo ha la resistenza elettrica di 10Ω, si
esprime che quel filo richiede ai capi una tensione di 10V per ogni
ampere di corrente che lo attraversi.
Se quel filo deve essere percorso da 2A, esso richiede ai suoi capi
estremi una tensione del valore di 20V.
Ad esempio: se il filamento di una lampada a incandescenza, alimentato alla tensione
di 220V, è attraversato dalla corrente di 0,5A si dirà che il filamento in questione ha una
resistenza elettrica
R = V/I = 220/0,5 = 440 Ω
In pratica, oltre l'ohm, si usano spesso:
3
6
il kiloohm (1kΩ=10 Ω) e il megaohm (1MΩ=10 Ω)
come unità di misura per le grandissime resistenze;
-3
il milliohm (1mΩ=10 Ω) oppure il microohm (1μΩ=10-6Ω)
per la misura delle resistenze piccole e piccolissime.
Un materiale che presenti una resistenza elettrica dell'ordine dei megaohm sarà
naturalmente un cattivo conduttore, perché anche sotto una tensione relativamente
elevata sarà attraversato da una corrente piccola: sotto la tensione di 1V, un conduttore
di resistenza uguale a 1MΩ è attraversato da una corrente di 1 μA.
Talvolta si preferisce scrivere la legge di Ohm, anziché nella forma V=RI che esprime
la proporzionalità fra tensione e corrente, nell'altra forma
I=GV
Ciò stabilisce la proporzionalità fra corrente e tensione.
La grandezza G è chiamata conduttanza ed è legata alla resistenza R della relazione
G = I/V = 1/R
La sua unità di misura è l'inverso dell'ohm ed è denominata
siemens (S), in onore dell’inventore tedesco Werner Von
Siemens:
Conduttori con elevata resistenza presentano bassa
conduttanza e viceversa.
Ad esempio, il filamento della lampada ad incandescenza
considerata in precedenza presenta una conduttanza del valore
G = I/V = 0,5/220 = 0,0023 S
Il simbolo grafico della resistenza e della conduttanza è stato normalizzato come
indicato in figura
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pag. 14
Simboli grafici per resistenza R o conduttanza G
I tratti a linea intera rappresentano collegamenti a resistenza nulla o a conduttanza
infinita.
Resistività dei materiali - Calcolo della resistenza dei conduttori
Se si esegue l'esperienza esposta al paragrafo precedente, determinando la resistenza
di fili metallici di diversa lunghezza e diversa sezione, ma dello stesso materiale, si può
constatare che la resistenza elettrica di un filo qualunque si raddoppia, si triplica ecc..
raddoppiandone, triplicandone ecc. la lunghezza e mantenendone invariata la sezione;
mentre si riduce a metà a un terzo ecc. raddoppiandone, triplicandone ecc. la sezione e
mantenendone invariata invece la lunghezza. Si deve quindi concludere che: "la
resistenza di un filo di un dato metallo è proporzionale alla lunghezza e
inversamente proporzionale alla sezione"
Pertanto la resistenza R di un conduttore metallico filiforme, avente lunghezza l e
sezione S, potrà essere scritta nella seguente forma essendo ρ un’opportuna costante di
proporzionalità.
Si osservi ora che, se si prende in considerazione un conduttore avente lunghezza
unitaria (l =1) e sezione unitaria (S=1), la costante ρ viene a coincidere con R: essa è
quindi la resistenza di un conduttore di lunghezza e sezione unitarie (resistenza
specifica), e come tale dipende esclusivamente dalla natura del materiale di cui è
costituito il conduttore.
Alla costante ρ si attribuisce perciò il nome di resistività del materiale.
Dalla precedente relazione si può ricavare la resistività ρ in funzione della resistenza R
e delle dimensioni (lunghezza l e sezione S) del conduttore
La resistività di un materiale può essere determinata misurando la resistenza elettrica
R di un conduttore di quel dato materiale, con lunghezza l e sezione S note, e applicando
2
l'espressione precedente, se la resistenza R è data in Ω, la sezione S in m , e la
2
lunghezza l in m, la resistività ρ del materiale in esame è espressa in Ω x m /m ossia più
brevemente in ohm metri (Ω m).
Si ha con ciò, l'interpretazione del fatto fisico che la resistività ρ è la resistenza
elettrica misurata tra due facce opposte di un cubo di materiale avente la sezione e la
lunghezza unitarie.
Nella pratica industriale torna comodo misurare la sezione dei conduttori in millimetri
quadrati anziché in metri quadrati. Per applicare la seguente formula
Si dovrà esprimere la resistività in Ω mm2/m e si dovrà scrivere come segue
La seguente relazione
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La seguente relazione che esprime la resistenza R consente di ricavare anche
l'espressione della conduttanza G nella seguente forma
Il fattore
Prende il nome di conduttività del materiale. La sua unità di misura, è il
siemens/metro (S/m).
Influenza della temperatura sulla resistenza elettrica
La resistenza elettrica varia in misura sensibile con la temperatura. I metalli offrono
una resistenza che cresce con l'aumentare della temperatura: gli aumenti di resistenza
sono meno sensibili per le leghe metalliche che non per i metalli puri.
L'aumento di resistenza, può essere spiegato pensando che il crescere della
temperatura del conduttore comporta l'incremento dello stato d’agitazione termica degli
atomi, con corrispondente ed inevitabile aumento del numero degli urti fra gli atomi e gli
elettroni di conduzione.
Entro i limiti di temperatura da -100 a +150 °C, i diagrammi di variazione della
resistività dei metalli più comuni sono sensibilmente lineari, in altre parole assumono la
forma indicata in figura.
Indicando perciò con ρ la resistività di un metallo alla temperatura di riferimento a
20°C, si può esprimere il valore rt che essa assume alla generica temperatura t con la
seguente relazione:
ρ t = ρ + Δρ
Essendo
L'aumento subito dalla resistività per l'incremento Δt= (t-20) della temperatura.
Si ha quindi che
In queste relazioni, il coefficiente
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Esprime la variazione di resistività che avviene per ogni grado di variazione della
temperatura a partire da 20°C e per ogni ohm metro della resistività. Il coefficiente a così
definito prende il nome di coefficiente di temperatura del materiale considerato.
Capitolo 2 - Reti elettriche
Generalizzazione della legge di Ohm
a) legge di ohm per un circuito chiuso
Si consideri un circuito elettrico, costituito da una resistenza esterna R alimentata da
un generatore avente una f.e.m. E ed una resistenza interna R come in figura.
Fino a che il circuito è interrotto in K (circuito aperto), non circola alcuna corrente e fra
i due morsetti A e B del generatore si ha una d.d.p.
UAB = VAB = E
Si immagini ora di chiudere il circuito in K.
Si stabilisce immediatamente una certa corrente I, la quale circola (nel verso
convenzionale) dal morsetto positivo A verso il morsetto negativo B lungo il circuito
esterno di resistenza R, per chiudersi da B verso A nel circuito interno del generatore di
resistenza Ri.
E' evidente che quando il generatore eroga la corrente I la resistenza interna Ri
provoca, per la legge di Ohm, una caduta di tensione Ri I, che si manifesta con una
diminuzione della tensione disponibile fra i poli del generatore: in altri termini, se il
generatore a circuito aperto presenta ai poli una d.d.p. VAB=E, quando il generatore
eroga una corrente I la tensione ai morsetti assume il valore
VAB = E - Ri I
Applicando la legge di Ohm al circuito esterno, di resistenza R e soggetto alla tensione
VAB, si ha d'altra parte la relazione
VAB = R I
Ne risulta l’uguaglianza
E - Ri I = R I
dalla quale si ricava l'espressione
I = E / (R+Ri)
La somma (R+ Ri) rappresenta la resistenza elettrica complessiva del circuito chiuso.
La relazione sopra indicata esprime la legge di Ohm relativa a tale circuito, la quale
può essere così enunciata: "Un circuito chiuso in cui agisce una f.e.m. costante è sede di
una corrente continua che ha il verso della f.e.m. e un’intensità eguale al rapporto tra la
f.e.m. e la resistenza complessiva del circuito".
La relazione
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VAB = E - Ri I
Mostra che la resistenza interna Ri del generatore determina una diminuzione della
tensione-corrente V(I).
La caratteristica esterna interseca l'asse delle tensioni nel punto VAB=E che
corrisponde alla condizione I=0.
All'aumentare della corrente erogata, in altre parole al diminuire della resistenza
esterna R, la caratteristica discende gradualmente fino al valore
VAB = 0
che sarebbe raggiunto se la corrente erogata assumesse il valore
ICC = E / Ri
Questo particolare valore della corrente corrisponde a quello che si otterrebbe se si
immaginasse di collegare fra loro i due poli del generatore con un conduttore avente
resistenza R=0.
Un simile stato di cose viene indicato in pratica con la denominazione di cortocircuito e
la corrente che è stata indicata con il simbolo ICC prende il nome di corrente di
cortocircuito del generatore: tale corrente è limitata solo dalla resistenza interna Ri, per
cui, se quest'ultima è piccola, essa può assumere dei valori tanto elevati da riuscire
pericolosi per la buona conservazione del generatore.
Se sul grafico della caratteristica esterna del generatore si traccia anche la retta di
equazione VAB=Ri (retta di carico) che rappresenta la caratteristica tensione-corrente V(I)
della resistenza esterna R, si ottiene il punto di lavoro P del complesso generatore-carico
individuato dalla intersezione delle due rette.
Nei casi in cui uno stesso circuito comprende più generatori aventi le f.e.m. E1, E2, ...,
En e le resistenze interne Ri1, Ri2, ..., Rin, e comprende inoltre più resistenze utilizzatrici
R1, R2, ..., Rn, la legge di Ohm per il circuito chiuso assume la forma
I=(E1+E2+...+En)/(R1+R2+...+Rn+Ri1+Ri2+...+Rin)
In altre parole l'intensità della corrente che percorre il circuito è uguale alla somma
delle f.e.m. di tutti i generatori agenti, divisa per la resistenza elettrica complessiva del
circuito.
Può accadere che in uno stesso circuito siano incluse una o più f.e.m. agenti in un dato
verso e una o più f.e.m. agenti in verso opposto, nel circuito non circola alcuna corrente.
Diversamente, nel circuito si stabilisce una corrente che circola nel verso delle f.e.m.
prevalenti.
Se si considerano positive le f.e.m. agenti in un dato verso e negative le f.e.m. agenti
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in verso contrario, la legge di Ohm per il circuito chiuso è ancora espressa dalla relazione
sopra indicata purché il numeratore venga inteso come la somma algebrica di tutte le
f.e.m. presenti
b) legge di ohm per un tratto di circuito o legge di ohm generalizzata
Se in luogo dell'intero circuito si considera un tratto di circuito nel quale siano
comprese più resistenze e più f.e.m. comunque dirette, la legge di Ohm assume una
forma più generale poiché tiene conto anche della d.d.p. esistente fra i capi estremi del
tratto di circuito considerato.
Si prenda in esame, per esempio, il tratto di circuito A-B come in figura, percorso dalla
corrente IAB e nel quale si trova inserito un generatore di f.e.m. E resistenza interna Ri.
La f.e.m. E sia diretta nello stesso verso della corrente IAB. In base alla relazione
VAB = E - Ri I
Si può scrivere
VBA = -E + Ri IAB
Da questa si ricava (essendo VBA=-VAB):
VAB + E = Ri IAB
Se nel tratto di circuito che si considera, la f.e.m. è diretta invece nel verso opposto
alla corrente, come in figura,
E’ da considerarsi come una forza-controelettromotrice (f.c.e.m.) e l'espressione
precedente diventa
VAB - E = Ri IAB
In generale, quando nel tratto di circuito sono inserite più f.e.m. comunque dirette e
un numero qualsiasi di resistenze, la legge di Ohm può essere enunciata dicendo che: "la
somma algebrica della tensione esistente fra la sezione di ingresso della corrente e quella
di uscita, e di tutte le f.e.m. che sono inserite nel tratto di circuito, è uguale alla somma
delle cadute ohmiche nel tratto considerato".
E' questa la legge di Ohm generalizzata la quale può essere scritta sinteticamente
nella forma
VAB + Σa E = Σ R IAB
Principi di Kirchhoff
I circuiti di distribuzione dell'energia elettrica, come pure i
circuiti interni degli apparecchi elettrici, si presentano spesso
come una vera e propria rete di conduttori costituita da un
certo numero di circuiti poligonali chiusi formati da uno o più
lati: ognuno di questi circuiti costituisce una maglia della
rete, e i punti di concorso di più lati ne costituiscono i nodi.
La figura schematizza una rete elettrica: vi sono indicati i generatori che agiscono nei
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vari lati e le resistenze dei lati stessi.
Il problema principale connesso a simili circuiti si propone la determinazione, in valore
e verso, delle correnti che percorrono i singoli lati delle maglie. Per tale determinazione
servono i due principi di Kirchhoff.
Si consideri una maglia qualsiasi, ad esempio la maglia ABCD, i cui lati hanno
rispettivamente le resistenze R1, R2, R3, R4, comprese anche le resistenze interne dei
generatori di f.e.m. E1, E2, E3, inseriti nei lati AB, BC e CD.
Siano I1 I2 I3, I4 le correnti nei quattro lati della maglia, e siano quelli indicati in figura
i loro versi fissati ad arbitrio.
Nel nodo A della maglia concorrono quattro lati, due percorsi dalle correnti I1, e I4
appartenenti alla maglia ABCD e due percorsi delle correnti I5, I6, appartenenti a maglie
adiacenti.
Dato che nel nodo A non può aversi né accumulo né sottrazione di cariche elettriche
(condizione di continuità), ad ogni carica che arriva al nodo deve corrispondere, nello
stesso intervallo, un’eguale carica che si allontana.
Ma la quantità di elettricità che nell'unità di tempo arriva al nodo A non è altro che la
somma delle intensità di correnti dirette verso il nodo stesso, e la corrispondente
quantità uscente non è altro che la somma delle correnti che si allontanano dallo stesso
nodo.
Ne deriva che: "la somma delle correnti dirette verso un nodo di una rete è
uguale in valore alla somma di tutte le correnti che se ne allontanano"
Quando si considerino positive le correnti dirette verso il nodo e negative quelle che
partono dal nodo, si può dire che la somma algebrica delle correnti che convergono in un
nodo è nulla.
E' questo il primo principio di Kirchhoff, che applicato al nodo A può essere scritto
nelle forme
I5 + I6 - I1 - I4 = 0
I5 + I6 = I1 + I4
Per quanto riguarda il secondo principio, si consideri ancora la maglia precedente e si
supponga di percorrerla nel verso in cui si susseguono i punti A, B, C, D (verso di
percorrenza orario).
Si applichi la legge di Ohm ai singoli tratti successivi AB, BC, CD, DA della maglia in
questione, tenendo presenti i versi delle f.e.m. e delle correnti indicate nella figura.
VAB - E1 = R1 I1
VBC + E2 = -R2 I2
VCD + E3 = R3 I3
VDA = - R4 I4
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Facendo la somma, a membro a membro, di queste espressioni si ottiene
- E1 + E2 + E3 = R1 I1 - R2 I2 + R3 I3 - R4 I4
Essendo nulla evidentemente la somma
VAB + VBC + VCD + VDA = 0
Eseguita lungo il percorso chiuso dalla maglia.
Al primo membro della relazione si ha la somma algebrica delle f.e.m. agenti nella
maglia considerata (assumendo come positive le f.e.m. dirette secondo il verso di
percorrenza, e negative quelle dirette in verso opposto); al secondo membro si ha la
somma algebrica dei prodotti delle resistenze per le intensità delle correnti ossia delle
cadute di tensione dei singoli lati della maglia (considerando positive quelle relative ai lati
in cui le correnti hanno verso uguale a quello di percorrenza, e negative le cadute nei lati
ove le correnti hanno verso opposto a quello di percorrenza).
La relazione sopra citata compendia il secondo principio di Kirchhoff, che può essere
così enunciato: "La somma algebrica delle f.e.m. che agiscono in una maglia è
uguale alla somma algebrica delle cadute di tensione (ohmiche) lungo i lati
della stessa maglia"
Per l'applicazione dei principi di Kirchhoff nella risoluzione di una rete si procede nel
modo seguente: si fissano ad arbitrio i versi delle correnti nei lati delle maglie e si applica
il primo principio ai nodi della rete, escluso uno; si applica poi il secondo principio a un
sufficiente numero di maglie, in modo da avere tante equazioni indipendenti quante sono
le correnti incognite che bisogna determinare: la risoluzione, mediante le regole
dell'algebra, del sistema d’equazioni così ottenuto, determina in valore e verso le correnti
incognite. A titolo di esempio si consideri la rete riportata in figura 2.
Il problema è quello di determinare, in valore e verso, le correnti che percorrono i sei
lati della rete.
A tal fine, prefissati ad arbitrio i versi delle correnti nei singoli lati, come indicato in
figura, si applica il primo principio ai nodi A, B, C e il secondo principio alle maglie ABCA,
ABDA e BCDB: si ottengono ordinatamente le sei equazioni seguenti:
I1 = I2 + I3
;
I2 + I4 = I5
;
I6 + I5 = I1
E1 - E2 = R1 I1 + R2 I2 + R5 I5
-E2 = R2 I2 - R4 I4 - R3 I3
0 = R5 I5 - R6 I6 + R4 I4
Figura 2
Si hanno dunque sei equazioni indipendenti, quante sono le correnti incognite, che
possono essere determinate, in grandezza e segno, risolvendo il sistema: le correnti che
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risulteranno positive avranno verso opposto a quello indicato.
Raggruppamento in serie di più resistenze
Due o più resistenze si dicono collegate in serie fra loro quando sono connesse una di
seguito all'altra in modo da essere attraversate dalla stessa corrente come mostrato in
figura.
Un tratto di circuito formato da tante resistenze collegate in serie presenta le proprietà
seguenti:
1) L'intensità di corrente I è la stessa in tutte le resistenze della serie;
2) Le tensioni V1, V2, ..., Vn misurate ai capi delle singole resistenze coincidono con le
cadute ohmiche rispettive e sono date dalle relazioni
V1=R1I ; V2=R2I ; .......... ; Vn=RnI
3) La tensione totale V ai capi della serie è la somma delle cadute ohmiche provocate
dalle singole resistenze:
V=V1+V2+...+Vn=R1I+R2I+...+RnI=(R1+R2+...+Rn)I
4) L'intera serie equivale a un'unica resistenza Req pari alla somma di tutte le
resistenze che la compongono:
Req = V/I = R1 + R2 + ... + Rn
Nel caso particolare di n resistenze uguali di valore R connesse in serie, la resistenza
equivalente risulta:
Req = n R
In questo caso, la tensione esistente ai capi si ciascuna delle n resistenze è pari a V/n:
un dispositivo siffatto, costituito in modo da poter prelevare le varie tensioni parziali
prende il nome di divisore ohmico di tensione.
Raggruppamento in parallelo di più resistenze
Due o più resistenze si dicono collegate in parallelo quando sono connesse in modo da
essere sottoposte alla stessa tensione, e cioè quando sono riunite per i loro estremi a
formare due nodi A e B come in figura. I gruppi di resistenze collegate in parallelo
presentano le proprietà seguenti:
1) Tutte le resistenze sono sottoposte alla stessa tensione V;
2) Le correnti I1, I2, ..., In nei singoli rami risultano espresse dalle relazioni
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I1=V/R1
;
I2=V/R2
;
I3=V/R3
3) La corrente totale I del circuito è la somma delle correnti derivate
I=I1+I2+..+In=(V/R1)+(V/R2)+..+(V/Rn)=V(1/R1+1/R2+..+1/Rn)
4) Il gruppo corrispondente a una resistenza equivalente Req definita dalla relazione
Req=V/I=1/(1/R1+1/R2+...+1/Rn)
Questa resistenza equivalente è sempre minore della più piccola fra tutte le resistenze
del gruppo. In particolare, collegando in parallelo n resistenze uguali di valore R, la
resistenza equivalente del gruppo risulta:
Req=1/(1/R1+1/R2)=(R1R2)/(R1+R2)
In altre parole la resistenza di un arco doppio è data dal prodotto delle resistenze dei
due lati diviso la loro somma. Se I è la corrente totale la tensione fra i nodi A e B del
parallelo è espressa dalla relazione:
VAB=ReqI=I((R1R2)/(R1+R2))
E le due correnti derivate (divisore di corrente) sono espresse dalle relazioni:
I1 = VAB/R1 = I ((R2/(R1+R2)) ; I2=VAB/R2=I((R1/(R1+R2))
Nel raggruppamento in parallelo si può anche porre:
Ne risulta che in questo tipo di collegamento "la conduttanza equivalente è data dalla
somma delle conduttanze componenti"
Reti serie-parallelo e reti stella-triangolo - Metodo passo-passo
Vengono denominate reti serie-parallelo le reti elettriche di forma complessa le quali
rispetto ai morsetti di alimentazione, possono essere ridotte ad una unica resistenza,
attraverso ripetute sostituzioni di resistenze equivalenti a gruppi di resistenze connesse
fra loro in serie o in parallelo. Non tutte le reti ammettono un simile procedimento di
riduzione. Esistono infatti reti che presentano forme di connessione di tipo diverso dai
collegamenti serie-parallelo, e sono precisamente le connessioni dette a stella e le
connessioni a triangolo.
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Collegamento a stella
In una rete elettrica, un gruppo di tre resistenze forma un collegamento a stella
quando, come raffigurato sopra, tre dei loro terminali sono uniti insieme a creare il centro
stella 0 e i rimanenti terminali sono connessi a tre distinti nodi della rete.
Collegamento a triangolo
Un gruppo di tre resistenze si dice invece collegato a triangolo quando, come
raffigurato sopra, i loro terminali sono connessi uno di seguito all'altro in modo da
formare un triangolo i cui vertici sono collegati a tre distinti nodi della rete. Per
collegamenti di questo tipo sussiste il seguente principio d’equivalenza: "Un gruppo di
resistenze collegate a stella è equivalente ad un corrispondente gruppo di resistenze
collegate a triangolo allorché sostituendo un gruppo all'altro, il regime della rete cui sono
connessi rimane invariato"
Le relazioni che forniscono le resistenze R12, R23, R31 del triangolo equivalente alla
stella di resistenze R1, R2, R3, e le relazioni che danno le resistenze della stella
equivalente al triangolo sono le seguenti:
R12=(R1R2+R2R3+R3R1)/R3 R1=(R31R12)/(R12+R23+R31)
R23=(R1R2+R2R3+R3R1)/R1 R2=(R12R23)/(R12+R23+R31)
R31=(R1R2+R2R3+R3R1)/R2 R3=(R23R31)/(R12+R23+R31)
Nel caso particolare, molto importante, di resistenze fra loro uguali, tutte le precedenti
relazioni si riassumono nella semplice formula RΔ=3RY la quale indica che una terna di
resistenze a stella di valore RY corrisponde ad una terna di resistenze a triangolo di valore
RΔ tre volte maggiore.
Reti elettriche come reti di bipoli
Nella loro conformazione più complessa i circuiti elettrici possono presentarsi sotto la
forma di una rete, costituita da un determinato insieme l di lati o rami connessi fra loro in
n punti chiamati nodi della rete, per formare un certo numero m di circuiti chiusi chiamati
maglie.
Così nella rete elettrica considerata nella figura i punti A, B, C, D rappresentano i nodi;
i tratti di circuito, che uniscono un nodo all'altro, come il tratto AB, costituiscono i lati
della rete; il circuito chiuso ABCDA formato da quattro lati fra loro consecutivi è invece
una maglia.
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Almeno in uno, oppure anche in più rami di una rete elettrica, sono presenti
necessariamente dei generatori di alimentazione; in tutti i rami invece è sempre presente
un resistore.
E’ definito, come bipolo elettrico ogni parte di circuito del quale emergono due
terminali (o morsetti o poli) che ne consentono il collegamento con altre parti di circuito.
Analogamente sono definiti ad esempio come tripoli o quadripoli gli elementi di circuito
rispettivamente a tre e a quattro terminali. Ogni singolo ramo di una rete elettrica viene
pertanto a configurarsi come un bipolo che, attraverso i suoi due terminali, è connesso
con le altre parti della rete. Ne segue che a tutti gli effetti, una qualsiasi rete elettrica
potrà sempre essere riguardata come una vera e propria rete di bipoli.
Un bipolo elettrico si dice di tipo attivo quando in esso risultano inseriti dei generatori
elettrici (che possono agire nell'uno o nell'altro verso).
E’ invece chiamato bipolo di tipo passivo quel bipolo che non contiene generatori ed è
caratterizzato dalla sola presenza di resistenze.
Una delle configurazioni semplici, che può assumere un bipolo attivo è quella
rappresentata dal generatore di tensione, nel cui schema elettrico (come in figura) si
osserva la presenza della f.e.m. E posta in serie con la resistenza interna Ri. Come già è
noto, la relazione V(I) che in questi tipi di generatori lega la tensione ai morsetti V con la
corrente erogata I è espressa dalla seguente funzione lineare:
V = E - Ri I
Questa relazione esprime il fatto che: "La tensione disponibile ai morsetti del
generatore è data dalla differenza tra la f.e.m. E e la caduta ohmica interna Vi = Ri I"
Affinché a parità di corrente erogata I tale caduta interna sia la più bassa possibile è
necessario che la resistenza interna Ri del generatore risulti sufficientemente piccola: si
perviene così alla nozione di generatore di tensione ideale per il quale la resistenza
interna è ritenuta di valore nullo.
La proprietà fondamentale del generatore ideale è allora quella di poter fornire una
tensione costante V=E a qualsiasi valore di corrente erogata.
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pag. 25
In talune applicazioni può presentarsi la convenienza o la necessità di considerare le
sorgenti d’alimentazione di una rete (in altre parole i generatori), anziché nella forma di
generatori di tensione, nella forma di veri e propri generatori di corrente, in altre parole
nella forma di dispositivi che sono in grado di assicurare il mantenimento di una data
corrente nel circuito nel quale sono inseriti.
Il generatore di corrente viene rappresentato come un bipolo attivo costituito, da un
generatore di corrente costante Ic che ha in derivazione una certa conduttanza interna
Gi: in un dispositivo di questo genere la relazione I(V) che lega la corrente erogata I con
la tensione ai morsetti V è espressa dalla seguente funzione lineare.
I = IC - Gi V
La quale indica che: "La corrente disponibile all'esterno del generatore è data dalla
differenza fra la corrente generata Ic e la corrente derivata interna Ii=GiV"
Affinché a parità di tensione ai morsetti V tale componente interna della corrente sia la
più bassa possibile, è necessario che la conduttanza interna Gi risulti sufficientemente
piccola: si giunge così alla nozione di generatore di corrente ideale per la quale la
conduttanza interna Gi è di valore praticamente nullo, e che pertanto è in grado di fornire
al circuito una corrente costante I=Ic a qualunque valore della tensione ai morsetti.
La caratteristica corrente-tensione del generatore di corrente reale è rappresentata
dalla retta discendente 1, (come in figura); la retta orizzontale 2 rappresenta la
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medesima caratteristica del generatore ideale.
• Nei generatori di tensione si realizza la condizione di funzionamento a vuoto
quando il circuito utilizzatore esterno è aperto, perciò risulta Ru=∞, I=0, V=E.
• Nei generatori di corrente si realizza la condizione di funzionamento a vuoto
quando il circuito utilizzatore esterno è chiuso in cortocircuito, per cui risulta Gu=∞,
V=0, I=Ic.
In tutte le altre condizioni di carico, con i due tipi di generatori collegati
rispettivamente a un circuito di resistenza Ru o di conduttanza Gu, le equazioni di
funzionamento risultano:
• Per il generatore di tensione: I=E/(Ri+Ru) ; V=RuI
• Per il generatore di corrente: V=IC/(Gi+Gu) ; I=GuV
Un generatore di corrente può essere trasformato in un generatore di tensione ad esso
equivalente, e viceversa.
"Due generatori sono fra loro equivalenti se a circuito aperto (I=0) essi presentano la
stessa tensione ai morsetti U0 e la stessa resistenza ai morsetti R0".
La R0 rappresenta la resistenza vista fra i morsetti dei generatori di tensione o di
corrente: essa è definita ponendo E=0 (cortocircuito) e Ic=0 (interruzione) nei rispettivi
circuiti equivalenti.
Ne segue che fra un generatore di tensione e un generatore di corrente, la condizione
di equivalenza è assicurata se sono verificate le seguenti uguaglianze (queste relazioni
permettono il passaggio diretto dall'uno all'altro tipo di generatore):
V0 = E = IC/Gi
IC = E/Ri
R0 = R1 = 1/Gi
Gi = 1/Ri
Il funzionamento a regime stazionario di una rete elettrica è caratterizzato da ben
determinati valori delle correnti nei vari lati, e dei potenziali dei vari nodi: analizzare o
risolvere una rete significa determinare tali correnti e tali potenziali (o più spesso le
tensioni fra le varie coppie di nodi).
Per le reti di tipo lineare (in pratica costituite da rami assimilabili a bipoli lineari)
esistono metodi di studio per via algebrica del tutto generale, date che siano
naturalmente le caratteristiche elettriche dei singoli bipoli oltre che lo schema delle loro
connessioni, e cioè nota che sia l'intera struttura della rete.
Se lo studio è limitato alla determinazione delle correnti o delle tensioni di alcuni
soltanto dei bipoli componenti, si parla d’analisi parziale della rete.
In ogni caso lo strumento basilare dello studio è costituito dall'impiego delle due leggi
di Kirchhoff, sia per applicazione diretta, sia più spesso secondo forme e metodi
particolari rivolti a semplificare e a snellire i calcoli.
Ai principi di Kirchhoff si affianca la legge specifica dei singoli bipoli rappresentata
dalla legge di Ohm generalizzata.
Analisi delle reti mediante i principi di Kirchhoff
Per una rete elettrica comunque conformata e comunque estesa valgono le note leggi
o principi di Kirchhoff che rappresentano le leggi fisiche cui obbediscono tensioni e
correnti delle reti.
• Primo principio
"In ciascun nodo la somma algebrica delle correnti è uguale a zero" Σa I = 0
Nella somma algebrica, le correnti che entrano nel nodo vanno considerate di segno
opposto a quello delle correnti che n’agiscono.
• Secondo principio
"In ciascun nodo la somma algebrica delle correnti è uguale a zero" Σa V = 0
Prestabilito un verso di percorrenza della maglia, e assunte inoltre come positive le
cadute ohmiche dovute a correnti concordi col verso di percorrenza e negative le altre,
quest’enunciato può essere scritto anche nella seguente forma: Σa E = Σa RI la quale
indica che: "In ciascuna maglia la somma algebrica delle f.e.m. è uguale alla somma
algebrica delle cadute ohmiche"
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I due principi di Kirchhoff, nelle forme sopra enunciate, consentono di scrivere, per
qualsiasi rete elettrica, un numero n d’equazioni fra loro indipendenti, tante quante sono i
lati l della rete. Se le incognite, come normalmente avviene, sono rappresentate dalle
correnti dei vari lati, il sistema d’equazioni che può essere impostato consente quindi di
determinare unicamente, in valore e segno, tali correnti incognite.
Una volta determinate le correnti, si rende possibile il calcolo delle rimanenti incognite
della rete che sono rappresentate, ancora in numero di l, dalle tensioni che si stabiliscono
fra i due terminali di ciascun ramo: è chiaro, infatti, che una rete elettrica formata da l
rami si presenta sempre, in generale, con un numero complessivo di incognite pari a 2l;
incognite che sono costituite dall'insieme delle correnti e delle tensioni relative a ciascuno
dei rami della rete.
Note le correnti, per il calcolo delle tensioni si fa ricorso alla legge di Ohm
generalizzata, che fornisce per ciascuno dei bipoli costituenti i vari lati una relazione del
tipo: V+ΣaE=ΣaRI ove come unica incognita sia ha precisamente la tensione V esistente
fra gli estremi del lato. L'applicazione pratica del metodo di Kirchhoff richiede, come
condizione essenziale, l'indipendenza delle equazioni che figurano nel sistema risolvente.
Tale indipendenza è assicurata se: nell'applicazione del primo principio si scelgono
tutti e soli i nodi sui quali converge almeno uno dei lati non precedentemente considerato
nell’applicazione del secondo principio si scelgono tutte e sole le maglie che contengono
almeno un lato non precedentemente considerato.
In base a ciò nell'applicare il primo principio basterà prendere in considerazione (una
sola volta) tutti gli n nodi della rete meno uno, per scrivere (n-1) equazioni ai nodi;
nell'applicare invece il secondo principio per impostare le rimanenti l- (n-1) equazioni
indipendenti, converrà di volta in volta contrassegnare i lati utilizzati così da rendere
direttamente riconoscibili quelle maglie della rete che presentano almeno un lato non
ancora utilizzato: il sistema di equazioni sarà completo quando tutti i lati, secondo tale
procedimento, risulteranno contrassegnati.
Teorema di Millman
Il metodo dei potenziali di nodo trova un caso particolare d’applicazione molto
importante nelle reti binodali, vale a dire in tutte quelle reti che sono costituite da tanti
rami derivanti tutti fra due soli nodi come A e B della figura. Per reti di questo tipo si ha
una sola equazione di potenziale di nodo, che si presenta nella forma:
(G1 + G2 + ... + Gn) VA = IC1 + IC2 + ... ICn
Se si assume il nodo B come riferimento, e se ciascun ramo viene considerato sotto la
forma di generatore di corrente. I coefficienti G1, G2, ..., Gn sono quindi le conduttanze di
ciascuno dei rami derivanti, mentre i termini a secondo membro rappresentano le
correnti di generatore presenti in tali rami.
Poiché si ha VB=0 è possibile scrivere VAB=VA-VB=VA
Dalla (G1+G2+...+Gn)VA=IC1+IC2+...ICn si ricava allora la importante relazione
VAB=(IC1+IC2+...+ICn)/(G1+G2+...+Gn)
Che consente di calcolare direttamente la tensione fra due nodi A e B della rete.
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Naturalmente se, come in figura, i rami derivati sono costituiti da generatori di tensione
la relazione è ancora valida purché i termini a numeratore si scrivano nella forma:
IC1=G1E1=E1/R1
;
IC2=G2E2=E2/R2
;
ICn=GnEn=En/Rn
avendo indicato con E1, E2, ..., En le f.e.m. inserite nei vari lati, e con R1, R2, ..., Rn le
resistenze dei medesimi. In questo caso conviene quindi porre
VAB=(G1E1+G2E2+...+GnEn)/(G1+G2+...+Gn)
Entrambe queste relazioni esprimono il teorema di Millman che può essere così
enunciato: "La tensione che si ha fra due nodi tra i quali sono derivati un numero
qualsiasi di rami fra loro in parallelo è data dal rapporto fra la somma algebrica delle
correnti di cortocircuito dei singoli rami e la somma delle conduttanze dei rami stessi"; e
di fatti ciascuna dei termini a numeratore delle relazioni esprime precisamente la
corrente che si stabilirebbe nel ramo in cui si riferisce qualora i due nodi A e B venissero
collegati fra loro in cortocircuito.
Metodo della sovrapposizione degli effetti
Anche se i metodi d'analisi fin qui esaminati sono del tutto sufficiente per risolvere i
problemi relativi alle reti elettriche, il loro impiego pratico per lo studio di reti complesse
potrebbe rivelarsi alquanto laborioso per l'elevato numero d’equazioni del sistema
algebrico risolvente.
Si sono perciò sviluppati altri metodi di studio, che consentono di procedere
speditamente, specie se si tiene conto che non sempre è richiesta l'analisi completa di
una rete elettrica, ma in molti casi è sufficiente un’analisi parziale, finalizzata ad esempio
al calcolo di una sola corrente. Uno di questi metodi è basato sul principio di
sovrapposizione degli effetti.
Questo fondamentale principio afferma in generale che: "In un sistema fisico di
caratteristiche lineari, l'effetto prodotto da più cause concomitanti è pari alla somma
algebrica degli effetti prodotti singolarmente da ciascuna causa".
Applicato alle reti elettriche lineari, il principio di sovrapposizione può essere così
enunciato: "In una rete elettrica lineare alimentata da più generatori, la corrente e la
tensione che interessano ciascun lato sono date dalla somma algebrica delle correnti e
delle tensioni che sono prodotte in quel lato da ogni singolo generatore agente da solo"
A titolo d’esempio si consideri la semplice rete, come in figura, dalla quale si vogliano
determinare la corrente I e la tensione VAB del ramo centrale. In base al principio di
sovrapposizione degli effetti, queste due grandezze sono esprimibili per mezzo delle
seguenti relazioni:
I=I'+I"; VAB=V'AB+V"AB
Ove la corrente I' e la tensione V'AB sono la corrente e la tensione che si hanno nel
ramo considerato quando nella rete agisce soltanto il primo generatore (in pratica il
generatore di corrente) conformemente allo schema in figura a; la corrente I" e la
tensione V"AB sono invece la corrente e la tensione che interessano lo stesso ramo
quando agisce soltanto il secondo generatore, conformemente allo schema della figura B.
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E' chiaro, naturalmente, che per consentire di volta in volta soltanto l'azione di un
singolo generatore occorrerà sopprimere contestualmente l'azione di tutti gli altri,
ponendo per essi la condizione E=0 se si tratta di generatori di tensione e Ic=0 se si
tratta di generatori di corrente: all'atto pratico bisognerà quindi sostituire con un
cortocircuito le f.e.m. da sopprimere e con un’interruzione le correnti di generatore,
lasciando invece presenti nella rete le resistenze interne e le conduttanze interne di
ciascuno dei generatori soppressi.
Il principio di sovrapposizione degli effetti, può costituire in molti casi un prezioso
ausilio nello studio e nell’interpretazione del funzionamento di una rete lineare.
E' del tutto evidente, infatti, la notevole semplificazione concettuale e pratica che si
può conseguire dovendo valutare non l'effetto complessivo di tanti generatori che
agiscono contemporaneamente, bensì l'effetto di un singolo generatore per volta.
Principio del generatore equivalente
Si consideri come in figura A una rete elettrica che fa capo a due morsetti A e B
(attraverso i quali la rete può essere connessa con un semplice bipolo passivo esterno, o
più in generale con un'altra porzione di rete qualsiasi).
La rete considerata sia costituita da generatori di tensione, da generatori di corrente e
da resistenze, comunque collegati fra loro: il principio del generatore equivalente
stabilisce che la rete facente capo ai morsetti A e B può essere sostituita da un
generatore di tensione (di caratteristiche opportune) o da un generatore di corrente,
come schematizzato nelle figure B e C, senza con ciò alterare il funzionamento del
circuito che è collegato in A e B esternamente ad essa.
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Teorema di Thévenin
Le caratteristiche del generatore equivalente di tensione sono stabilite dal seguente
teorema: "Una rete elettrica lineare si comporta, rispetto a due suoi punti A e B qualsiasi,
come un generatore di tensione che presenta una f.e.m. di valore uguale alla tensione
VAB0 esistente (a vuoto) fra quei due punti, e che ha una resistenza interna di valore
uguale alla resistenza vista dagli stessi punti della rete"
Per determinare la f.e.m. del generatore equivalente Eeq si dovrà dunque considerare
la rete nella sua condizione di funzionamento a vuoto, vale a dire nella condizione di
circuito esterno aperto (o staccato) perciò sia I=0, come in figura: in questa condizione si
calcola la tensione VAB0 e si pone Eeq=VAB0
Analogamente, per la resistenza interna del generatore equivalente si porrà Req=RAB0 e
si calcolerà cioè la resistenza che la rete offre tra i due punti A e B in assenza di circuito
esterno, con le f.e.m. interne corto-circuitate e con le correnti di generatore interrotte, e
cioè con la rete resa passiva, come schematizzato in figura.
La dimostrazione del teorema di Thévenin è basata sul concetto d’equivalenza fra reti
elettriche a due morsetti: "Due reti si dicono equivalenti, rispetto a due morsetti se l'una
rete può essere sostituita all'altra senza che cambi il funzionamento di un qualunque
circuito esterno collegato fra gli stessi morsetti".
In un sistema lineare, l'equivalenza di funzionamento così definita sussiste purché le
due reti abbiano lo stesso comportamento in due sole condizioni di carico, quali ad
esempio il funzionamento a vuoto (I=0; VAB=VAB0) e il funzionamento in cortocircuito
(VAB0=0; I=ICC):
a) con riferimento alla prima condizione, poiché in un generatore di tensione la d.d.p.
che si manifesta a vuoto fra i morsetti coincide col valore della sua f.e.m., per
l'equivalenza fra rete e generatore basta che risulti: Eeq=VAB0
b) con riferimento alla seconda condizione, poiché nel generatore la corrente di
cortocircuito incontra la sua resistenza interna Req, per l'equivalenza fra rete e
generatore basta che tale resistenza risulti di valore uguale a quello che la stessa
corrente di cortocircuito incontra per attraversare l'interno della rete dal morsetto
A al morsetto B, e cioè di valore uguale alla resistenza RAB0 vista fra tali due
morsetti guardando verso l'interno della rete.
Per verificare l'utilità di questo teorema nello studio parziale delle reti basterà il
semplice esempio applicativo che segue. Sia data la rete in figura 1 e si voglia
determinare la corrente I che percorre il ramo AB.
Si può immaginare di praticare le sezioni AC e BD, e di sostituire alle porzioni di rete
che si trovano alla sinistra di AC e alla destra di BD i rispettivi generatori equivalenti: così
facendo, la rete di partenza si trasforma nello schema molto più semplice riportato in
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figura 2 il quale permette di scrivere immediatamente la seguente relazione:
La f.e.m. e la resistenza interna del generatore equivalente si calcolano considerando i
circuiti A e B precedentemente raffigurati che forniscono rispettivamente:
•
Per il circuito A:
•
Per il circuito B:
Per il secondo generatore equivalente si dovrà invece considerare i circuiti C e D dai
quali si ricavano
Teorema di Norton
Oltre che con un generatore di tensione, una rete elettrica facente capo a due punti
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può essere sostituita anche con un generatore di corrente.
Le caratteristiche, che deve presentare questo tipo di generatore, sono indicate dal
Teorema di Norton che afferma: "Il generatore di corrente equivalente a una rete
collegata a due morsetti A e B è caratterizzata da una corrente generata ICeq di valore
pari alla corrente IABcc che si stabilisce in un collegamento di cortocircuito praticato fra A e
B, e da una conduttanza interna Geq di valore pari alla conduttanza vista fra gli stessi
morsetti"
Come esempio d’applicazione di questo teorema si consideri la rete indicata in figura A
e se ne determini il generatore equivalente di Norton rispetto ai punti A e B, come
schematizzato in figura B: (si tratta in pratica di trasformare un generatore di tensione
nel corrispondente generatore di corrente).
Il valore della corrente ICeq di questo generatore è quella che si stabilisce nel
collegamento di cortocircuito tra A e B come in figura A. Essa è espressa dalla seguente
relazione:
La conduttanza interna Geq è quella che appare fra i due morsetti A e B guardando
verso l'interno della rete (resa passiva). Nel caso in esame si ha (da figura B) la seguente
relazione:
Dal punto di vista applicativo, presenta un rilevante interesse la determinazione
sperimentale dei generatori equivalenti (di tensione o di corrente) di un’assegnata rete a
due morsetti. Per la determinazione del generatore equivalente di tensione (Thévenin)
basta eseguire due prove a vuoto sulla rete, consistenti in due misure di tensione (tra i
due punti cui la rete fa capo) per mezzo di due voltmetri con diversa resistenza interna
RV1 ed RV2: se V1 e V2 sono le tensioni così misurate si potrà scrivere il sistema (nelle
incognite Eeq ed Req)
Per determinare il generatore equivalente di Norton basta eseguire due prove di
cortocircuito, consistenti in due misure di corrente per mezzo di amperometri a
conduttanza interna diversa GA1 e GA2: se I1 e I2 sono le correnti misurate si ha il sistema
(nelle due incognite ICeq e Geq)
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Potenza ed energia
Sotto il nome d’energia di un sistema si denota la capacità che ha quel sistema di
trasformarsi compiendo un lavoro.
In base al principio della conservazione dell'energia, l'energia non può mai aumentare
né diminuire ma solo trasformarsi o trasmettersi da un sistema ad un altro.
Il lavoro compiuto serve a valutare la quantità d’energia trasformata o trasmessa.
L'energia si misura nella stessa unità in cui si misura il lavoro.
Nel sistema di misura SI tale unità è il joule.
L'energia può presentarsi sotto due forme fondamentali:
•
•
•
Cinetica: connessa all'inerzia dei corpi in movimento (in essa è da includersi
l'energia termica, dovuta ai moti vibratori delle particelle costituenti la materia).
Potenziale: connessa ai sistemi che sono mantenuti in uno stato d’equilibrio
forzato e che pertanto hanno la tendenza a mettersi in movimento.
Sono esempi d’energia potenziale l'energia posseduta dai corpi sospesi soggetti
alla forza di gravità, l'energia dei corpi elastici deformati, e l'energia elettrica
In ogni fenomeno in cui avviene una trasmissione d’energia di una data forma, oppure
una trasformazione d’energia da una forma ad un'altra si chiama con il nome di potenza:
"La quantità d’energia che si trasmette o si trasforma nell'unità di tempo"
Così se un sistema trasmette a un altro sistema, nell'intervallo di tempo Δt, una
quantità di energia pari a ΔW, si dirà che: il primo sistema sviluppa e trasmette al
secondo, che la assorbe, la potenza
In altri termini, se un sistema sviluppa e l'altro assorbe la potenza P, ciò significa che
nell'intervallo Δt il primo eroga e il secondo assorbe l'energia
Per poter valutare le potenze, è necessario definire la potenza unitaria, ossia quella
che si assume per unità di misura della potenza. Se nella relazione
Si pone ΔW=1J e Δt=1s risulta P=1J/s, e cioè nel Sistema Internazionale (SI) l'unità di
potenza è il joule/secondo, unità che viene denominata watt e indicata col simbolo W;
risulta quindi che
3
In pratica si usa spesso il multiplo kilowatt (kW) equivalente a 10 W.
Qualche volta si adotta pure, per misure di potenze rilevalnti, il megawatt (MW) che
6
9
equivale a 10 W, e il gigawatt (GW) corrispondente a 10 W e perciò a mille megawatt.
Per misure di potenze piccolissime si usa invece il milliwatt (mW) pari a un millesimo
-3
-6
di watt (10 W), e il microwatt (mW), pari a un milionesimo di watt (10 W).
Quindi si può dire che la potenza di 1 W compie nell'intervallo di tempo di 1 secondo
(s) il lavoro di 1 Joule (J), il che equivale a dire che 1 J corrisponde al lavoro di 1 Ws
(wattsecondo).
La stessa potenza di 1 W nel tempo di 1 ora (h) compie il lavoro di 3600 J, ossia 3600
Ws: questo lavoro si indica con il nome di wattora (Wh).
Analogamente si usa comunemente l'unità di energia kilowattora (kWh) prendendo
come unità di potenza il kilowatt, e come unità di tempo l'ora (h).
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Potenza elettrica
In ogni processo in cui l'energia elettrica (e cioè l'energia delle cariche elettriche) si
genera con spesa di energia di altra forma, o si trasmette per trasformarsi a sua volta in
altra energia, si dovrà indicare con il nome di potenza elettrica (rispettivamente
generata, trasmessa, assorbita) la quantità di energia elettrica che si mette in gioco
nell'unità di tempo.
Il lavoro elettrico che si mette in gioco nel trasferimento dell'unità di carica tra due
punti qualsiasi corrisponde, per definizione, alla tensione elettrica V che esiste fra questi
due punti.
Dato che in un circuito percorso da corrente accade, in ogni intervallo Δt, un
trasferimento di cariche ΔQ pari in valore al prodotto dell’intensità I di tale corrente per la
durata Δt, si comprende che la potenza elettrica resterà determinata dalle relazioni:
Essendo ΔW = V ΔQ l'energia messa in gioco dalle cariche nell'intervallo Δt.
In generale un circuito elettrico che presenta agli estremi una tensione costante V ed è
percorso da una corrente costante I, eroga oppure assorbe (a seconda dei casi) la
potenza elettrica espressa, in watt, dal seguente prodotto:
P =V ⋅I
Se il circuito rimane in funzione per un assegnato intervallo Δt, esso eroga oppure
assorbe un’energia che è espressa, in joule, dalle seguenti relazioni:
ΔW = P ⋅ Δt = V ⋅ I ⋅ Δt = V ⋅ ΔQ
Essendo ΔQ = I Δt la quantità d’elettricità che attraversa il circuito nell'intervallo di
tempo.
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Legge di Joule
Sia dato un conduttore, di resistenza elettrica R, percorso da una corrente d’intensità
I.
La legge di Ohm, applicata a questo conduttore, è espressa dalla relazione V=RI, se
con V si indica la tensione fra gli estremi del conduttore considerato come in figura 1
2
P = RI
Figura 1 - Resistenza elettrica R percorsa dalla corrente I
La potenza che il conduttore assorbe dalla rimanente parte del circuito cui appartiene
è data dal prodotto: P=V I
Sostituendo a V il valore di RI fornito dalla legge di Ohm, la potenza assorbita rimane
espressa dalla seguente relazione:
2
P=VI=RII=RI
Si può osservare subito che questo risultato è indipendente dal verso che la corrente
2
ha nel tratto di conduttore considerato, perché il prodotto RI si mantiene in ogni caso
positivo. Inoltre, la potenza P è proporzionale alla resistenza R del conduttore e al
quadrato della corrente I che lo percorre.
Come è noto, la resistenza elettrica deriva dall'attrito interno che si oppone allo
spostamento degli elettroni nel filo metallico (cioè alla corrente): è perciò evidente che la
potenza elettrica P altro non può essere se non la potenza che resta impegnata a
produrre lo spostamento degli elettroni contro le resistenze passive che li frenano: tale
potenza si trasforma in calore, ed è ciò che l'esperienza conferma (effetto joule).
Il fisico Joule (a sinistra), per primo determinò con
accurate esperienze la quantità di calore che si sviluppa
quando una corrente attraversa un conduttore di resistenza
nota, e giunse così a enunciare la seguente legge, nota
appunto sotto il nome di legge di joule: "In un tratto di
circuito di resistenza elettrica R, percorso da una
corrente di intensità costante I, si sviluppa, ad ogni
secondo una quantità di calore equivalente alla
2
potenza elettrica P= RI "
Talvolta conviene esprimere la potenza dissipata per
effetto Joule in funzione della tensione V agente ai capi della
resistenza R come in figura 2.
2
P = V /R
Figura 2 - Resistenza elettrica R alimentata alla tensione V (U nel disegno)
Avendosi in tal caso I=V/R l'espressione della potenza assume la forma:
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V2
P =V ⋅I =
R
L'effetto Joule è utilizzato, in particolare, oltre che in taluni forni industriali, nelle
lampade ad incandescenza e in tutti gli apparecchi elettrici di riscaldamento a resistenza
(ferri da stiro, stufe, bollitori, scaldabagni ecc.).
In questi apparecchi interessa concentrare la resistenza riscaldante nel minor spazio
compatibile con la potenza dell'apparecchio e con le esigenze relative alla massima
temperatura di esercizio che si vuol realizzare; tali resistenze vengono costruite in fili o
nastri di metalli o di leghe speciali ad alta resistività atte a sopportare, senza ossidarsi o
corrodersi, la temperatura di regime che deve essere raggiunta: così nelle lampade a
incandescenza si usano filamenti di tungsteno, sotto vuoto o in gas inerte; nei comuni
apparecchi di riscaldamento sono invece usate leghe di nichelcromo.
In tutte queste applicazioni la quantità di calore ΔQc che viene prodotta per effetto
Joule in un tempo Δt prefissato si calcola immediatamente ricordando che in ogni
trasformazione di energia in calore, la quantità di energia di 1 kWh produce una quantità
di calore pari a 860 kcal: ne consegue che entro un apparecchio elettrotermico che
assorbe una potenza elettrica P (kW), nel tempo di Δt ore viene generata una quantità di
calore espressa dalla seguente relazione:
ΔQc (kcal) = 860 x P (kW) x Δt (h)
Nei circuiti elettrici che hanno tutt'altro scopo che quello di produrre del calore,
l'effetto Joule rappresenta sempre una inevitabile perdita di potenza, che va a detrimento
del rendimento dell'impianto.
Nei circuiti interni delle macchine elettriche, e lungo i fili delle linee di
trasmissione dell'energia, si deve contenere questa perdita di potenza entro
limiti tollerabili, proporzionando adeguatamente la sezione dei conduttori,
anche al fine di contenere le sopraelevazioni di temperatura al disotto di quei
valori oltre i quali sarebbe compromessa la buona conservazione degli
isolamenti.
Bilancio delle potenze nei generatori
Si consideri un generatore elettrico avente una f.e.m. costante E e resistenza interna
Ri, come in figura.
Se si ricorda che la f.e.m. è definita come il lavoro elettrico che corrisponde al
trasferimento dell'unità di carica dal polo negativo al polo positivo, si comprende che, se
il generatore viene attraversato nel verso della f.e.m. da una corrente I vuol dire che
esso imprime a tale corrente un’energia al secondo, e cioè una potenza, pari al prodotto
E x I.
Ne segue che: "La potenza generata da un generatore elettrico è rappresentata
dal prodotto della sua f.e.m. E per la corrente I che esso eroga".
Indicando questa potenza con Pg si avrà quindi (in watt) Pg=E I
Se il circuito interno del generatore fosse privo di resistenza (e non provocasse quindi
alcuna dissipazione d’energia elettrica in calore) l'intera potenza generata Pg sarebbe
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assunta come energia delle cariche elettriche uscenti dal morsetto positivo del
generatore.
D'altra parte, la presenza di una certa resistenza interna Ri provoca una caduta di
tensione interna pari a Ri I e la tensione disponibile ai morsetti si riduce al valore
UAB = VAB = E - Ri I
Corrispondentemente la potenza elettrica P che esce effettivamente dal generatore e
che è assorbita dal circuito esterno è determinata dalla seguente relazione
2
P = VAB I = E I - Ri I
Si può dunque affermare che la potenza erogata da un generatore è data dal prodotto
della tensione ai morsetti per la corrente, ed è uguale alla potenza elettrica che esso
genera diminuita dalla perdita interna per effetto Joule
2
Pi = Ri I
Il rapporto fra la potenza erogata P e la potenza generata Pg definisce il rendimento η
del generatore. E’ in pratica
Il valore della corrente I che è erogata dal generatore dipende dal valore della
resistenza esterna R in base alla relazione
Per valori diversi della resistenza R, diverse risultano le condizioni di lavoro del
generatore e, in particolare, diverse sono le perdite interne e il rendimento: se la
resistenza di carico è elevata, minore sarà la corrente erogata, minori risulteranno le
perdite interne e maggiore sarà il rendimento; il contrario avviene se la resistenza R
presenta valori ridotti.
La massima corrente che un generatore può erogare, senza che il rendimento scenda
al di sotto di un valore prefissato, dipende dalle sue dimensioni costruttive.
Così ogni generatore è caratterizzato dalla sua f.e.m. e dalla massima
corrente che esso può erogare con un dato rendimento, la quale è designata
come la corrente di pieno carico o corrente nominale In del generatore.
Se il generatore eroga una corrente maggiore, si dice che esso lavora in sovraccarico.
In tali condizioni il rendimento diminuisce tanto più quanto maggiore è il sovraccarico,
e la buona conservazione del generatore può risultare compromessa in conseguenza della
eccessiva sopraelevazione di temperatura provocata dalle maggiori perdite.
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Potenza assorbita da una f.c.e.m.
Si consideri un generatore AB avente f.e.m. E e resistenza interna Ri, che si trovi
collegato in opposizione a un altro generatore avente f.e.m. E1 maggiore di E, e
resistenza interna Ri1.
In tal caso la corrente circola nel verso della f.e.m. prevalente, e perciò nel verso
opposto all'altra, la quale agisce pertanto come una forza controelettromotrice (f.c.e.m.).
Posto quindi E1>E, nel circuito chiuso formato dai due generatori si costituisce una
corrente I espressa dalla seguente relazione
Essendo RT la somma di tutte le resistenze dell'intero circuito.
Nel generatore AB la corrente entra dal morsetto a potenziale maggiore VA ed esce da
quello a potenziale minore VB: ciò significa che questo generatore assorbe la potenza
Pa = VAB I
D'altra parte se la corrente I entra per il morsetto positivo di questo generatore vuol
dire che la tensione VAB vince la f.c.e.m. E che la contrasta e vince in più la caduta
interna Ri I. Si ha così
VAB = E + Ri I
Corrispondentemente anche la potenza elettrica assorbita Pa viene a suddividersi nei
due termini della somma:
2
Pa = VAB I = E I +Ri I
Il secondo termine rappresenta la potenza:
2
Pi = Ri I
Che è dissipata in calore per effetto joule nella resistenza interna Ri.
Il primo termine PE=EI esprime invece la potenza elettrica che resta impegnata a
vincere la f.c.e.m. che contrasta la corrente, in altre parole rappresenta la potenza
assorbita da questa f.c.e.m..
Questa potenza elettrica deve trasformarsi in energia d'altra forma, attraverso quello
stesso processo fisico da cui prende origine la f.c.e.m.: ad esempio, nel circuito interno di
un motore elettrico si origina una f.c.e.m. che si oppone alla corrente; l'energia elettrica
che occorre spendere per vincere questa f.c.e.m si trasforma in energia meccanica che
viene trasmessa all'asse del motore.
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Il campo elettrico
Sono chiamati fenomeni elettrostatici tutti quei fenomeni elettrici che sono prodotti
nello spazio (e nei corpi che vi sono immersi) dalle cariche elettriche libere, positive o
negative, che si trovano in equilibrio statico (vale a dire ferme) sui corpi comunque
elettrizzati. Se si ricorda che, in base alla legge di Coulomb, le cariche elettriche agiscono
mutuamente le une sulle altre con delle attrazioni e repulsioni reciproche le quali si
esercitano in tutte le direzioni che si irradiano da ciascuna di esse, si intuisce che le
azioni elettriche non si manifestano solo in seno ai corpi nei quali sono contenute, ma si
estendono invece e investono l'intero spazio circostante: l'esperienza prova infatti che
tutte le azioni elettriche si esercitano a distanza anche attraverso lo spazio vuoto senza
l'intervento di nessuna continuità materiale che debba trasmetterle.
Una carica elettrica puntiforme, positiva o negativa, agisce radialmente in tutte le
direzioni su tutte le altre cariche che si trovano immerse nell'intero spazio circostante:
essa respinge tutte le cariche d’eguale segno e attrae invece le cariche di segno opposto.
Si esprime questo fatto dicendo che ogni carica positiva o negativa, considerata a sé
produce, nell'intero spazio circostante in cui è immersa, un campo elettrico.
Inversamente ogni carica elettrica, positiva o negativa, si trova sempre soggetta ad
una forza che è la risultante delle attrazioni e delle repulsioni che essa risente dalle
singole cariche elementari circostanti. Questo fatto può essere espresso affermando che
ogni carica elettrica subisce l'azione del campo elettrico risultante dall'azione dei campi
propri di tutte le cariche rimanenti. Generalizzando i concetti esposti, si definisce come
campo elettrico: "Ogni regione dello spazio in cui si manifestano delle forze elettriche, in
pratica ogni regione dello spazio in cui ogni carica elettrica che vi è immersa si trova
soggetta ad una forza che tende a muoverla secondo una direzione determinata".
•
Intensità del campo
L'esistenza o meno di un campo elettrico in una data regione dello spazio può essere
rivelata sperimentalmente per mezzo di una carica elettrica di prova che venga posta di
seguito nei vari punti della regione considerata. Nei punti in cui tale carica di prova è
soggetta ad una forza, qui esisterà un campo elettrico, il quale sarà considerato tanto più
intenso quanto più intensa è la forza rilevata.
Per esprimere una misura dell’intensità del campo elettrico si fa riferimento alla forza
che agisce sulla carica di prova unitario positivo. Quindi se F è il vettore che individua in
ampiezza, direzione e verso la forza che agisce su una carica di prova di valore generico
Q, si sosterrà che nel punto in cui tale carica è stata collocata esiste un campo la cui
intensità è rappresentata dal vettore K definito dalla seguente relazione
L'intensità del campo elettrico è pertanto definita in valore e verso dal vettore K che
rappresenta la forza coulombiana che il campo esercita sull'unità di carica positiva
idealmente concentrata nel punto considerato.
L'unità di misura dell'intensità di campo è il newton a coulomb (N/C).
Ove sia noto il vettore K nei vari punti del campo elettrico, è possibile determinare in
valore e verso le forze meccaniche che agiscono su cariche elettriche di valore Q qualsiasi
supposte concentrate in tali punti. Dette forze F sono date dalla seguente relazione
Gli effetti che sono prodotti dall'azione di queste forze dipendono naturalmente dal
grado di mobilità delle cariche che le risentono: in particolare se una carica positiva o
negativa si trova immersa in un campo elettrico qualunque ed è perfettamente libera di
muoversi, essa descrive una traiettoria ben definita rappresentata dalla linea che ha per
tangente nei vari punti la direzione assunta in quei punti dalla forza che la trascina:
questa linea prende il nome di linea di forza del campo.
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Per mezzo delle linee di forza è possibile dare una rappresentazione grafica della
conformazione del campo elettrico. In una siffatta rappresentazione si assume
convenzionalmente come verso positivo delle linee di forza il verso in cui sono sollecitate
a muoversi le cariche positive.
Figura A: le linee di forza convergono su una sfera elettrizzata negativamente
Figura B: le linee di forza divergono da una sfera elettrizzata positivamente
Ad esempio il campo elettrico prodotto da una sfera elettrizzata isolata nello spazio si
rappresenta rispettivamente come in figura A e B secondo che la sfera porti degli
elettroni in eccesso oppure in difetto, e cioè secondo che la sfera sia elettrizzata
negativamente o positivamente: nel primo caso il verso delle linee di forza converge sulla
sfera perché tale è il verso in cui essa tende ad attrarre le cariche elementari positive
situate in punti come P nello spazio circostante; nel secondo caso invece il verso delle
linee di forza diverge dalla sfera elettrizzata positivamente perché le cariche elementari
positive dello spazio circostante vengono respinte. In generale si può dire che le linee di
forza elettriche divergono sempre dai corpi elettrizzati positivamente e convergono sui
corpi elettrizzati negativamente.
•
Il campo elettrico uniforme
Ogni processo d’elettrizzazione dei corpi avviene sempre per separazione di un certo
numero di cariche elementari positive e negative inizialmente compenetrate fra loro a
costituire lo stato elettricamente neutro.
Ne segue che per produrre nello spazio un campo elettrostatico è necessario disporre
di almeno due corpi ad uno dei quali venga sottratto un certo numero di elettroni per
comunicarli in eccesso all'altro.
In generale i corpi interessati a questo trasferimento di cariche sono costituiti da due
(o più corpi metallici isolati ai quali si da comunemente il nome di armature del campo:
dalla forma e posizione reciproca di tali armature dipende la distribuzione spaziale del
vettore campo elettrico K e cioè l'andamento delle linee di forza del campo. Il caso più
semplice è rappresentato dal campo elettrico a geometria piana che si può ottenere
collegando ai due poli opposti di un generatore elettrico, di f.e.m. E, due armature piane
A e B, d’estensione illimitata, disposte parallelamente l'una all'altra alla distanza d e
separate fra loro da un qualunque mezzo fisico isolante come in figura.
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Nell'atto in cui si chiude l'interruttore S, il generatore sposta verso l'armatura B
connessa al polo negativo, un certo numero di elettroni i quali vanno a costituire su di
essa una carica negativa -Q avente un certo potenziale VB; contemporaneamente
sull'altra armatura A si scoprono altrettante cariche elementari positive che nel loro
insieme costituiscono la corrispondente carica positiva +Q con potenziale VA.
Questo processo, si arresta, quando l'entità e la distribuzione delle cariche elettriche
così disgiunte sono tali da produrre una d.d.p. VAB=VA-VB pari al valore della tensione E
fornita dal generatore. Dopo di ciò il generatore può essere staccato dai due piani A e B,
su ognuno dei quali permane fissa e in equilibrio la rispettiva carica ±Q, e quindi
permane anche la d.d.p. VAB agente fra le due armature.
Data la mobilità delle cariche elettriche nei conduttori è facile intuire che a equilibrio
raggiunto le due cariche +Q e -Q risultano uniformemente distribuite sulle superfici
contrapposte delle due armature: in queste condizioni, se nello spazio interposto si
colloca un corpuscolo elettrizzato con una piccola carica di prova +Qp, questo è respinto
da tutte le cariche d’eguale segno distribuite sui singoli elementi superficiali del piano A
ed è contemporaneamente attratto dalle corrispondenti cariche di segno opposto
distribuite sul piano B. Il corpuscolo considerato è pertanto soggetto ad un sistema di
forze coulombiane la cui risultante F è diretta ortogonalmente dall'armatura positiva A a
quella negativa B.
Sotto l'azione di questa forza il corpuscolo, posto inizialmente a contatto dell'armatura
positiva va senz'altro a cadere su quella negativa seguendo una traiettoria rettilinea.
Altrettanto accade se il corpuscolo di prova è posto in ogni altro punto del campo
compreso fra i due piani: escluse solo le regioni prossime ai bordi, nel caso d’armature
d’estensione finita, dove le traiettorie s’incurvano come in figura b).
Nel caso considerato, fra i due piani si costituisce dunque un campo elettrico a linee di
forza rettilinee e parallele, e la forza che sollecita la carica Qp è costante in tutti i punti: si
ha perciò un campo elettrico uniforme.
Se si ricorda che il vettore intensità di campo K rappresenta la forza che agisce sulla
carica di valore unitario, si può concludere che la d.d.p. VAB che si stabilisce fra le due
armature deve corrispondere al lavoro sviluppato dal vettore K quando sposta la carica
unitaria da un'armatura all'altra, e deve perciò valere la relazione
VAB = k d
Ne risulta, inversamente, che in un campo elettrico uniforme prodotto fra due
armature A e B poste alla reciproca distanza d e fra le quali sia applicata una tensione
VAB, il valore dell’intensità del campo è dato dal rapporto: K=VAB/d
Può essere espresso in volt al metro (V/m), oltre che in newton al coulomb. Infatti,
risulta
Se in luogo di due piatti metallici, si pongono due sfere S1 e S2, le linee di forza del
campo elettrico assumono l'andamento indicato in figura, il quale è dalla sovrapposizione
dei due campi radiali relativi ad ogni singola sfera. Un corpuscolo elettrizzato
positivamente posto ad esempio in P, è soggetto ad una forza repulsiva F1 da parte della
sfera positiva S1 e ad una forza attrattiva F2 da parte della sfera negativa S2: esso tende
pertanto a muoversi per un piccolo intervallo nella direzione della forza risultante F. Ma
non appena esso è giunto in un punto vicino P' le due forze che lo sollecitano mutano di
direzione e di intensità perché è variata la distanza del corpuscolo dalle due sfere, e
precisamente la forza F1 diminuisce e assume un nuovo valore F'1 e la F2 aumenta per
assumere il valore F'2; la forza risultante assume così il valore e la direzione F'.
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Procedendo in tal modo punto per punto, si riconosce che se il corpuscolo considerato
è inizialmente accostato alla sfera positiva esso è condotto dal campo elettrico a cadere
sulla sfera negativa, seguendo precisamente traiettorie del tipo rappresentato in figura
dalle linee di forza del campo.
Da quanto accennato, discende la seguente importante conclusione: le linee di forza di
un campo elettrico sono sempre delle linee limitate che congiungono con i loro estremi,
senza mai intrecciarsi, le superfici dei corpi sui quali sono distribuite le cariche di segno
opposto che producono il campo. Ogni linea di forza parte sempre da un corpo
elettrizzato positivamente e termina su un altro corpo elettrizzato negativamente.
•
Proprietà dei conduttori elettrizzati
Se si ricorda che ogni campo elettrostatico è per definizione riferita a una distribuzione
di cariche elettriche in equilibrio, e cioè ferme, ne discende che in ogni conduttore
comunque elettrizzato, il campo elettrico, deve essere necessariamente nullo in tutti i
punti interni alla superficie che lo delimitano. Si supponga, infatti, per assurdo, che ciò
non sia vero; in tal caso il campo elettrico agente nella massa del conduttore vi
promuoverebbe senz'altro un certo movimento degli elettroni liberi; ma rimanendo
invece ferme le cariche si deve concludere che nessun campo agisce su di esse.
Inoltre, le cariche di elettrizzazione possono distribuirsi soltanto sulla superficie del
conduttore, e mai possono penetrare all'interno: una carica che potesse penetrare
all'interno del conduttore dovrebbe produrre un campo elettrico nello spazio ad essa
circostante; ma, come si è visto, nei punti interni alla superficie dei conduttori elettrizzati
staticamente il campo deve risultare nullo.
Queste considerazioni permettono di affermare che la conformazione dei campi
elettrostatici soddisfa in ogni caso alle quattro condizioni seguenti
1) Nei conduttori elettrizzati staticamente, le cariche elettriche Q sono distribuite e
affiorano tutta sulla superficie esterna mentre all'interno si ha Q=0;
2) All'interno di un conduttore elettrizzato staticamente si ha sempre K=0, in pratica
è nullo il campo d’ogni punto;
3) Il campo prodotto dal conduttore elettrizzato presenta linee di forza tutte orientate
verso l'esterno in direzione normale alla superficie: se così non fosse, il vettore K
ammetterebbe la componente tangenziale Kt che farebbe spostare le cariche; il
campo K deve quindi coincidere necessariamente con Kn;
4) Fra ogni coppia di punti di un conduttore elettrizzato, non può esistere mai alcuna
differenza di potenziale perché diversamente, nel conduttore potrebbe manifestarsi
un movimento delle cariche: la superficie del conduttore delimita un volume i cui
punti hanno tutti lo stesso potenziale Vs ed è essa stessa una superficie
equipotenziale.
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Dalle proprietà indicate è in particolare che l'equilibrio elettrico di un conduttore
elettrizzato non è alterato, se s’immagina di scavare internamente il conduttore fino a
ridurlo ad un involucro anche sottilissimo: nell'interno di quest’involucro il campo elettrico
rimane sempre nullo, qualunque sia la carica elettrica distribuita sulla superficie esterna,
vale a dire qualunque sia l'intensità del campo elettrico nello spazio esterno all'involucro.
Si può quindi affermare che un involucro metallico completamente chiuso costituisce un
vero schermo elettrico, il quale protegge l'intera regione interna dalle azioni di tutti i
campi elettrici esterni (schermo di Faraday).
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Condensatori elettrici
Ogni coppia di conduttori isolati, l'uno rispetto all'altro fra il quale esiste o si può
stabilire un campo elettrico costituisce un sistema il qual è denominato condensatore. I
due corpi sui quali si distribuiscono le cariche elementari disgiunte che producono il
campo prendono il nome d’armature del condensatore. Le due armature sono separate
l'una dall'altra da un dielettrico che può essere il vuoto oppure, più comunemente, l'aria o
un qualunque materiale isolante solido o liquido.
Figura 1 - Schemi simbolici della capacità o del condensatore
Un singolo conduttore isolato, come ad esempio una sfera A (Fig.2) può essere
considerato come l'armatura di un condensatore di cui l'altra armatura è rappresentata
dal suolo e da tutti gli altri corpi circostanti come B appoggiati o connessi a terra. Se si
collega il corpo isolato a uno dei poli del generatore, collegando l'altro polo a terra, si
costituisce un campo elettrico le cui linee di forza si svolgono nello spazio fra il corpo
isolato e tutti i conduttori circostanti connessi a terra: dopo che il campo si è costituito,
esso permane anche togliendo i collegamenti col generatore perché le cariche elementari
che affiorano libere sul corpo isolato senza poterlo abbandonare attraggono e tengono in
equilibrio le cariche di segno opposto che affiorano sulle superfici di tutti i corpi
circostanti.
Figura2 - Formazione del campo elettrico fra un corpo isolato ed altri connessi al suolo
In definitiva si può concludere che ogni campo elettrico si svolge sempre fra le due
armature di un condensatore, sulle quali s’iniziano e terminano tutte le linee di forza del
campo: la qualità di cariche elementari positive (o negative) complessivamente
distribuite rispettivamente sull'una (o sull'altra) armatura costituisce la carica elettrica Q
del condensatore la quale viene misurata in coulomb.
Evidentemente la carica positiva di una delle armature è sempre uguale in valore alla
carica negativa dell'altra: si esprime quanto fatto dicendo che sulle due armature del
condensatore si hanno due cariche elettriche uguali ed opposte. In tali condizioni, fra le
due armature esiste una certa d.d.p. la quale costituisce la tensione elettrica V
corrispondente alla carica Q che si trova addensata sulle due armature del condensatore.
La quantità totale di elettricità Q che un condensatore assume sulle armature, positiva
da una parte e negativa dall'altra, sotto una tensione assegnata e costante, di valore V,
varia da un condensatore a un altro con la forma, l'estensione, e la posizione reciproca
delle armature, e inoltre anche con la natura del dielettrico interposto. In altri termini
due o più condensatori diversi, caricati tutti alla stessa d.d.p. V, assumono e trattengono
sulle rispettive armature delle quantità di elettricità differenti e cioè un diverso numero di
coulomb.
Si esprime brevemente questo fatto dicendo che i diversi condensatori hanno una
capacità diversa, e precisamente una capacità maggiore quelli che per una tensione
assegnata assumono sulle armature una maggiore quantità di cariche elementari, e
capacità minore invece quelli che assumono una quantità di elettricità minore.
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Si può inoltre rilevare sperimentalmente che, per un dato condensatore, la quantità di
elettricità Q che il condensatore presenta sulle sue armature e la corrispondente d.d.p. V
che intercede fra un'armatura e l'altra cresce e diminuiscono in proporzione.
Ne segue che, comunque si vari lo stato di carica di un condensatore, il rapporto fra la
quantità di elettricità Q che si trova sulle armature e la corrispondente tensione elettrica
V che intercede fra un'armatura e l'altra rimane sempre costante, e costituisce pertanto
una grandezza fisica caratteristica che ha un valore proprio e specifico per quel singolo
condensatore.
Alla grandezza così definita si assegna il nome di capacità elettrostatica C del
condensatore, e si pone senz'altro: C=Q/V
La capacità di un condensatore esprime dunque la carica elettrica che esso può
assumere, rapportata all'unità di tensione, e cioè la quantità di elettricità che viene a
trovarsi contrapposta sulle armature del condensatore, positiva da una parte e negativa
dall'altra, quando esiste fra di esse la tensione di un volt: in altri termini
La capacità di un condensatore esprime il numero costante di coulomb, che deve
essere di volta in volta dislocati sulle armature, affinché la tensione fra l'una e l'altra si
elevi ogni volta e progressivamente di un volt
Così se la capacità di un condensatore è C, la quantità totale di elettricità Q che si
trova contrapposta sulle armature quando fra l'una e l'altra esiste la differenza di
potenziale V è data in coulomb dal prodotto: Q = C V
Inversamente, quando sulle armature di un condensatore di capacità C si trasporta in
un modo qualunque una quantità di elettricità Q (positiva sull'una e negativa sull'altra)
fra le armature si stabilisce una tensione: V = Q/C
Dalle considerazioni esposte discende che la capacità di un condensatore è espressa in
coulomb a volt (C/V). Quest’unità prende il nome di farad (F). Perciò un condensatore ha
la capacità di un farad se assume la carica elettrica di un coulomb per ogni volt di
tensione fra le armature.
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Capacità del condensatore piano
I condensatori reali sono normalmente costruiti in modo che due superfici metalliche
sufficientemente estese risultino reciprocamente affacciate e separate da un sottile e
uniforme strato di materiale dielettrico: una simile struttura prende il nome di
condensatore piano, anche se spesso le armature assumono una forma incurvata, come
nei condensatori a nastri arrotolati (come in figura 1).
Figura 1 - Schema costruttivo di condensatore avvolto
Il condensatore piano può essere schematizzato come in figura 2 ove con d viene
indicata la distanza fra le due armature (e quindi lo spessore costante dello strato di
dielettrico interposto), e con S l'area delle due superfici affacciate.
Figura 2 - Per il calcolo della capacità di un condensatore piano
Per determinare la capacità di questo condensatore s’immagini di applicare fra le due
armature una tensione di valore V, collegando il condensatore ad un generatore.
In seguito a ciò le due armature si elettrizzano assumendo le due quantità d’elettricità
+Q e -Q di segno contrario ma uguali in valore.
Corrispondentemente, nello spazio interno al condensatore s’instaura un campo
elettrico uniforme la cui intensità e il cui spostamento sono espressi dalle seguenti
relazioni
K = V/d
D = εK = ε0εr V/d
Essendo ε=ε0 εr la costante dielettrica del materiale inserito fra le armature. Il vettore
spostamento esprime, com’è noto, il valore delle opposte qualità d’elettricità che risulta
distribuite su ogni unità di superficie delle armature.
Ne segue che la carica complessiva Q portata, con opposto segno, dall'intera superficie
S delle medesime armature è esprimibile per mezzo della relazione:
Q = D S = ε0 εr (V/d) s
Eseguendo il rapporto Q/V si ottiene la capacità C del condensatore piano, espressa in
farad, nella forma:
C = Q/V = ε0 εr S/d
Si vede quindi che la capacità è proporzionale alla superficie delle armature e
inversamente proporzionale alla rispettiva distanza, ed è inoltre proporzionale alla
costante dielettrica del mezzo interposto.
Se fra le armature si ha l'aria oppure il vuoto εr=1, la capacità del condensatore è del
valore
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Se invece fra le armature si ha un dielettrico solido o liquido con costante dielettrica
relativa εr ≠ 1 la capacità del condensatore si potrà esprimere per mezzo della relazione
Ne risulta che interponendo fra le armature di un condensatore un dielettrico
materiale, la capacità aumenta e diventa precisamente εr volte maggiore del valore C0
che compete al condensatore in aria.
Ciò dimostra che i dielettrici materiali non hanno la sola funzione passiva di isolare le
armature, ma esercitano invece anche una funzione attiva che si concreta in un aumento
della capacità del condensatore.
La costante dielettrica relativa εr dà precisamente la misura di questo aumento di
capacità rispetto all'aria e cioè definisce il rapporto fra la capacità C di un condensatore
avente per dielettrico il materiale considerato, e la capacità C0 che lo stesso
condensatore assume se fra le armature si interpone l'aria oppure il vuoto:
Per mezzo di questa semplice relazione si rende possibile determinare, attraverso sole
misure di capacità il valore della costante dielettrica relativa εr della maggior parte dei
materiali dielettrici usati nella tecnica.
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Transitori di carica e scarica
La costituzione di un campo elettrico fra le armature di un condensatore inizialmente
scarico vale a dire come sol dirsi, il processo di carica di un condensatore si compie con
uno scorrimento relativo fra le cariche elettriche di segno opposto, che sono disgiunte e
che affiorano libere sulle superfici delle armature. Tale scorrimento relativo di cariche
costituisce una corrente elettrica temporanea la quale prende il nome di corrente di
carica del condensatore.
Questa corrente, e la tensione vc ai capi del condensatore, varia nel tempo secondo gli
andamenti indicati dai grafici in figura.
Si osserva che la corrente di carica i inizia con la sua massima intensità del valore
I0=E/R
All'atto della chiusura del circuito di carica, avente resistenza R, per poi diminuire fino
a ridursi a zero; mentre la tensione vc fra le due armature del condensatore va
aumentando fino a raggiungere e uguagliare il valore della tensione d’alimentazione vale
a dire il valore E della f.e.m. della batteria.
Il tempo che decorre fra l'istante iniziale e l'istante in cui è raggiunto l'equilibrio Vc=E
rappresenta la durata del periodo transitorio di carica del condensatore. Si può dire che la
durata di questo periodo (indicato con T in figura) rappresenta l'intervallo di tempo che è
impiegato dalla corrente di carica i a trasportare sulle armature del condensatore la
quantità d’elettricità Q=C Vc che deve essere assorbita dalle armature del condensatore.
Gli andamenti indicati in figura, dalla corrente di carica i e della tensione ai capi del
condensatore vc, sono delle curve esponenziali espresse analiticamente, in funzione del
tempo t, dalle seguenti relazioni
Nelle precedenti relazioni, la grandezza τ è la costante di tempo del circuito di carica,
misurata in secondi e definita dall’espressione τ=RC.
Dal valore della costante di tempo τ, e quindi in sostanza dal valore di R e dal valore di
C, dipende la rapidità di variazione della I e della vc negli istanti immediatamente
successivi alla chiusura del circuito di carica.
E, infatti, come si vede dai grafici, la costante τ determina l’inclinazione delle rette che
sono tangenti alle due curve nel punto t=0.
Da questa grandezza dipende inoltre la durata T del processo di carica, data (in
secondi) dalla relazione
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Fenomeni analoghi si ripetono durante la scarica del condensatore, e cioè quando il
condensatore (preventivamente caricato) sia staccato dalla batteria d’alimentazione e
connesso a un circuito passivo avente una certa resistenza R di scarica.
In tale circuito si stabilisce istantaneamente una corrente I=Vc/R il cui verso è quello
dell'armatura positiva alla negativa, e quindi contrario al verso della corrispondente
corrente di carica: la corrente di scarica viene perciò rappresentata da una curva i con le
ordinate negative (come in figura).
Appena la carica ha inizio, la tensione fra le armature diminuisce e allora diminuisce in
valore anche l'intensità della corrente di scarica: in definitiva, durante il processo di
scarica si assiste a una graduale diminuzione della tensione vc ai capi del condensatore e
della corrispondente corrente di scarica (espressa in ogni istante dal rapporto i=vc/R),
fino ad annullarsi entrambe dopo un tempo T, che definisce il periodo transitorio di
scarica, dato ancora dalla
Le espressioni analitiche delle due curve esponenziali di scarica risultano
rispettivamente
E' chiaro che la quantità di elettricità che nel periodo di scarica viene trasportata dalla
corrispondente corrente, deve necessariamente coincidere con la quantità di elettricità Q
che era stata comunicata al condensatore durante la carica.
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5 - Collegamenti fra condensatori
In molte applicazioni tecniche, i condensatori sono raggruppati in batterie al fine di
conseguire la più adeguata ripartizione della tensione d’esercizio e della carica fra più
condensatori. In questi raggruppamenti i condensatori possono essere collegati fra loro in
parallelo oppure in serie. Si hanno inoltre i raggruppamenti stella-triangolo per le cui
trasformazioni valgono metodi analoghi a quelli considerati per le resistenze.
Collegamento in parallelo
Questo tipo di collegamento consente di aumentare la carica assorbita. Si ottiene
derivando i singoli condensatori di capacità C1, C2, ..., Cn, fra due nodi comuni A e B che
vengono a costituire i due morsetti della batteria di condensatori, come rappresentato
nelle figure.
Con questo tipo di collegamento si realizzano le proprietà seguenti:
-
Ciascun elemento è soggetto alla stessa d.d.p. VAB, corrispondente alla tensione
che si applica fra i due morsetti A e B;
Se i condensatori hanno le capacità C1, C2, ..., Cn, essi assumono le cariche
Q1 =C1
-
Q2 =C2 VAB
Qn =Cn VAB
La carica totale della batteria diviene così
Q = Q1 +Q2 + ... +Qn = (C1 +C2 + ... +Cn) VAB
-
L'intera batteria equivale perciò a un condensatore unico avente una capacità
equivalente è pari alla somma delle capacità dei singoli elementi.
Ceq = Q/VAB = C1 +C2 + ... +Cn
Il collegamento in parallelo di n condensatori uguali di capacità C, fornisce quindi una
capacità equivalente
Ceq = n C
•
Collegamento in serie
Questo collegamento consente di realizzare una batteria di condensatori atta a
sopportare una tensione d’esercizio in ogni modo elevata, pur contenendo la tensione
applicata a ciascun elemento entro un limite prefissato.
Tale collegamento corrisponde allo schema in figura ed è eseguito collegando a due a
due le armature dei condensatori intermedi escluse la prima e l'ultima alle quali fanno
capo i due morsetti A e B della batteria.
In tal modo, tutte le armature intermedie vengono a caricarsi per induzione
elettrostatica a partire dalle due armature estreme che vengono direttamente connesse
al circuito di carica.
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Il collegamento in serie viene ad assumere le proprietà seguenti:
-
I condensatori della serie accumulano tutti una egual carica elettrica Q, la quale
coincide anche con la carica totale della batteria;
-
Se i condensatori presentano le capacità C1, C2, ..., Cn, fra le armature rispettive si
manifestano le tensioni
V2 = Q/C2
Vn = Q/Cn
V1 = Q/C1
-
La tensione totale ai morsetti della batteria corrisponde alla somma delle tensioni
dei condensatori della serie vale a dire
-
L'intera batteria equivale a un condensatore unico avente una capacità equivalente
Nel collegamento serie la capacità risultante Ceq è dunque l'inversa della somma delle
inverse capacità dei singoli componenti.
La capacità equivalente è tanto più piccola quanto maggiore è il numero degli elementi
in serie, ed è sempre minore della più piccola fra le capacità dei singoli condensatori.
In particolare il collegamento in serie di n condensatori uguali di capacità C, fornisce
una capacità equivalente
In altre parole n volte più piccola di quella di ciascun elemento.
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Energia accumulata nel campo elettrico
Per produrre la separazione, fra cariche elettriche di segno opposto è sempre
necessario spendere un certo lavoro per vincere le forze attrattive attraverso cui tali
cariche tendono a ricongiungersi.
Ne risulta che per creare un campo elettrico fra le armature di un condensatore si
deve spendere un lavoro il quale si accumula e rimane disponibile allo stato d’energia
potenziale del campo finché il condensatore rimane carico, ed è restituito quando,
attraverso la scarica, il campo elettrico scompare.
Se la carica del condensatore è realizzata collegando le sue armature ai due poli di un
generatore elettrico, il lavoro di carica è compiuto appunto dal generatore che promuove
la corrente di carica.
L'entità di questo lavoro è indipendente dal modo con cui si effettua la carica del
condensatore: esso dipende esclusivamente, come facilmente si intuisce, dalla quantità
di elettricità Q che viene spostata sulle armature e dalla corrispondente tensione V che si
stabilisce fra un'armatura e l'altra in base alla nota relazione
Q=CV
E' chiaro che, se la tensione fra le armature del condensatore durante il processo di
formazione del campo mantenesse il valore costante V, allo spostamento da un'armatura
all'altra della quantità d’elettricità Q corrisponderebbe un lavoro espresso dal prodotto
QV. Ma durante la carica del condensatore la tensione fra un'armatura e l'altra va
aumentando gradualmente dal valore iniziale, che è nullo, fino a raggiungere il valore
finale dato dal rapporto
V = Q/C
E' facile intuire allora che il lavoro W che si deve spendere per eseguire la carica del
condensatore, e l'energia che in questo si accumula, deve essere espresso dal prodotto
della quantità d’elettricità Q che partecipa al fenomeno, per il valore medio della tensione
fra le due armature che è uguale a V/2. Si ottiene così l'espressione
W = Q V/2
Essendo Q=CV, la stessa energia W può essere espressa anche dalle seguenti relazioni
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I fenomeni magnetici
In natura esistono corpi che hanno (o possono acquistare) la proprietà di attrarre il
ferro. Questa proprietà è posseduta (magnete naturale) dalla magnetite; può essere
acquistata (magneti artificiali) dal ferro e sue leghe (ghisa e acciaio), da cobalto, dal
nichel e da certe leghe speciali (alluminio, nichel, cobalto).
I magneti artificiali possono essere permanenti o temporanei, a seconda che tendono
a conservare o a perdere facilmente le loro proprietà magnetiche.
I principali fenomeni magnetici sono i seguenti:
1) S’immerga nella limatura di ferro un magnete prismatico e lo si estragga senza
scuotimenti: si può constatare che una quantità di limatura rimane ad esso
aderente in corrispondenza delle estremità, che vengono perciò chiamate poli
magnetici.
2) Si sospenda liberamente un ago magnetico in corrispondenza del suo baricentro:
dopo alcune oscillazioni esso assume una posizione ben determinata, alla quale
spontaneamente ritorna ogni volta che ne sia rimosso; in questa posizione di libero
orientamento, l'ago volge una delle estremità e sempre la stessa, verso il polo
nord geografico della terra, l'altra estremità verso il polo sud. Questa
constatazione mette in evidenza che le due estremità dell'ago si comportano in
modo diverso: per distinguerle, si denomina polo nord quella che si rivolge al nord
della terra e polo sud l'altra estremità Su questa proprietà è notoriamente basata
la bussola.
3) Se al polo nord di un magnete si avvicina il polo nord di un altro magnete, si
costata fra le due estremità una vivissima repulsione (analogamente accade se si
avvicinano i due poli sud), e al contrario si avvicinano fra loro i poli opposti dei due
magneti, si costata un’energica attrazione. Si conclude che poli magnetici dello
stesso nome si respingono e poli magnetici di nome contrario si attraggono.
4) Se si avvicina a una delle estremità di un magnete una barretta di ferro, si può
constatare che questa assume senz'altro le proprietà di un magnete: si esprime
questo fatto dicendo che la barretta considerata viene magnetizzata per induzione
dal magnete (magnete induttore); le estremità del magnete indotto vengono
attratte dal magnete induttore: ciò vuol dire che il fenomeno dell'induzione
magnetica si manifesta per estremità magnetiche di segno opposto.
5) Suddividendo in parti un qualunque magnete, se ne ottengono sempre degli
elementi ciascuno dei quali si presenta ancora dotato delle proprietà di un magnete
(figura 1). Procedendo nella suddivisione anche fino all'estremo limite possibile, si
trova che ognuna delle minutissime particelle in cui la barra è stata suddivisa si
presenta sempre come un piccolissimo magnete.
Questa esperienza porta a raffigurare la costituzione di un qualsiasi corpo
magnetizzato come un aggregato di magnetini elementari nello stesso verso (figura 2):
estendendo questa ipotesi, si può ammettere che ogni corpo è costituito da magnetini
disposti senza alcun ordine (in maniera che le loro azioni si neutralizzano
vicendevolmente): il fenomeno della magnetizzazione può essere allora interpretato
come dovuto alla orientazione di tali magnetini in una direzione privilegiata.
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6) Si consideri un magnete prismatico (figura 3). Se si porta un ago magnetico nelle
sue vicinanze, si costata che l'ago prende una determinata orientazione secondo la
sua posizione rispetto al magnete. Ciò significa che sull'ago magnetico agiscono
determinate forze e che la direzione di questa varia secondo la posizione dell'ago.
Tali forze F1 e F2 agiscono in verso opposto sui poli dell'ago, formando una coppia
che determina la diversa orientazione dell'ago stesso.
La regione dello spazio in cui si manifestano le forze magnetiche prende il nome di
campo magnetico.
Per rappresentare graficamente la conformazione del campo si tracciano le linee di
forza del campo il quale è costituite dalle linee tangenti alle direzioni che sono assunte
dall'ago magnetico di prova nei diversi punti e orientare nel verso indicato dal polo nord
dell'ago. Queste linee di forza, all'esterno del magnete, partono dal polo nord e
raggiungono il polo sud.
Campi magnetici prodotti da correnti elettriche
Un conduttore percorso da corrente produce un campo magnetico nello spazio che lo
circonda. Il fenomeno può essere messo in evidenza, disponendo verticalmente un
conduttore rettilineo percorso da corrente (figura 1) e posizionando un ago magnetico di
prova nei punti circostanti. Si potrà affermare che l'asse dell'ago magnetico si dispone
sempre tangenzialmente ad un sistema di linee chiuse circolari concentriche al
conduttore.
Il verso delle linee di forza così generate è fornito dalla regola di Maxwell:
Il verso delle linee di forza del campo magnetico generato dalla corrente che percorre
un conduttore è quello secondo cui deve essere fatto ruotare un cavaturaccioli, coassiale
al conduttore, per farlo avanzare nel verso della corrente
Se il circuito percorso da corrente ha la forma di una spira circolare, il campo
magnetico generato assume l'aspetto rappresentato in figura 2, in cui si ravvisano ancora
tante linee di forza chiuse su se stesse e concatenate con la corrente della spira: il verso
delle linee può essere determinato applicando la regola di Maxwell, con il cavaturaccioli
disposto tangenzialmente alla spira.
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Viene designato col nome di solenoide un sistema di spire contigue e coassiali (figura
3). Il campo magnetico prodotto da un solenoide rettilineo si compone di un fascio di
linee di forza che attraversano il solenoide uscendo da un’estremità (polo nord) per
rovesciarsi all'esterno e richiudersi all'estremità opposta (polo sud).
Se il solenoide è abbastanza lungo, le linee di forza che lo attraversano sono parallele
fra loro: si può dire quindi che un solenoide allungato realizza nel suo interno un campo
magnetico uniforme.
Il campo prodotto da un solenoide percorso da corrente assume nello spazio esterno
una conformazione che è simile al campo prodotto da un magnete prismatico di uguali
dimensioni: le polarità magnetiche generate dipendono dal verso della corrente che
percorre il solenoide e possono essere individuate applicando la regola di Maxwell.
Analogamente ai magneti prismatici quando un solenoide o una spira sono immersi in
un campo magnetico, con il loro asse inclinato di un angolo α rispetto alla direzione del
campo (figura 4), sono soggetti a una coppia T che tende a orientare l'asse del solenoide
o della spira nel verso del campo.
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Inoltre, se di fronte ad un solenoide si pone un pezzo di ferro dolce F come nella
seguente figura, questo viene a magnetizzarsi per induzione (come davanti a un
magnete) e successivamente è attratto all'interno del solenoide (potere succhiante del
solenoide).
Per stabilire l'intensità H di un campo magnetico può servire un semplice ago
magnetico montato su un dispositivo che consente la misura della coppia agente, come in
figura 6. L'ago è immerso successivamente nei diversi punti del campo (in direzione
normale alle linee di forza) per rilevare di volta in volta la coppia orientatrice f-f: con
questo metodo d’indagine si può immediatamente costatare che: “L’intensità del campo
magnetico prodotto da una corrente elettrica è proporzionale, in ciascun punto dello
spazio, al valore della corrente stessa”.
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Nel caso particolare di un solenoide si trova che l'intensità del campo dipende
unicamente dalla corrente I, dal numero delle spire N e dalla lunghezza l del solenoide
(figura 5). Se si mantiene invariata la lunghezza l coperta dalle spire, l'intensità del
campo dipende solo dal prodotto NI fra il numero di spire e la corrente (anche se le spire
sono avvolte in più strati concentrici): questo prodotto NI viene designato col nome di
forza magnetomotrice (f.m.m.) del solenoide, misurata in amperspire e indicata col
simbolo F.
Se invece si varia la lunghezza l del solenoide, mantenendo invariato il numero degli
amperspire NI, si ha che l'intensità di campo varia in ragione inversa di questa
lunghezza: l'intensità del campo entro il solenoide rimane dunque definita dal rapporto
H = NI / l
L'unità di misura del campo magnetico H è l'ampere al metro (A/m).
Riassumendo i fatti esposti si può affermare che il campo magnetico, generato da una
o più correnti, può essere rappresentato da un vettore H, il cui modulo (espresso in
ampere a metro) indica l'intensità del campo, la cui direzione è quella della tangente alle
linee di forza ed il cui verso è quello indicato dalla regola di Maxwell.
Particolarmente interessante è il caso del campo magnetico prodotto da una corrente I
che percorre un filo rettilineo di lunghezza indefinita (figura 1). Alla distanza d dal filo,
l'intensità del campo è data dalla relazione seguente detta anche legge di Biot e Savart:
H=I/2pr
Risulta perciò tanto più debole quanto maggiore è la distanza dal filo. Al centro di una
spira circolare (figura 2) si ha invece l'intensità
H=I/2r
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Fenomeno dell'induzione elettromagnetica
Si designa col nome d’induzione elettromagnetica, il fenomeno in base al quale
avviene la nascita di una f.e.m. per mezzo di un campo magnetico.
Tale fenomeno si realizza, facendo variare in un modo qualunque il numero o
l'intensità delle linee di forza che sono abbracciate da un circuito elettrico immerso nel
campo magnetico.
Questo campo è detto campo induttore, e il circuito che vi è immerso circuito indotto;
la f.e.m. che si genera in questo circuito, quando varia il numero o l'intensità delle linee
di forza che esso abbraccia, costituisce la f.e.m. indotta.
Figura 1
Si consideri la figura 1 in cui la spira AB abbraccia il magnete permanente NS. Finché il
magnete e la spira sono fermi l'uno rispetto all'altro, il movimento V non segna alcuna
tensione: invece, se si sposta il magnete rispetto alla spira, lo strumento segna una
tensione che permane finché dura il movimento.
Sperimentando in modi diversi, si trova che il fenomeno dell'induzione
elettromagnetica si produce sempre e solo quando, per effetto dello spostamento, venga
a variare il numero delle linee di forza abbracciate dal circuito.
Per questa loro speciale proprietà induttiva le linee di forza magnetiche vengono anche
designate col nome di linee d’induzione magnetica: corrispondentemente, al complesso di
tutte queste linee si assegna il nome di flusso magnetico F del campo.
Se tale flusso è abbracciato N volte dalle spire di un circuito qualunque, al prodotto
ΦC=NΦ si attribuisce il nome di flusso concatenato con quel circuito.
Mediante queste definizioni, si può affermare che il fenomeno dell’induzione
elettromagnetica si manifesta sempre in conseguenza di una variazione del flusso
magnetico concatenato col circuito.
In ogni fenomeno d’induzione il prodotto EΔt fra il valore medio E della f.e.m. indotta e
la durata Δt prendono il nome d’impulso della tensione indotta e costituisce, come sol
dirsi, il numero dei voltsecondi indotti nel circuito.
Operando allora, come in figura 1, in modo tale da tagliare col circuito AB flussi
magnetici di valore doppio, triplo, ecc..
Quest’esperienza permette di stabilire che nel fenomeno d’induzione elettromagnetica
il numero dei voltsecondi indotti in un circuito qualunque dipende unicamente dalla
variazione ΔΦC subita dal flusso concatenato col circuito, definita dalla differenza
ΔΦC = Φ"C - Φ'C
Fra il valore finale Φ"C e il valore iniziale Φ'C del flusso concatenato.
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Questo fatto permette anzi di esprimere il valore del flusso concatenato
semplicemente misurando il numero dei voltsecondi indotti che esso può generare.
Così se ad esempio nella disposizione sperimentale (figura 1) si immagina di tagliare
mediante il circuito AB tutte le linee di induzione del magnete nel tempo Δt=0,05 s e di
leggere sul voltmetro V che la tensione indotta media durante questo spostamento risulta
del valore E=0,3V, si dirà che l'impulso di tensione è EΔt=0,3x0,005=0,015 voltsecondi,
e tale sarà il valore della variazione del flusso concatenato ΔΦC: alla unità voltsecondi è
stato dato il nome di weber (Wb).
Si ha dunque, per definizione che 1 weber = 1 voltsecondo (1Wb=1Vs). I fatti esposti
si riassumono nelle relazioni
EΔt=ΔΦC ; E=ΔΦC/Δt
L'ultima relazione costituisce la legge di Neumann, che s’interpreta affermando che il
valore medio della f.e.m. indotta è uguale alla variazione del flusso concatenato col
circuito, divisa per la durata della variazione.
Se il circuito indotto è aperto, la f.e.m. indotta si manifesta come una tensione
elettrica misurabile ai capi del circuito; se invece il circuito è chiuso, tale f.e.m. vi
promuove la circolazione di una corrente, denominata corrente indotta.
Il fenomeno dell'induzione elettromagnetica, potendo fornire una f.e.m. ed una
corrente, consente di generare dell'energia elettrica spostando semplicemente un circuito
rispetto ad un campo magnetico: è chiaro allora che il processo d’induzione deve
compiersi necessariamente con la spesa di un lavoro equivalente.
Quest’osservazione porta a concludere che le f.e.m. e le correnti indotte hanno
sempre un verso tale da determinare una reazione che contrasta il movimento per effetto
del quale vengono generate: in ciò consiste la legge di Lenz, la quale consente di
determinare anche il verso della f.e.m. indotta se si scrive la legge dell’induzione
elettromagnetica nella forma
E=-(ΔΦC/Δt)
Secondo questa relazione, il segno (e quindi il verso) della f.e.m. indotta è sempre
contrario al segno della variazione ΔΦC del flusso.
Tale variazione è da ritenersi positiva se il flusso concatenato è in aumento, e negativa
se tale flusso invece decresce.
Ne segue che un valore positivo della f.e.m. indicherà che la corrente nel circuito
indotto dovrà produrre un flusso concorde col flusso induttore; un valore negativo
indicherà invece che la corrente indotta dovrà produrre un flusso discorde.
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Densità di flusso o vettore induzione B
Si consideri il campo magnetico uniforme segnato in figura 1, e in questo campo si
immagini tracciata una superficie S normale alle linee di induzione.
Figura 1
Il numero dei voltsecondi indotti che si ottengono tagliando tutte le linee di forza che
attraversano la superficie considerata fornisce la misura del flusso magnetico (espresso
in weber) che attraversa la superficie stessa.
Se ora s’immagina di suddividere la superficie S in tanti quadrati aventi ciascuno l'area
unitaria, è chiaro che si può anche considerare il flusso corrispondente a ciascuno di
questi quadrati: si potrà parlare così di flusso per unità di superficie.
Il flusso riferito all'unità di superficie normale alle linee d'induzione definisce la densità
di flusso del campo: questa densità di flusso è denominata semplicemente col nome
d’induzione magnetica e designata col simbolo B.
E' chiaro che, se Φ è il flusso totale che attraversa la superficie S, la densità di flusso,
o induzione magnetica B, sarà espressa dal rapporto
B = Φ/S
Essa è espressa in weber a metro quadrato, unità che prende il nome di tesla (T).
L'esperienza dimostra che l'induzione B è direttamente proporzionale all'intensità del
campo magnetico H e si presenta con caratteristiche di grandezza vettoriale avente la
stessa direzione e lo stesso verso del vettore H. Indicando perciò con μ un opportuno
fattore sperimentale, si può scrivere la relazione di proporzionalità fra B e H nella
seguente forma
B = μH
Il fattore di proporzionalità μ è detto permeabilità magnetica, e il suo valore dipende
dalla natura del mezzo fisico in cui ha sede il campo. Per l'aria e tutti i gas, come anche
in genere per tutti i materiali non magnetici (come legno, rame, alluminio e i liquidi in
genere), la permeabilità magnetica μ ha praticamente lo stesso valore che si riscontra nel
vuoto e che viene indicato con μ0:se l'induzione B viene misurata in Wb/m2e l'intensità
del campo H viene misurata in A/m, l'unità di misura della permeabilità viene a risultare
dalla seguente relazione
μ = B/H
All'unità Wb/A si fa corrispondere infatti la denominazione di henry (H).
Il valore della permeabilità del vuoto risulta
μr = 4π x 10-7= 1,257 x 10-6 H/m
Per ogni altro mezzo fisico si pone:
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assumendo la costante numerica
μ = μ0 μr
μr = μ/μ0
A rappresentare la permeabilità magnetica relativa del mezzo fisico considerato.
F.e.m. indotta nei conduttori in moto nel campo magnetico
Si consideri un conduttore rettilineo a b immerso normalmente alle linee di forza di un
campo uniforme: tale conduttore faccia parte di un circuito nel quale sia inserito uno
strumento indicatore G (come in figura 1). Spostando il conduttore trasversalmente al
campo nel verso v in modo che esso venga a tagliare le linee di campo, nel conduttore si
genera una f.e.m. indotta E, la quale fa circolare una corrente I attraverso lo strumento.
Figura 1
Se il conduttore anziché verso l'alto è spostato verso il basso, si costata che la
corrente indotta ha verso opposto a quello precedente: questo accade perché, mentre
prima il flusso abbracciato dal circuito diminuiva, per effetto dello spostamento, ora
invece aumenta.
Il fenomeno considerato si può spiegare in base alla legge generale dell’induzione
elettromagnetica. Si può, infatti, osservare che con il movimento del conduttore alla
velocità v, in un certo tempo Δt è fatto uno spostamento Δh=vΔt e corrispondentemente
sono tagliate, nel loro insieme, tutte le linee di forza che attraversano l'area
ΔS=lΔh=lvΔt, essendo l la lunghezza del conduttore immersa entro il campo. Ciò vuol dire
che nel tempo Δt avviene una variazione ΔΦC del flusso concatenato col circuito a b c d la
cui entità è
ΔΦC = B ΔS = B l v Δt
Nel conduttore si genera allora una f.e.m. indotta E che rimane determinata, in valore,
dalla relazione
E = ΔΦC/Δt = B l v
Risulta quindi che la f.e.m. è proporzionale all’induzione B del campo, alla lunghezza l
del conduttore ed alla velocità v del movimento.
Per quanto riguarda il verso secondo cui agisce questa f.e.m. si può applicare la
seguente regola (figura 2a).
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Si dispongano l'indice, il pollice e il medio della mano destra ad angolo retto fra loro,
volgendo il primo nella direzione del campo e il secondo nella direzione del movimento: il
terzo, in pratica il medio, dà la direzione della f.e.m. indotta nel conduttore
Figura 2a
Un'altra regola è quella della mano destra (figura 2b): “Disponendo la mano destra col
pollice aperto nel verso dello spostamento e rivolta in modo che le linee di forza del
campo entrino per il palmo, la f.e.m. è diretta nel verso delle dita distese lungo il
conduttore”.
Figura 2b
I fatti sopra esposti sono di grande importanza tecnica essendo alla base della
costruzione dei generatori elettrici, nei quali un insieme di conduttori viene appunto fatto
muovere all'interno di un campo magnetico, allo scopo di utilizzare le f.e.m. che vengono
indotte in essi.
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Fenomeni d’autoinduzione - Energia del campo magnetico
I fenomeni d’induzione elettromagnetica fin qui esaminati si riferiscono al caso
particolare in cui le variazioni del flusso concatenato con un circuito sono prodotte
mediante lo spostamento del circuito stesso rispetto al campo magnetico o viceversa.
Esistono però anche fenomeni d’induzione, in circuiti mantenuti fermi, per effetto di
variazioni di flusso derivanti, non da movimento, ma da variazioni della corrente che li
percorre. Una corrente che percorre un circuito produce, infatti, un campo magnetico che
si concatena col circuito stesso: finché la corrente non varia, rimane invariato anche il
flusso prodotto, ma se invece la corrente varia, varia corrispondentemente il flusso, e
conseguentemente si genera nel circuito una f.e.m. indotta.
Questo particolare fenomeno d’induzione elettromagnetica si denota col nome
d’autoinduzione. Esso si manifesta quando il circuito è percorso da una corrente variabile,
per effetto delle variazioni del flusso proprio che esso genera: le f.e.m. indotte da queste
variazioni sono designate col nome di f.e.m. d’autoinduzione.
Due o più circuiti (percorsi da uguali correnti) possono produrre flussi anche molto
diversi, se diversa è la loro forma, il loro perimetro e il loro numero di spire.
Ne segue che, ogni circuito può essere caratterizzato da un proprio coefficiente
particolare che lo distingue, in riguardo all’entità del flusso che esso genera e quindi
anche agli effetti dei fenomeni d’autoinduzione che esso stesso può subire.
Questo particolare coefficiente si chiama coefficiente d’autoinduzione o induttanza del
circuito. L'induttanza di un circuito può definirsi come il flusso che si concatena col
circuito quando questo è percorso dall'unità di corrente.
L'induttanza è perciò definita dal rapporto L=ΦC/I tra il flusso concatenato ΦC e la
corrente I che produce tale flusso.
L'unità di misura di questa grandezza fisica è il weber all'ampere, denominato henry
(H): come già visto 1H=1Wb/A.
(L)
Il simbolo grafico dell'induttanza è il seguente
Nota che sia l'induttanza L, si potrà calcolare il valore del flusso concatenato col
circuito quando questo è percorso da una corrente d’intensità I: basterà porre ΦC=LI
Finché la corrente I che percorre il circuito non varia, anche il flusso concatenato
rimane invariato e quindi nessun fenomeno di autoinduzione si verifica: se invece la
corrente nel circuito varia passando da un valore I' a un valore I", il flusso passerà dal
valore Φ'C=LI' al valore Φ"C=LI" e cioè subirà una variazione
ΔΦC = Φ"C - Φ'C = L (I"-I') = L ΔI
Per la legge dell'induzione elettromagnetica, in conseguenza di questa variazione di
flusso concatenato, il circuito diventa sede di una f.e.m. d’autoinduzione Ea: se Δt è
l'intervallo durante il quale la corrente ha subito la variazione ΔI=I"-I', il valore medio di
questa f.e.m. d’autoinduzione risulta
Ea = - ΔΦC / Δt = - L (ΔI/Δt)
Si può dire pertanto che: “In un circuito percorso da corrente variabile, agisce una
f.e.m. d’autoinduzione il cui valore medio è dato dal prodotto dell'induttanza del circuito
per il rapporto fra la variazione di corrente e il tempo in cui accade tale variazione”.
I valori istantanei ea (t) della stessa f.e.m. d’autoinduzione sono espressi invece nella
relazione seguente
ea(t) = - L (dI/dt)
Il verso secondo il quale la f.e.m. di autoinduzione agisce nel circuito in cui si genera,
è definito dal segno negativo che compare, per la legge di Lenz, nella relazione
Ea = - ΔΦC / Δt = - L (ΔI/Δt)
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Perciò la f.e.m. indotta ha sempre verso tale da contrastare la causa da cui ha origine,
tale cioè da contrastare la variazione di corrente: se la f.e.m. di autoinduzione è dovuta a
un aumento di corrente, essa agirà in verso opposto alla corrente, dovendo contrastarne
l'aumento; viceversa se è dovuta a una diminuzione di corrente, essa agirà nello stesso
verso della corrente, dovendo contrastarne la diminuzione.
•
Transitori di apertura e di chiusura
Il fenomeno dell'autoinduzione si manifesta, in particolare, durante l'apertura o
durante la chiusura di un circuito induttivo.
Si consideri un circuito qualsiasi alimentato da un generatore di f.e.m. costante E: se il
circuito ha complessivamente la resistenza elettrica R, la corrente di regime che vi circola
è, per la legge di Ohm
I=E/R
Si immagini ora che, nell'istante t0, venga tolto dal circuito il generatore che lo
alimenta, lasciando tuttavia il circuito chiuso su se stesso come in figura 1
Figura 1
A seguito di questa manovra la corrente deve estinguersi passando dal valore I sopra
definito al valore zero.
In conseguenza della diminuzione di corrente, se il circuito presenta una certa
induttanza L si genera in esso una f.e.m. di autoinduzione ea che agisce nello stesso
verso della corrente, e tende a ritardarne la estinzione: il risultato è che nel circuito
continua a circolare ancora per un certo tempo una corrente i che è mantenuta dalla
f.e.m. di autoinduzione ea.
Il tempo T durante il quale la corrente può ancora circolare, per effetto della f.e.m. di
autoinduzione, si chiama periodo transitorio di apertura. In questo intervallo di tempo la
corrente assume valori istantanei rappresentati dalla curva esponenziale i(t) (figura 2).
Figura 2
Definiti dalla relazione
In questa, la grandezza τ è la costante di tempo del circuito, misurata in secondi e
definita dall’espressione
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Si può ritenere che la durata del transitorio sia espressa dalla relazione
Pertanto, nei circuiti di piccola resistenza e coefficiente d’autoinduzione elevato (come
sono ad esempio gli avvolgimenti delle macchine elettriche), la corrente può mantenersi
apprezzabile anche per alcuni minuti dopo aver annullato la f.e.m. applicata.
Un fenomeno analogo si verifica all'atto della chiusura del circuito su una linea di
alimentazione alla tensione U (come in figura 3).
Figura 3
Come è indicato dal diagramma in figura 4, la corrente non raggiunge subito il suo
valore di regime I=V/R ma cresce invece con una certa lentezza secondo la curva
esponenziale i(t) di equazione
Figura 4
Soltanto dopo un tempo T=5L/R si raggiunge in pratica l’intensità di regime I.
Questo lento avviamento della corrente è dovuto ancora al fenomeno di autoinduzione
che si verifica alla chiusura del circuito, quando la corrente dal valore zero passa al valore
finale di regime.
In conseguenza di quest’aumento della corrente, si genera nel circuito la f.e.m.
d’autoinduzione ea la quale, agendo in verso opposto alla corrente che tende a stabilirsi,
ne contrasta l'aumento.
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•
Energia del campo
Nei circuiti a corrente continua i fenomeni d’autoinduzione sopra considerati si
manifestano solo nei periodi dell'apertura e della chiusura dei circuiti, oppure quando la
corrente varia da un certo valore di regime ad un altro.
Nei circuiti a corrente variabile, invece, la f.e.m. d’autoinduzione permane ed agisce
durante tutto il tempo del funzionamento.
Nei circuiti a corrente i variabile, ogni variazione Δi della corrente è contrastata dalla
f.e.m. di autoinduzione.
Corrispondentemente, la tensione applicata deve vincere non solo la caduta ohmica Ri
proporzionale a ciascun valore istantaneo i della corrente, ma anche la f.e.m. di
autoinduzione ea che si oppone alle variazioni della corrente stessa: in questi casi,
dunque, la legge di Ohm deve essere scritta nelle forme seguenti
Ne segue che il lavoro sviluppato dalla tensione applicata al circuito viene solo in parte
assorbito dalla caduta ohmica e trasformato in calore per effetto Joule, mentre la parte
rimanente viene assorbita dalla f.e.m. di autoinduzione: quest'ultimo lavoro viene speso
per costituire il campo magnetico concatenato al circuito stesso e si accumula nel campo
in questione per costruire l'energia del campo, detta anche energia intrinseca della
corrente. Il valore di quest’energia è dato dalla relazione
Analoga alla relazione
Ciò esprime l'energia del campo elettrico.
Essa rimane accumulata nel campo magnetico finché la corrente permane al suo
valore di regime I, ed è restituita durante la fase d’estinzione della corrente.
Si è visto, infatti, che la corrente nel circuito si mantiene per un certo tempo anche
quando è soppressa la f.e.m. applicata: ciò avviene precisamente a spese dell'energia
accumulata nel campo magnetico che si estingue gradualmente insieme alla corrente.
Analogamente a quanto visto per il campo elettrostatico, anche l'energia specifica del
campo magnetico può essere espressa in funzione delle due grandezze che descrivono le
proprietà del campo in altre parole il vettore intensità H e il vettore induzione B.
Sotto opportune ipotesi d’uniformità, può difatti ricavarsi che l'energia magnetica per
unità di volume è espressa dalle relazioni formalmente simili a quelle trovate per il campo
elettrostatico.
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Fenomeni di mutua induzione
Se un circuito percorso da corrente è in presenza di un altro circuito, può accadere che
una parte più o meno rilevante delle linee d’induzione generate dal primo circuito arrivi a
concatenarsi anche col secondo: si dice in tal caso che i due circuiti sono induttivamente
accoppiati, perché ogni variazione di corrente nel primo circuito viene a generare una
f.e.m. indotta anche nel secondo circuito. In generale, le f.e.m. che sono indotte in un
circuito qualsiasi, in conseguenza delle variazioni della corrente che percorre un altro
circuito, sono designate col nome di f.e.m. di mutua induzione.
L'entità di questi fenomeni dipende (oltre che dalle variazioni di corrente) dalla
conformazione e dalla posizione reciproca dei due circuiti.
Ogni coppia di circuiti viene perciò caratterizzata mediante il coefficiente di mutua
induzione (indicato con M e misurato in henry) il quale dà la misura del flusso che arriva
a concatenarsi con ciascuno di essi quando l'altro è percorso dall'unità di corrente: tale
coefficiente è definito per mezzo dei rapporti tra il flusso che si concatena con uno dei
circuiti e la corrente che percorre l'altro circuito (figura 1).
Figura 1
Pertanto, se ad esempio il primo di essi è percorso da una certa corrente I1, esso invia
a concatenarsi col secondo circuito un flusso ΦC2 che viene espresso dalla relazione
Questo flusso rimane invariato finché il valore della corrente I1 rimane costante. Ma se
la corrente I1 è variabile, varia anche il flusso ΦC2 e di conseguenza, indicando con ΔI1 la
variazione di corrente che si ha nel tempo Δt, nel secondo circuito è generata una f.e.m.
di mutua induzione Em2 il cui valore medio è espresso dalla seguente relazione
Analogamente, se il secondo circuito è percorso a sua volta da una corrente I2 che
varia nel tempo Δt della quantità ΔI2, si genera nel primo circuito una f.e.m. di mutua
induzione Em1 il cui valore medio è espresso dalla seguente relazione
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I valori istantanei em1 ed em2 delle due f.e.m. di mutua induzione sono espressi invece
dalle derivate
Sui fenomeni di mutua induzione sono basati in particolare i trasformatori elettrici.
Il valore del coefficiente di mutua induzione M dipende dalle caratteristiche fisiche e
geometriche dei due circuiti accoppiati, e dalla loro reciproca posizione. Se i due circuiti
sono disposti in modo tale che l'intero flusso prodotto dal primo vada a concatenarsi col
secondo si parla di accoppiamento perfetto. In questo caso, se L1 e L2 sono induttanze
dei due circuiti accoppiati, il coefficiente di mutua induzione è dato dalla relazione
nella quale si assume il segno positivo quando le correnti I1 e I2 che interessano i due
circuiti tendono a produrre flussi concordi; si assume invece il segno negativo se i flussi
prodotti sono fra loro discordi.
Quando l'accoppiamento magnetico non è perfetto, e cioè nei casi in cui non tutto il
flusso prodotto da uno dei due circuiti passa a concatenarsi con l'altro, il coefficiente di
mutua induzione M risulta minore del valore fornito dalla precedente relazione, e se con k
si indica un opportuno fattore di riduzione compreso fra 0 e 1 si potrà scrivere
Al fattore k si dà il nome di fattore di accoppiamento. Esso indica, col suo valore,
quale è la frazione di flusso che passa dall'uno all'altro dei due circuiti: per k=1 si ha
l'accoppiamento perfetto; per k=0 non si ha accoppiamento.
L'energia magnetica che complessivamente si accumula nel campo risultante prodotto
dai due circuiti accoppiati è data dalla relazione
In questa, i primi due termini rappresentano l'energia relativa al campo proprio di
ciascuno dei due circuiti, percorsi rispettivamente dalle correnti I1 e I2; l'ultimo termine
invece rappresenta la cosiddetta energia mutua, e cioè quella quota dell'energia
complessiva che è associata col flusso magnetico scambiando fra i due circuiti, che sarà
positiva o negativa a seconda del segno di M.
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Le forze elettromagnetiche
Un conduttore percorso da corrente, ogni volta che attraversa un campo magnetico è
sollecitato da una forza chiamata forza elettromagnetica.
Per determinare la forza elettromagnetica F si consideri un campo uniforme, di
induzione B, nel quale sia immerso un circuito percorso da una corrente I (figura 1): il
conduttore rettilineo ab è scorrevole sui due conduttori MD ed NE.
Figura 1
Sotto l'azione della forza F, il conduttore ab subisce un certo spostamento Δh in un
dato tempo Δt, il lavoro sviluppato dalla forza è espresso dal prodotto FΔh.
Durante lo spostamento, nel conduttore nasce una f.e.m. indotta E=Blv che è diretta
in senso contrario alla corrente I (regola della mano destra) e che si comporta quindi
come una forza contro elettromotrice.
Questa, nell'intervallo Δt, assorbirà un’energia elettrica del valore EIΔt=BlvIΔt la quale,
per il principio di conservazione, dovrà essere uguale al lavoro meccanico FΔh da cui
prende origine: dovrà dunque aversi l’uguaglianza
Da questa si ricava che la forza elettromagnetica F è espressa dalla relazione
Per quanto riguarda il verso secondo cui agisce questa forza si deve osservare che
esso dipende dal verso del campo magnetico e dal verso della corrente nel conduttore.
Tale verso è fornito dalla regola delle tre dita della mano sinistra illustrata in figura 2:
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pag. 71
Figura 2
Aprendo il pollice, l'indice e il medio della mano sinistra ad angolo retto fra loro e
disponendo l'indice nella direzione del campo e il medio nella direzione della corrente il
pollice segna il verso della forza
Un'altra regola è quella della mano sinistra illustrata in figura 3:
Figura 3
Disponendo la mano sinistra distesa lungo un conduttore nel verso della corrente e col
palmo rivolto in modo tale che le linee di forza entrino per il palmo stesso, il verso della
forza elettromagnetica è quello indicato dal pollice aperto.
Sulle forze elettromagnetiche sono basati il funzionamento dei motori elettrici e il
funzionamento dei più importanti strumenti elettrici.
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Forze elettrodinamiche
Quando si hanno due circuiti percorsi da corrente, fra loro affacciati, ciascuno di essi
viene a trovarsi immerso nel campo magnetico generato dalla corrente che circola
nell'altro circuito: su ciascuno dei circuiti agisce allora una forza (elettromagnetica) che
prende il nome di forza elettrodinamica.
Il caso più semplice è rappresentato da due conduttori rettilinei paralleli, percorsi nello
stesso verso o in versi contrari da due correnti uguali o diverse.
Nella figura 1 sono rappresentati ad esempio due conduttori paralleli, posti fra loro alla
distanza d e percorsi da due correnti I1 e I2 in versi opposti. Si può immaginare che il
conduttore I2 si trovi immerso nel campo prodotto dalla corrente I1; questo campo è
costituito da linee di forza concentriche al conduttore che lo produce e aventi il verso
fornito dalla regola di Maxwell. In tutti i punti occupati dal secondo conduttore, il campo
magnetico H1 prodotto dal primo è diretto normalmente al conduttore I2 nel verso
indicato in figura.
Figura 1
La forza che viene a esercitarsi su questo conduttore sarà diretta perciò nel verso F2 in
base alla regola della mano sinistra.
Corrispondentemente sul conduttore I1 immerso nel campo magnetico prodotto dalla
corrente I2 verrà ad agire una forza F1 uguale ed opposta alla F2.
Si può quindi concludere che due conduttori paralleli percorsi da correnti dirette in
verso contrario si respingono.
Se si ripetono le considerazioni di cu sopra per il caso di conduttori paralleli, percorsi
da correnti nello stesso verso, le forze F1 ed F2 risultano pure uguali e opposte ma dirette
l'una verso l'altra: si può quindi concludere che due conduttori paralleli percorsi da
correnti nello stesso verso si attraggono.
Il valore delle forze elettrodinamiche sopra definite è direttamente proporzionale alle
intensità delle due correnti I1 e I2, e inversamente proporzionale alla loro distanza d;
dipende inoltre dalla natura del mezzo fisico entro cui è immerso i due conduttori. Se μ è
la permeabilità magnetica di tale mezzo fisico, la forza elettrodinamica che agisce su una
lunghezza l di ciascuno dei due conduttori paralleli è espressa dalla seguente relazione
F = (μl/2πd) I1 I2
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Curve di magnetizzazione del ferro
La permeabilità magnetica μ già definita, che presenta nel vuoto e in tutti i mezzi non
magnetici il valore μ 0=1,257 x 10-6 H/m, ha invece dei valori più elevati per il ferro,
l'acciaio, la ghisa, vale a dire per i cosiddetti materiali ferromagnetici, largamente
impiegati nella tecnica.
Questi materiali hanno un comportamento del tutto speciale che si rileva mediante
disposizioni sperimentali del tipo di figura.
Si fa circolare una corrente I, misurata mediante un amperometro, nelle N spire di un
solenoide di lunghezza nota l, e mediante la relazione
H=NI/l
Si calcola l’intensità del campo H che agisce sul provino del materiale in esame.
Tagliando il flusso generato dal solenoide mediante un opportuno circuito indotto (non
indicato in figura) e misurando il numero dei voltsecondi indotti in questo circuito, si
ottiene il valore del flusso Φ espresso in weber: dividendo questo flusso per la sezione
retta S del provino si ottiene il valore dell'induzione magnetica B corrispondente
all'intensità di campo H prefissata
B=Φ/S
A seconda che il solenoide sia avvolto nell'aria, oppure su un nucleo di materiale
ferromagnetico, si rileva che facendo crescere gradualmente l'intensità del campo
magnetizzante H (ciò che si ottiene aumentando la corrente I circolante nelle spire del
solenoide), l'induzione magnetica B aumenta in misura diversa e precisamente secondo
le due distinte curve B0(H) rappresentate in figura.
Si osserva immediatamente che nel materiale ferromagnetico l'induzione B assume dei
valori assai più elevati che nell'aria.
Si osserva inoltre il fatto caratteristico che nel materiale ferromagnetico l'induzione B
cresce in un primo tempo assai rapidamente, e poi sempre più lentamente al crescere di
H, fino a raggiungere un determinato valore BS che si mantiene successivamente quasi
costante. Si esprime questo fatto annunciando che nel materiale si raggiunge in tal modo
lo stato di saturazione magnetica.
Le curve considerate sono dette curve di
magnetizzazione. Data la non linearità di tali curve si deve
concludere che la permeabilità magnetica μ dei materiali
ferromagnetici non è costante, ma in funzione
dell'intensità del campo magnetizzante H. Ciò appare con
più evidenza, se si considera un generico punto P della
curva di magnetizzazione e si traccia la retta che
congiunge tale punto con l'origine degli assi. Si trova che
la tangente trigonometrica dell'angolo α formato da
questa retta esprime il valore della permeabilità del
materiale in corrispondenza di quel punto: quindi si può
scrivere
μ = B/H = tan α
Poiché ai diversi punti come P corrispondono rette che formano angoli α di valore
diverso, si conclude che la permeabilità non è costante ma varia secondo una curva del
tipo μ(H) di figura. La μ presenta il suo valore massimo quando il campo H ha l'intensità
che corrisponde al punto di tangenza B0. Il valore minimo è quello che corrisponde ad
H=0, e costituisce la permeabilità iniziale μin del materiale.
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pag. 74
Isteresi magnetica - Perdite nel ferro
Si supponga di sperimentare ancora per mezzo dei dispositivi (figura 1) e di tracciare
la curva di prima magnetizzazione OSA del nucleo magnetico in esame, (figura 2).
Dopo aver raggiunto un’intensità di corrente d’eccitazione alla quale corrispondono il
valore HM del campo e il valore BM dell’induzione magnetica del nucleo, si supponga di
fare decrescere la corrente gradatamente fino a ricondurre a zero il numero degli
amperspire.
L'esperienza permette allora di costatare che l'induzione magnetica ritarda a
diminuire, conservando valori sensibilmente superiori a quelli assunti per gli stessi valori
del campo magnetizzante H nella fase ascendente, in altre parole assumendo i valori
della curva AC0.
In particolare quando la corrente è ridotta a zero (e quindi H=0), l'induzione nel ferro
conserva ancora il valore Br che costituisce l’induzione residua: il ritardo alla
smagnetizzazione prende il nome d’isteresi magnetica.
Se dal momento in cui la corrente magnetizzante è ridotta a zero, si torna a far
crescere la corrente nella bobina ma in verso opposto al precedente, il nucleo perde
dapprima rapidamente l'induzione residua Br, magnetizzandosi poi in verso opposto con
valori dell’induzione che tornano a crescere prima rapidamente e poi lentamente, fino a
raggiungere il valore -BM quando l’intensità del campo magnetizzante raggiunge il valore
-HM uguale ma opposto al massimo valore raggiunto nella fase precedente.
Dalla figura 2 si vede che l'induzione residua Br si riduce a zero quando il campo H
assume il valore negativo OC0=-HC: questo valore che rappresenta l'intensità che il
campo magnetico deve assumere, in verso opposto alla magnetizzazione precedente, per
annullare la magnetizzazione residua Br, si chiama comunemente forza coercitiva.
Se ora si torna a far diminuire la corrente, riducendo nuovamente a zero il campo
magnetizzante H, l'induzione B lentamente diminuisce fino a raggiungere la nuova
induzione residua B'r uguale e opposta a quella precedente Br.
Se si inverte ancora la corrente, facendola ricrescere in modo che il campo riassuma il
valore HM, si ripete in verso opposto il comportamento già constatato durante la
variazione del campo da zero a -HM: e cioè l'induzione residua B'r, diminuisce
rapidamente e si annulla per HC=OC'0, indi si inverte, per ricrescere secondo una curva
C'0A di andamento all'incirca uguale alla curva C'0A; per H=HM, l'induzione riprende così
un valore BM uguale al precedente, e il ciclo si chiude.
La curva chiusa così ottenuta costituisce un ciclo d’isteresi. Un materiale magnetico,
percorre un ciclo d’isteresi (simmetrico) ogni volta che è sottoposto all'azione di un
campo magnetico il quale varia fra due valori uguali e opposti.
I vari materiali hanno comportamento analogo: variano solamente il valore massimo
BM dell'induzione raggiungibile, il valore Br dell'induzione residua e il valore HC della
forza coercitiva: variano in altri termini le dimensioni dei cicli di isteresi, ma questi
conservano in ogni caso la forma caratteristica rappresentata in figura 2.
Nei periodi in cui la corrente magnetizzante aumenta si deve spendere una certa
energia, che si accumula nel campo; quest’energia è restituita quando la corrente
diminuisce e il campo si estingue.
Ma poiché anche quando la corrente è ridotta a zero l'induzione conserva ancora un
certo valore residuo, questa restituzione non è completa: la parte dell'energia che non è
restituita risulta di volta in volta dissipata in calore e costituisce la perdita per isteresi del
nucleo in esame.
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Il valore dell'energia che è dissipata per ogni ciclo di isteresi è proporzionale all'area
racchiusa dal ciclo. Per ridurre al minimo, la perdita di energia, è necessario adoperare
materiali che presentano cicli d’isteresi aventi minima area.
Il fenomeno di isteresi magnetica è dovuto al fatto che il movimento dei domini è
contrastato da particolari attriti interni e quindi, al cessare dell'azione orientatrice del
campo magnetizzante i domini non ritornano alla condizione di stato neutro del materiale
se non con una certa lentezza e in modo incompleto.
Nuclei magnetici per flussi alternativi
I nuclei magnetici eccitati in corrente alternata di frequenza f vengono interessati da
un flusso alternativo e subiscono f cicli di isteresi al secondo.
In questi nuclei avviene perciò una dissipazione d’energia in calore equivalente alla
perdita per isteresi.
La potenza perduta è rappresentata dall'energia dissipata in un ciclo moltiplicata per il
numero dei cicli al secondo e cioè per la frequenza f della corrente magnetizzante.
La perdita di potenza per isteresi per unità di massa del materiale (perdita specifica) si
valuta, in watt a kilogrammo, mediante la formula si Steinmetz:
In cui Ki è un coefficiente sperimentale dipendente dal materiale.
Nei nuclei magnetici interessati da flussi alternativi, oltre alla perdita per isteresi
avviene anche una seconda dissipazione d’energia in calore, per effetto delle correnti
indotte nella massa dei nuclei dalle variazioni del flusso magnetico che li interessa: la
corrispondente potenza è denominata perdita per correnti parassite.
Se il nucleo è realizzato in forma massiccia, alle normali frequenze industriali tale
perdita diventa così rilevante da arroventare il nucleo.
Per contenere le perdite per correnti parassite, entro limiti
tollerabili, tutti i nuclei magnetici sede di flussi alternativi debbono
essere perciò realizzati in forma laminata in altre parole costituiti
da un pacco di lamiere magnetiche isolate fra loro mediante sottili
fogli di carta o con vernici isolanti come in figura. Con
quest’artificio le correnti indotte, anziché circolare liberamente
nella massa del nucleo, sono obbligate a richiudersi entro lo
spessore delle singole lamiere, come in figura, ove incontrano una
più elevata resistenza.
La perdita di potenza per correnti parassite si calcola, per ogni
kilogrammo di materiale, mediante la seguente formula, in cui Kc
è un coefficiente dipendente sostanzialmente dalla resistività del
materiale e δ lo spessore dei lamierini.
La somma delle perdite per isteresi e delle perdite per correnti parassite costituiscono
la perdita totale del ferro. In pratica le lamiere magnetiche sono caratterizzate
indicandone la cifra di perdita Cp. Questa esprime la perdita totale, riferita a 1 kg di
materiale, con un’induzione BM=1T ed alla frequenza f=50 Hz. La cifra di perdita è
dell'ordine di 3,5 W/kg per le lamiere normali da 0,8 mm di spessore, e può scendere a
meno di 1 W/kg per le lamiere al silicio da 0,5 mm. Noto il valore della cifra di perdita Cp,
il calcolo della perdita totale nel ferro Pf, assorbita da un nucleo di massa m sede di un
flusso magnetico alternativo d’induzione massima BM e frequenza f, si esegue per mezzo
della relazione semiempirica
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Circuiti magnetici
Si consideri un anello di materiale magnetico eccitato da
una bobina formata da N spire serrate, come in figura. Un
sistema siffatto prende il nome di circuito magnetico. Quando
la bobina è percorsa dalla corrente I, essa crea un campo le
cui linee di forza si svolgono entro il nucleo nello spazio
racchiuso dalle N spire formando un fascio di linee circolari.
L'intensità H di questo campo è data dalla relazione H=NI/l
essendo l la lunghezza della linea di forza media. A questo
valore di H corrisponde un valore dell’induzione magnetica B,
che dipende dal mezzo in cui si svolge il campo in pratica alla permeabilità magnetica
relativa μr del materiale, di cui è composto l'anello:
B = μ H = μ0 μr H
Se S è la sezione dell'anello, il flusso magnetico che attraversa tale sezione sarà
Φ= B S = μH S
Si ha quindi anche
Φ=μ ΗΙ/λ Σ ; Φ l/μΣ = ΝΙ ; Ηλ=ΝΙ
Indicando il termine l/μΣ con ℜ si possono scrivere le relazioni
Φℜ=NI
;
Φ NI/ℜ
;
ℜ=NI/Φ
In queste relazioni, la grandezza ℜ=l/μΣ espressa in ampere a weber (A/Wb), prende
il nome di riluttanza magnetica del nucleo. Ricordiamo che al prodotto NI s’impone il
nome di forza magnetomotrice (f.m.m.), le espressioni precedenti si possono tradurre nel
seguente enunciato: In un circuito magnetico, per produrre un determinato flusso Φ si
richiede una forza magnetomotrice NI che è uguale al prodotto del flusso per la riluttanza
ℜ del nucleo. In ciò consiste la legge di Hopkinson per i circuiti magnetici, che appare
formalmente simile alla legge di Ohm per i circuiti elettrici. Per ottenere un determinato
flusso in un circuito magnetico prestabilito bisogna quindi applicargli un’opportuna
f.m.m., ossia avvolgere su di esso un certo numero di spire N percorse da una corrente I.
Il valore del flusso prodotto dipende però non solo dalla f.m.m. ma anche dalla riluttanza
ℜ del circuito magnetico; e precisamente a pari f.m.m. il flusso è tanto maggiore quanto
minore è la riluttanza, in altre parole quanto maggiore è la sezione del nucleo che
costituisce il circuito magnetico, quanto minore è la lunghezza del circuito stesso e
quanto più elevata è la permeabilità del materiale di cui il nucleo è costituito. A questo
riguardo è necessario ricordare che il valore della permeabilità μ dipende dal grado di
magnetizzazione del materiale magnetico, ossia dal valore dell’induzione B nel materiale.
Si dovrà scegliere perciò di volta in volta sulla tabella di magnetizzazione il valore della
permeabilità relativa μr, in corrispondenza del numero che esprime l’induzione B che si
considera. Spesso, in pratica, si debbono considerare nuclei magnetici che presentano un
certo traferro, in altre parole dei brevi intervalli in aria che costituiscono dei tronchi con
riluttanza posta in serie alla riluttanza del nucleo, come in figura. In questi casi, dato il
flusso Φ che si vuole produrre, si calcolano le induzioni B e BT che si hanno
rispettivamente nel nucleo e nel traferro, ponendo rispettivamente
B=Φ/S
;
BT=Φ/ST
Sulla tabella di magnetizzazione si sceglie, in corrispondenza del valore di B, la
permeabilità relativa μr per quel dato materiale, e si calcolano la riluttanza del nucleo e
quella del traferro con le seguenti relazioni:
ℜ = l /μ0 μr S
;
ℜT = lT /μ0 ST
La riluttanza totale ℜT dei due tronchi in serie è dalla somma: ℜt=ℜ+ℜT
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Dopo di ciò si potrà calcolare la f.m.m. ponendo NI=ΦℜT
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Generalità sulle correnti alternate e loro rappresentazione
L'energia elettrica necessaria per le applicazioni industriali e civili è oggi prelevata, quasi
esclusivamente, dalla rete elettrica nazionale in corrente alternata. Solo in casi particolari (linee di
trasmissione su lunghe distanze, connessioni sottomarine, ferrovie, impianti elettrochimici) è
impiegata la corrente continua.
I motivi che hanno determinato questo predominio delle correnti alternate risiedono nella
maggiore semplicità dei generatori di corrente alternata, nella possibilità di eseguire la
trasformazione da bassa ad alta tensione e viceversa per mezzo dei trasformatori, e inoltre nella
maggiore semplicità e robustezza dei motori a corrente alternata, rispetto a quelli a corrente
continua.
La caratteristica essenziale delle correnti alternate è quella di non avere un verso costante e
determinato, come le correnti continue, ma di invertirsi continuamente ad intervalli costanti di
tempo variando in ciascun intervallo con valori uguali e di verso opposto.
Precisamente, una corrente alternata, durante un primo intervallo di tempo, cresce da zero fino a
raggiungere un certo valore massimo, dal quale torna poi a diminuire fino a zero; indi s’inverte per
aumentare ancora da zero fino a un valore massimo uguale e di verso opposto al precedente, dal
quale ritorna ancora a zero, per invertirsi nuovamente e ripetere indefinitamente le stesse vicende.
Se si conviene di considerare positiva la corrente quando percorre il circuito in un dato verso e
negativa quando lo percorre in verso opposto, si può rappresentare una corrente alternata
costruendo un diagramma i(t) che ha per ascisse i tempi e per ordinate tutti i valori che la corrente
assume negli istanti successivi; per le correnti alternate universalmente impiegate nelle applicazioni
industriali, tale diagramma assume la forma sinusoidale indicata in figura 1.
Figura 1
L'intervallo di tempo T durante il quale la corrente i assume tutti i valori positivi e negativi, che
poi si ripetono indefinitamente in tutti gli intervalli uguali e successivi, si chiama periodo: si può dire
allora che nel primo quarto di periodo la corrente cresce da zero fino al valore massimo I, nel
secondo quarto di periodo decresce da I a zero; quindi si inverte per riprendere nell'altro
semiperiodo T/2 gli stessi valori precedenti ma in verso opposto.
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pag. 79
Il valore i, assunto dalla corrente in un determinato istante t costituisce il valore istantaneo della
corrente. Il numero dei periodi compresi in un minuto secondo costituisce la frequenza f della
corrente alternata. In Italia, come negli altri paesi europei, la frequenza industriale è unificata al
valore di 50 periodi al secondo; corrispondentemente ciascun periodo ha la durata di 1/50 di
secondo. La durata T del periodo è, per definizione, l'inverso della frequenza f; si hanno dunque le
relazioni T = 1/f e f = 1/T. L'unità di misura della frequenza (periodi al secondo) viene denominata
hertz (Hz). Per rappresentare il diagramma dei valori istantanei assunti nel corso di un intero
periodo da una corrente alternata sinusoidale avente un determinato valore massimo I, si può
applicare il metodo grafico (figura 2a e 2b).
Figura 2a
Si segna un segmento OA, di lunghezza pari al valore massimo della corrente I e s’immagina che
questo segmento ruoti con velocità angolare ω attorno al punto fisso O; il suo segmento A viene a
descrivere così una circonferenza di raggio OA.
Figura 2b
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pag. 80
Per ciascuno degli istanti t1, t2, ...corrispondenti alle successive posizioni angolari 1, 2, ...assunte
dal segmento rotante, si traccia la corrispondente ordinata ottenuta proiettando sull'asse verticale y
il suo punto estremo mobile A.
Le ordinate così ottenute presentano valori come i1=Isinωt1 e forniscono la rappresentazione dei
valori istantanei i1, i2, ...assunti dalla corrente alternata nel corso di un periodo. Il semiperiodo
positivo corrisponderà alla rotazione da 0 a π e il semiperiodo negativo alla rotazione da π a 2π : il
periodo completo T corrisponde a un intero giro del segmento rotante.
Di una corrente sinusoidale si può dare una rappresentazione vettoriale come in figura 3.
Figura 3
L'ampiezza del vettore rotante I rappresenta il valore massimo I della corrente; l'angolo
che lo stesso vettore forma con l'asse x nell'istante t=0 viene chiamato fase della corrente.
La rappresentazione vettoriale può essere riferita, oltre che a una corrente, anche a una tensione
o a una f.e.m., purché anch'esse variabili sinusoidalmente nel tempo. In questi diagrammi vettoriali,
l'asse y su cui s’immagina di eseguire le proiezioni dei vettori rotanti è detto asse dei valori
istantanei; l'asse x invece, al quale sono riferite le rotazioni, costituisce l'asse polare: alcune volte gli
assi sono sottintesi; il verso di rotazione dei vettori è quello opposto al movimento delle lancette
dell'orologio.
Poiché il vettore rotante deve fare un giro ad ogni periodo, vuol dire che esso descrive l'angolo di
2π rad nel tempo T; perciò esso descrive ad ogni secondo un angolo ω definito dal rapporto
ω = 2π / T = 2πf
Questa grandezza ω=2πf costituisce la velocità angolare del vettore rotante espressa in radianti al
secondo, cui si dà il nome di pulsazione. Alla frequenza del valore di 50 Hz corrisponde la pulsazione
ω = 2 x 3,14 x 50 = 314 rad/s
Dalla figura 3 si ricava che i valori istantanei della corrente (proiezioni sull'asse y del vettore
rotante) sono espressi matematicamente dalla relazione
i = I sin ( ω t + φ )
Infatti la posizione angolare che viene raggiunta dal vettore rotante in un dato tempo t (a partire
dalla sua posizione iniziale) corrisponde al valore ωt+φ , essendo ω la velocità angolare e φ la fase
della corrente. L'espressione matematica così definita costituisce la rappresentazione analitica i(t)
della corrente sinusoidale. Essa consente di determinare, per mezzo del calcolo, i valori che vengono
assunti dalla corrente istante per istante: in particolare, nell'istante iniziale t=0 si ottengono il valore
iniziale iO della corrente e la fase φ che risultano
i0 = I sin φ sin φ = i0/I
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Generazione delle correnti alternate
Le correnti alternate sono generate da macchine chiamate alternatori. Il principio di
funzionamento di queste macchine corrisponde alla disposizione schematica rappresentata in figura
1, in pratica risiede nel noto fenomeno d’induzione elettromagnetica che si determina facendo
spostare un conduttore entro un campo magnetico.
Figura 1
Si consideri il conduttore A disposto lungo una generatrice del cilindro che ha l'asse di rotazione in
O: facendo ruotare questo cilindro nel verso della freccia, il conduttore A viene a tagliare le linee di
forza del campo induttore in cui è immerso, e perciò nel conduttore stesso si genera una f.e.m.
indotta. Con il verso del campo segnato (fig. 1), applicando la regola della mano destra si riconosce
che mentre il conduttore A passa a descrivere il mezzo giro (1)(2)(3), la f.e.m. indotta nel
conduttore ha il verso uscente dal foglio (verso indicato con un punto): successivamente, quando il
conduttore A passa a descrivere il mezzo giro (3)(4)(1), la f.e.m. indotta si inverte e prende il verso
entrante nel foglio (verso rappresentato da una croce). La f.e.m. indotta nel conduttore rotante è
dunque una f.e.m. alternata, la quale si inverte ogni volta che il conduttore attraversa il piano yy
(detto piano d'inversione): questa f.e.m. compie un periodo T ad ogni giro del conduttore, ed ha
perciò una frequenza f pari al numero di giri al secondo compiuti dal conduttore.
Per quanto riguarda i valori istantanei e(t) che la f.e.m. assume nel corso di un periodo (fig. 1) si
può osservare quanto segue: essa ha il valore zero quando il conduttore passa per la posizione (1),
perché in tale istante il conduttore si muove per un breve intervallo parallelamente al campo senza
tagliarlo; quindi va aumentando fino a raggiungere il valore massimo nella posizione (2) in cui il
conduttore si sposta normalmente al campo; da questo punto la f.e.m. riprende a decrescere fino ad
annullarsi ancora nella posizione (3). Il valore massimo E della f.e.m. indotta avviene in (2) e in (4)
quando il conduttore si sposta in modo perpendicolare al campo: se B è l'induzione del campo, l la
lunghezza del conduttore e v la velocità periferica del conduttore, tale valore massimo è dato dalla
relazione E=Blv.
In un generico istante t il conduttore si porta dalla posizione iniziale (1) alla posizione A definita
dall'angolo α=ωt, se ω è la velocità angolare del cilindro. In questa posizione, la velocità v' con cui il
conduttore taglia perpendicolarmente il campo magnetico ha il valore v'=vsinα=vsin(ωt):
corrispondentemente, l'espressione matematica di tale f.e.m. assume la forma:
e=Blv'=Blvsin(ωt)=Esin(ωt).
All'atto pratico per generare delle f.e.m. sufficientemente elevate si disporranno più conduttori
indotti collegati in serie fra loro, secondo disposizioni particolari, che costituiranno l'avvolgimento
indotto dell'alternatore.
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pag. 82
Relazioni di fase - Somma e differenza fra grandezze alternate
Quando si devono considerare insieme due grandezze alternate della stessa frequenza, per
esempio due tensioni oppure due correnti alternate, possono verificarsi due casi.
1) Le due grandezze alternate, nel corso di ciascun periodo, passano insieme per il valore zero,
raggiungono insieme il valore massimo positivo e poi discendono nello stesso istante a zero e
così via.
Si dice allora che le due grandezze hanno la stessa fase φ0 e cioè sono in concordanza di fase,
e sono corrispondentemente rappresentate da due sinusoidi che passano insieme per lo zero e
raggiungono insieme i rispettivi massimi positivi e negativi come in figura 1.
Le due sinusoidi possono immaginarsi generate da due vettori A e B che ruotano con la stessa
velocità angolare ω, mantenendosi sovrapposti e aventi ciascuno una ampiezza pari al valore
massimo della grandezza rappresentata e una fase pari all'angolo φ0.
Figura 1
2) Le due grandezze alternate, pur avendo la stessa frequenza, cominciano ciascuna il rispettivo
semiperiodo positivo in due istanti diversi e passano corrispondentemente per il rispettivo
valore massimo positivo una prima dell'altra e così via.
Si dice allora che le grandezze alternate hanno diversa fase oppure che sono sfasate fra loro:
esse sono in tal caso rappresentate da sinusoidi generate da due vettori A e B i quali ruotano
insieme con la stessa velocità, ma formano fra loro un certo angolo
φ = φA - φB
Questo angolo definisce la differenza di fase o, come sol dirsi anche, lo sfasamento fra le due
grandezze (figura 2).
Allo sfasamento angolare φ corrisponde lo sfasamento temporale t (intervallo che decorre fra
gli inizi dei semiperiodi delle due grandezze) espresso dalle relazioni
t = φ/ω = (φ/2π)T
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pag. 83
Figura 2
Il vettore che precede nella rotazione si dice in anticipo rispetto all'altro, il qual è a sua volta in
ritardo rispetto al primo.
Due grandezze sfasate di un quarto di periodo sono rappresentate da due vettori a 90° fra loro
come in figura 3 e si dicono in quadratura: mentre una di esse ha già raggiunto il valore massimo, la
seconda è ancora a zero e sta per iniziare un semiperiodo positivo.
Figura 3
Due grandezze alternate invece che hanno costantemente segno opposto si dicono in opposizione
di fase e sono rappresentate da due vettori direttamente opposti come in figura 4, e cioè sfasati fra
loro di 180°, o di mezzo periodo.
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Figura 4
Nello studio dei circuiti a corrente alternata, si presenta spesso il problema di eseguire la somma
o la differenza fra due o più grandezze alternate.
•
Per somma di due o più grandezze alternate si intende la grandezza che si ottiene eseguendo la
somma algebrica dei valori istantanei contemporanei delle grandezze componenti. Nella figura 5
è indicata l'operazione di somma fra due grandezze sinusoidali y1 e y2 sfasate fra loro di un certo
angolo φ : la grandezza risultante y=y1+y2 è ancora sinusoidale, ed è definita dal valore Y=Y1+Y2
che si ottiene, con la regola del parallelogramma, come somma vettoriale dei due vettori che
rappresentano le due sinusoidi componenti. Con la rotazione rigida di questo parallelogramma,
mentre i vettori Y1 e Y2 generano le due sinusoidi componenti y1 e y2, il vettore risultante Y
genera la sinusoide y che rappresenta la somma delle due sinusoidi. Poiché le grandezze
componenti sono sfasate fra loro, i due massimi non si verificano nello stesso istante e perciò il
valore massimo Y della grandezza risultante è minore della somma aritmetica fra i valori massimi
delle componenti. Per il calcolo algebrico del valore massimo Y e della fase φ del vettore
risultante Y, si ricorre usualmente al metodo simbolico.
•
Per eseguire la differenza vettoriale D=A-B fra due grandezze sinusoidali A e B, basta costruire la
risultante con la regola del parallelogramma fra il primo vettore A e il vettore (-B) uguale e
opposto al secondo vettore B, come in figura con l'estremo del primo A, (figura 5a).
La stessa differenza è anche rappresentata dal vettore D che congiunge l'estremo del secondo
vettore B con l'estremo del primo A (figura 5b).
Figura 5a
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Figura 5b
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Valore efficace e valore medio di correnti e tensioni alternate.
Se si considera il calore svolto per effetto Joule da una corrente alternata che attraversa una
determinata resistenza elettrica per un dato tempo, è chiaro che trattandosi di una corrente la quale
varia continuamente da zero ad un massimo e da questo a zero nei due versi, l'effetto medio
risultante potrà essere equiparato a quello di una corrente costante che abbia un opportuno valore
compreso fra lo zero e il massimo: questo valore che definisce l'equivalenza termica fra una corrente
alternata e una corrente continua è detto valore efficace della corrente alternata.
Figura 1
Si consideri la corrente alternata rappresentata dalla sinusoide i (figura 1). Per calcolare l'energia
W dissipata in calore per effetto Joule da questa corrente nell'intervallo di un periodo, quando essa
percorre una data resistenza R, si deve:
1) Dividere l'intervallo di tempo T in tanti piccoli intervalli Δt in ognuno dei quali corrispondenti
valori della corrente, come i1, i2, ..., in, possono ritenersi approssimativamente costanti;
2) Calcolare l'energia dissipata in ognuno di tali intervalli, moltiplicando la resistenza R per il
quadrato della rispettiva corrente e per il tempo Δt;
3) Eseguire la somma di tutti i termini elementari così ottenuti, e porre
L'intensità I della corrente costante termicamente equivalente sarà tale da fornire la stessa
energia W per mezzo della relazione
W =RI2 T
Confrontando le due espressioni di W risulta che l'intensità costante cercata, e cioè il valore
efficace I della corrente alternata, è definito dalle seguenti relazioni:
Per le correnti alternate di forma sinusoidale, è facile dimostrare che il valore efficace risulta
uguale semplicemente al valore massimo diviso per √ 2.
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Infatti la somma dei termini del tipo i2Δt non è altro che la somma di tutte le aree rettangolari di
base Δt e altezza i2, e quindi è l'area delimitata dalla curva i2 (figura 1): se questa area viene divisa
per il periodo T si trova l'altezza di un rettangolo, di base T, che ha la stessa area. Come si vede
nella figura, affinché il rettangolo di base T presenti la stessa area delimitata dalla sinusoide i2,
dovrà avere una altezza esattamente uguale al valore I2/2, ed è questo perciò il valore che deve
assumere l'espressione sotto radice. Ne segue che per una corrente ad andamento sinusoidale si
può scrivere
Si hanno dunque le importanti relazioni
La definizione di valore efficace enunciata per le correnti viene estesa anche a tutte le altre
grandezze elettriche alternate ed in particolare alle tensioni ed alle f.e.m.. Così se una tensione
alternata sinusoidale raggiunge ad ogni semiperiodo nei due versi opposti un valore massimo V, si
dirà che la tensione considerata ha il valore efficace
Si definisce valore medio nel semiperiodo di una corrente alternata il valore I che corrisponde
all'ordinata media di ogni semionda. Con riferimento alla corrente sinusoidale i (figura 2), si osserva
che l'ordinata media è definita dall'altezza del rettangolo che ha per base T/2 e che presenta la
stessa area delimitata dalla semionda della corrente i.
Figura 2
Essendo 2I il valore di questa area, eseguendo il confronto con l'area πI del rettangolo si trova
che il valore medio I, è espresso dalla relazione
Si può notare che il valore medio I di una corrente sinusoidale è minore del valore efficace: il
rapporto fra questo e il primo dà il cosiddetto fattore di forma Kf.
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Rappresentazione simbolica di grandezze sinusoidali.
Lo studio dei circuiti elettrici in regime sinusoidale viene molto semplificato con la
rappresentazione mediante vettori rotanti.
Figura 1
Nella rappresentazione simbolica questi vettori vengono riferiti a un piano complesso (Re, Im)
come in figura 1, e definiti algebricamente mediante un numero complesso scritto nelle forme
binomie
A = A' + jA" = A cos θ + jA sin θ
I vari termini hanno i seguenti significati:
j = √ -1 è l'unità immaginaria, definita dalla relazione j2 =-1
A' = A cos θ è la parte reale del vettore A
A" = A sin θ è la parte immaginaria dello stesso vettore A, il cui modulo è
e il cui argomento è θ = argtan (A"/A') = argsin (A"/A) = argcos (A'/A).
Lo stesso valore A può essere rappresentato in forma esponenziale e polare con le notazioni
L'impiego delle espressioni simboliche sopra definite consente di risolvere algebricamente i
problemi relativi alle reti elettriche in regime sinusoidale mediante le stesse equazioni che si
applicano per le reti in corrente continua, semplicemente sostituendo in esse alle grandezze scalari
come E, V, I che rappresentano le f.e.m., le tensioni e le correnti continue, le espressioni simboliche
delle grandezze vettoriali E, V, I che rappresentano le stesse grandezze in regime sinusoidale, e
sostituendo inoltre ai simboli delle grandezze reali come le resistenze R, le corrispondenti espressioni
simboliche Z=R+jX che rappresentano in termini complessi le impedenze.
Per quanto riguarda la scelta fra le diverse forme delle espressioni simboliche indicate valgono le
osservazioni seguenti:
•
La forma binomia del tipo A=A'+jA" consente la più rapida soluzione dei problemi alle somme
vettoriali di più grandezze, che si risolvono eseguendo separatamente le somme algebriche delle
componenti reali e immaginarie dei singoli vettori, secondo relazioni del tipo
S = A1 + A2 + ... = (A'1 + A'2 + ...) + j (A"1 + A"2 +...)
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che definisce il vettore risultante S il cui modulo è
e il cui argomento è
•
La forma polare (o la forma esponenziale) consente invece la soluzione immediata delle
operazioni di moltiplicazione di un vettore come
per un operatore vettoriale del tipo
semplicemente moltiplicando i due moduli e sommando tra loro i due argomenti: ne risulta un
vettore definito da una relazione del tipo
con V=ZI e φV=φZ+φI
Analogamente, l'operazione di divisione diventa
con I=V/Z e φI=φV+φZ
Si ricordi che i vettori rappresentativi delle grandezze sinusoidali sono dei vettori d’ampiezza
costante idealmente rotanti nel piano complesso con velocità angolare costante ω e perciò
caratterizzati da un argomento θ variabile nel tempo secondo la relazione θ=ωt+φ: essi sono
rappresentati nella posizione corrispondente all'istante t=0; a questa posizione compete l'argomento
θ0=φ il quale definisce la fase della grandezza rappresentata. Nell’esecuzione pratica dei calcoli, e dei
diagrammi vettoriali relativi, sono comunemente assunti come moduli i valori i valori efficaci delle
varie grandezze in luogo dei corrispondenti valori massimi.
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Circuiti ohmico-induttivi.
a) Circuiti puramente ohmici
Si consideri un circuito puramente ohmico (figura1) percorso da una corrente alternata
d’equazione i=I sinωt.
Figura 1
La tensione esistente ai capi della resistenza R del circuito è espressa, in ciascun istante, dalla
relazione VR=Ri=RI sinωt =VR sinωt.
Se dunque la corrente varia secondo il diagramma sinusoidale i, la tensione ai capi del circuito
varia essa pure secondo una sinusoide vR le cui ordinate si ottengono moltiplicando per R le ordinate
rappresentative della corrente: corrispondentemente, se la corrente è rappresentata dal vettore
rotante I, la tensione viene rappresentata da un vettore rotante VR di ampiezza VR=RI in fase con I.
Dividendo per √2 si ottiene la relazione fra i valori efficaci VR e I della tensione e della corrente nella
forma VR=RI.
In termini simbolici, in altre parole in termini vettoriali, si scriverà invece VR=RI
Si può dire quindi che in un circuito puramente ohmico la corrente e la tensione si mantengono in
fase fra loro, e fra i rispettivi valori efficaci, a qualsiasi frequenza, vale la legge di Ohm nella stessa
forma che essa avrebbe in corrente continua.
b) Circuiti puramente induttivi
Quando in un circuito avente induttanza L (figura 2) circola una corrente sinusoidale d’equazione
i=I sinωt nel circuito nasce una f.e.m. d’autoinduzione espressa da
Ponendo, in questa, -cos ω t = sin (ω t - 90°) si ottiene e = ω LI sin (ω t - 90°)
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Figura 2
Questa f.e.m. è anch'essa sinusoidale, ma è sfasata di 90° in ritardo rispetto alla corrente che la
produce. Il suo valore massimo e il suo valore efficace sono definiti dalla relazione seguente:
E = ω LI
Poichè nel circuito è presente la f.e.m. e, ed è invece nulla la resistenza, applicando la legge di
ohm si dovrà scrivere:
vL = -e = ω L I sin (ω t + 90°)
L'ultima relazione viene interpretata dicendo che in un circuito puramente induttivo la tensione vL
è in ciascun istante uguale ed opposta alla f.e.m. di autoinduzione e. Infatti la f.e.m. di
autoinduzione si oppone alle variazioni della corrente: affinché la corrente possa effettivamente
permanere nel circuito è perciò necessario applicare ai capi del circuito stesso una tensione che
faccia equilibrio in ciascun istante alla f.e.m. di autoinduzione. Si esprime questo fatto dicendo che il
fenomeno dell'autoinduzione provoca una caduta induttiva di tensione, uguale e contraria alla f.e.m.
d’autoinduzione.
La tensione vL da applicare al circuito risulta così in opposizione di fase alla f.e.m. e; il
corrispondente vettore rappresentativo vL è uguale e opposto al vettore E, e perciò risulta sfasato di
90° in anticipo rispetto al vettore I che rappresenta la corrente.
Il valore massimo della tensione è vL =ωLI, pari al valore massimo E della f.e.m. di
autoinduzione; il suo valore efficace risulta perciò vL =ωLI essendo I il valore efficace della corrente.
Il prodotto ωL viene correntemente indicato con XL ponendo XL=ωL=2πfL per scrivere di
conseguenza vL = XL I
Nella rappresentazione simbolica, per tenere conto del fatto che il vettore vL deve risultare a 90°
in anticipo rispetto al vettore I, si dovrà scrivere
VL=j XL I = j ω LI
Il fattore immaginario jXL=jωL che tiene il posto di una resistenza, è designato col nome di
reattanza induttiva del circuito, ed è misurata in ohm.
Inversamente si può dire che applicando al circuito induttivo una tensione V esso assorbe una
corrente il cui vettore rappresentativo è dato dal rapporto I=V/jXL e risulta sfasato di 90° in ritardo
rispetto alla tensione.
In pratica, i circuiti puramente induttivi non esistono ma sono considerati come tali quei circuiti in
cui la resistenza ohmica è trascurabile rispetto alla reattanza.
Naturalmente molto dipende dalla frequenza, perché se la frequenza è bassa anche una forte
induttanza dà luogo a una reattanza modesta, mentre se la frequenza è molto alta, anche una
induttanza relativamente piccola presenta una reattanza notevole.
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c) Circuiti ohmico-induttivi
Nel caso più generale, un circuito elettrico presenta sempre una certa resistenza ohmica R ed una
certa induttanza L, e corrisponde perciò allo schema in figura 3.
Sia I il vettore rappresentativo della corrente che attraversa il circuito. La caduta ohmica dovuta
alla resistenza R è rappresentata dal vettore VR di ampiezza VR=RI in fase con il vettore I. D'altra
parte, se f è la frequenza, l'induttanza L oppone alla corrente una reattanza XL=2πfL, la quale
determina una caduta induttiva che è rappresentata da un vettore VL di ampiezza VL=XLI e sfasato di
90° in anticipo rispetto al valore I.
Ne segue allora che per mantenere nel circuito la corrente I si dovrà applicare al circuito stesso
una tensione definita in ampiezza e fase dal vettore risultante V=VR+VL secondo le costruzioni
grafiche riportate in figura 3.
Questi diagrammi sintetizzano l'intero comportamento del circuito ohmico-induttivo che può
essere così riassunto: la tensione V da applicare al circuito per mantenervi una corrente sinusoidale
è determinata in ampiezza e fase dall'ipotenusa di un triangolo rettangolo che ha per cateti il vettore
rappresentativo della caduta ohmica VR=RI, in fase con il vettore rappresentativo della corrente I, e
il vettore rappresentativo della caduta induttiva VL=jXLI sfasato rispetto alla corrente di 90° in
anticipo. Questo triangolo costituisce il triangolo delle tensioni del circuito.
Si conclude che la tensione totale ai capi del circuito è rappresentata da un vettore V che risulta
sfasato in anticipo rispetto alla corrente I di un certo angolo φ il cui valore dipende dalla resistenza R
e dalla reattanza XL del circuito.
Per il calcolo di questa tensione basta applicare il teorema di Pitagora al triangolo predetto
Ne risulta l'espressione
Rispetto ai valori della corrente e della tensione, il circuito si comporta quindi come se fosse
dotato di una resistenza apparente definita in ohm dall'espressione
questa resistenza apparente viene designata col nome di impedenza del circuito e indicata con Z;
essa è definita dalla relazione
Conseguentemente, si esprime il valore della tensione mediante la relazione V=ZI.
L'impedenza Z risulta geometricamente rappresentata dall'ipotenusa di un triangolo rettangolo
che ha per cateti la resistenza R e la reattanza XL. Questo triangolo è detto triangolo dell'impedenza
e risulta simile al triangolo delle tensioni. La determinazione dell'angolo di sfasamento φ fra tensione
e corrente può essere fatta calcolandone la tangente mediante il rapporto tan φ = XL/R.
Con le notazioni del metodo simbolico i fatti sopra esposti si traducono nelle relazioni vettoriali
Se si pone
a rappresentare la impedenza simbolica del circuito, la relazione fra tensione e corrente diventa
semplicemente V=ZI.Si può quindi dire che un circuito ohmico-induttivo presenta un’impedenza
rappresentata da un numero complesso che ha come parte reale la resistenza R e come coefficiente
dell'immaginario la reattanza XL l'argomento φ=argtan XL/R dell’impedenza esprime l'angolo di
sfasamento fra la tensione e la corrente del circuito.
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Circuiti ohmico-capacitivi.
a) Circuiti puramente capacitivi
Si consideri un condensatore come in figura 1 e si supponga che la resistenza e l'induttanza delle
connessioni siano nulle: si dice in tal caso che si tratta di un circuito puramente capacitivo. Fra le
armature del condensatore, di capacità C, agisca la tensione rappresentata dalla curva sinusoidale vC
di figura 2, la quale varia nel tempo secondo la legge vC=VCsinωt essendo VC il valore massimo e ω la
pulsazione. In queste condizioni, se in un tempo dt la tensione subisce un incremento dvC il
condensatore assorbe una certa corrente i, e la sua carica subisce un incremento del valore
dq=idt=CdvC
Figura 1
Per la corrente assorbita dal condensatore dovrà quindi risultare
Ponendo, in questa, cos ωt=sin (ω+90°) si ottiene l'espressione i=ωCVC sin(ωt+90°)
Si vede quindi che il circuito del condensatore è sede di una corrente sinusoidale come la tensione
impressa, sfasata rispetto a questa di 90° in anticipo, con un valore massimo espresso da IC=ω CVC
La tensione e la corrente vengono a corrispondersi secondo le relazioni di ampiezza e fase
rappresentata in figura 2: mentre la tensione aumenta da zero al valore massimo VC, il condensatore
si scarica assorbendo le cariche q con una corrente che inizia col valore massimo IC e che va poi
gradualmente diminuendo fino a ridursi a zero. Successivamente, la tensione alle armature
diminuisce da VC a zero e il condensatore si scarica mediante una corrente analoga alla precedente
ma di verso opposto. Nel mezzo periodo successivo si ripetono vicende analoghe, con il
condensatore che si carica in verso opposto.
Passando dai valori massimi ai valori efficaci si ottiene la relazione IC=ωCVC. Se si pone
XC = 1/ωC = 1/2πfC
la corrente IC viene a essere definita dal rapporto IC=VC/XC
Questa relazione si interpreta dicendo che il condensatore oppone al passaggio della corrente
alternata una specie di resistenza apparente XC=1/(ωC) alla quale si dà il nome di reattanza
capacitiva, misurata in ohm.
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Figura 2
Corrispondentemente, volendo far attraversare un dato condensatore da una corrente alternata di
valore efficace IC prefissato, occorrerà applicare alle sue armature una tensione di valore efficace
VC=XCIC
Nel linguaggio tecnico, si dice allora che un condensatore inserito in un circuito percorso da
corrente alternata sinusoidale, provoca una caduta capacitiva VC che ha il valore efficace XCIC ed è
sfasata di 90° in ritardo rispetto alla corrente.
Nella rappresentazione simbolica si tiene conto di questo risultato scrivendo la precedente
relazione nella forma
VC = -jXCIC = -j (1/ωC)IC
Con ciò la reattanza simbolica capacitiva viene ad essere rappresentata da un numero
immaginario negativo, e i suoi effetti sono esattamente opposti a quelli di una reattanza induttiva.
b) Circuiti ohmico-capacitivi
All'atto pratico il circuito che si collega alle armature di un condensatore presenta sempre una
certa resistenza ohmica R e assume le caratteristiche corrispondenti allo schema di figura 3.
Figura 3
La tensione totale V ai capi del circuito, si ottiene in tal caso componendo vettorialmente la
caduta ohmica VC=RI (in fase con la corrente) con la caduta capacitiva VC=XCI (a 90° in ritardo). Si
ha così il triangolo delle tensioni di figura 4.
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Figura 4
Il valore efficace della tensione viene a risultare
Per l'effetto combinato dalla resistenza ohmica R e della reattanza capacitiva XC il circuito oppone
così alla corrente un’impedenza capacitiva
Questa impedenza è rappresentata dall'ipotenusa di un triangolo rettangolo che ha per cateti la
resistenza R e la reattanza capacitiva XC (figura 5).
Figura 5
In questo tipo di circuito, la corrente è sfasata in anticipo sulla tensione di un certo angolo φ ,
compreso fra 0° e 90°, definito in valore dalla relazione tan φ =XC/R.
Nella rappresentazione simbolica, all’impedenza capacitiva corrisponde l'espressione complessa
Z = R - jXC = R - j (1/ωC)
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Impedenze in serie.
Se si collegano in serie più impedenze come le Z1, Z2, Z3 di figura 1, le rispettive tensioni V1, V2,
V3 risultano espresse dalle relazioni simboliche essendo I la comune che le attraversa.
V1=Z1I=(R1+jX1)I V2=Z2I=(R2+jX2)I
V3=Z3I=(R3+jX3)I
Figura 1
In base alla legge di Ohm e al teorema di Steinmetz-Kennelly, la tensione V ai capi della serie
sarà espressa dalla relazione simbolica V=V1+V2+V3.
Per eseguire questa somma occorre costruire i triangoli delle tensioni relative alle varie
impedenze uno di seguito all'altro come in figura 2.
Figura 2
La tensione risultante V è formata da una componente attiva VR in fase con la corrente, pari alla
somma aritmetica di tutte le cadute ohmiche della serie, e di una componente reattiva VX a 90° in
anticipo o in ritardo, pari alla somma algebrica di tutte le cadute induttive ( o capacitive)
VR = (R1+R2+R3) I
;
VX = (X1+X2+X3) I
Il valore della tensione totale ai capi della serie è pertanto:
Il suo sfasamento rispetto alla corrente è definito dalla relazione:
tan φ = (X1+X2+X3) / (R1+R2+R3)
Con diagramma analogo si esegue la composizione delle impedenze (figura 3): le impedenze in
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serie si compongono cioè geometricamente, costruendo uno di seguito all'altro i triangoli delle
impedenze singole.
Figura 3
L'intera serie equivalente nel suo complesso a un'unica impedenza avente una resistenza
equivalente pari alla somma di tutte le resistenze e una reattanza equivalente pari alla somma
(algebrica) di tutte le reattanze
R=R1+R2+R3
;
X=X1+X2+X3
Il valore dell'impedenza equivalente della serie risulta
Questo valore è minore della somma aritmetica delle impedenze componenti, salvo il solo caso in
cui tutte queste impedenze abbiano lo stesso argomento φ .
In termini simbolici si ha semplicemente
Z=Z1+Z2+Z3=(R1+jX1)+(R2+jX2)+(R3+jX3)
Ne risulta
Z=(R1+R2+R3)+j(X1+X2+X3)=R+jX
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Impedenze in parallelo - Ammettenza.
In un circuito formato da più impedenze in parallelo (figura 1), le varie impedenze risultano
alimentate tutte dalla stessa tensione V: le correnti assorbite dalle singole impedenze sono definite
dalle relazioni I1=V/Z1; I2=V/Z2; I3=V/Z3.
Figura 1
Queste correnti risultano ordinatamente sfasate in ritardo (o in anticipo) sulla tensione degli
angoli φ1, φ2, φ3 definiti dalle relazioni tanφ1=X1/R1; tanφ2=X2/R2; tanφ3=X3/R3
Ne risulta il diagramma vettoriale indicato nella figura 2. La corrente totale I nel filo di linea si
ottiene costruendo la somma vettoriale dei vettori I1, I2, I3 che rappresentano le diverse correnti
I=I1+I2+I3.
Figura 2
Questo risultato esprime il primo principio di Kirchhoff esteso alle reti in regime sinusoidale.
Si può anche porre, direttamente I=V/Z ove Z è la impedenza equivalente del circuito espressa
dalla relazione
Z = 1 / (1/Z1) + (1/Z2) + (1/Z3)
Si ha dunque una perfetta analogia coi circuiti a corrente continua, purché si considerino, in luogo
delle resistenze, le impedenze espresse per mezzo delle loro notazioni simboliche.
Per due soli rami in parallelo si ha in particolare
Z = Z1Z2 / (Z1+Z2)
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•
AMMETTENZA
Viene chiamata ammettenza Y di un circuito la grandezza inversa dell’impedenza
Y=1/Z=1/V
Per il calcolo dell'ammettenza basta porre (considerando insieme i circuiti induttivi e capacitivi)
Le due componenti dell'ammettenza (espresse in siemens) vengono chiamate, rispettivamente
conduttanza e suscettanza del circuito.
G = R / (R2+X2)
;
B = X / (R2+X2)
Esse rappresentano il circuito stesso per mezzo di due rami fra loro in parallelo (figura 3) che
assorbono rispettivamente le due componenti attiva e reattiva della corrente la prima in fase con la
tensione V e la seconda in quadratura.
Figura 3
IG = I cos φ
;
IB = I cos φ
Tali componenti sono espresse dalle relazioni
La corrente totale I è invece espressa dalle relazioni
I = YV = (G ± jB)V = IG+IB
Quando si hanno circuiti fra loro in parallelo, è facile controllare che l'ammettenza equivalente è
pari alla somma delle ammettenze componenti
Y = Y1+Y2+Y3 = (G1+G2+G3) + j(±B1±B2±B3)
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Risonanza.
a) Circuito serie
Con riferimento al circuito rappresentato in figura 1, la tensione v ai capi della serie è uguale in
ogni istante alla somma algebrica dei valori istantanei contemporanei delle tensioni vR, vL, vC
esistenti ai capi della resistenza, della induttanza e della capacità.
Figura 1
In regime sinusoidale questa somma algebrica fra i valori istantanei si risolve in una somma
vettoriale che ha per lati consecutivi il vettore VR=RI in fase con la corrente I, il vettore VL=jXLI a
90° in anticipo rispetto alla corrente I, il vettore VC=-jXCI a 90° in ritardo rispetto alla corrente I.
Supponendo XL>XC, si ha il diagramma in figura 2.
Figura 2
Si osserva che le tensioni misurate ai capi dell'induttanza e del condensatore sono rappresentate
da due vettori opposti:
Figura 3
la loro somma vettoriale si traduce così in una differenza aritmetica, come nel diagramma in
figura 3 che rappresenta la composizione vettoriale
V = VR+VL+VC = VR+VX
corrispondente alla relazione simbolica
V = R I + jXL I - jXC I = R I + j(XL-XC)I = (R+jX)I = Z I
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Come si vede, l'effetto risultante delle due reattanze in serie XL, e XC corrisponde a quello di una
reattanza equivalente X di valore pari alla differenza
X = XL-XC = ωL-1/ωC
mentre l'impedenza del circuito risulta
Z = R + jX = R + j(XL -XC)
Le due reattanze induttiva e capacitiva esercitano l'una rispetto all'altra un'azione di compenso
per modo che la reattanza complessiva del circuito può anche risultare più piccola delle due
reattanze singole: fra le due reattanze di segno opposto prevale naturalmente quella che ha maggior
valore, e il circuito assume nel suo complesso un carattere induttivo o capacitivo secondo che
prevalga l'una o l'altra reattanza.
Se XL è maggiore di XC (cioè ωL>1/ωC), la reattanza risultante X=XL-XC rimane positiva e il circuito
conserva carattere induttivo: la tensione ai capi della serie risulta in tal caso sfasata in anticipo sulla
corrente dell'angolo φ .
Se invece XL è minore di XC (cioè ωL<1/ωC), la reattanza risultante X=XL-XC diviene negativa e si
ha nel complesso un circuito a carattere capacitivo. Il diagramma vettoriale prende in tal caso la
forma di figura 4: la tensione totale V risulta sfasata in ritardo sulla corrente dell'angolo φ .
Figura 4
Se infine si realizza la condizione XL=XC (cioè ωL=1/ωC), la reattanza risultante X=XL-XC, diventa
nulla e si ha nel complesso un circuito con carattere ohmico. In tal caso il diagramma vettoriale
assume la forma particolare rappresentata in figura 5:
Figura 5
La tensione totale risulta V=VR+VL+VC=VR=RI poiché le due tensioni VL e VC ai capi della
induttanza e della capacità vengono a risultare uguali e di verso opposto. Avendosi XL-XC=0,
l'impedenza del circuito diviene
Cioè risulta uguale alla resistenza ohmica R: il circuito si comporta come se fosse senza
reattanza, e cioè come se avesse solo resistenza ohmica.
In queste condizioni si ha l'esatto compenso fra gli effetti dell'induttanza e della capacità: si dice
perciò che il circuito è in regime di risonanza. Poiché in tal caso si ha l'uguaglianza XL=XC, si può dire
che in un circuito con induttanza e capacità in serie si verifica la risonanza quando si ha ωL=1/(ωC)
cioè ω2LC=1.
La condizione di risonanza dipende, oltre che dai valori di L e di C, anche dal valore della
frequenza φ : per una data induttanza L e una data capacità C, il circuito entra in risonanza se la
frequenza soddisfa alla relazione
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pag. 101
Questo valore fR si chiama frequenza di risonanza. Per una data frequenza, un circuito può essere
portato in risonanza variando l'induttanza o la capacità.
Se si varia l'induttanza, la risonanza è raggiunta quando la capacità assume il valore
Se si varia la capacità, la risonanza è raggiunta quando la capacità assume il valore
Spesso, in condizioni di risonanza, pure compensandosi reciprocamente, le due tensioni XLI e XCI
esistenti ai capi dell'induttanza e della capacità possono assumere valori anche molto più elevati
della tensione V che si ha agli estremi del circuito: queste maggiori tensioni prendono il nome di
sovratensioni di risonanza.
b) Circuito parallelo
Si consideri il circuito (figura 6), costituito da un ramo induttivo (con resistenza ohmica RL e
reattanza XL) in parallelo con un ramo capacitivo (costituito da una resistenza RC e da una reattanza
XC).
Figura 6
Sia V la tensione di frequenza f applicata fra i capi dell'arco doppio. Il lato induttivo assorbe una
corrente IL il cui valore e il cui sfasamento φ L in ritardo risultino
Il lato capacitivo assorbe la corrente IC di valore e sfasamento φ C in anticipo dati da
Il diagramma vettoriale assume la forma indicata in figura 7.
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Figura 7
Nel caso particolare, messo in evidenza nella figura 8, in cui si realizza l’uguaglianza IBC=IBL la
corrente totale assorbita I=IL+IC può risultare in fase con la tensione V.
Figura 8
L'arco doppio equivale allora nel suo complesso a un circuito puramente ohmico: si dice che in tal
caso il circuito è in regime d’antirisonanza.
Se il circuito si riduce a una induttanza pura in parallelo con una capacità pura, come figura 9, la
corrente IL risulterà in opposizione di fase rispetto alla corrente IC.
Figura 9
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Se inoltre queste due correnti sono anche uguali in valore (regime di risonanza), la corrente
risultante I si annulla.
Si arriva allora a questo risultato, apparentemente strano: la linea che alimenta l'arco doppio non
è percorsa da alcuna corrente (come se fosse interrotta in pratica d’impedenza infinita), mentre i
due lati dell'arco sono percorsi da correnti uguali e opposte che possono avere dei valori anche assai
elevati (sovracorrenti di risonanza). In tal caso il regime è tale che le due correnti IL e IC, uguali in
valore e direttamente opposte, corrispondono ad un'unica corrente che oscilla in seno al circuito
chiuso costituito dall'induttanza e dalla capacità: il valore della frequenza di risonanza è pari a quello
già trovato per il circuito serie.
Più in generale, e cioè in presenza di resistenze come RL ed RC nei due rami derivati, la frequenza
di risonanza si ottiene ponendo l’uguaglianza IBL=IBC fra le componenti reattive delle due correnti: in
base alle seguenti relazioni
dovrà quindi risultare
Sostituendo le espressioni XL=ωL e XC=1/(ωC) e risolvendo rispetto a ω si ottiene
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Fenomeni di mutua induzione fra circuiti a corrente alternata.
E' noto che se due circuiti sono posti in presenza l'uno dell'altro, può accadere che il campo
magnetico generato dal primo circuito arrivi tutto o in parte a concentrarsi con il secondo e
viceversa. In regime di correnti variabili i due circuiti sono allora mutuamente dipendenti, perché
ogni variazione di corrente nell'uno fa sorgere una f.e.m. di mutua induzione nell'altro.
L'entità del fenomeno dipende dal valore del coefficiente di mutua induzione M il quale è legato a
sua volta ai valori delle induttanze proprie dei due circuiti mediante la relazione
essendo k quel numero, minore o uguale a 1, che costituisce il fattore di accoppiamento fra i due
circuiti. Analogamente a quanto già visto per la f.e.m. di autoinduzione (espressa da E=ωLI e sfasata
di 90° in ritardo sulla corrente) nel caso della mutua induzione si trova che se il primo circuito è
percorso da una corrente alternata di valore efficace I1, questa induce nel secondo circuito una
f.e.m. che assume il valore efficace E2=ωMI1, e che risulta sfasata di 90° in ritardo rispetto alla
corrente I1 che la induce. Al prodotto ωM si attribuisce il nome di reattanza mutua fra i due circuiti e
si pone
ωM = 2πfM = XM
Il valore efficace della f.e.m. di mutua induzione generata nel secondo circuito si esprime con ciò
mediante la relazione
E2 = ωMI1 = XMI1
Nei diagrammi vettoriali questa f.e.m. viene rappresentata da un vettore E2 a 90° in ritardo
rispetto al valore I1 come in figura 1.
Figura 1
Reciprocamente se il secondo circuito è percorso a sua volta da una corrente I2, si ha nel primo
circuito una f.e.m. di mutua induzione E1 che ha il valore efficace
E1 = ωMI2 = XMI2
ed è sfasata di 90° in ritardo sulla corrente I2. Nella rappresentazione simbolica queste f.e.m.
sono espresse dalle relazioni
E1 = -jXMI2 ; E2 = -jXMI1
Della f.e.m. di mutua induzione si tiene conto allo stesso modo di una qualunque altra f.e.m.
presente in un circuito.
Figura 2
Così, se ad esempio si considerano i due circuiti accoppiati di figura 2, la legge di Ohm per l'uno e
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per l'altro di essi dovrà essere scritta ponendo
V1+E1 = R1I1+jX1I1
E2 = R2I2+jX2I2
A queste equazioni vettoriali corrisponde il diagramma di figura 3.
Figura 3
Sostituendo le espressioni
E1 = -jXMI2 ; E2 = -jXMI1
delle f.e.m. e ordinando, si ottengono le relazioni
V1 = R1I1+jX1I1+jXMI2
0 = R2I2+jX2I2+jXMI1
Si vede quindi che l'accoppiamento magnetico fra i due circuiti comporta che in ciascuno di essi si
consideri, in serie alle reattanze X1 e X2 anche la reattanza mutua XM. Le due correnti incognite I1 e
I2. Sul fenomeno della mutua induzione sono basati i trasformatori elettrici. Si denota con il nome di
trasformatore ogni coppia di circuiti elettricamente distinti e magneticamente concatenati,
predisposti col preciso scopo di utilizzare il fenomeno della mutua induzione per realizzare un
trasferimento di potenza da un circuito all'altro. Questi due circuiti sono designati col nome di
primario e secondario del trasformatore.
Potenza istantanea e potenza attiva
La potenza elettrica P assorbita da un circuito in corrente continua, alimentato agli estremi da una
tensione V e percorso da una corrente I, è espressa in watt dal prodotto
P=VI
La tensione e la corrente sono in tal caso costanti, e anche la potenza P perciò rimane costante
nel tempo. Passando invece a considerare un circuito a corrente alternata, si ha che la tensione v e
la corrente i variano continuamente da un istante all'altro con vicenda periodica: di conseguenza la
potenza elettrica data dal prodotto dei valori istantanei
p=vi
Della tensione e della corrente, risulterà variabile da istante a istante.
E' chiaro allora che, se si vuol valutare l'effetto utile di questa potenza variabile nel tempo, si
dovrà considerare il valore medio nell'intervallo di un periodo: questo valore medio della potenza,
moltiplicato per il tempo considerato, forma l'energia assorbita, come se si trattasse di una potenza
costante.
Il valore medio della potenza, nel corso di un periodo si definisce brevemente col nome di potenza
attiva della corrente alternata e s’indica con P. Essa dipende dai valori efficaci della tensione e della
corrente, ma dipende inoltre dallo sfasamento fra tensione e corrente. Si dovranno considerare
perciò separatamente i diversi casi.
Potenza associata a una corrente in fase con la tensione
In un circuito ohmico, la tensione e la corrente si mantengono in fase fra loro come in figura; in
conseguenza di questo fatto la tensione v e la corrente i s’invertono insieme e perciò hanno sempre
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segno concorde.
In tal modo la potenza elettrica p risulterà sempre positiva e varierà da un istante all'altro come
le ordinate di una curva costruita moltiplicando fra loro le ordinate corrispondenti della tensione e
della corrente:
p = v i = V sin ω t x I sin ω t = V I sin2 ω t
L'andamento della curva è quello riportato in figura, ed è costituito da una sinusoide p che ha per
asse di simmetria la retta MN tracciata in corrispondenza della metà dell'ordinata massima P=VI.
Questa sinusoide della potenza compie un periodo completo per ogni semiperiodo della corrente e
tensione: si esprime brevemente questo fatto dicendo che la potenza elettrica considerata ha
carattere pulsante con frequenza doppia della corrente.
A ogni periodo della corrente e tensione, la potenza varia da zero (quando sono nulle sia la
corrente che la tensione) fino a raggiungere il valore massimo P=VI pari al prodotto dei due valori
massimi della corrente e tensione, per ritornare quindi a zero e ripetere le stesse vicende nel mezzo
periodo successivo.
Il valore medio della potenza corrisponde all'ordinata della retta di compenso MN; poiché questa
ordinata è la metà dell'ordinata massima P=VI, si può dire senz'altro che il valore medio della
potenza nel corso di un periodo, e cioè la potenza attiva P, è data dal semiprodotto dei due valori
massimi della tensione e della corrente. Si ha cioè P=(VI)/2
Per esprimere questa potenza mediante i valori efficaci V e I basta ricordare che
V=√ 2V ; I=√ 2I
Risulta allora più semplicemente P=VI.
Si ha così la seguente conclusione:
in un circuito a corrente alternata in cui la corrente e la tensione si mantengono in fase fra loro la
potenza attiva è data dal prodotto dei valori efficaci della tensione e della corrente
Se R è la resistenza equivalente del circuito, fra la tensione e la corrente si ha la relazione V=RI.
Ne segue che la potenza attiva può essere espressa anche da
P = R I2 = U2 / R
Potenza associata a una corrente in quadratura con la tensione - Potenza reattiva
Si consideri il caso in cui la corrente sia sfasata di 90° rispetto alla tensione: questo stato di
regime si verifica in un circuito puramente induttivo (corrente a 90° in ritardo come in figura 2)
oppure in un circuito puramente capacitivo (corrente a 90° in anticipo come in figura 1).
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Figura 1
Le corrispondenti sinusoidi della tensione applicata v=Vsinωt e della corrente assorbita
i=Isin(ωt±90°)=±Icosωt sono riportate nelle figure.
Figura 2
Per costruire le curve che, nei due casi, hanno per ordinate i valori istantanei della potenza p=vi
si devono eseguire i prodotti delle precedenti sinusoidi, che forniscono le relazioni
p = ± V sinωt x I cosωt = ± (VI/2) sinωt
Si osserva subito che la potenza varia secondo curve che sono ancora delle sinusoidi di frequenza
doppia di quella della corrente come nel caso precedente, ma con la differenza sostanziale che qui
l'asse di simmetria di queste sinusoidi (il cui valore massimo è pari al prodotto VI/2=VI) coincide con
l'asse dei tempi t.
A ogni quarto di periodo delle correnti la potenza s’inverte assumendo ogni volta una successione
di valori uguali e di segno opposto: la potenza dunque non ha più carattere pulsante ma ha carattere
alternativo e conseguentemente il suo valore medio nel periodo è nullo.
Si pone in rilievo così il fatto fondamentale seguente: in un circuito in cui la tensione e la corrente
sono sfasate fra loro di 90°, la potenza attiva P è nulla, qualunque sia il valore efficace della
tensione o della corrente.
Ciò vuol affermare che, la corrente non produce in tal caso nessun effetto energetico esterno in
pratica non dà luogo a sviluppo di calore ne produce lavoro utile di qualunque forma.
Riepilogando risulta che in un circuito in cui tensione e corrente sono in quadratura fra loro, il
prodotto VI dei valori efficaci della tensione e della corrente non ha più il significato di rappresentare
una potenza attiva, la quale è nulla qualunque sia la tensione o la corrente, ma può essere invece
assunto a definire l'entità dello scambio di energia che si verifica nel circuito; con questo significato,
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il prodotto del valore efficace della tensione V per il valore efficace della corrente I, e cioè il valore
massimo della potenza scambiata fra generatore e circuito, viene definito col nome di potenza
reattiva e indicato con Q ponendo Q=VI. Per ricordare che questa non è una potenza attiva, essa
non è misurata in watt, ma in voltampere-reattivi (var). A tale potenza sono convenzionalmente
associati segni opposti a seconda che il circuito sia induttivo oppure capacitivo: precisamente si
assume come positiva la potenza reattiva QL che compete ai circuiti induttivi; si assegna invece il
segno negativo alla potenza reattiva QC dei circuiti capacitivi.
Potenza associata a una corrente comunque sfasata rispetto alla tensione
Potenza apparente - Fattore di potenza
Nei casi più comuni della pratica la corrente e la tensione non sono né in fase fra loro né in
quadratura, ma sono invece sfasate l'una rispetto all'altra di un certo angolo φ . Per stabilire quale
sarà in tal caso la potenza attiva P e la potenza reattiva Q assorbite dal circuito si può ragionare nel
modo seguente. Si scompone il vettore I nelle due componenti attiva e reattiva IG e IB. S’immagina
con ciò di sostituire, alla corrente che effettivamente percorre il circuito, tali due componenti. Di
queste due correnti, la componente IB è in quadratura con la tensione e perciò determina solo uno
scambio di energia fra il generatore e il circuito; l'effetto utile medio è invece compiuto
esclusivamente dalla componente IG in fase con la tensione. Si viene così a concludere che la
potenza attiva P corrispondente alla corrente I è rappresentata semplicemente dal prodotto del
valore efficace della tensione U per il valore efficace della componente attiva IG=Icosφ .
P = V IG = V I cos φ
Questa formula mette chiaramente in rilievo che la potenza attiva associata ad una corrente
alternata non dipende solo dai valori della tensione e della corrente, ma dipende altresì dal rispettivo
angolo di sfasamento φ . Misurando la tensione e la corrente relative a qualunque apparecchio o
macchina a corrente alternata non si può quindi valutarne la potenza se non si conosce anche quale
è l'angolo di sfasamento. Il prodotto VI della tensione per la corrente è designato semplicemente
come la potenza apparente. Per ottenere la potenza attiva P si deve moltiplicare ancora per il
termine cos φ , il qual è designato perciò col nome di fattore di potenza del carico e indicato col
simbolo λ. Indicando la potenza apparente con S si scrive: S = V I e conseguentemente si ha:
P = S cos φ = S λ
Quest'ultima s’interpreta affermando che la potenza attiva di una corrente alternata è data dal
prodotto della potenza apparente per il fattore di potenza.
La potenza attiva si esprime in watt; la potenza apparente invece, che corrisponde al prodotto di
una tensione per una corrente senza rappresentare tuttavia una vera potenza, è espressa in
voltampere (VA). Il fattore di potenza, definito dalle relazioni
λ = cos φ = R/Z = P/S
Varia, secondo i valori di R e Z dei circuiti che si considerano, fra i limiti zero e uno: è uguale a
zero quando l'angolo φ è di ±90°, come accade nei circuiti puramente induttivi o capacitivi (in tali
casi la potenza attiva P è nulla, qualunque sia la potenza apparente), è invece uguale a uno nei
circuiti puramente resistivi. Considerando, in modo analogo, la componente IB della corrente, si
ottiene l'espressione della potenza reattiva che assume la forma
Q = V IB = V I sin φ
Riassumendo i fatti esposti, si può dire che in un circuito a corrente alternata, con tensione e
corrente sfasate fra loro di un certo angolo φ , si ha:
− Una potenza attiva P che rappresenta la potenza media che fluisce costantemente dal
generatore elettrico verso il circuito utilizzatore nel quale si trasforma in calore per effetto Joule
o in lavoro;
− Una potenza reattiva Q che ha il significato di definire il valore massimo della potenza, che
è scambiata alternamente fra il generatore ed il circuito utilizzatore senza produrre nessun
lavoro utile;
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− Una potenza apparente S risultante dalla combinazione fra la potenza attiva P e la potenza
reattiva Q.
Fra le potenze indicate, si ha l’importante relazione che si ottiene quadrando e sommando le
espressioni delle due potenze e ricordando che sin2 φ + cos2 φ =1.
S2=P2+Q2
Questa relazione dimostra che le tre potenze attiva, reattiva e apparente stanno fra loro come i
cateti e l'ipotenusa di un triangolo rettangolo il quale costituisce il triangolo delle potenze del
circuito. Da questo triangolo si rilevano, in particolare, le relazioni
Q = S sin φ = P tan φ
Dal triangolo delle tensioni si ricavano invece le relazioni
V cos φ = VR = R I
;
V sin φ = VX = X I
che, sostituite nelle formule delle potenze, forniscono
P = V I cos φ = R I2
;
Q = V I sin φ = X I2
Queste ultime consentono di determinare la potenza attiva e la potenza reattiva direttamente in
funzione della resistenza R del circuito e della reattanza X.
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Composizione delle potenze attive, reattive e apparenti - Metodo delle potenze
E' facile intuire che, la potenza attiva assorbita da una qualunque rete d’utilizzatori deve
corrispondere in ogni caso alla somma aritmetica delle potenze attive che competono ai singoli
utilizzatori di cui essa è costituita. Questo risultato, infatti, è un’immediata conseguenza del principio
di conservazione dell'energia, ed è talvolta designato col nome di principio di conservazione delle
potenze attive.
Per le potenze reattive vale un principio analogo, salvo il fatto che nei circuiti induttivi e capacitivi
accade un'azione di compensazione fra le potenze reattive: ciò si esprime affermando che nei circuiti
induttivi e capacitivi le potenze reattive hanno segni contrari. Ne risulta che le potenze reattive nei
circuiti complessi si compongono per somma algebrica, considerando convenzionalmente negative
quelle relative alle reattanze capacitive XC, e positive quelle relative alle reattanze induttive XL.
Come conseguenza del principio di conservazione delle potenze attive e reattive, i problemi della
composizione delle potenze attive, reattive e apparenti, e nel calcolo delle correnti e delle tensioni
nei circuiti complessi trovano una pratica e semplice soluzione nel cosiddetto metodo delle potenze.
Questo metodo consiste nel costruire uno di seguito all'altro i triangoli delle potenze relativi ai
singoli utilizzatori, e calcolando poi, in ciascuna sezione del circuito, la corrente o la tensione
ponendo rispettivamente
I = S/V
;
V = S/I
Si supponga che una stessa linea elettrica alimenti due o più apparecchi utilizzatori 1, 2, 3, ...
allacciati come in figura 1, nella sua sezione terminale T.
Figura 1
Ognuno di questi preleverà in generale dalla linea una certa potenza attiva e una certa potenza
reattiva: così ogni carico è caratterizzato nel suo funzionamento da un determinato triangolo delle
potenze.
Considerando ad esempio il carico 1 leggermente induttivo, il carico 2 fortemente capacitivo e il
carico 3 puramente ohmico, i triangoli delle potenze assumono l'aspetto indicato in figura 2.
Figura 2
La composizione di queste potenze si effettua costruendo Questi triangoli uno di seguito all'altro
come in figura 3.
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pag. 111
Figura 3
Il triangolo segnato in tratto e punto, rappresenta le potenze risultanti in linea, in conformità alle
seguenti regole che esprimono il teorema di Boucherot.
1. la potenza attiva totale P è la somma aritmetica delle potenze attive parziali;
2. la potenza reattiva risultante Q è la somma algebrica delle potenze reattive parziali;
3. la potenza apparente risultante S è la somma geometrica delle potenze apparenti: essa è
rappresentata dall'ipotenusa del triangolo rettangolo che ha per cateti la potenza attiva
totale P e la potenza reattiva totale Q; il suo valore quindi è
In base al triangolo così definito resta anche determinato il fattore di potenza nella sezione
terminale T della linea
Inoltre, essendo noto il valore della tensione V che agisce in questa sezione, è possibile calcolare
la corrente totale in linea I, per mezzo delle relazioni
I = S / V = P / (V cosϕ)
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Rifasamento
Le reti per la distribuzione dell'energia elettrica alle utenze diffuse sono destinate in pratica ad
alimentare i quattro servizi fondamentali dell'illuminazione, del riscaldamento e condizionamento,
della forza motrice ottenuta con l'impiego dei motori elettrici, e dell’elaborazione e trasmissione
dell'informazione.
La maggior parte di queste utenze è caratterizzata da un consistente assorbimento d’energia
reattiva che si assomma all’energia attiva trasferita agli apparecchi utilizzatori. Ne risulta che il
fattore di potenza medio mensile che si registra nelle reti di distribuzione a utenza mista può variare
entro valori che vanno da 0,5 a 0,9.
Come è noto, la potenza reattiva comporta un trasporto ozioso di corrente reattiva lungo la linea
e determinata in queste maggiori perdite; inoltre impegna inutilmente la linea stessa e le macchine
generatrici della centrale, nel senso che se queste non fossero occupate a generare la corrente
reattiva potrebbero invece essere adibite a generare e trasmettere una maggiore potenza attiva.
Indipendentemente dall'entità della potenza reattiva che è richiesta da un dato impianto
utilizzatore, si può evitare che tale potenza reattiva debba essere convogliata dalla linea
d’alimentazione dell'impianto, badando a compensarla direttamente, nello stesso luogo dove è
richiesta, con una potenza eguale e di segno opposto.
Precisamente, se l'impianto utilizzatore richiede oltre a una certa potenza P anche una potenza
reattiva induttiva Q, si potrà ottenere la compensazione voluta allacciando in derivazione sulla linea
una batteria di condensatori la quale prelevi una potenza reattiva capacitiva QC pari in valore alla
potenza reattiva induttiva Q. In ciò consiste il problema noto in pratica sotto il nome di rifasamento
dell'impianto, nel senso che si vuol ricondurre la linea a trasmettere solo la potenza attiva e la
corrente attiva in fase con la tensione, senza impegnarla inutilmente a trasmettere potenze e
correnti reattive.
Figura 1
Si consideri un impianto utilizzatore A (figura 1) in ogni modo costituito, che preleva da una linea
alimentazione una corrente I sfasata in ritardo rispetto alla tensione di un certo angolo ϕ : ciò vuol
sostenere che l'impianto assorbe dalla linea una potenza attiva del valore P=VIcosϕ=VIG e richiede
inoltre la potenza reattiva induttiva
Q = V I sin ϕ = V IB
La linea è impegnata così a trasmettere la potenza apparente
Mentre la potenza effettivamente utilizzata è rappresentata dalla sola potenza attiva P. Si può
scaricare la linea del trasporto ozioso della potenza reattiva Q allacciando in parallelo al carico un
condensatore C o, più in generale, una batteria di condensatori. Questa batteria assorbe dalla linea
una corrente IC, determinata in valore dalla relazione
IC = V / XC = ω C V
E sfasata rispetto alla tensione di 90° in anticipo.
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E' chiaro che basterà assegnare alla batteria una capacità tale per cui la corrente IC risulti uguale
in valore alla corrente reattiva IB che è richiesta dall'impianto utilizzatore A, affinché le due correnti
uguali e opposte IC e IB mutuamente si compensino.
La linea di alimentazione viene a trasmettere allora la sola corrente attiva IG senza che il
funzionamento dell'impianto utilizzatore risulti comunque alterato. In queste condizioni la linea
trasmette all'impianto utilizzatore la sola potenza attiva
P = V I cos ϕ = V IG
mentre la potenza reattiva induttiva Q richiesta dall'impianto viene compensata dalla potenza
reattiva capacitiva QC assorbita dal condensatore: in questo senso il condensatore viene a costituire
il generatore dell'intera potenza reattiva Q richiesta dall'impianto utilizzatore, disimpegnando da
questo ufficio le macchine generatrici della centrale le quali devono provvedere a inviare attraverso
la linea non più l'intera corrente I ma la sola componente attiva: I' = I G = I cos ϕ
La capacità C della batteria di condensatori, occorrente per ottenere il rifasamento completo,
rimane determinata dalla relazione che si ottiene uguagliando la potenza reattiva Q richiesta
dall'impianto con l'espressione della potenza reattiva QC della batteria: essendo queste,
rispettivamente
Q = V I sin ϕ = P tan ϕ QC = V IC = ω C V2
si ricava: ϖ C V2 = P tan ϕ e ne risulta C = (P tan ϕ ) / (w V2)
Figura 2
Generalmente non si richiede di conseguire il rifasamento completo, ma si ritiene sufficiente un
rifasamento parziale, atto ad elevare il fattore di potenza risultante in linea dal valore cos ϕ
caratteristico dell'impianto al valore contrattuale cosϕ'=0,9. In tal caso il diagramma delle correnti si
presenta come in figura 2 cui corrisponde il diagramma delle potenze segnato figura 3.
Figura 3
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In quest'ultimo i due cateti P e Q e l'ipotenusa S rappresentano rispettivamente la potenza attiva,
la potenza reattiva induttiva e la potenza apparente richieste dall'impianto utilizzatore: volendo
ridurre la potenza reattiva induttiva sulla linea dal valore Q=Ptanϕ al nuovo valore Q'=Ptanϕ si
richiede da parte della batteria di rifasamento una potenza reattiva
QC = Q - Q' = P(tan ϕ - tan ϕ')
La capacità della batteria risulta conseguentemente
La potenza apparente sulla linea viene così ridotta dal valore
al nuovo valore
La corrente in linea, prima e dopo il rifasamento, assume i valori
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