ALMA MATER STUDIORUM
università di bologna
FACOltà di ScienzE della formazione
L’età adulta e i servizi alla persona
Dalle attività di prevenzione nell’infanzia, alle azioni di cura.
Dal deficit alla riduzione dell’handicap.
L’ETÀ ADULTA
E I SERVIZI ALLA PERSONA
Dalle attività di prevenzione nell’infanzia,
alle azioni di cura. Dal deficit alla riduzione
dell’handicap.
Una vera relazione di aiuto deve basarsi sullo sviluppo della
comprensione della “alterità”, per poter riconoscere nel rapporto la
persona con tutto il suo bagaglio di vissuti e di esperienze che noi,
come educatori, professionisti, figli, parenti, non dobbiamo mai
dimenticare.
È importante stabilire una relazione che non sia soltanto una risposta
pedissequa ai vari bisogni di cura personale, ma che costruisca un
percorso di accompagnamento condiviso con la persona anziana.
Per tale motivo, al fine di raggiungere questo obiettivo, dobbiamo
ripercorrere il percorso di vita della persona che abbiamo di fronte,
dall’infanzia alla situazione attuale, per riconoscere le caratteristiche
del deficit nell’età adulta e nella terza età.
Tale azione consentirà ai professionisti, così come ai care-giver, di
attivare in un secondo momento le diverse strategie per ridurre le
condizioni di disagio personale e migliorare la qualità di vita delle
persone, in un percorso continuo di umanizzazione dei servizi.
Su questi punti si è svolto questo nuovo convegno interattivo, con i
professionisti relatori che hanno una profonda conoscenza a livello
nazionale, internazionale e soprattutto personale di questa tematica.
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ALMA MATER STUDIORUM
università di bologna
FACOltà di ScienzE della formazione
L’età adulta e i servizi alla persona
Dalle attività di prevenzione nell’infanzia, alle azioni di cura.
Dal deficit alla riduzione dell’handicap.
Atti convegno-simposio internazionale
“L’età adulta e i servizi alla persona. Dalle attività di prevenzione nell’infanzia, alle azioni di cura.
Dal deficit alla riduzione dell’handicap.”
Cooperativa Sociale Società Dolce soc. coop.
5 maggio 2011 - Aula Prodi, Piazza San Giovanni in Monte, 3 Bologna
7 maggio 2011 - Laboratori Facoltà Scienza della Formazionem Via Filippo Re, 6 Bologna
Pubblicazione atti: Luglio 2012
PREFAZIONE
1. Accompagnare la crescita del bambino
9
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nel diventare adulto, tra pedagogia,
relazione di aiuto, terapie ed umanizzazione
dei servizi
Prof. Josè Jorge Chade
Facoltà Scienze della Formazione, Bologna, Italia.
Fondazione Bologna-Mendoza, Mendoza, Argentina.
2. Vissuti e percezione 19
della malattia in età pediatrica
Dott. Michele Capurso
Ricercatore in Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione, Università di Perugia
3. Cura educativa e relazione d’aiuto
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Prof.ssa Roberta Caldìn
Facoltà Scienze della Formazione, Bologna
3
4. La persona adulta in europa:
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dalle situazioni di dipendenza alla
promozione dell’autonomia personale
Prof.ssa Mayte Sancho Castiello
Direttore Scientifico della Fondazione Matia-Istituto Gerontologico Matia
5. La Conversazione: 41
la comunicazione primaria
tra soggetti normali e persone afasiche
Prof.ssa Anna Basso
già Professore Associato in Neuropsicologia Clinica, Dipartimento di
Scienze Neurologiche Facoltà di Medicina e Chirurgia Università di Milano
6. L’artrosi. Imparare a vivere con il disturbo:
prevenzione e trattamento... uno sguardo
sudamericano
Dr. Belisario Segura
Primo Premio Nazionale delle Società Regionali del 46° Congresso Nazionale
di Ortopedia e traumatologia - Fondazione Bologna-Mendoza, Argentina
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7. Il deterioramento cognitivo dell’anziano:
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screening ambulatoriale, gestione
del paziente, supporto dei caregivers
Dott. Alessandro Pirani
Medico di Medicina Generale, Specialista in Geriatria e Gerontologia,
Responsabile Centro Delegato per i Disturbi Cognitivi, Distretto Ovest AUSL Ferrara
8. Qualità di vita e salute psichica del
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caregiver della persona affetta da demenza
Dott.ssa Elisa Ferriani
Psicoterapeuta UOC Psicologia Clinica Ospedaliera UO - Centro Esperto
Disturbi Cognitivi e della Memoria A.USL di Bologna
9. I caregivers del cooperativismo,
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tra conoscenza e riconoscenza
Dott.ssa Sara Saltarelli
Responsabile Area Sede Assistenza alla Persona, Cooperativa Sociale Società Dolce
GALLERIA FOTOGRAFICA
I Relatori
Testimonianze fotografiche
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86
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PREFAZIONE
7
8
PREFAZIONE
Dott. Michele Mastropieri,
Cooperativa Sociale Società Dolce
Con l’edizione di quest’anno si è giunti al IV Seminario Convegno e al III Simposio Internazionale,
sempre percorrendo e approfondendo gli aspetti relativi alla relazione di aiuto a favore delle
persone adulte ed anziane.
Una relazione di aiuto anche in questa importante fase della vita deve basarsi sulla comprensione
dell’”alterità”, per poter riconoscere nel rapporto di cura “la persona”, da intendersi come l’altro polo
di una della comunic-azione che conserva in sé le esperienze e più in generale le rappresentazioni
più significative della sua vita.
Quindi è importante creare una relazione che non sia soltanto una risposta pedissequa ai vari
bisogni di cura personale, ma che costruisca un percorso di accompagnamento condiviso con la
persona anziana, in qualità di educatore, professionista, ma anche di figlio o parente.
La progettazione dell’intervento di supporto o cura deve essenzialmente partire dalla ricostruzione
dei sistemi di rappresentazione posseduti dalla persona anziana che abbiamo di fronte in quel
particolare momento, cercando di recuperare elementi preziosi per qualificare le azioni attraverso
l’analisi delle condizioni di vita dall’infanzia alla situazione attuale.
Tale azione consentirà ai professionisti, ma più in generale a tutti i caregiver, di attivare in un
secondo momento le diverse strategie per ridurre le condizioni di disagio personale e migliorare
la qualità di vita delle persone, in un percorso continuo di qualificazione dei servizi.
Inoltre è importante sottolineare che, proprio dai momenti formativi, il mondo dei servizi alla
persona coglie nuove letture e punti di vista in grado di contribuire alla ricerca di nuove soluzioni,
strumenti e metodi di lavoro che sono innovativi per il settore.
Il binomio Università-Cooperativa Sociale si configura come un modello interessante e fertile, in
grado di connettere positivamente l’esperienza lavorativa con gli studi del settore, per tradurre
un momento di confronto accademico in benefici per la persona che usufruisce dei servizi sociosanitari ed educativi.
Quindi è sicuramente da sottolineare l’impegno di Società Dolce, che ha sempre investito sulla
professionalità e sulla continua innovazione di pratiche e metodologie operative, come
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elemento indispensabile per rispondere all’evoluzione dei bisogni dell’utenza ed ai riferimenti
normativi specifici.
Tale tendenza al miglioramento continuo risulta essere ancor più valida oggi che, con la nuova
normativa di settore per la Regione Emilia-Romagna recante l’accreditamento dei servizi
(n.514/2009), si pone al centro delle azioni di cura la persona intesa nella sua totalità, poiché la
qualità del servizio acquisisce una traduzione multifattoriale per committenti e gestori.
Su questi punti si è svolto il IV° SEMINARIO CONVEGNO - III° SIMPOSIO INTERNAZIONALE
BOLOGNA- ITALIA, a Bologna nei giorni del 5 e 7 maggio 2011, un’interessante occasione di
riflessione alla presenza di vari attori del settore dei servizi sociali e sanitari, ma anche studenti
universitari e professionisti che erano interessati alle tematiche proposte.
Gli atti, a cui questa breve prefazione fa riferimento, possono essere considerati come particolari
punti di vista ed interessanti indagini scientifiche su alcuni ambiti di intervento per la persona
in condizioni di disagio, valutandola nella sua complessità e quindi privandola di aggettivazioni
come quelle di paziente od utente.
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1. ACCOMPAGNARE LA CRESCITA
DEL BAMBINO NEL DIVENTARE ADULTO,
TRA PEDAGOGIA, RELAZIONE DI AIUTO,
TERAPIE ED UMANIZZAZIONE DEI SERVIZI
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1. ACCOMPAGNARE LA CRESCITA
DEL BAMBINO NEL DIVENTARE ADULTO,
TRA PEDAGOGIA, RELAZIONE DI AIUTO,
TERAPIE ED UMANIZZAZIONE DEI SERVIZI
Prof. Josè Jorge Chade
Facoltà Scienze della Formazione, Bologna, Italia.
Fondazione Bologna-Mendoza, Mendoza, Argentina.
Il nostro Convegno ha come titolo “L’età adulta e i servizi alla persona. Dalle attività di prevenzione
nell’infanzia, alle azioni di cura. Dal deficit alla riduzione dell’handicap”.
Quando parliamo di momenti di crisi nella vita di una persona pensiamo a degli eventi dolorosi
oppure a dei periodi di fatica dovuti ad un problema particolare, …anche durante l’infanzia e
l’adolescenza.
Per riuscire a capire l’adulto, l’anziano, è sempre necessario conoscere le storie. Abbiamo voluto
incominciare questo Convegno parlando dei vissuti del bambino per capire meglio l’adulto e
l’anziano.
Ogni bambino che cresce esplora nuovi ambienti e conosce nuove persone non rendendosi conto
che potrebbe non essere accettato, anzi la fiducia di base che caratterizza il bambino che è stato
correttamente accudito e amato dalla madre, lo aiuta ad esplorare con fiducia ciò che non conosce.
Ciò non toglie che ogni novità è un rischio e che se si è molto diversi dagli altri il rischio è più alto.
Così il primo giorno di scuola, che richiede a molti bambini il superamento di una piccola o grande
crisi, diventa per ogni bambino un rischio di crisi. Ce la farà? Gli altri saranno abbastanza attenti?
Potrà fare a meno di me? Gli vorranno bene? Saprà farsi capire? Lo capiranno?
Per giunta se questo complesso di equilibri viene meno e se gli adulti si dimostrano poco affidabili
la crisi è tremenda, fa malissimo: il bambino perde fiducia, il genitore capisce che le crisi per questo
figlio possono diventare una lotta durissima e se il genitore concentra tutte le sue energie sulla
lotta, ne avrà meno per l’ascolto profondo del figlio e per quest’ultimo la crisi sarà più dolorosa.
In generale, i momenti di crisi delle persone hanno un bisogno fondamentale di sicurezza e di
accettazione.
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Certo le grandi crisi sono altre: il fratello si sposa, la sorella ha un bambino, un amico cambia città,
la mamma si ammala, qualcuno muore. Sono crisi che li mettono di fronte a qualcosa di definitivo,
nel senso del non ritorno.
Prendendo parole del nostro collega Michele Capurso, durante l’introduzione di uno dei suoi
libri ci dice che “molti adulti vedono l’infanzia come un sereno momento di preparazione all’età
matura e pensano ad essa come a una fase della vita sempre spensierata, priva di preoccupazioni e
inquietudini. Ma per i bambini non è sempre così. Tanti problemi che ai grandi possono sembrare
banali sono invece vissuti come ostacoli molto difficili da affrontare. Questo avviene perché in
realtà le persone mature commettono un errore di valutazione”. E sono pienamente d’accordo con
lui.
Eppure parliamo di crisi anche come tappe naturali, quasi fisiologiche, di rottura di uno stato di
equilibrio consolidato: così il bambino è in crisi per la nascita di un fratellino, non è più solo, non è
più il piccolo di casa; così l’adolescente non si riconosce davanti allo specchio e negli sguardi altrui
e noi sorridiamo, quasi tranquillizzati dal fatto che sia sopraggiunto un ingrato ma necessario
periodo di crisi.
Di fronte ad una persona alla quale vogliamo bene e che vediamo soffrire oscilliamo solitamente
tra il desiderio di evitarle una crisi e la speranza che questa crisi porti ad una crescita e ad una
maturazione.
Accompagnare la persona in crisi è tutto ciò che possiamo fare, starle vicino, sostenerla sapendo
che non possiamo sostituirci a lei e che non possiamo definitivamente accollarci il suo dolore.
Mi è rimasto sempre il ricordo di un racconto di Giuseppe Fiori, con molta forza pedagogica, che
compare nel libro “Quel Bambino là” di Andrea Canevaro e che voglio raccontarvi.
Forse qualcuno lo conosce già, ma conviene riprenderlo ancora.
E’ un episodio che riguarda un fotografo di Praga, che era bambino a Terezin. Terezin è una città
vicina a Praga costruita dalla grande Teresa d’Austria o, meglio, in onore della Grande Teresa
d’Austria, una città fortezza.
A Terenzin erano stati raccolti, in un campo di concentramento, gli ebrei, sotto il nazismo, per
essere poi avviati ai campi di sterminio vero e proprio. E Terenzin era considerata una vetrina,
perché le delegazioni della Croce Rossa Internazionale potessero vedere l’inganno ed essere
ingannate, perché la notizia che i nazisti lasciavano circolare, e favorivano che circolasse, era che
le popolazioni ebraiche venivano trasferite per colonizzare delle terre incolte. E non per essere
annientate.
A Terenzin sono sopravvissuti in pochi. Il protagonista di questo piccolo episodio è sopravvissuto
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in una famiglia di cui tutti gli altri componenti sono morti ad Auschwitz. E’ morto suo padre, sua
madre, i suoi fratelli. Quando, bambino, è rientrato a Praga, è andato a casa sua, ed era solo. E ha
trovato una casa devastata, con le porte sfondate, non c’era più niente. Tutto era stato portato via.
Ma ha visto che c’era il telefono. Con sorpresa, era ancora funzionante. Allora si è ricordato di
quando, qualche anno prima, quando era più piccolo, aveva inventato un piccolo gioco; che,
probabilmente, in famiglia non era apprezzato, perché poteva essere considerato una marachella
e anche qualche cosa da non farsi per via che il telefono costa.
Aveva scoperto il numero di telefono di un signore, che si chiamava in ceco, Gallo. Quindi lo
scherzetto che faceva, un po’ di nascosto, era quello di telefonargli e di dirgli: “Pronto c’è il
signor Gallo?”. Quello rispondeva amabilmente e allora il bambino continuava dicendo “C’è la
signora gallina?”. Il signore amabile gli rispondeva che la signora gallina era andata a lavorare,
e allora la conversazione andava avanti dicendo: “E ha fatto l’uovo stamattina?” e c’era sempre
questa conversazione amabile che avrà avuto delle piccole variabili, ma anche la ripetizione
di uno scherzetto riuscito che faceva piacere a quel bambino, anche perché lo faceva, molto
probabilmente, di nascosto.
Tornato a Terenzin, unico superstite della famiglia, si trova dunque in un appartamento
desolatamente vuoto, in una casa senza più nulla, tutta rovinata, con questo telefono che
immediatamente gli ricorda lo scherzetto che faceva. E allora prova a telefonare, e risponde la
voce che già conosceva. E allora gli dice: “C’è il signor Gallo?”. E quello con una voce stanca, gli dice
“Sono io” , e la signora gallina?”. Allora lo riconosce. “Ah, ma sei tu!” “C’è la signora Gallina?” “Non c’è
più”. “E c’è tuo padre con te?” “Non c’è più mio padre”. “E c’è tua madre?” “Non c’è più mia madre e
neanche i miei fratelli ci sono”. “Be, senti. La signora Gallina prima di andarsene definitivamente ha
lasciato un uovo per te. Io sono solo. Vienimi a trovare”.
Questo è un piccolo esempio di come l’inutilità possa, col tempo, diventare utilità. Di come uno
scherzetto che non aveva nulla di trasgressivo, ma che certamente poteva essere anche un po’
rimproverato (in una famiglia è immaginabile), si sia rivelato un punto importante per consentire
a quel bambino, unico superstite della sua famiglia, di trovare un legame e un riconoscimento.
Trovare qualcuno che lo riconoscesse, e che gli permettesse di vivere, di crescere ancora, di non
sentire un abbandono totale.
L’adulto che sta vicino a chi soffre e che si prende la responsabilità di stare accanto, senza cedere al
desiderio di onnipotenza di accollarsi tutto il disagio altrui, di sostituirsi a chi è in crisi e può anche
trovarsi identificato con questo racconto.
Sicuramente è una grande attenzione che gli adulti che le circondano hanno nei loro confronti;
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e come tale, essendo un’attenzione, non può che avere qualche elemento positivo come nel
racconto del Sig. Gallo.
Quando la persona in crisi si sente capita e accolta si può proporre un progetto che aiuti ad integrare
la crisi, a trasformarla in fonte di energie positive. Per ogni persona, con o senza svantaggio, la crisi
è debolezza, paura di essere abbandonati, di essere soli, di essere da meno.
Inclusione, quindi, significa relazione di aiuto, umanizzazione, possibilità di stabilire dei legami,
possibilità di intrecciare con un senso…trovando un senso.
I momenti di crisi delle persone richiedono: un ascolto più attento perché non sempre il disagio
viene espresso; la ricerca di verità che fanno bene perché, a volte, la persona in uno stato di fragilità
vede più facilmente quelle che fanno male; la fantasia per fare un progetto che nasca dalla crisi e
aiuti a superarla.
Per concludere un invito banale: se in autobus pestiamo un piede ad una persona qualunque
chiediamo scusa e finisce lì, ma se quella persona è un anziano o ha uno svantaggio forse
dobbiamo aggiungere qualcosa di più premuroso e tranquillizzante al tempo stesso. Un “va tutto
bene”, un “mi dispiace molto di non averla vista”, “che sbadato sono stato”, un sorriso…, magari
diventeremo più gentili con tutti, ma soprattutto cominceremo a individuare potenziali crisi grazie
ad una maggiore empatia e a cercare modi per affrontare crisi in una prospettiva più attiva, come
qualcosa che comunque ci riguarda e ci interpella.
Parliamo anche di bambini in un Convegno piuttosto sugli adulti perché in un mondo che si
muove e in cui i bambini di oggi saranno gli adolescenti e gli adulti di domani in questa nostra
civiltà in trasformazione.
Se l’evoluzione dell’essere umano passa attraverso le stesse tappe di sviluppo, ciascuno ne vive le
difficoltà in modo diverso, sempre associandole a quelle dei genitori, spesso animati dalle migliori
intenzioni. L’idea di questo Convegno è che noi tutti capiamo il senso delle nostre esperienze
presenti e che possiamo anche immaginare il futuro, attraverso il significato delle nostre esperienze
passate.
Il sistema di significati intercorrelati che ciascuno di noi sviluppa nel corso della propria vita è unico;
siccome però abbiamo molte esperienze in comune con gli altri abbiamo anche dei significati
in comune con gli altri, che utilizziamo per creare storie che riguardano gli eventi della nostra
vita, specialmente quelli più importanti. Questa conoscenza sempre particolare e individuale
dell’essere umano può forse contribuire ad aiutare agli altri…non lo sappiamo, ma abbiamo la
possibilità di provare.
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2. VISSUTI E PERCEZIONE DELLA MALATTIA
IN ETÀ PEDIATRICA
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2. VISSUTI E PERCEZIONE DELLA MALATTIA
IN ETÀ PEDIATRICA
Dott. Michele Capurso
Ricercatore in Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione, Università di Perugia
Introduzione
Se si svolge una ricerca della letteratura sul tema della capacità di comprensione della malattia nei
bambini è possibile individuare due grandi categorie di lavori. La prima di queste (la più antica e
corposa) si riferisce a indagini di stampo piagettiano, che collegano la comprensione della malattia
ai diversi stadi di sviluppo e dunque all’età dei soggetti; la seconda, invece, tende a fare riferimento
ad un ambito socio-costruttivista.
La comprensione della malattia in ambito piagettiano
Appartengono a questo primo gruppo di lavori di matrice piagettiana le ricerche di Bibace and
Walsh 1981, Perrin & Gerrity 1981, Brewster 1982, Eiser e Patterson 1984, Redpath & Rogers 1984,
Eiser 1985, Banks 1990, Walsh & Bibace 1991, Crisp, Ungerer e Goodnow 1996, McQuaid, Howard,
Kopel, Rosenblum e Bibace 2002, Myant e Williams 2005.
I lavori di questa categoria partono dal presupposto che il modo di pensare e di rappresentare la
realtà nei bambini sia qualitativamente diverso da quello degli adulti.
La capacità di capire la malattia nei bambini tende ad evolversi attraverso alcune fasi, che sono
relativamente fisse e ordinate per tutti. Nei più piccoli questa comprensione non è ancora scientifica
ma è spesso collegata ad eventi fantastici, magici o dipendenti dalla “giustizia immanente”.
Nuovi apprendimenti dipendono dall’esperienza, ma sono possibili soltanto se questi sono
coerenti con lo stadio evolutivo del bambino.
Il bambino competente e la comprensione della malattia
Un secondo gruppo di autori, come si diceva, tende a fare riferimento, più o meno esplicitamente,
all’ambito socio-costruttivista e sostiene una posizione teorica che potremmo definire con il nome
di “teoria del bambino competente” (Siegal 1988, Eiser 1989, Hergenrather e Rabinowitz 1991,
Hauck 1991, Springer e Ruckel 1992, Yoos 1994, Kalish 1996, Raman e Winer 2002).
Le capacità di comprensione ed elaborazione della malattia vengono collegate ad un sistema
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complesso di vissuti interni, socio-relazionali e di schemi cognitivi che variano da persona.
Fondamentale, per la comprensione della malattia e delle azioni di cura ad essa collegata, diventa
il contesto sociale e culturale nel quale cura e malattia vengono vissute.
Le ricerche che fanno riferimento al “bambino competente” sostengono che in determinate
condizioni il bambino è in grado di esprimere competenze e comprendere concetti nuovi ben
al di là del suo livello di sviluppo effettivo. La costruzione di uno schema di comprensione
e spiegazione della malattia non dipende soltanto dall’età quanto piuttosto dal sistema di
conoscenze ed esperienze precedentemente accumulate e dunque dalla natura degli schemi che
si sono sviluppati. Anche i bambini più piccoli, soprattutto se malati, possiedono una conoscenza
della malattia, delle sue conseguenze e delle terapie che, per quanto incompleta, è molto più
avanzata di quanto supponessero gli studi piagettiani.
Obiettivi di ricerca e metodo
Il lavoro di ricerca “Ti racconto il mio ospedale” è stato finanziato dalla Associazione Gioco e Studio
in Ospedale di Genova, dal Centro Italiano di Ortofonologia e dalle edizioni Ma.Gi. di Roma.
I quesiti che hanno mosso questa ricerca sono:
- Quale è la percezione che i bambini malati hanno della loro malattia? Come la rappresentano e
che tipo di comprensione ne hanno?
- Quali sistemi di aiuto percepiscono come più vicini a loro? Quali azioni di coping?
- In che modo continuano a vedere e percepire la vita che scorre al di fuori dell’ospedale?
Per affiancare e verificare le informazioni provenienti dagli strumenti quantitativi generalmente
usati sia dagli studi piagettiani che da quelli di matrice socio-costruttivista si è scelto di seguire la
strada della attivazione di quello che Bruner (1988) chiama “pensiero narrativo”.
Il pensiero narrativo produce rappresentazioni più che descrizioni della realtà e come tale coinvolge
fortemente la dimensione psichica di chi partecipa al racconto. Attraverso di esso analogie,
immagini e sentimenti vengono evocati e risuonano nella mente di chi narra e di chi ascolta. Grazie
all’uso del pensiero narrativo il bambino può entrare in contatto con una complessità psichica che
altrimenti resterebbe chiusa in sé, priva della possibilità di essere condivisa con altri.
Elemento fondamentale per il pensiero narrativo è la relazione con un “altro” che sappia mettersi
in ascolto ed accogliere le narrazioni prodotte.
Per avvicinare i bambini con una modalità che fosse delicata e rispettosa abbiamo scelto di creare
un piccolo concorso, fornendo un set di temi accuratamente selezionati ma lasciando la massima
libertà di scelta dell’argomento e del codice comunicativo da utilizzare.
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Ci siamo poi affidati a una rete di collaboratori locali, reperiti tramite l’Associazione Gioco e Studio
in Ospedale e a loro abbiamo chiesto di proporre ai bambini la partecipazione al lavoro.
In tabella 1 e 2 riassumiamo i temi proposti, l’età dei partecipanti e il relativo numero di lavori
raccolti.
Tema proposto
Giocare in ospedale
Il mondo fuori dalla finestra I miei amici in ospedale Io e la mia famiglia La mia scuola in ospedale Ti spiego la mia malattia Disegno la mia malattia
La mia malattia è come…
(Altro / non specificato)
n. lavori raccolti
67
62
60
54
34
23
21
7
47
Tabella 1, temi proposti ai partecipanti e numero di lavori raccolti per ogni categoria
Età dei partecipanti:
Età
n. lavori raccolti
38
415
535
623
738
846
955
1048
1134
1232
1316
1410
Non specificato
19
Tabella 2, età dei partecipanti e numero di lavori raccolti.
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Per l’analisi dei lavori non si è voluto adottare un unico schema predefinito. A seconda dei contenuti
presentati, si sono cercate corrispondenze con le diverse teorie illustrate in premessa. Per l’analisi
di alcuni disegni è risultato utile fare riferimento al sistema messo a punto da Bombi e Pinto (1993,
2004).
Come si è detto, lo scopo della ricerca non era tanto confermare una teoria piuttosto che un’altra,
ma dare spazio e voce ai bambini per comprendere la complessità e profondità dei loro vissuti di
malattia.
Risultati
I risultati ottenuti sono rappresentati dai lavori spontaneamente prodotti dei bambini. Lo scarso
spazio disponibile non consente una loro analisi appropriata in questa sede. Si è scelto quindi di
analizzare, a titolo di esempio, uno degli aspetti indagati, quello del coping.
Amicizie, Gioco e scuola: la relazione quale chiave del coping
Come si vede dalla tabella 1, la maggioranza dei bambini hanno scelto di raccontare una esperienza
di amicizia, gioco e relazione con altri. E proprio la dimensione relazionale si conferma la migliore
chiave per un coping positivo e costruttivo.
A titolo di esempio, possiamo analizzare il lavoro di Naomi (7 anni, Fig.1)
La bambina scopre nella sua stanza una compagna “dolce e simpatica” con la quale può fare
amicizia e giocare. La scoperta della nuova amica consente a Naomi di uscire dal letto, lasciandosi
alle spalle la malattia che nell’immagine da lei prodotta appare relegata ad un ruolo periferico. I letti
dell’ospedale sono vuoti, posti a lato del disegno. La flebo è inutilizzata. Al centro dell’immagine
c’è invece il tavolo azzurro, con le due bambine sedute che giocano assieme: l’area comune del
gioco sembra quasi delimitare un’oasi di benessere che emerge dal bianco della stanza. Sul lato
sinistro la porta, ad indicare la presenza di una via di uscita che certamente le bambine torneranno
a percorrere una volta guarite.
Figura 1
22
In ospedale ho incontrato una bambina di nome Ilaria. Quando ci siamo conosciute abbiamo giocato
a memory, la bambina mi è simpatica, è dolce, non mi sarei mai aspettata una bambina così bella e
simpatica
Naomi 7 anni
Un altro elemento molto presente nei racconti dei bambini è il gioco. Il gioco è il mezzo per
assimilare l’esperienza e dare senso al mondo in cui si vive, perché l’attività ludica consente di
creare dei collegamenti tra la propria esistenza psicologico-emotiva e la realtà esterna. Giocare
rappresenta quindi il modo più naturale per affrontare la vita e i piccoli problemi che possono
presentarsi quotidianamente, e questo naturalmente appare ancora più vero durante una
situazione di malattia.
Ad esempio, nel racconto di Margareth il gioco viene collegato all’armonia (che naturalmente può
anche essere armonia interna, cioè salute e buon funzionamento del proprio corpo).
C’era una volta un ospedale, quest’ospedale era molto giocoso, lì tutti erano felici, i bambini li visitavano
giocando, addirittura anche i dottori al posto del camice si vestivano da pagliacci. Tutti i bambini, i
ragazzi gli adulti che entravano in quell’ospedale con delle malattie piuttosto gravi, uscivano che
neanche si rendevano conto di essere malati perché quell’armonia curava le malattie.
Quell’ospedale si chiamava l’ospedale dell’armonia, perché era molto armonioso, nell’ospedale c’era
una sala giochi, c’erano le volontarie vestite di blu con cui potevi giocare anche tu; con la prof. con il
camice a quadri rosso e blu se eri delle “medie” potevi studiare anche tu; c’erano le maestre vestite di
giallo con cui poter giocare e pitturare. Le stanze erano tutte colorate sembrava di essere in un sogno,
un sogno magico, stupendo, che non sembrava di essere in un ospedale ma tutta una sala giochi.
Margareth, anni 11
Ma l’attività ludica in ospedale può anche giungere ad assolvere una funzione diversa, quella cioè
di rielaborazione tramite il gioco simbolico con materiale sanitario. Protetti nel mondo sicuro
dell’esperienza di gioco, i bambini malati possono esplorare l’ignoto e sviluppare delle conoscenze
che sono, allo stesso tempo, esperienziali-emotive e cognitive. Ad esempio, nel gioco del dottore
raccontato da Greta (7 anni), essi riescono a trasformare l’ignoto in materiale familiare esprimendo
esternamente dinamiche che hanno luogo nel profondo della loro mente.
Una delle funzioni più importanti del gioco è quella di trasformare, attraverso forme di
rappresentazione simbolica, qualcosa di ingestibile in situazioni immaginarie gestibili in prima
persona. Tutto questo genera apprendimenti e consapevolezza che si trasformano in capacità di
far fronte alla situazione stressante anche nella vita reale (figura 2).
23
Figura 2.
Io e i miei amici nella casa dell’associazione dell’ospedale stiamo giocando ai dottori, abbiamo
indossato dei grembiuli bianchi della scuola materna che ci ha regalato Martina, stiamo curando
le nostre bambole che hanno il catetere come noi. La mia bambola non piange anche se le faccio le
medicazioni, perché siamo dei bravi dottori e degli ottimi infermieri.
Da Grande vorrei diventare dottoressa dei bambini e sarò gentile e premurosa come i dottori
dell’ospedale.
Greta 7 anni
Le rappresentazioni della scuola in ospedale fornite dai bambini ricoverati confermano in buona
parte le percezioni che abbiamo già riferito a proposito del gioco.
La scuola appare sempre come un ambiente dotato di ordine, piacevole e capace di relegare in
secondo piano gli elementi della malattia. Essa si presenta come un elemento già noto, in grado di
portare ordine e prevedibilità all’interno del reparto. Spesso lo spazio scuola è caratterizzato da un
grosso tavolo centrale, che si pone come un elemento aggregatore dei bambini, come nel disegno
di Marvin (Figura 3).
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Figura 3
Ho disegnato la sala giochi del day hospital oncoematologico. Il tavolo con i bambini, l’armadio, la
televisione.
Marvin, 5 anni
Questo luogo di incontro e ritrovo appare in netto contrasto con i letti a schiera del reparto, che
invece tendono a separare ed isolare. La scuola sembra proprio l’elemento che più rende “diverso”
e speciale l’ospedale.
Conclusioni
Bambini e genitori non soffrono tanto a causa della malattia, quanto piuttosto per la minaccia
che ne deriva al senso di incolumità, ai rapporti con gli altri, a tutte le attività che danno piacere e
originalità alla vita quotidiana.
Accanto ad un corpo che si ammala continua sempre ad esistere una “parte sana”. Essa risiede
nella mente dei bambini malati (come, del resto, in ciascuno di noi). E’ in grado di svilupparsi ed
evolversi anche durante una malattia, perchè è dotata di una forza naturale che la spinge in questa
direzione. Freud chiamava questa forza “Eros”, gli autori della psicologia umanistica, Maslow e
Rogers, la chiameranno “tendenza attualizzante”. Molti dei bambini che hanno partecipato alla
nostra ricerca l’hanno espressa sotto forma di “cose che si possono fare” ed imparare anche stando
in ospedale.
25
Possiamo quindi concludere che la percezione della malattia e l’attivazione di adeguati sistemi di
coping dipendano da quattro dimensioni:
1) Il dato oggettivo di partenza (la malattia, i suoi sintomi, le lesioni temporanee o permanenti che
essa può creare);
2) Gli aspetti cognitivi e culturali che determinano la qualità della comprensione della malattia, del
processo e dei tempi di cura;
3) La dimensione mentale-fenomenologica che il bambino ed i suoi familiari si creano della
malattia stessa, che include sia il senso di rottura che viene a crearsi all’interno del corpo e della
mente del bambino, sia la reazione emotiva che viene a costellarsi nell’ambiente familiare.
4) La presenza (o assenza) di un sistema socio culturale, psicologico ed educativo di supporto che
consenta la narrazione di questi vissuti interni, e la loro riorganizzazione emotiva e cognitiva in
vista del raggiungimento di nuove forme di equilibrio.
Percezione
della malattia
nel bambino
Malattia
• Gravità oggettiva
• Sintomi
• Lesioni
• Disabilità
Aspetti
cognitivi
e culturali
Sistemi
di Sostegno,
coping
Microsistemici
e macrosistemici
Risposte
alla malattia,
Stile di vita
Percezione
della malattia
nei familiari
Figura 4. Dalla malattia alle sue conseguenze sul sistema familiare.
Le variabili sono ovviamente interrelate ma non sono sempre commensurabili l’una all’altra e a
volte una lieve malattia o una malattia con guarigione definitiva possono portare con sé il senso
di un’interruzione catastrofica così come malattie gravi possono essere affrontate con coraggio e
risolutezza da parte di tutti i membri del sistema familiare e di cura.
26
Limiti della ricerca
Il limite principale di questo tipo di ricerca è costituito certamente dalla assenza di un sistema
unico di analisi dei lavori dei bambini. Per questo tipo di lavori sono ovviamente più efficaci sistemi
quantitativi predisposti a priori. Inoltre sarebbe stato utile poter raccogliere maggiori informazioni
sui bambini ricoverati (tempi di degenza, patologia, prognosi ecc.). La raccolta di questi dati poneva
difficoltà legate alla privacy e alla giusta prudenza di genitori e personale sanitario e pertanto non
ci è stata possibile.
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3. CURA EDUCATIVA E RELAZIONE D’AIUTO
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3. CURA EDUCATIVA E RELAZIONE D’AIUTO
Prof.ssa Roberta Caldìn
Facoltà Scienze della Formazione, Bologna
Gli antichi greci intendevano la cura come sollecitudine, pena, affanno, angustiarsi per,
preoccuparsi; anche per i latini la cura stava a significare sollecitudine, inquietudine, pensiero, cui
però si aggiungono significati quali l’amministrazione di affari pubblici, la terapia, l’allevamento, la
coltivazione. Con il tempo il contenuto prevalente della parola si è sempre più avviato ad indicare
o l’interessamento sollecito e costante per qualcosa o qualcuno, o l’insieme dei medicamenti
e rimedi per il trattamento di una malattia, senza che questo comportasse il venir meno del
riferimento esplicito ad abiti comportamentali quali la diligenza, l’impegno e la sollecitudine.
La relazione d’aiuto - ovvero la relazione educativa in situazioni problematiche - si attua, infatti,
attraverso la cura dell’altro, la sollecitudine e la preoccupazione per il suo progetto esistenziale,
focalizzandosi sul singolo ma anche sul contesto nel quale vive, in modo da avviare un’integrazione
proficua. Talvolta, il primo approccio della cura educativa, soprattutto in situazioni emergenziali
(belliche, detentive o di gravissima disabilità) può concretarsi in termini regolativi, cominciando,
cioè, a muovere un passo: stare presso l’altro, aspettando con pazienza, stare con l’altro ecc.,
elaborare per e con l’altro piccoli obiettivi e tentare di raggiungerli, anche se la prospettiva più
ampia rimane quella di aiutare l’altro a realizzare responsabilmente la cura di sé, senza sottrargliela,
senza sostituirsi a lui, senza intromettersi.
Secondo Heidegger la cura descrive l’uomo come relazione di prossimità e di incontro con le cose
e con l’altro uomo: si tratta dell’aver cura nella quale esistono due modalità estreme: la prima
consiste nel sollevare gli altri dalla cura sostituendosi a loro e usurpando il loro posto; secondo
Heidegger gli altri vengono esclusi, “per ricevere, a cose fatte e da altri, già pronto e disponibile,
ciò di cui si prendevano cura, risultandone del tutto sgravati. In questa forma di aver cura, gli altri
possono essere trasformati in dominati”. Di questa prima forma, si può dire che sia un sostituirsi
dominando: si tratta di un modo della cura che degrada il proprio simile ad oggetto manipolabile,
a cosa utilizzabile. Quando predominano le modalità difettive dell’aver cura (estromissione
dell’altro, dominio, dipendenza ecc.) si nega l’alterità dell’altro e la pratica educativa diventa
unidirezionale declinata sulla temporalità dell’eterno presente, come in una situazione stagnante,
simbiotica, inattiva.
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Vi è, poi, l’altra possibilità che presuppone gli altri nel loro “poter essere [...] non già per sottrarre
loro la ‘Cura’, ma per inserirli autenticamente in essa” e che si connota come un anticipare liberando”.
Heidegger afferma che la cura autentica riguarda l’esistenza degli altri; li chiama in causa in quanto
soggetti, li aiuta a diventare consapevoli e liberi per la propria cura: perciò per questa forma, si può
dire che sia un anticipare liberando poiché si tratta di una pratica educativa dell’altro concepito
come soggetto in grado di essere avanti a sé e non come soggetto cui sottrarre la cura di sé.
La cura autentica presuppone l’apertura al tempo futuro, è progettualità educativa che evolve
in autoeducazione; l’aver cura di un’altra persona significa facilitarne il poter-essere, la propria
unica ed irripetibile progettualità esistenziale, il protagonismo nell’avventura del vivere. L’opera
formatrice della cura dura tutta la vita e richiede un costante controllo e una perenne autodisciplina
perché, sempre, l’aver cura può trasformarsi nel prendersi cura, cioè le modalità autentiche possono
mutarsi in modalità difettive
Per vivere psichicamente, il bambino (anche quello disabile) necessita di essere “pensato” e
immaginato nel mondo dei grandi soprattutto dai suoi genitori, dagli insegnanti e dagli adulti
in generale: l’immaginario e il progetto sono, infatti, dei genitori così come degli insegnanti e di
tutti gli educatori. Questi, allora, dovrebbero essere capaci di pensarlo, un domani, anche nel
mondo degli adulti, altrimenti emergono gli stereotipi del bambino disabile come bambino da
proteggere per tutta la vita (tanto che spesso i disabili vengono chiamati “ragazzi” anche se sono
adulti o anziani) o del malato perennemente da curare (attraverso le varie “terapie”: danzaterapia,
ippoterapia e quant’altro).
Nelle relazioni di cura e di aiuto, inoltre, chi aiuta dovrebbe agire nella consapevolezza che il proprio
intervento ha limiti temporali e spaziali, così come chi è aiutato deve imparare ad aver cura di sé da
se stesso, evitando un legame troppo stretto e vincolante. Vediamo sinteticamente alcuni principi
della relazione di aiuto che possono essere importanti nel rapporto con un bambino disabile e con
la sua famiglia.
Il primo dice che chi aiuta non può approfittare del bisogno di aiuto dell’altro, neppure per
violare l’intimità che l’altro è pronto a disvelare quando disperato. Si pensi al caso dei genitori che
incontrano per la prima volta gli insegnanti del proprio bambino e che sono disposti all’offerta di
massimo saccheggio personale pur di intravedere qualche possibile progetto esistenziale per il
figlio e per se stessi. E’ necessario invece proteggere e contenere il genitore da se stesso, affinché
non si penta di quanto vi confida e, nel contempo e gradualmente, sollecitarlo ad avviare alcune
spinte emancipative nel bambino stesso.
Un altro principio dice che chi aiuta è tenuto a sospendere il giudizio sull’altro in modo che l’altro
non si senta minacciato da un approccio centrato solo sul giudizio e sulla valutazione, ma possa
incontrare nella relazione di aiuto un insegnante capace di supporre nell’altro un “poter essere”
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che ad altri non è ancora manifesto.
La relazione d’aiuto chiede che nessuno sia sconfitto, ossia che ciascuno abbia la sua parte di
ragione: ciò vale particolarmente nell’ambito della disabilità. Ad esempio, si veda il caso della
comunicazione facilitata utilizzata per le persone con autismo: al di là delle molteplici dispute alle
quali essa ha dato origine, l’obiettivo prioritario rimane quello di studiare e di impegnarsi a fondo
per progettare e attuare metodologie sempre più opportune alla riduzione dell’handicap.
Chi viene aiutato può (potremmo anche dire “deve”) misurarsi anche nel ruolo di aiutante (aiutando
a sua volta), perché così facendo si evita il rischio di perpetuare la relazione d’aiuto e di creare
dipendenza. Abbiamo rilevato questa dimensione di reciprocità nell’incontro di Itard con Victor:
Itard, infatti, crede di aiutare Victor ad acquisire una qualche identità, ma egli stesso, in realtà,
viene aiutato dal sauvage a conseguire la propria.
Un aiuto offerto non può essere né diventare l’aiuto, perché questo convincimento fomenta
l’onnipotenza di colui che aiuta e vanifica il confronto con gli altri; casomai possono esistere
gli aiuti, sempre riferibili a specifici contesti, e avviati, attuati e monitorati attraverso un lavoro
d’équipe
Chi aiuta può provare a intravedere nell’altro un’identità che va oltre quella monocorde e
spersonalizzata del bisognoso e del disagiato (il disabile, il detenuto, il profugo ecc.): bisogna cioè
“credere per vedere”, nel senso indicato da H. von Foerster, con fiducia e attesa, accettando la sfida
educativa, perché altrimenti si vede solo ciò che già si conosce, che risulta familiare, che si prevede
o si crede di vedere. Soprattutto, sono da promuovere relazioni interpersonali che mettano in luce
le molteplici identità dell’altro (ad esempio, non solo il traumatizzato dopo un incidente, ma anche
quello che lui era prima e, forse, è ancora), senza mutilare le molteplici dimensioni nelle quali
l’identità personale si manifesta(va). Questo è anche il motivo per il quale le tecniche riabilitative
proposte, per esempio rispetto ad una sopraggiunta disabilità, non possono mai attuarsi a
prescindere dalla storia personale del soggetto stesso, dalla specifica realtà nella quale egli si trova
e nella quale l’educatore lo incontra
L’ultimo principio che qui indichiamo indica che la relazione d’aiuto non si muove con dinamiche
di assolutezza ma di complementarità, nel senso che la relazione d’aiuto è perfezionabile, e lo può
diventare solo con il contributo e con il sostegno di colui che necessita di essere aiutato. In tal
modo neppure colui che viene aiutato può confinarsi nell’identità passiva della vittima, dato che
chi aiuta necessita del suo sostegno per aiutare a sua volta.
(R.Caldìn, Introduzione alla pedagogia speciale, Cleup, Padova, 2007 u.e.)
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4. LA PERSONA ADULTA IN EUROPA:
DALLE SITUAZIONI DI DIPENDENZA ALLA
PROMOZIONE DELL’AUTONOMIA PERSONALE
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4. LA PERSONA ADULTA IN EUROPA:
DALLE SITUAZIONI DI DIPENDENZA ALLA
PROMOZIONE DELL’AUTONOMIA PERSONALE
Prof.ssa Mayte Sancho Castiello
Direttore Scientifico della Fondazione Matia-Istituto Gerontologico Matia
L’invecchiamento della popolazione é il risultato di un insieme di cambiamenti demografici che
sono accaduti nel mondo e nell’Europa, con dei differenti ritmi e caratteristiche, tenendo conto
del grado di sviluppo dei paesi, in più caratterizzati da: una forte caduta della fecondità (intorno
a 1.6 attualmente e che in Italia e Spagna scende ancora al 1.4), l’aumento della speranza di vita
(76.4 anni nell’uomo e 82.4 nella donna nel 2009) e, in definitiva, una ristrutturazione dell’età che
ha generato un’inversione demografica caratterizzata da:
• Maggiore numero di persone di 65 anni e oltre che di bambini tra 0 e 14 anni
• Un importante aumento di persone al di sopra degli 80 anni
Senza dubbio ci troviamo davanti ad una conquista sociale senza precedenti: i nostri concittadini
vivono molti anni e con migliori condizioni di salute e socioeconomiche che durante le precedenti
generazioni. Nonostante ciò, questa ristrutturazione della nostra società, porta con sé la necessità
di dover adattare e disegnare delle risposte alle necessità dei cittadini adulti, più specialmente
davanti ad una situazione in cui hanno bisogno di aiuto per poter portare avanti una quotidianità
in condizioni dignitose.
Anche se ogni volta sembra più solida l’evidenza che conferma la teoria della comprensione
della morbilità (Fries, Manton, Yu) secondo la quale le persone possono vivere ogni volta più anni
liberi da situazioni di svantaggio, di handicap e di dipendenza, si conferma anche un importante
aumento dell’intensità delle cure sanitarie e sociali che richiedono le persone negli ultimi anni
della loro vita, sui quali si concentra l’infermità e la dipendenza.Da qualche decade i paesi europei
offrono, davanti a queste situazioni di dipendenza, delle risposte tenendo conto dei differenti
modelli e culture di attenzione e protezione sociale ai suoi cittadini. Questi paesi, più specialmente
quelli mediterranei, sono sostenuti da sostegni ricevuti dal contesto familiare, dove le donne in
genere sono le protagoniste.
Le due grandi conquiste sociali del XX secolo, il cambio del ruolo della donna e l’invecchiamento
della popolazione hanno costretto i paesi sviluppati a cercare delle soluzioni stabili alle necessità
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generate dalle situazioni di dipendenza, che aldilà degli 80 anni colpiscono la gran parte della
popolazione.
Ad eccezione del regime nordico del benessere, il modello dominante delle cure di lunga data tra
il 1950 e il 1980, sia nei regimi di benessere di tipo bismarkiano che, in quelli del sud dell’Europa,
si appoggiava nella centralità della famiglia, nella sussidiarietà dello Stato e nella residualità del
mercato. I tradizionali pilastri benefico-assistenziali si sono visti sostituiti da modelli di protezione
sociale con differente grado di sviluppo, perfezionamento e implicanza dei poteri pubblici, della
responsabilità degli individui e delle loro famiglie e della partecipazione dello Stato. Diversi Paesi,
tra cui la Spagna, hanno incorporato la protezione della dipendenza come diritto soggettivo pieno,
un nuovo pilastro del sistema di protezione sociale. Ma questo storico passo avanti coincide nel
tempo con una forte crisi economica che mette in dubbio, ancora una volta, la sostenibilità dello
Stato di Benessere e l’aumento della sua cornice di protezione.
Parallelamente, è riscontrabile un modello di previsione di servizi sociosanitari chiaramente diviso
tra il domicilio e l’istituzione, che non risponde in assoluto ai bisogni delle persone. Non possiamo
conformarci con una visione della sufficienza (vs insufficienza) dell’offerta e previsione di servizi
per le persone maggiori, ma dobbiamo dare risposta ad una esigenza cittadina che ci domanda
nuove forme che trovino sintonia con le preferenze delle persone e permettano che queste,
nonostante quando avranno bisogno di essere assistite da altri possano eseguire il controllo della
propria vita. Questo tipo di struttura ha bisogno di una forte proposta di modelli di attenzione
basati sul principio dell’autonomia personale che orientano il disegno delle risorse e il loro
intervento tecnico.
In ciò che si riferisce ai servizi di sostegno e cure delle persone in situazione di vulnerabilità
e/o dipendenza, l’intervento sociale oltre a proteggere e coprire i bisogni degli individui, deve
promuovere la loro autonomia, favorendo l’inclusione sociale, migliorare il loro benessere
e garantire l’esercizio dei diritti, che in qualità di cittadini conservano. Abbiamo bisogno di
metodologie d’intervento precise per poter portare avanti disegni di servizi e interventi tecnici da
un modello di attenzione centrato sulla persona.
Un modello orientato verso di loro, verso la loro qualità di vita e verso il loro benessere quotidiano.
Una attenzione che si rivolga non solo a dare risposta alle necessità che derivano dalla dipendenza,
ma che si prenda cura dei suoi diritti, voglie e desideri. Non è altro che un’idea di concepire la
cura dal punto di vista della dignità e il sostegno dell’autonomia, anche in quelle persone con
alto grado di svantaggio, tendenza questa che in altri paesi più avanzati nelle politiche sociali va
prendendo forza e consistenza.
In definitiva, ci troviamo davanti ad una sfida complessa per assumere le situazioni di dipendenza
partendo dalla promozione delle autonomie delle persone.
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5. LA CONVERSAZIONE:
LA COMUNICAZIONE PRIMARIA TRA
SOGGETTI NORMALI E PERSONE AFASICHE
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5. LA CONVERSAZIONE:
LA COMUNICAZIONE PRIMARIA TRA
SOGGETTI NORMALI E PERSONE AFASICHE
Prof.ssa Anna Basso
già Professore Associato in Neuropsicologia Clinica, Dipartimento
di Scienze Neurologiche Facoltà di Medicina e Chirurgia Università di Milano
La funzione principale del linguaggio è quella di consentire la comunicazione tra le persone e una
parte essenziale delle relazioni tra esseri umani si esplica nella conversazione che è alla base di
quasi tutti i nostri rapporti.
L’analisi della conversazione è un aspetto della linguistica pragmatica che studia gli aspetti della
struttura linguistica che dipendono dal contesto in cui le frasi vengono usate. Una frase detta è un
“enunciato”. La frase “È appena passato il lattaio” assume significati diversi in risposta alla domanda
“C’è del latte in casa?” o “Sai che ore sono?”.
Capire un enunciato vuol dire comprendere anche le intenzioni del parlante. La lacuna tra ciò che
gli enunciati significano letteralmente e ciò che fanno in quanto azioni è parzialmente riempita
dalla teoria degli atti linguistici e da un processo inferenziale complesso.
Secondo la teoria degli atti linguistici, gli enunciati sono azioni cui si deve rispondere con un’altra
azione. Gli atti linguistici più importanti in una interazione con un soggetto afasico sono tre:
domande, comunicazioni, richieste di azioni (ordini).
Le implicazioni conversazionali sono inferenze veloci e inconsce tratte dall’ascoltatore che
spiegano come sia possibile intendere più di quanto sia stato detto.
Vi sono degli enunciati che non sono né veri nè falsi; possono solamente essere riusciti o non riusciti.
Sono ben riusciti se sono state osservate le condizioni di buona riuscita associate all’enunciato.
Tutti i concetti pragmatici sono strettamente legati alla conversazione la cui analisi è essenziale
per la loro comprensione. Secondo Grice la conversazione è un’azione di cooperazione nella quale
gli interlocutori operano per il raggiungimento di un fine comune ed è guidata da un insieme di
assunti che possono essere formulati come norme.
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Il principio di cooperazione si articola in quattro massime alle quali ogni interlocutore si adegua
inconsciamente. Le massime sono:
1) la massima di qualità: dire il vero
2) la massima di quantità: dire quanto necessario
3) la massima di relazione: essere pertinente
4) la massima di modo: parlare in modo chiaro, ordinato, non prolisso
Per parlare con una persona afasica occorre sapere, almeno a grandi linee, come si svolge una
conversazione tra soggetti “sani” e non infrangerne le regole. Occorre soprattutto saper “ascoltare”.
Si possono riconoscere 3 livelli di ascolto:
• Livello del contenuto linguistico
• Livello delle implicazioni conversazionali
• Livello delle intenzioni e motivazioni del parlante
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6. L’artrosi.
Imparare a vivere con il disturbo:
prevenzione e trattamento…
uno sguardo sudamericano
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6. L’artrosi.
Imparare a vivere con il disturbo:
prevenzione e trattamento…
uno sguardo sudamericano.
Dr. Belisario Segura
Primo Premio Nazionale delle Società Regionali del 46° Congresso Nazionale
di Ortopedia e traumatologia - Fondazione Bologna-Mendoza, Argentina
L’artrosi è una malattia degenerativa e progressiva che colpisce la cartilagine delle superficie
articolari. Più comune nelle donne della terza età, ma le cause secondarie si possono presentare
in qualsiasi età.
Viene diagnosticata attraverso la clinica fondamentalmente (dolore, limitazioni funzionali,
rigidità, deformità progressiva e compromesso di una o più articolazioni con sintomatologìa
progressiva). All’inizio il dolore appare dopo un’attività prolungata nel tempo o fatta con molto
sforzo. Successivamente può comparire dopo l’attività, a volte prima di incominciare, e finalmente
può presentarsi in forma permanente. Si diagnostica anche con degli studi complementari tali
come Rx, risonanza nucleare magnetica, centellogramma osseo, ed è importante considerare di
non confondere l’artrosi con le malattie reumatiche durante il loro studio, perciò per fare una
buona diagnosi funzionale si deve sollecitare anche un laboratorio completo per scartare artriti
reumatoide, lupus o collagenopatie in genere.
Le cause sono principalmente idiopatiche, anche se è provata una forte predisposizione genetica.
La causa idiopatica comprende il 90% dei casi. Possono essere secondarie a malattie reumatiche,
ecc, a fratture quando queste sono rimaste con un difetto nella riduzione o alterazioni dell’asse
del corpo.
Tenendo conto che si tratta di una infermità progressiva e nelle tappe avanzate colpisce
considerevolmente le autonomie delle persone si insiste molto sulla prevenzione.
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In ogni tappa del trattamento si insiste oggi con delle terapie combinate.
1)Nella tappa preventiva viene indicata una buona alimentazione, mantenere il peso ottimale
tenendo conto non soltanto dell’indice di massa corporea ma anche il peso reale, ed unire
anche della ginnastica che punti a migliorare la motilità articolare, fortificare senza produrre dei
danni, allungamenti, esercizi posturali.
2)Nella tappa di inizio si prescrivono dei medicinali come analgesici per diminuire la
sintomatologìa. Rigeneratori della cartilagine come il solfato di glucosamine, la diacereina e
i saponificabili dell’avocado. Rigeneratori della cartilagine di azione localizzata come l’acido
ialuronico.
Questi medicinali in genere presentano pochi effetti collaterali e si possono assumere in tempo
prolungato. Le infiltrazioni con acido ialuronico sono molto efficaci ma a condizione che l’artrosi
sia mono-articolare.
Le articolazioni che meglio rispondono a questi trattamenti locali sono quelli di ginocchia
e spalla, e anche quella trapezio-metacarpale (rizoartrosi). Tutto cio sempre associato a
fisiokinesioterapia, idroterapia e ginnastica specifica. Quando parliamo di fisioterapia dobbiamo
capire che include anche la magnetoterapia, termoterapia, elettroanalgesia, ultrasuoni e
elettrostimolazione.
La kinesioterapia si riferisce a motilità attiva, passiva, flessibilizzazione, allungamento,
fortificazione senza impatto avendo sempre cura che il carico si distribuisca sia nell’articolazione
sia nella parte muscolare, per fare ciò è necessario lavorare sulla muscolatura senza provocare
dei danni nell’articolazioni, perciò considero ideale l’idroterapia. Con quest’ultima si può
diminuire il carico articolare durante gli esercizi, graduare e regolare i medesimi, diminuendo
in questo modo i rischi di sovraccarico articolare durante gli esercizi, diminuire rischi di lesioni,
incominciare con una riabilitazione precoce, eliminazione di edemi e rifiuti metabolici.
L’idroterapia s’incominciò a utilizzare in maniera isolata agli inizi degli anni ‘90 seguendo i
principi di Archimede arrivando fino ad oggi a essere utilizzata molto frequentemente come
parte del trattamento. Altri effetti benefici dell’idroterapia sono: alleviare il dolore, aumento
della temperatura corporea e vasodilatazione. Possiede anche un effetto antispasmodico
e di rilassamento muscolare. L’idroterapia ha molteplici benefici ma possiede anche delle
controindicazioni assolute come: infezioni in atto, difetti nella cicatrizzazione, diabete,
ipertensione non controllata, ecc.
Un’altra terapia da associare è la palestra ma sempre con la supervisione di un professionista
specializzato, in modo tale che il paziente possa eseguire degli esercizi anche presso il suo
domicilio.
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3)Nelle tappe avanzate quando diventa necessario il trattamento chirurgico come l’artroscopia
oppure le sostituzioni articolari, si alternano la fisioterapia e la riabilitazione. Il trattamento
chirurgico è sempre consigliato per migliorare un’articolazione che abbia una patologa molto
avanzata e per tale motivo limita la vita quotidiana della persona, cioè l’autonomia nello
svolgimento delle attività principali, tuttavia bisogna anche considerare le controindicazioni
che non permettano questo trattamento chirurgico. Il trattamento di artroscopia consiste in una
visione diretta di un’articolazione attraverso una telecamera e serve per livellare la cartilagine
o diversi metodi per stimolare la crescita della cartilagine oppure sostituirla con un impianto
autologo (appartenente allo stesso organismo) oppure eterologo (di organo, tessuto o sostanza
che proviene da una specie diversa di quella in oggetto). Anche questo ha le sue limitazioni
di applicazione. Quando è necessario nelle tappe già molto croniche, le artropatie richiedono
la sostituzione articolare con una protesi, questa è la soluzione più logica. Queste chirurgie
nonostante abbiano molto successo, circa un 97% con una durabilità fino a quattordici anni,
quando avvengono delle complicazioni, queste possono essere molto gravi, perciò è molto
importante per queste chirurgie realizzare una fase pre-operatoria completa che includa il
laboratorio, la valutazione clinica, la cardiologia con rischio pre-chirurgico, per avere un quadro
chiaro per la programmazione post operatoria, come la considerazione delle complicanze più
comuni e la soluzione delle stesse.
Ciò che di solito conosciamo come rifiuto, che sarebbe medicalmente un’infezione protesica
con distacco della stessa, accade nell’1% dei casi, ma sebbene la sua incidenza sia molto bassa,
è una situazione di gestione molto complessa per l’èquipe medica, per il paziente ma anche per
il sistema sanitario per l’alto costo dei trattamenti per riuscire a risolvere questo problema che
includono ricoveri prolungati, antibiotici molto costosi e altre interventi molto costosi e complessi
tecnicamente.
Le sostituzioni articolari consistono nel sostituire le ossa articolari colpite con una protesi. Quelle
più comuni sono quelle di anche e ginocchia, anche se esistono sostituzioni di spalla, caviglia,
gomito e includono anche piccole articolazioni. Quando i difetti delle ossa sono molto gravi l’uso
combinato di protesi con innesti ossei eterologi possono essere una soluzione. Oggi si stanno
sviluppando molteplici tessuti artificiali sviluppati a livello di laboratori per sostituire gli innesti
eterologi cadaverici.
Tutte queste chirurgie in genere sono di una complessità molto importante e quindi oggi esistono
sub specializzazioni della traumatologia che si dedicano esclusivamente a questo tipo di patologie
lavorando a livello di èquipe interdisciplinare.
Concludendo è molto importante riconoscere che si tratta di una malattia progressiva e che non ha
cura, se non la prevenzione. Prima si agisce con trattamenti non chirurgici combinati e se necessario
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si può anche arrivare a trattamenti chirurgici come un’artroplastica totale dell’articolazione che
raggiungono importanti risultati in un’alta percentuale. ma quando non hanno una buona riuscita
le complicanze possono essere molto gravi. Tutti questi trattamenti hanno l’obiettivo di migliorare
le condizioni del paziente e sostenere la sua autonomia personale.
Per il futuro è sempre necessario il lavoro di équipe, concentrarsi sull’attività di centri specializzati
che si occupino in modo integrale del problema, programmi di educazione alla comunità, politiche
normative del governo per la realizzazione di programmi comunitari, nuova medicina e città
preparate per la vita quotidiana delle persone adulte ed anziane.
E’ sempre importante ricordare che sia l’attività svolta dalla persona e sia la presenza di questa
patologia nella famiglia di origine costituiscono degli elementi decisivi per la comparsa della
patologia in età adulta, sino a raggiungere l’80% delle possibilità di tale comparsa.
Per tale motivo è importante diffondere tali indicazioni alla cittadinanza in generale ma anche a
noi stessi.
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7. IL DETERIORAMENTO COGNITIVO
DELL’ANZIANO: SCREENING AMBULATORIALE,
GESTIONE DEL PAZIENTE,
SUPPORTO DEI CAREGIVERS
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7. IL DETERIORAMENTO COGNITIVO
DELL’ANZIANO: SCREENING AMBULATORIALE,
GESTIONE DEL PAZIENTE,
SUPPORTO DEI CAREGIVERS
Dott. Alessandro Pirani
Medico di Medicina Generale, Specialista in Geriatria e Gerontologia, Responsabile
Centro Delegato per i Disturbi Cognitivi, Distretto Ovest AUSL Ferrara Introduzione
“La demenza è un termine “ombrella” usato per descrivere vari e diversi disturbi cerebrali che
hanno in comune una perdita della funzionalità cerebrale che è solitamente progressiva e spesso
grave. Ci sono molti tipi di demenza. Le più comuni sono la malattia di Alzheimer, la demenza
vascolare e la demenza con corpi di Lewy. ( http://alzheimers.org.uk/)”
“La demenza è .... caratterizzata da un progressivo, deterioramento globale dell’intelletto che
include la memoria, l’apprendimento, l’orientamento, il linguaggio, la comprensione ed il giudizio.
Colpisce prevalentemente le persone anziane, ma, secondo diverse stime, tra il 2% e il 10% di tutti
i casi inizia prima dei 65 anni. Dopo i 65 anni, la prevalenza raddoppia ogni cinque anni di età.
La demenza è una delle maggiori cause di disabilità dell’anziano” (http://www.alz.co.uk/research/
worldreport/).
“La demenza è una termine che raggruppa diversi sintomi causati da malattie che colpiscono
il cervello. ... Le persone con demenza possono non essere più in grado di pensare ed eseguire
bene le comuni e normali attività, come vestirsi o mangiare e perdere la loro capacità di risolvere
problemi o di controllare le proprie emozioni: la loro personalità può cambiare e possono essere
agitati o vedere cose che non ci sono. La perdita della memoria è un sintomo comune di demenza.
Tuttavia, la perdita di memoria di per sé non significa la presenza di demenza. Persone affette da
demenza hanno seri problemi con almeno due o più funzioni cerebrali, come ad es. la memoria e
il linguaggio. Molte malattie possono causare demenza, tra cui il morbo di Alzheimer e l’ictus. Vi
sono farmaci disponibili per il trattamento di alcuni tipi di demenza. Sebbene questi farmaci non
possano curare la demenza o riparare i danni cerebrali, possono migliorare i sintomi o rallentare la
progressione della malattia (http://www.nlm.nih.gov/medlineplus/dementia.html)”.
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Tabella 1. Frequenze stimate delle principali cause di demenza (§).
• Demenza di Alzheimer (AD): 60%-70%
•Altre Demenze : 15%-30% ( Vascolare - VaD: 20-25 %, a corpi di Lewy - DLB: > 5% , frontotemporale
- DFT: 5-10 %, parkinson dementia - PD : < 5 % )
Demenze reversibili (ad es.: iatrogene, metaboliche, da tireopatia, ematoma subdurale, idrocefalo
normoteso): 2%-5%
(§) Reuben, D. B., Herr, K. A., Pacala, J. T., et al. Dementia, In Geriatrics At Your Fingertips: 2010 (57-62). New York, The American
Geriatric Society; 2010.
La prevalenza delle demenze attualmente supera i 24 milioni di persone a livello mondiale: si
prevede che superi i 40 milioni nel 2020 e gli 80 milioni entro il 2040 (Ferri et al. 2005). Mentre
non vi è alcuna cura efficace per la maggior parte delle demenze, la diagnosi precoce consente di
affrontare meglio lo stress della gestione della malattia, di programmare il futuro del paziente e di
sviluppare piani di gestione del paziente (Ashford et al. 2007).
La storia naturale della demenza si sviluppa in due principali fasi separate dalla soglia della
diagnosi: “stadio iniziale - preclinico” e “demenza” (Figura 1) (Dubois et al, 2007).
Dementia
AD
VD
FTD
PPA
DLB
Dementia
threshold
Early stages
Figura 1. Le due fasi principali della storia naturale delle demenze (Dubois et al., 2007)
Negli ultimi dieci anni lo sviluppo di nuovi biomarkers e di tecniche di neuroimaging hanno portato
ad aggiornare i criteri diagnostici per la demenza più frequente, il morbo di Alzheimer (AD), e dei
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suoi stati preclinici e prodromici (Dubois et al., 2010; http://www.nia.nih.gov/Alzheimers - http://
www.alz.org/research/diagnostic_criteria, 2011) identificati come Mild Cognitive Impairment
(MCI) (Petersen et al, 1999, Petersen et al, 2001).
L’MCI è caratterizzato da problemi di memoria, sufficienti per essere notati e misurati ma che
non compromettono l’indipendenza della persona. Una parte delle persone con MCI (3-10%)
progredisce verso l’AD.
L’MCI è indicato come fase importante da diagnosticare ma è molto difficile identificare questo
stadio nelle varie forme di demenza nei pazienti ambulatoriali in medicina generale (screening?
“case-finding”? cosa fare di fronte a pazienti che riferiscono compromissione della memoria
(CM) oggettiva o soggettiva? quali sono gli strumenti psicometrici di primo impiego in medicina
generale?).
Le linee guida internazionali per la diagnosi e la gestione delle demenze conclamata sono
regolarmente pubblicate ed aggiornate, mentre non vi sono linee guida disponibili (Palmer et al.,
2010) per l’MCI (MMSE: 26 -30, CDR: 0.5, FAST : 3, MOCA: < 26 1), e la “demenza lieve” (MMSE: 21-25,
CDR: 1, FAST: 4) (Reuben et al, 2010) che spesso si sovrappongono all’invecchiamento normale
creando una “zona cieca” per la diagnosi precoce.
Gli scopi di questo lavoro sono:
1) affrontare il problema della difficoltà della diagnosi precoce soprattutto in medicina generale;
2) presentare il percorso diagnostico, terapeutico e le proposte assistenziali per il paziente con
demenza ed i famigliari - caregivers
La diagnosi di demenza in medicina generale
In genere, i Medici di Medicina Generale (MMG) sono i primi interlocutori a cui si rivolgono i
pazienti o le loro famiglie quando vi sono problemi di CM (Valcour et al., 2000) e/o disturbi del
comportamento (BPSD 2) ma spesso la demenza non viene diagnosticata (Brodaty et al., 1994).
Solo il 60% delle persone che soddisfano i criteri diagnostici di demenza riceve una diagnosi
precisa (Aupperle, 2006).
Grazie al rapporto pluriennale con i pazienti e le loro famiglie, i MMG sono in una posizione
1 MMSE: Mini-Mental State Examination; CDR: Clinical Dementia Rating Scale; FAST: Reisberg Functional Assessment
Staging Scale; MOCA: Montreal Cognitive Assessment.
2 BPSD: Behavioral and Psychological Symptoms of Dementia
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favorevole e unica per raccogliere informazioni che servono per una valutazione del profilo
cognitivo e funzionale del paziente (Pond e Brodaty, 2004, Villars et al., 2010). Queste informazioni
sono cruciali sia per il processo diagnostico che per l’analisi degli effetti del trattamento (Nygård,
2003).
Il MMG può incontrare tre diversi tipi di ostacoli principali nella diagnosi di CM e/o BPSD nella
pratica ambulatoriale (Koch e Iliffe, 2010):
A)ostacoli clinici: difficoltà a sospettare CM e/o BPSD durante la pratica quotidiana soprattutto
nelle sue fasi iniziali (Kaduszkiewicz, H, et al, 2010);
B)ostacoli culturali: assenza di programmi di valutazione dello stato mentale durante il Corso di
Laurea in Medicina o di formazione post-laurea; assenza o scarsità di ECM su CM - demenza
mirate ai MMG, ageismo;
C)ostacoli diagnostici: mancanza di tempo, linee guida per i MMG e strumenti idonei a valutare lo
stato cognitivo dei pazienti ambulatoriali (Brodaty et al, 1994, Valcour et al, 2000)
1) Ostacoli clinici.
Caratteristiche
1.1 Ci sono molti tipi di demenza: i più comuni sono AD, VaD, DLB, FLT.
1.2Bassa incidenza e prevalenza nella popolazione del MMG: le demenze interessano il 6,5%
degli ultra 65 enni e con 5-6 nuove diagnosi / anno ogni 1500 assistiti (De Ronchi et al., 2005).
1.3La diagnosi precoce della demenza, quando la CM o i cambiamenti funzionali non sono
evidenti o riferiti, è l’aspetto più difficile della malattia.
1.4Nella demenza, i BPSD (depressione, allucinazioni visive, disinibizione, ecc) sono collegati a
CM: spesso, la loro insorgenza precede l’evidenziazione della CM soprattutto nelle forme VaD,
DLB, FLT.
1.5Quando i BPSD compaiono negli anziani, anche se non mostrano o dichiarano una CM
soggettiva o oggettiva, dovrebbe essere considerata la possibile presenza di demenza iniziale.
I BPSD quindi debbono essere considerati alla stessa stregua della CM nella presentazione
clinica della demenza iniziale.
1.6Se le funzioni cognitive basali di un anziano con BPSD persistenti sono normali, è consigliabile
rivalutare le funzioni cognitive ogni 6-12 mesi.
1.7La CM diventa un segno evidente di demenza soprattutto negli stadi moderati - gravi.
54
1.8Variazioni dello stato funzionale della vita quotidiana sono presenti principalmente negli
stadi moderati - gravi di demenza.
1.9Le alterazioni funzionali nella vita quotidiana di persone di età superiore a 80 anni possono
essere considerate “normali” e compensate da famigliari / caregiver per cui è difficile per il
MMG notare la comparsa di una perdita funzionale.
Proposte operative
1)modificare il messaggio paradigma della demenza e cioè: “la demenza non è solo CM anche
nella AD e nelle fasi iniziali i BPSD possono essere più evidenti che la CM e/o le menomazioni
funzionali”.
2)le persone anziane con comparsa di BPSD dovrebbero essere sottoposte a valutazione cognitiva.
3)ogni anziano che riferisce CM soggettivo o oggettivo dovrebbe essere sottoposto a valutazione
cognitiva.
2) Ostacoli culturali
Caratteristiche
1) insufficiente preparazione e conoscenza pre-laurea e formazione post-laurea per i medici (non
solo gli MMG);
2) difficoltà a separare “invecchiamento normale” e MCI che si sovrappongono negli stadi precoci
della demenza, quando il quadro evolve ancora lentamente, in modo fluttuante e spesso
mascherato dalla comorbidità;
3) mentalità “ageistica” diffusa tra la popolazione generale e medica (non solo gli MMG);
4) sentimenti di “marchio infamante”, negazione e paura che la demenza ha ingenerato e diffuso
nella popolazione;
5) nichilismo terapeutico.
Proposte operative
1) diffondere e migliorare la cultura sulla demenza nella popolazione;
2) migliorare le conoscenze del medico sulle demenze con adeguata formazione pre e post-laurea;
3) stimolare la diagnosi precoce di demenza, rendere più facile la cura e l’assistenza al demente per
i medici ed i suoi famigliari - caregiver con beneficio per il paziente.
55
3) Ostacoli Diagnostici
Caratteristiche
1) La “zona cieca” della demenza in fase iniziale: la sovrapposizione tra invecchiamento cognitivo
“normale” (amnesia benigna) e MCI in assenza di chiari deficit funzionali nelle ADL e IADL.
2) La difficoltà ad applicare la strategia del “case-finding” nella “zona cieca” e la mancanza di consenso
scientifico sullo screening della popolazione ambulatoriale (Boustani et al., 2003 e 2005).
3) La comorbidità confondente (depressione, delirium, patologie psichiatriche misconosciute o
all’esordio, malattie cerebrovascolari, metaboliche, endocrine....).
4) L’assenza di linee guida per MMG per l’approccio all’MCI.
5) Le limitazioni operative:
- di tempo (eseguire il MMSE, il test più diffuso, richiede mediamente circa 10-15 minuti in
ambulatorio inoltre è poco sensibile nell’MCI e demenza lieve)
- strutturali (in genere durante l’attività ambulatoriale del MMG non vi sono le caratteristiche di
silenziosità e tranquillità ambientale necessarie per la somministrazione di test psicometrici
per cui si dovrebbero dedicare apposite sessioni extra attività ambulatoriale)
- economiche (l’attività di valutazione psicometrica non è compensata; in Italia, solo l’AUSL
di Modena ha promosso un Accordo Integrativo con i MMG per la diagnosi e gestione del
paziente con demenza).
6) La conseguente mancata diffusione di strumenti psicometrici specifici per l’MMG per la diagnosi
ambulatoriale di MCI - demenza.
7) Il problema della comunicazione della diagnosi.
Proposte operative
Per superare gli ostacoli diagnostici si devono mettere in capo azioni mirate a promuovere:
1) la diffusione di linee guida per MMG per l’approccio all’MCI;
2) la definizione di strategie e strumenti per superare le limitazioni operative;
L’inquadramento diagnostico del paziente con MCI - demenza può essere affrontato dal MMG con
il seguente percorso:
1. abituarsi a riconoscere nei propri pazienti ambulatoriali, quelli meritevoli di approfondimento
diagnostico e valutazione specialistica per possibile deterioramento cognitivo. Per fare questo
56
il MMG si baserà:
a) sulla segnalazione dei parenti e/o dello stesso paziente inerenti la comparsa di disturbi
comportamentali e/o cognitivi sia al domicilio che occasionali durante ricoveri ospedalieri,
integrando la segnalazione con i dati clinici ed anamnestici di cui dispone;
b) sul riscontro diretto casuale, durante visita medica per altri motivi, di modificazioni
comportamentali e/o cognitive rispetto a quanto l’MMG conosce abitualmente del paziente;
2. approfondire il sospetto diagnostico con la ri-valutazione dell’esame obiettivo generale,
della comorbidità e delle terapie farmacologiche in atto e la somministrazione di strumenti
psicometrici specifici per l’MMG e sensibili per la diagnosi ambulatoriale dell’MCI - demenza
quali il GPCog (Brodaty et al., 2002, Pirani et al., 2010) (www.gpcog.com.au). Il GPCOG è il test
psicometrico più consigliato dagli esperti per la valutazione ambulatoriale dello stato cognitivo
da parte del MMG (Milne et al., 2008, Alzheimer’s Association, 2011).
3. se confermato il sospetto diagnostico, prescrivere gli esami diagnostici di primo livello (esami
ematochimici comprensivi di B12, folati, TSH e TC encefalo senza mezzo di contrasto);
4. indirizzare il paziente con sospetto diagnostico, sempre accompagnato da un famigliare, ad
una Unità di Valutazione Alzheimer (UVA) o Consultorio Esperto per i Disturbi Cognitivi come
sono stati riformulate le UVA nella Regione Emilia Romagna. E’ utile che il MMG raccomandi al
paziente e famigliare di portare alla prima visita tutta la documentazione sanitaria anche datata
e possibilmente fornisca stampa della cartella clinica del paziente per lo specialista.
La gestione del paziente con demenza
In Italia le strutture territoriali deputate alla diagnosi, trattamento farmacologico e monitoraggio
dei pazienti con demenza sono le Unità di Valutazione Alzheimer (UVA).
La Regione Emilia Romagna (RER) ha promosso la creazione di strutture più mirate alla gestione
globale del paziente integrando la gestione sue problematiche cliniche con quelle socio
assistenziali in aiuto a famigliari e caregiver (vedere Tabella n. 2).
La RER ha promosso nelle AUSL la creazione di Consultori Esperti per i Disturbi Cognitivi localizzati
in genere nel capoluogo di provincia (DR n. 2581/99). Per potere svolgere una azione incisiva ed
un intervento capillare sul territorio, ogni Consultorio aziendale ha provveduto a istituire Centri
Delegati per i Disturbi Cognitivi a valenza distrettuale.
L’elenco dei Consultori e dei Centri delegati collegati è disponibile nel sito web dedicato della
Regione (http://sociale.regione.emilia-romagna.it/anziani/progetti/alzheimer-e-demenze-senili/
elenco-dei-consultori).
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Tabella n. 2. Sinossi del Progetto Demenze della Regione Emilia Romagna (DR 2581/99).
Le opzioni di fondo e leve strategiche
1) Approccio globale ed integrato
2) Rete integrata e non separata
3) Riconoscimento e sostegno del ruolo delle famiglie e delle associazioni e modifica delle
modalità di rapporto e collaborazione che la rete istituzionale dei servizi deve essere in grado
di garantire per: a) formazione e aggiornamento; b) ambiente; c) alleanza “terapeutica” con i familiari.
Gli Obiettivi e le Azioni
Obiettivo n. 1: Garantire una valutazione ed una diagnosi adeguata e tempestiva
1.1 MMG
2.2 rete di Consultori e Centri Delegati per le demenze
Obiettivo n. 2: Migliorare la qualità delle cure e della vita degli anziani dementi e dei loro familiari
2.1 Precoce valutazione, diagnosi e presa in carico
2.2 Informazione sulle risorse esistenti
2.3 Garantire in tutte le tipologie dei servizi della rete una adeguata offerta di prese in carico di
sostegno per periodi limitati (respite care)
2.4 Formazione e aggiornamento dei caregiver informali
2.5 Consulenza su problematiche assistenziali, legali, previdenziali e psicologiche
Obiettivo n. 3: Favorire il mantenimento a domicilio degli anziani colpiti da sindromi demenziali
3.1 Incentivare l’adattamento dell’ambiente domestico alle esigenze del soggetto demente
3.2 Sostenere il lavoro di cura dei familiari
Obiettivo n. 4. Adeguare, espandere e specializzare la rete dei servizi nella “presa in carico” e “cura”
di soggetti dementi
Obiettivo n. 5: Modificare la relazione tra servizi/anziani/ famiglie, rendendo la rete dei servizi
istituzionali capace di sostenere le famiglie e le reti di aiuto informali, valorizzando l’apporto delle
associazioni
Obiettivo n. 6: Qualificare i processi assistenziali interni agli ospedali nei reparti maggiormente
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interessati da ricoveri di soggetti affetti da sindromi demenziali
Sperimentazione ed Innovazione
Consultori e Centri Delegati per i Disturbi Cognitivi.
A) Le funzioni attivate.
1) Inquadramento diagnostico
2) Presa in carico del paziente con “deterioramento cognitivo” per:
2.1) gestione del deficit delle funzioni cognitive
2.2) gestione degli eventuali disturbi del comportamento (BPSD)
3) Interazione con il curante
4) Interazione con la rete dei servizi territoriali
5) Follow up e gestione Piani Terapeutici (PT)
6) Prescrizione ausili semplici e presidi per i pazienti in carico
7) Alimentazione flusso Banca Dati Aziendale e Regionale (report semestrali ed annuali)
1) Inquadramento diagnostico
- motivo della visita
- valutazione multidimensionale:
a) dati anagrafici, contesto socio famigliare, familiarità
b) anamnesi, comorbidità
c) terapia in atto
d) esame obiettivo
e) valutazione psico-cognitiva e funzionale (MMSE, GPCOG, MOCA, FAB, ADAS-Cog, NPI, GDS,
CDR, ADL, IADL, Caregiver Burden Assessment...)
f ) indagini strumentali (RM-TC encefalo, SPECT-PET) e bioumorali
- conclusioni ed eventuali proposte terapeutiche sia farmacologiche che non
- programmazione controllo successivo
59
2) Presa in carico di paziente con MCI - deterioramento cognitivo lieve (MMSE = con punteggio
compreso tra 21 e 26 /30) e moderato (MMSE con punteggio compreso tra 10 e 20 /30)
2.1) gestione deficit delle funzioni cognitive:
- comunicazione “indirizzo” diagnostico al paziente e famigliari e “presa in carico”
- counseling, educazione sanitaria per l’indirizzo nella gestione degli aspetti quotidiani sanitari ed
assistenziali, supporto gestionale (ad es. problematiche legali, quali l’amministratore di sostegno,
previdenziali quali invalidità, indennità di accompagnamento, etc.)
- valutazione trattamento farmacologico con inibitori Ache e (in Emilia Romagna) Memantina o
altri farmaci attivi sul SNC solo negli stadi “lieve” e “moderato” (Nota 85, AIFA)
- valutazione della corretta somministrazione della terapia farmacologica
- predisposizione Piano Terapeutico; rinnovo semestrale
- valutazione problematiche rilevanti la competenza psicologica e la sicurezza decisionale nelle
IADL (guida auto, gestione farmaci, gestione cottura, preparazione e conservazione pasti,
alimentazione, gestione finanze, ect.)
- follow up semestrale ma se vi sono BPSD secondo necessità
2.2) disturbi del comportamento (BPSD)
- valutazione problematiche conseguenti ai BPSD (sicurezza del paziente, dei famigliari - caregiver,
turnover badanti, valutazione stress caregiver e famigliari, ect.)
- counseling per i famigliari - caregiver; educazione sanitaria per l’indirizzo nella gestione degli
aspetti quotidiani sanitari ed assistenziali
- valutazione trattamento farmacologico sia con antipsicotici atipici che tipici o altri farmaci attivi
sul SNC
- predisposizione Piano Terapeutico; rinnovo bimestrale
- valutazione corretta somministrazione farmaci dal caregiver
- follow up secondo necessità ed acuzie comportamentali.
3) Interazione con il curante
- refertazione: l’MMG prende atto dell’inquadramento diagnostico del paziente e ne segue il
follow-up;
60
- telefono, e-mail: per raccordo urgente con lo specialista in caso di scompensi acuti e nelle
demenze gravi, non più ambulatoriali, per supporto alla gestione delle problematiche cliniche e
comportamentali domiciliari
- monitoraggio sia del paziente per gli aspetti clinici, comportamentali ed eventuale comparsa di
effetti collaterali dei farmaci prescritti sia parimenti dei/del caregiver per la possibile comparsa di
situazioni patologiche connesse allo stress assistenziale.
4) Interazione con la rete dei servizi territoriali
- Servizi Sociali (per richiesta assistenza tutelare domiciliare, per segnalazione situazioni a rischio
sociale, ..)
- CSM (accettazione casistica con BPSD, invio casistica psichiatrica)
- Strutture Assistenziali (Case Protette, Centri Diurni, Nuclei Speciali per Demenza, Respite Care...)
B) Le funzioni da attivare
1) ampliare la funzione specialistica esclusivamente ambulatoriale dei Consultori/Centri Delegati
- UVA;
2) superare la “dismissione” del paziente nella stadio “grave” (mmse < 10 /30) sia per inefficacia del
trattamento farmacologico (nota 85, aifa) sia per la progressiva compromissione funzionale del
paziente in particolare motoria;
3) superare l’interruzione del rapporto diretto con i famigliari - caregiver e con i medici curanti nella
fase assistenziale spesso più impegnativa (BPSD, progressiva alterazione della alimentazione,
disfagia....) della malattia che si svolge al domicilio e spesso dura parecchi anni; in questa fase
non raramente è necessario prendere decisioni importanti quoad vitam per il paziente e la
famiglia (ad es. posizionamento di dispositivi per l’alimentazione parenterale quali il Catetere
Venoso Centrale - CVC - o per via enterale quali la Gastrostomia Endoscopica Percutanea - PEG
- o il Sondino Naso Gastrico - SNG)
4) fornire consulenza specialistica istituzionale domiciliare a supporto di famigliari - caregiver e
medico curante.
Gli Interventi a sostegno dei caregivers.
La famiglia che assiste una persona affetta da demenza va incontro ad una situazione di crisi
profonda (Mace e Rabins 1987; Florenzano 1994).
61
Quando si è in presenza di un malato di demenza, in realtà, ci si trova di fronte a due diverse
tipologie di malati: il primo è il paziente stesso ed il secondo sono i famigliari che non di rado
vivono l’assistenza al famigliare demente (Gandolfi, 2007), in una condizione di forte stress psicofisico (Mace N.L., Rabins P.V. 1995).
Come ampiamente documentato in letteratura (Fondazione “E. Zancan” 2007; Mace e Rabins,
1995; Pirani, Romagnoni et al., 2007), sono molteplici le cause che determinano nei famigliari
effetti negativi causando veri e propri stati di malattia sia di natura psicologica che organica.
In particolare, le cause principali sono:
1. la composizione del nucleo famigliare: sempre più spesso è costituito da una sola persona (figlio
o coniuge), non raramente in precario stato di salute, che accudisce, per lo più da solo, senza
badante, il congiunto;
2. la negazione della malattia: spesso i famigliari, sia figli che coniugi, rifiutano la diagnosi di
demenza del congiunto;
3. la durata della malattia: non di rado la prognosi dura svariati anni con i relativi problemi connessi
alla lunghissima assistenza e gestione (Bianchetti et al., 1998).
Diversamente dalle altre malattie croniche invalidanti, la demenza genera un “corpus” inscindibile
di bisogni sia del malato che della famiglia, che richiede un approccio e risposte integrate
(Alzheimer Europe - Alzheimer Italia, 1999).
La conoscenza dettagliata dei bisogni della famiglia costituisce la base per potere fornire risposte
adeguate.
I bisogni della famiglia
I dati, riportati di seguito, sono estratti dal Progetto Misurare la Qualità di Vita del Caregiver (Pirani
et al., 2007) sviluppato nell’ambito dei Piani Per la Salute della Provincia di Ferrara (AUSL Ferrara
2004, 2006).
Il profilo delle persone affette da demenza
- soprattutto donne, per lo più molto anziane e con bassa scolarità.
62
Il profilo dei famigliari-caregiver
- il 75% donne con un’età media di 56 anni (alcune anche di 90 anni);
- il 13% < 75 anni;
- il 32% ha frequentato solo la scuola media inferiore;
- il 45% lavora fuori casa;
- il 28% ha dovuto cessare il lavoro;
- il 16% è rappresentato dal coniuge;
- il 55% sono figli;
- il 24% dei famigliari caregiver assiste da solo il demente;
- solo il 20% afferma di utilizzare la rete dei servizi territoriale.
Il carico assistenziale dei famigliari-caregiver
- il 62% lo reputa “molto elevato” cioè a rischio di burn-out;
- il 76% reputa la qualità di vita del demente mediocre o pessima;
- il 40% reputa peggiorata la qualità di vita del demente nell’ultimo anno.
Le criticità del carico assistenziale dei famigliari-caregiver
- è continuo cioè 24 ore al giorno, con problemi sanitari medici, spesso specialistici, infermieristici,
tutelari, riabilitativi, burocratici, amministrativi;
- è progressivo per l’inevitabile perdita autonomia nelle attività della vita quotidiana (Activities of
Daily Living - ADL);
- è complicato da disturbi del comportamento non compensati (BPSD: facile irritabilità, deliri,
allucinazioni, agitazione ed aggressività verbale e fisica, depressione, ansia, disinibizione, attività
motoria aberrante, inversione ritmo sonno-veglia, disturbi dell’appetito ed alimentazione), in
particolare se tali disturbi sono associati a terapie con antipsicotici;
- è poco supportato per l’insufficiente uso e/o disponibilità dei servizi territoriali a compenso sia
della perdita della autonomia quotidiana che dei BPSD.
63
L’aiuto informale alla famiglia
- il 32% si fa aiutare da badanti per una media di 13 ore al giorno; è sempre più frequente la
condizione di famigliari che vivono e lavorano lontani dalla dimora del malato per cui devono
delegare completamente la gestione assistenziale del proprio congiunto ad una o, non raramente,
più badanti per coprire per intero l’arco di assistenza delle 24 ore.
Le attività di sostegno ai famigliari-caregiver vengono organizzate secondo tre principali direttrici:
a) il sostegno psicologico, mediante colloqui con psicologo - psicoterapeuta, ai famigliari - caregiver
che presentino livelli di stress patologici e conseguente psicopatologia;
b) la formazione-informazione mediante corsi di formazione ed eventi di informazione a tema;
c) l’integrazione con le altre strutture della rete territoriale che possono offrire i servizi necessari
al paziente (Servizi Sociali, Centri Diurni, Nuclei Speciali per Demenze, Case protette, Respite
care) e con le varie iniziative a sostegno dei famigliari-caregiver (ad es. gruppi di auto-aiuto,
interazione con le associazioni di volontariato, Cafè Alzheimer, etc.);
Sperimentazione ed Innovazione
d) il monitoraggio remoto per il sostegno quotidiano - costante: Centri d’Ascolti Telefonici (Centro
D’ascolto Solidalmente 2002; IRCCS, 2003), il Telemonitoraggio dei bisogni del paziente
demente e dei famigliari - caregiver (Pirani, Tulipani et al. 2007).
Il follow-up telefonico è un modello assistenziale che sostiene la compliance al trattamento
assistenziale, identifica il burn-out nel caregiver e facilita l’accesso alle rete dei servizi.
Il progetto di Telemonitoraggio dei bisogni del paziente demente e dei famigliari - caregiver
attivato nel Distretto Ovest dell’AUSL di Ferrara ha dimostrato di:
- fornire sostegno continuativo ai familiari-caregiver a rinforzo della domiciliarità degli anziani
affetti da demenza;
- attenuare il disagio relazionale e da stress;
- migliorare la gratificazione dei famigliari-caregiver;
- ottimizzare il ricorso a servizi residenziali e semiresidenziali;
- attuare un miglior presidio del territorio potenziando le risposte ai bisogni.
64
Conclusioni
Nella passata decade sono stati sviluppate strutture ed interventi di base che costituiscono
l’architrave della gestione sanitaria e socio-assistenziale del paziente demente ed un valido punto
di riferimento per i famigliari-caregiver.
Nel decennio in corso che dovrebbe vedere l’arrivo di importanti novità sia diagnostiche che
terapeutiche, i progetti di miglioramento dovranno essere indirizzati a potenziare: la diagnosi
precoce delle demenze a partire dall’ambulatorio del MMG, l’intervento specialistico nello stadio
grave e domiciliare delle demenze, la diffusione e l’ulteriore sviluppo di tecnologie remote per la
consulenza specialistica agli MMG e l’aiuto ed il sostegno ai famigliari - caregiver .
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8. QUALITÀ DI VITA E SALUTE PSICHICA
DEL CAREGIVER DELLA PERSONA AFFETTA
DA DEMENZA
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8. QUALITÀ DI VITA E SALUTE PSICHICA
DEL CAREGIVER DELLA PERSONA AFFETTA
DA DEMENZA
Dott.ssa Elisa Ferriani
Psicoterapeuta UOC Psicologia Clinica Ospedaliera UO - Centro Esperto
Disturbi Cognitivi e della Memoria A.USL di Bologna
La demenza è una sindrome complessa, ad alto impatto socio-sanitario, con profonde ricadute sul
contesto familiare, sia in termini di salute fisica che di salute psichica. Essa porta ad una condizione
di disfunzione cronica e progressiva delle funzioni cerebrali, che determina poi ad un declino delle
facoltà cognitive della persona di entità tale da interferire con le usuali attività sociali e lavorative
del paziente; è una delle principali cause di disabilità e dipendenza in età avanzata ed è spesso una
delle cause più frequenti di istituzionalizzazione.
La presenza in famiglia di un anziano bisognoso di cure onerose e prolungate nel tempo è motivo
di rilevanti modificazioni, quando non di profonde tensioni, nelle relazioni intrafamiliari. In tale
contesto si rendono evidenti i valori chiave delle relazioni familiari, la tenuta degli investimenti
emotivi ed affettivi, la reciprocità dei sentimenti di affetto e più in generale il valore della lealtà
intergenerazionale sul quale si misura l’equilibrio della famiglia. Nello specifico, la presenza di un
malato di Alzheimer all’interno della famiglia rappresenta un evento critico di notevole portata,
che obbliga l’intero sistema familiare a modificare la propria organizzazione in termini spaziali,
di gestione, di assunzione o ripartizione di ruoli. Una realtà spesso misconosciuta è che l’onere
sopportato dai familiari che assistono i propri anziani non autosufficienti è un problema serio e
può talvolta diventare difficilmente tollerabile, di solito si traduce in un radicale mutamento della
vita della famiglia, in tensioni e conflitti tra i suoi membri.
Prendersi cura di un soggetto con demenza non incide solo sugli equilibri dell’intera famiglia, ma
altera pesantemente anche lo stato di benessere psicofisico del caregiver principale; l’enorme e
prolungata richiesta di assistenza può avere infatti effetti negativi sulla salute fisica e mentale, sulla
partecipazione ad attività sociali e ricreative e sulla sicurezza finanziaria del caregiver stesso, che
rischia di essere isolato e di isolarsi emotivamente e socialmente dalla vita pubblica e privata, fino
ad arrivare gradualmente ad una vera e propria crisi psichica.
71
Il burn-out del caregiver, cioè il punto di rottura sul piano fisico e psicologico, è spesso condizionato dal
livello di autosufficienza del malato di demenza; negli stadi iniziali della malattia il caregiver sperimenta
soprattutto coinvolgimento emozionale di fronte alla diagnosi e alla prognosi della malattia, mentre
negli stadi più avanzati la fatica e lo stress diventano soprattutto di natura fisica. Diversi studi hanno
dimostrato che lo stress del caregiver del paziente con malattia di Alzheimer cresce con l’avanzare del
deterioramento cognitivo del malato e questo soprattutto nelle fasi terminali; con crescente aumento
del tasso di depressione (Baumgarten, 1992 e 1994; Canadian Study of Health and Aging Working
Group, 1994; Livingston, 1996). Sono tuttavia i disturbi del comportamento ad incidere maggiormente
sulle risorse assistenziali globali del caregiver. I caregiver sono quindi spesso a rischio di burn out.
Obiettivi: Sono stati esaminati in totale 153 caregiver di pazienti affetti da deterioramento cognitivo
afferenti al centro all’UO Centro Esperto Disturbi Cognitivi e della Memoria dell’Ospedale Maggiore
(AUSL di Bologna).
Gli obiettivi dello studio sono stati quelli di:
- comprendere il carico globale derivante dall’assistenza al malato affetto da demenza
- valutare l’impatto sulla qualità di vita del caregiver
- valutare le strategie di coping che ciascuna persona mette in atto
- valutare la presenza di eventuali correlazioni fra le suddette variabili e gli aspetti clinici dei
pazienti stessi.
Materiali e Metodi: ai 153 familiari coinvolti è stata somministrata una batteria di questionari
autovalutativi che comprendeva:
1. una scheda, appositamente elaborata, per la raccolta delle informazioni anagrafiche e socio assistenziali;
2. un questionario per la valutazione del burden derivante dall’assistere un malato affetto
da demenza  Caregiver Burden Inventory - CBI, appositamente elaborato per i caregiver
di persone affette da demenza, in grado di valutare il carico assistenziale considerandone la
multidimensionalità;
3. un questionario per la valutazione della qualità di vita  Short Form Survey SF -12, rappresenta
la versione breve del Short-Form 36 items Health Survey (SF-36), test psicometrico che valuta la
“qualità di vita” facendo riferimento a due indici, uno pertinente al dominio fisico della salute,
Physical Component Summary (PCS), l’altro a quello mentale, Mental Component Summary (MCS).
I punteggi che si ottengono da tali indici riflettono una combinazione di funzione e benessere
sia mentali che fisici, grado di disabilità a livello sociale e personale, valutazione soggettiva della
salute in generale;
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4. un questionario per la valutazione della depressione  Beck Depression Inventory-BDI, il quale
valuta i sintomi e gli atteggiamenti caratteristici della depressione, applicabile a fini clinici e
sperimentali e adatto a rilevare la gravità dei sintomi in soggetti malati e la presenza di depressione
nella popolazione ‘normale’ di adulti e adolescenti. Si compone di 21 item che valutano: tristezza,
pessimismo, senso di fallimento, insoddisfazione, senso di colpa, aspettative di punizione,
delusione verso se stessi, atteggiamento di auto-accusa, idee suicidarie, pianto, irritabilità, ritiro
sociale, indecisione, svalutazione della propria immagine corporea, calo dell’efficienza lavorativa,
disturbi del sonno, affaticabilità, calo dell’appetito, calo ponderale, preoccupazioni somatiche,
perdita dell’interesse sessuale;
5. un questionario per la valutazione delle strategie di coping  Copìng Orientation to
Problems Experienced-COPE; test multidimensionale, per la misurazione delle abilità di coping
(fronteggiamento delle situazioni problematiche). I 60 item che compongono il test si articolano
in 17 scale, raggruppate nelle tre diverse modalità di coping riconosciute in letteratura: a) strategie
focalizzate sul problema, b) strategie focalizzate sulle emozioni, c) strategie disfunzionali.
I questionari sono tutti validati a livello internazionale.
Risultati: Dall’analisi del campione (vedi Tab.1) è emerso che dei familiari coinvolti 29 erano di
genere maschile e 124 di genere femminile, l’età media risultava essere di 57,6±11,58 anni e la
scolarità media di 11,46±3,15 anni; inoltre il 43,79% conviveva con il malato.
Dall’analisi del grado di parentela si è riscontrato che il 63,4% era rappresentato da figli, il 28,76%
da coniugi ed i restanti 7,85% da fratello, genero e nipote.
Tab 1. Caratteristiche Anagrafiche dei Caregiver
M
29 19%
F
124 81%
Età57,6 + 11,58
Scolarità11,46 + 3,15
Lavoro Tempo pieno
62 40,5%
Part time
16 10,5%
Disoccupato
2717,6%
Pensionato
40 26,1
Altro
8 5,3%
Figli
9763,4%
Coniugi
4428,76%
Altri famigliari
12 7,85%
Conviventi con il paziente
65 42,5%
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I dati assistenziali hanno evidenziato come i caregiver si prendano cura del malato in media per
43,69±37,45 mesi (pari a 3,6 anni), con un coinvolgimento settimanale medio di 51,75±58,91ore
(range:1-168).
Per quanto concerne la qualità di vita emerge che il punteggio medio di pcs (salute fisica) è
47,11±9,45; di mcs (salute mentale) è 38,98±11,89. Tali dati si attestano tra il 25° ed il 50° percentile
per il punteggio pcs (44,2 - 52,0, media: 48,6) e intorno al 25° percentile per il punteggio mcs del
campione normativo di riferimento (40,2, media: 49,9). La depressione valutata con la BDI ha una
media di 11,07±7,91 con un cut off normativo di 0-9. Il carico globale derivante dall’assistenza era
pari a 29,1±20,29 (range: 0-79). Infine gli esiti medi del COPE hanno mostrato che il 44,87% dei
caregiver ha un coping centrato sul problema; il 35,66% un coping centrato sulle emozioni e il
19,39% utilizza strategie disfunzionali.
Le analisi correlazionali hanno evidenziato che il burden (CBI) era significativamente correlato con
la gravità del quadro cognitivo valutato al MMSE (r: -0,186, p:0,029), con il profilo funzionale (ADL, r:
-0,297, p:0,000; IADL, r: -0,322, p: 0,000) e con i disturbi del comportamento (NPI, r:0,2999, p:0,000).
La durata complessiva del caregiving era correlata con lo stato funzionale del paziente (ADL, r:
-0,344, p:0,000; IADL, r: -0,323, p: 0,000). L’indice di salute mentale ottenuto dalla somministrazione
del questionario sulla qualità di vita e la presenza di depressione sono risultati significativamente
correlati con la presenza di disturbi del comportamento (NPI, MCS, r: -0,215, p: 0,011), (NPI, r: 0,187,
p: 0,028).
Inoltre non sono emerse correlazioni tra le variabili del caregiver considerate e il tono dell’umore
del malato (valutato con la GDS), il livello di scolarità e l’età. Infine il tipo di diagnosi posta non
risulta influire sulla fotografia del caregiver delineata nello studio.
Conclusioni: I dati che emergono da questo studio devono essere analizzati alla luce della necessità,
sempre crescente, di prendere in considerazione i bisogni e le problematiche psicologiche,
emotive e fisiche dei cargiver.
La complessità della cura, l’impegno costante, le implicazioni sul piano relazionale ed emozionale,
i costi economici diretti e indiretti, mettono a dura prova l’equilibrio psicofisico del caregiver e
dell’intero nucleo familiare. I familiari che accedono al Centro Esperto mostrano infatti elevati
livelli di strss mentale (mcs) e quadri di depressione lieve (BDI).
Ciò che lo determina dipende sicuramente dalle espressioni cliniche della malattia (aggravamento
del quadro cognitivo e funzionale, disturbi del comportamento), ma risultano altresì importanti
anche gli elementi di assistenza (durata media dell’assistenza e impegno settimanale), la disponibilità
di supporto e la modalità con cui il cargiver percepisce i sintomi della malattia. Informazione,
formazione ed educazione diventano elementi fondamentali per ridurre il livello di stress.
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Come rilevato dallo studio i familiari di persone affette da demenza sperimentano elevati livelli
di sintomatologia psichica, spesso derivante dalla solitudine dovuta alla ridotta qualità della
comunicazione con il parente malato, dalla perdita di reciprocità e dai disturbi del comportamento.
Lo stress che viene sperimentato nell’assistenza ad un paziente affetto da demenza aumenta poi il
rischio di comportamenti poco salutari, con una ridotta attenzione alla propria salute da parte del
cargiver. Per molte persone può essere utile condividere con altri, che stanno sperimentando la
medesima situazione, le proprie emozioni e i propri sentimenti, in quanto può aiutare a percepire
come normali e naturali le proprie reazioni, e chi si trova isolato può riuscire a ristabilire delle
relazioni interpersonali.
L’attenzione che viene posta ai processi diagnostici, terapeutici o assistenziali in senso stretto, non
deve mai far dimenticare l’attenzione alla cura, ovvero alla comprensione dei bisogni e del dolore
di chi è malato e di chi se ne fa carico.
Proprio alla luce di queste considerazioni, il Centro Esperto Disturbi Cognitivi e della Memoria
dell’Ospedale Maggiore, ha attivato, per i cargiver:
1. incontri psicoeducazionali, tesi ad una maggiore conoscenza nei confronti della malattia e della
sua gestione;
2. punti di ascolto, gestiti da personale appositamente formato;
3. frequentazione dei centri diurni, ricoveri di sollievo, interventi di assistenza domiciliare e
volontaria, ecc, volti a favorire sollievo nel tempo e sostegno alla domiciliarità;
4. gruppi di auto aiuto, interventi psicologici individuali e di gruppo, tesi al sostegno emotivo e
psicologico.
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9. I CAREGIVER DEL COOPERATIVISMO,
TRA CONOSCENZA E RICONOSCENZA
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9. I CAREGIVER DEL COOPERATIVISMO,
TRA CONOSCENZA E RICONOSCENZA
Dott.ssa Sara Saltarelli
Responsabile Area Sede Assistenza alla Persona, Cooperativa Sociale Società Dolce
Prima di affrontare in una relazione le tematiche relative ai servizi alla persona, con particolare
riferimento alle persone anziane, è importante soffermarsi su alcuni indici relativi agli andamenti
peculiari della popolazione occidentale e per questo anche italiana.
Tra questi indici è infatti utile estrapolare i dati relativi all’aumento della vita media nelle nazioni
con stili di vita occidentali, dai quali è possibile notare che nell’ultimo secolo la vita media è salita
dagli iniziali 60 anni agli attuali 76 anni, con una percentuale in continua crescita costituita dagli
over-ottantenni, fenomeni che caratterizzano in modo particolare il mondo femminile.
Se l’allungamento delle speranze di vita è sicuramente un fattore che denota gli sviluppi positivi
della nostra società intesa nel suo complesso, che oggi è in grado di offrire delle condizioni
qualitativamente elevate e un benessere maggiormente diffuso tra la popolazione, è anche vero
che tali traguardi portano con sé altri fattori che influiscono sugli assetti sociali di larga scala.
Infatti il raggiungimento della soglia costituita dalla terza (65-80 anni) o quarta età (oltre gli 80
anni) spesso si accompagna alla comparsa di limitazioni nell’autonomia personale, connesse sia
alla ridotta capacità nei movimenti, ma anche all’emergere di vere patologie invalidanti.
Nella nostra Nazione, che presenta uno degli indici d’invecchiamento più alti d’Europa, le persone
anziane costituiscono la fascia della popolazione più numerose e con maggiori esigenze di cura,
che assieme alla persone con disabilità o a coloro che in vario grado hanno bisogno di assistenza,
costituisce un gruppo formato da oltre 10 milioni di persone.
La vastità del gruppo costituito da questi particolari portatori di interessi e richieste specifiche,
impedisce attualmente alle Istituzioni di poter corrispondere loro una risposta puntuale e
immediata, sia a livello nazionale come politiche sociali che a livello territoriale come servizi
erogati. Quindi, se non esistono servizi alla persona in grado di rispondere a tutti i bisogni, si pone
il problema se tali esigenze resteranno insoddisfatte o avranno una diversa modalità di risposta.
Tale dilemma viene il più delle volte risolto all’interno dell’ambito familiare e/o parentale, attraverso
79
l’impegno diretto di alcune figure che si prendono carico delle persone anziane e generalmente
bisognose di cura ed assistenza.
La famiglia, insieme ai vicini, badanti e volontari, costituiscono quel folto gruppo denominato
in varie statistiche “caregiver”, termine di origine inglese traducibile con la frase “coloro che si
prendono cura”.
Le attività svolte dai caregiver sono di varia natura e ricoprono quasi tutti i bisogni come le visite
domiciliari durante la giornata, la spesa a domicilio, accompagnamenti per attività ma anche una
semplice conversazione in casa.
Ciò che motiva e spinge i caregiver ad impegnarsi in queste attività di sostegno e cura sono
essenzialmente fattori personali, come i valori religiosi o laici di aiuto del prossimo, la volontà
di cercare un modalità di comunicazione con alter, l’interesse economico per le badanti, la
suddivisione di impegni all’interno del contesto familiare ristretto.
L’importanza dei caregiver è stata rilevata anche dalle principali fonti statitische come l’ISTAT,
che nel mese di ottobre 2010 ha evidenziato che in Italia sono ben 13 milioni le persone che si
prendono cura di altri, in maggioranza donne con un’età superiore ai 50 anni.
Se la specificità dei caregiver fa emergere ancora il ruolo di cura che culturalmente resta ancora
in carico alle donne, in generale è possibile immaginare che in assenza di tali ruoli di supporto le
Istituzioni Pubbliche non riuscirebbero a rispondere a quest’abito di bisogni, rendendo sempre di
più i caregiver indispensabili.
Un ulteriore traccia di ricerca ha evidenziato che sono le persone di età superiore ai 65 anni
ad avere le necessità maggiori di cura, confermato dal fatto che il 60% delle famiglie con un
ultrasessantacinquenne richiede l’aiuto di figure terze per le attività di cura, principalmente
ricorrendo a persone extra-familiari siano esse badanti, operatori dei servizi o volontari.
Inoltre è sempre importante ricordare che, oltre le persone anziane, sono da considerare anche
coloro che presentano un’invalidità acquisita, i soggetti nati con gravi patologie, coloro che hanno
un disturbo psichiatrico ed infine chi ha una malattia temporanea.
Sfogliando le varie statistiche sul tema è possibile notare con sorpresa che il ricorso ai caregiver
non è connesso soltanto alla presenza di persone anziane o con patologie invalidanti, ma anche in
relazione alla presenza di figli piccoli, infatti una famiglia su tre con bambini al di sotto dei 14 anni
ha ricevuto aiuto nel corso del 2010, un rapporto che scende a una su sei se la madre è casalinga.
Quindi è possibile stabilire che non sono solo l’invecchiamento della popolazione e il mutarsi delle
condizioni sociali a spingere annualmente circa 65 mila persone ad aggiungersi al folto gruppo dei
caregiver.
80
Infatti la spinta a fare da sé, ad inventarsi caregiver, è data prima di tutto dall’assenza, o perlomeno
dall’incapacità, dell’Ente Pubblico a provvedere ai bisogni di un così grande numero di persone.
Queste persone sono obbligate a far da sé, a prendere congedi straordinari, a scambiare turni sul
lavoro, a trascurare il resto della famiglia, il tutto gratuitamente (nel 90% dei casi) ed anzi in parte
a proprie spese.
In questo panorama dei servizi alla persona, alle Cooperative Sociali spetta un’azione qualificata,
come soggetto imprenditoriale, forte delle competenze e abilità maturate soprattutto con la
formazione permanente di chi ci lavora.
Le Cooperative possono affiancarsi ai caregiver per tutte le attività che prevedono l’impiego di
personale qualificato e in una costante programmazione condivisa tra i tempi familiari e quelli di
cura, in modo da fungere anche da supporto diretto e sollievo momentaneo dei familiari.
Per ottenere tale ruolo è importante concentrarsi costantemente sulle attività di ricerca e studio,
proprio per questo la nostra Cooperativa ha stabilito un’interazione permanente con l’Università,
specialmente con la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna che da più di
un decennio forma gli operatori in diverse ambiti di lavoro, soprattutto riguardanti la relazione
di aiuto e la qualità dei servizi, nonché le attività di tirocinio degli studenti presso i singoli servizi
erogati.
Società Dolce ha costruito un sistema di qualificazione del lavoro così strutturato:
• l’analisi delle qualifiche aziendali da destinare all’inserimento, la selezione dei lavoratori disabili
che tenga conto sia delle professionalità già possedute della persona che delle esigenze aziendali,
• l’addestramento professionale sul luogo di lavoro,
• le verifiche periodiche dello stato di miglioramento della persona durante il suo inserimento
temporaneo in Cooperativa,
• le azioni di tutoraggio in azienda,
• la creazione di ambiti di creatività ed innovazione verso una migliore qualità di vita.
Tutti questi ambiti di intervento potrebbero rilevarsi come punti nodali tra l’erogazione del servizio
e il momento della fruizione, in modo da far incontrare la domanda specifica e l’offerta in un’opera
costante di ripensamento e ricerca della qualità personalizzata.
Un esempio concreto della valorizzazione della nostra attività è la realizzazione biennale di Corsi.
Questo Seminario-Convegno che ha come titolo “L’età adulta e i servizi alla persona”, è creato per
offrire una validità accademica e di laboratorio che permetta ai partecipanti di essere una parte
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attiva del processo di cambiamento e di studio, al fine di offrire in futuro un’organizzazione dei
servizi che sia più vicina possibile alle reali esigenze delle persone anziane.
Abbiamo voluto invitare relatori di fama internazionale e nazionale nei diversi ambiti, sempre con
il supporto permanente della Facoltà di Scienze della Formazione, per favorire uno sguardo che
vada anche al di là dei confini regionali e nazionali, in modo da poter cogliere delle prassi vincenti
o nuovi approcci lavorativi.
In fine, è importante sottolineare che la Cooperativa Sociale Società Dolce è già impegnata
nell’ideazione dei prossimi convegni-seminari, cercando di cogliere quelle che saranno le esigenze
provenienti dal non-profit o dal privato sociale, in modo da concentrarsi su nuove tematiche e
confrontarsi sulle trame attuali dei servizi alla persona.
In particolar modo si sta pensando di ampliare lo spazio dedicato ai laboratori e alle sessioni
operative, creando all’interno della cornice teorica alcuni momenti ad hoc che offrano in modo
immediato dei riscontri a tutti i futuri partecipanti.
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Galleria Fotografica
I Relatori
Josè Jorge Chade
Sara Saltarelli
Facoltà Scienze della Formazione,
Bologna, Italia.
Fondazione Bologna-Mendoza,
Mendoza, Argentina.
Responsabile Area Sede
Assistenza alla Persona,
Cooperativa Sociale
Società Dolce
Michele Capurso
Roberta Caldìn
Ricercatore in Psicologia dello
Sviluppo e dell’Educazione,
Università di Perugia
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Facoltà Scienze della
Formazione, Bologna
Mayte Sancho Castiello
Anna Basso
Direttore Scientifico della
Fondazione Matia-Istituto
Gerontologico Matia
già Professore Associato in
Neuropsicologia Clinica,
Dipartimento di Scienze
Neurologiche Facoltà
di Medicina e Chirurgia
Università di Milano
Belisario Segura
Primo Premio Nazionale
delle Società Regionali
del 46° Congresso Nazionale
di Ortopedia e traumatologia
Fondazione Bologna-Mendoza, Argentina
Alessandro Pirani
Medico di Medicina Generale,
Specialista in Geriatria e Gerontologia,
Responsabile Centro Delegato
per i Disturbi Cognitivi,
Distretto Ovest AUSL Ferrara
Elisa Ferriani
Psicoterapeuta UOC
Psicologia Clinica
Ospedaliera UO - Centro
Esperto Disturbi Cognitivi
e della Memoria A.USL di Bologna
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4.2 Testomonianze fotografiche convegno
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89
La
pubblicazione
è stata
interamente
realizzata
nel rispetto
della utilizzando
natura utilizzando carte
La presente
presente pubblicazione
è stata
interamente
realizzata
nel rispetto
della natura
ecologiche,
e piùeprecisamente:
carte ecologiche,
più precisamente:
La presente pubblicazione è stata interamente realizzata nel rispetto della natura utilizzando carte
ecologiche, e più precisamente:
• Copertina: Carta Freelife Woodstock Arachide 280 gr.
• Copertina:
Freelife Woodstock
280 gr.
(ProdottaCarta
e distribuita
in Italia da Arachide
Fedrigoni)
• (Prodotta
Copertina:
Carta
Freelife
Woodstock
Arachide
280
gr.
distribuita
Italia da non
Fedrigoni)
Cartae di
lunga indurata
patinata ottenuta dall’impasto riciclato ecologico composto per l'80% da fibre
(Prodotta e distribuita in Italia da Fedrigoni)
Carta
di lunga durata non
patinata
ottenuta dall’impasto
riciclatoe ecologico
composto
per l’80%
da fibreE.C.F.
post-consumer
di chlorine free),
post-consumer
di
pura
cellulosa
deinchiostrata
da un 20%
di pura
cellulosa
(elemental
Carta
di lunga
durata non
patinata
dall’impasto
riciclato
ecologico
composto
per l'80%biodegradabile
da
fibre
pura
cellulosa
deinchiostrata
e da
un 20% ottenuta
di pura cellulosa
E.C.F. (elemental
chlorine free),
è completamente
è completamente
biodegradabile
e ricilabile.
Utilizza
fibre
provenienti
da foreste
a coltivazione
integrata sopura
cellulosa
e da unintegrata
20% di sostenibile,
pura
cellulosa
chlorine
free),
e post-consumer
ricilabile. Utilizza di
fibre
provenienti
dadeinchiostrata
foreste a coltivazione
in cuiE.C.F.
viene(elemental
effettuata una
politica
di taglio
controllato
e
riforestazione.
É
conforme
alla
direttiva
C.E.
94/62
che
stabilisce
il
livello
massimo
di
metalli
pesanti
e
si
avvale
di
stenibile,
in
cui
viene
effettuata
una
politica
di
taglio
controllato
e
riforestazione.
É
conforme
alla direttiva
è completamente biodegradabile e ricilabile. Utilizza fibre provenienti da foreste a coltivazione integrata soprocessi di produzione “Acid Free”.
C.E. 94/62
stabilisce
il livello
massimo
di metalli
pesanti
e si avvaleÉ di
processi
produzione “Acid Free”.
stenibile,
in cuiche
viene
effettuata
una politica
di taglio
controllato
e riforestazione.
conforme
alladidirettiva
C.E. 94/62 che stabilisce il livello massimo di metalli pesanti e si avvale di processi di produzione “Acid Free”.
• Interno: Carta Cyclus offset 100gr.
• Interno: Carta Cyclus offset 100gr.
• Interno:
Carta
offsetda
100gr.
(Prodotta
in Cyclus
Danimarca
Dalum
e distribuita
Italia da Polyedra)
(Prodotta
in Danimarca
da Dalum
e distribuita
in Italia da in
Polyedra)
Cyclus
èDanimarca
una
realizzata
impiegando
riciclate post-consumer
(100%
(Prodotta
da Dalum
e distribuita
in Italia dainteramente
Polyedra)
Cyclus
èinuna
cartacarta
realizzata
impiegando
interamente
fibre riciclatefibre
post-consumer
(100% Riciclato). Nulla
di Riciclato). Nulla di
viene
utilizzato
nel processo
produttivo
viene
eliminato
e, anche
gli scarti
provenienti
Cyclus
èche
una
carta
realizzata
interamente
fibreeliminato
riciclate
post-consumer
(100%
Riciclato).
Nulla
ciò che viene dalla lavoraziociòciò
che
viene
utilizzato
nelimpiegando
processo
produttivo
viene
e, anche
gli scarti
provenienti
dalla di
lavorazioutilizzato
nel
processo
viene
gli
scarti provenienti
dalla lavorazione
sono a loro
sono
a loro
volta
riutilizzati
per e,laanche
combustione,
la diproduzione
el’edilizia.
diriutilizzati
materiali per l’edilizia.
nene
sono
a loro
voltaproduttivo
riutilizzati
pereliminato
la combustione,
la produzione
fertilizzanti
edidifertilizzanti
materiali
pervolta
per la combustione, la produzione di fertilizzanti e di materiali per l’edilizia.
Cyclus
è certificata
Ecolabel.
Cyclus
è certificata
Ecolabel.
Cyclus
è certificata
Ecolabel.
La copertina non è stata volutamente plastificata per non invalidare la riciclabilità delle carte scelte.
La copertina non è stata volutamente plastificata per non invalidare la riciclabilità delle carte scelte.
Il La
nostro
è un piccolissimo
sforzo per dimostrare
se loinvalidare
vogliamo,la ognuno
di noi
copertina
non è stata volutamente
plastificata che,
per non
riciclabilità
dellenelle
cartescelte
scelte.quotidiane
Il nostro è un
Ilpiccolissimo
nostro
è sforzo
un piccolissimo
dimostrare
che,
se nelle
lo vogliamo,
ognuno
noi
nelle per
scelte quotidiane
permigliorare
dimostrareilsforzo
che,
se per
lo vogliamo,
ognuno
di noi
scelte quotidiane
può di
fare
qualcosa
può
fare qualcosa
per
nostro
pianeta.
migliorare
nostro pianeta.
può
fare ilqualcosa
per migliorare il nostro pianeta.
Finito di stampare nel mese di settembre 2012
90
L’età adulta e i servizi alla persona
04