Atene, Gerusalemme, Baghdad: un itinerario attraverso Plotino Uno degli aspetti più interessanti della filosofia di Plotino consiste senza dubbio nel fatto che questo autore, romano d’adozione ma egiziano di origine, nelle sue opere ha rispecchiato fino in fondo quell’attitudine che Aldo Schiavone ha chiamato «l’identità millenaria e mondiale di Roma», ossia la capacità di confrontarsi con popoli e culture differenti creando un sistema unitario ispirato a un profondo sincretismo. Il neoplatonismo, la corrente filosofica che nasce con Plotino e si sviluppa in seguito con Porfirio e Proclo, trasmetterà al Medioevo e al Rinascimento un’immagine della filosofia classica nella cui cornice le dottrine di Platone e di Aristotele possono essere interpretate come i due momenti complementari di una visione del mondo unitaria, al di là del conflitto che pur le divide su molti punti specifici. Questo modo di guardare ai due massimi filosofi dell’antichità greca troverà una feconda continuazione a Baghdad, divenuta capitale del califfato abbaside (750 – 1258) e centro di un vasto movimento di traduzione di opere scientifiche e filosofiche dal greco in arabo, movimento che gli storici della filosofia oggi fanno coincidere con le origini stesse della falsafa, la filosofia islamica. A Baghdad prosegue la tradizione dei commenti neoplatonici alle opere di Aristotele che nei secoli precedenti era stata inaugurata dai cristiani di Siria, e da Baghdad questo movimento si irradierà nella città di Toledo che nel XII secolo diventa il più importante centro europeo di traduzioni in un contesto in cui si incrociano in maniera feconda il mondo latino, la cultura araba e la cultura ebraica. L’aspetto che colpisce maggiormente chiunque si addentri nella lettura di Plotino, è la discrepanza tra l’apparente semplicità dello schema metafisico con cui può essere riassunta la sua filosofia e la complessità di un pensiero che non procede mai in linea retta con un andamento rassicurante, ma sembra inoltrarsi nei meandri di un labirinto di cui talvolta non si scorge la via d’uscita. Affrontare Plotino è difficile anche in considerazione di una serie di fattori estrinseci relativi alla storia della sua opera, giunta fino a noi con una struttura che non fu quella studiata a tavolino dall’autore. È infatti noto che i testi di Plotino, nella forma in cui noi oggi li leggiamo, sono raccolti in 54 trattati che il discepolo Porfirio riunì sotto il titolo generale di Enneadi, suddividendoli in sei libri di nove trattati ciascuno in omaggio al simbolismo numerologico dei pitagorici. È lo stesso Porfirio ad avvertirci che l’ordine sistematico che egli ha introdotto nell’organizzare i testi non coincide con l’ordine cronologico in cui essi sono furono originariamente redatti da Plotino, ma è il risultato di una scelta che scaturisce dall’intento di articolare la trattazione sulla falsariga della tradizionale partizione della filosofia in etica, fisica e metafisica. D’altro canto la dissociazione tra autore ed editore non è un evento raro nel mondo antico, basti ricordare per tutti l’esempio di Aristotele e Andronico di Rodi, aggravato da un intervallo temporale ancora maggiore. Porfirio ci ha lasciato inoltre una Vita di Plotino che è ancora oggi la fonte principale per ricostruire le tappe essenziali della sua biografia. Nato probabilmente a Licopoli, in Egitto, nel 205, Plotino all’età di trent’anni diventa discepolo di Ammonio ad Alessandria, e per undici anni rimane presso questo maestro di spiritualità, il quale, come Socrate, aveva deciso di non lasciare scritti di alcun tipo. In questo periodo il cristianesimo si era ormai diffuso in tutte le province dell’Impero romano e i movimenti religiosi contemporanei si aprivano sempre di più agli influssi esoterici provenienti dall’Oriente. Una volta giunto a Roma, Plotino tiene dei cicli di lezioni, e inizia a redigere alcuni trattati spesso nati in circostanze polemiche interne ai platonici del tempo. Tra i suoi uditori vi saranno molti senatori ed esponenti della classe dirigente del tempo, alcuni dei quali vicini all’imperatore Gallieno. È in questa fase che Plotino assegna a Porfirio il compito di rivedere i suoi testi, scritti di getto e talora non privi di errori grammaticali. Plotino muore nel 270 avendo vissuto nel pieno di quel periodo di crisi dell’Impero romano che è il III secolo, dominato dalla dinastia dei Severi. Come vedremo meglio al termine del mio intervento, le caratteristiche di questa fase di transizione dalla società tardoantica alle prime avvisaglie del Medioevo ci permettono di spiegare alcune delle più rilevanti peculiarità della sua filosofia. Ma occorre sempre tenere presente che nel leggere Plotino ci troviamo di fronte a due ordini di difficoltà: una, di carattere speculativo, scaturisce dai problemi esegetici interni alla dottrina dell’autore, la cui scrittura non è mai lineare e spesso ricorre a metafore o locuzioni che potevano 1 risultare ovvie per chi seguiva le sue lezioni, ma che oggi, a noi lettori contemporanei, suonano enigmatiche; la seconda deriva dal fatto che tali contenuti ci pervengono nella forma e con la struttura che Porfirio, nella veste di editore, ha impresso agli scritti del maestro, condizionando così il nostro modo di avvicinarci a questa filosofia già di per sé tanto complessa. In prima approssimazione possiamo affermare che il progetto da cui trae origine la speculazione di Plotino consiste nella volontà di restaurare il significato autentico della filosofia platonica emendandola dalle contraffazioni cui era andata soggetta nel corso del tempo e difendendola dagli attacchi dei suoi oppositori. Da questo punto di vista Plotino rivendica con orgoglio il carattere tradizionalista del suo pensiero: «I nostri discorsi non hanno nulla di nuovo e non sono di oggi […]; sono gli scritti dello stesso Platone ad attestarci l’antichità di queste teorie» (Enneadi V I, 8, 10-14). Il tratto fondamentale della speculazione di Plotino consiste infatti in una costante ricerca del divino che assume l’aspetto di un doppio movimento: da un lato è una catabasi, una discesa dentro il nostro io più profondo, nella consapevolezza, già testimoniata da Eraclito, secondo cui «non potrai trovare i confini dell’anima, per quanto tu vada, dovessi pure percorrere tutte le strade: tanto profondo è il suo logos» (fr. 45 DK). Dall’altro si tratta di un’anabasi, una ascesa verso i livelli di realtà più elevati, secondo un tragitto che nelle sue tappe salienti ripercorre l’itinerario del prigioniero platonico in fuga dalla caverna di questo mondo sensibile intessuto di parvenze e di ombre: «mi sforzo di far risalire ciò che vi è di divino in me a ciò che vi è di divino nell’universo» (Porfirio, Vita di Plotino, II, 25). Da qualunque punto di vista lo si consideri questo itinerario è comunque un «nostos», un viaggio di ritorno. Non si tratta di scoprire qualcosa di assolutamente nuovo, ma piuttosto di ritrovare qualcosa che ci appartiene da sempre. Perché il Divino è la potenza che opera incessantemente dentro di noi, è il pulsare della nostra stessa vita, anzi è il principio che sorregge l’intero universo e senza il quale nulla potrebbe sussistere. Quando Beatrice, nel primo canto del Paradiso, spiega che il viaggio estremo che Dante sta compiendo verso Dio è un ritorno necessario alla Patria celeste – certo: non senza aver prima emendato lo spirito dalla gromma che offuscava l’immagine di Dio in noi – il Sommo Poeta non fa altro che rielaborare uno schema schiettamente plotiniano all’interno della visione cristiana. A ben vedere, del resto, l’intera Commedia è contemporaneamente una catabasi – la discesa all’Inferno – e una anabasi: la scalata della montagna del Purgatorio, e l’ascesa a Dio in Paradiso attraverso le sfere del cosmo tolemaico. Ciò che invece è del tutto assente in Plotino, e costituisce lo scarto decisivo rispetto al mondo cristiano, è l’idea della grazia come causa trascendente del processo di elevazione a Dio. L’impianto soteriologico di Plotino è quello tipico di una filosofia della salvezza che mantiene un forte accento aristocratico e anticristiano, anche se Plotino resterà estraneo a polemiche quali quella intervenuta, ad esempio, tra Origene e Celso. Per risalire al divino dobbiamo calarci in noi stessi, esplorare l’abisso del nostro io più profondo. Se è vero, come scrive un po’ umoristicamente Platone nel Cratilo, che «aletheia» (verità) significa «theia» «ale» (corsa divina), dovremo intendere la ricerca della verità ultima come una caccia, un inseguimento: dalla ratio – la ragione discorsiva, sillogistica e/o dialettica (la platonica «dianoia») – alla intuitio (la «noesis»), l’apprensione immediata del Vero nella pura theoria, fino a culminare nella visione di Dio, in quello stato interiore che Plotino chiama «ekstasis» e che i mistici del medioevo latino renderanno con l’espressione «excessus mentis». La «corsa alla verità» in Plotino è un processo razionale che ci immette in una «visione» panoramica: la radura della Verità, secondo l’immagine del Fedro platonico lungamente commentata nella V Enneade, ha da essere colta in un solo colpo d’occhio panoramico, ma per giungere a questa visione occorre allenarsi quotidianamente, è necessario un addestramento duro, è necessario essere, ad un tempo, atleti e asceti. Questa concezione della spiritualità come esercizio attraversa tutta la grande mistica occidentale – ebraica, cristiana, e islamica. Occorre «metodo» per diventare mistici. Lo stato di estasi che il mistico raggiunge nel momento in cui «patisce» su di sé, già in questa vita, la presenza divina, è il risultato di un vero e proprio allenamento. La mistica è una pratica muscolare che interessa al tempo stesso l’immaginazione, la ragione, e l’intelletto. Volendo tracciare una mappa, senza la pretesa con ciò di coartare la complessità del pensiero plotiniano in uno schema rigido, potremmo distinguere tre fasi. La prima consiste nell’emozione che proviamo contemplando la 2 bellezza dell’universo, e questo è un punto che spesso Plotino tratta nel contesto di una polemica molto dura contro gli gnostici; la seconda consiste nell’esercizio delle funzioni discorsive tipiche dell’anima razionale; la terza è quella che ci apparenta alle «intelligenze di lassù», ed è la conquista della capacità di contemplare le Forme essenziali delle cose, le ragioni ultime della realtà come sono in se stesse, nel fulgore della loro potenza originaria. Al contrario dei fedeli delle tre religioni del libro, i Greci non hanno mai avuto bisogno di inventarsi «prove» per dimostrare l’esistenza di Dio perché la grandiosità del cielo stellato è una manifestazione immediata della presenza degli dei. La natura spesso ci riempie di sgomento e stupore, e l’emozione destata in noi dalla bellezza e dal sublime, afferma Plotino, nasce dal fatto che l’elemento sensibile che percuote l’occhio corporeo risveglia una visione dello spirito. Il Bello è come uno specchio attraverso il quale riusciamo a comprendere che questo mondo visibile è immagine del mondo di lassù – «ekei»: «Tutto è trasparente; non vi è nulla di oscuro o che opponga resistenza; ogni cosa è visibile per tutte le altre fino nell’intimo, perché la luce è trasparente alla luce; e del resto ogni cosa le racchiude in sé tutte e vede in ciascuna tutte le altre, in modo che in qualunque luogo ci sono tutte le cose, ognuna è tutte e tutte sono ciascuna cosa e lo splendore non ha limiti» (Enneadi V 8, 4, 4-8). La bellezza non è altro che il trasparire della forma nel corpo che la manifesta. Questo è un motivo platonico trattato soprattutto nel Fedro, un testo che per Plotino assume un valore fondante per l’intera tradizione platonica. La materia non oppone alcun ostacolo alla forma che essa incarna, e il mondo sensibile da questo punto di vista è uno specchio in cui si riflette tutto lo splendore del mondo spirituale, di quella Patria che ci attende lassù. Il fondamento metafisico della bellezza – a parte objecti – sta nella trasparenza della materia; il fondamento trascendentale della bellezza – a parte subjecti – sta nella capacità di ridestarci alla visione dello spirito. È dall’occhio della mente, non dall’occhio fisico che si genera la percezione della bellezza. Il pensiero visivo di cui parlerà Erwin Panofsky è già tutto in questa intuizione plotiniana. L’intellettualismo estetico di Plotino trae origine dal presupposto secondo cui la bellezza è come una percezione oscura dell’Invisibile che ci permette di riconoscere l’unità di tutte le cose secondo quel principio organicistico che egli chiama «anima del mondo» o anima cosmica. Da Platone a Giordano Bruno la storia della tradizione platonica coincide con la storia di questo concetto destinato ad essere rimosso con l’avvento del punto di vista meccanicistico introdotto dalla Rivoluzione scientifica, per poi riaffiorare in epoca romantica con l’idealismo di Schelling. L’anima del mondo costituisce l’elemento di continuità destinato a colmare lo iato metafisico tra materia e spirito, tra sensibile e intelligibile. Sulla base del modello introdotto da Platone nel Timeo anche Plotino sottoscrive la tesi secondo cui l’anima umana procede dall’anima del mondo, e da questa deriva la sua principale potenza, ossia la razionalità dianoetica: «Poiché se l’anima ha passato in rassegna tutte le verità e noi vogliamo che le esprima e le articoli in maniera discorsiva, ella fugge dalle verità alle quali partecipiamo, perché il pensiero discorsivo per esprimere qualcosa deve cogliere un concetto dopo l’altro, e in ciò consiste il “percorso” [«diexodos»]. Ma quale “percorso” può esservi in ciò che è assolutamente semplice?» (Enneadi V 3, 17, 15-25). Per realizzare il processo della conoscenza l’anima deve ancora operare attraverso inferenze e mediazioni. Deve procedere di principio in principio fino a cogliere il Principio primo di tutte le cose, quel Principio assolutamente semplice che Plotino indica semplicemente come l’Uno. Ancora una volta, partendo dal presupposto che l’anima umana è immanente all’anima del mondo, Plotino ribadisce il concetto secondo cui la discesa in noi stessi coincide con l’innalzamento ai livelli superiori dell’essere, e quindi ci permette di avvicinarci alla sfera del Divino. Gli strati profondi dell’interiorità coincidono con i livelli più nobili della scala degli esseri, la «aurea catena» dei medievali intesa come espressione dell’ordinamento gerarchico del cosmo. Per Plotino, quindi, l’anima è un Giano bifronte collocato al confine tra il mondo dei sensi e il mondo dell’intelletto: «Le anime si trovano necessariamente ad essere, per così dire, anfibie: esse conducono ora la vita di lassù, ora la vita di quaggiù; in misura maggiore la vita di lassù, le anime più capaci di stare a contatto con l’Intelletto, in misura maggiore la vita di quaggiù, invece, le anime a cui capita il contrario per natura o per sorte» (Enneadi IV 8, 4, 31-35). La fortuna che questo assioma riscuoterà nella tradizione successiva è di vasta portata. Il tema dell’uomo come essere anfibio attraversa tutta 3 l’immaginario filosofico e letterario da Plotino ad Alano di Lilla, da Dante a Pico della Mirandola, da Pascal a Kierkegaard, da Thomas Mann a Henry Miller. Nel Medioevo e nel Rinascimento questo motivo subirà una variazione che ci è nota soprattutto nella versione che abitualmente facciamo risalire al De dignitate homine di Pico della Mirandola, anche se essa è già presente nel trattato dantesco De vulgari eloquentia. L’uomo viene considerato come la creatura di frontiera che si colloca a metà tra angelo e bruto: se l’angelo rappresenta il perfetto civis della Gerusalemme celeste che contempla il volto di Dio fin dal primo giorno della creazione, l’animale costituisce un ingranaggio della grande macchina della natura. L’uomo, al contrario, partecipa di entrambi i mondi senza mai essere accasato definitivamente in nessuno dei due. Per questa ragione Dante nella Monarchia descrive la natura umana come quella di un essere «in orizonte eternitatis», sulla base di una formula che è giunga all’occidente latino attraverso il Liber de causis, un manuale di metafisica originariamente redatto in arabo che costituisce uno splendido esempio di integrazione fra le tre culture del libro operanti nella città di Toledo all’altezza del XII secolo. Benché i manuali scolastici non ne quasi mai facciano menzione, il Liber de causis appartiene alla categoria dei testi che hanno maggiormente influenzato il pensiero medievale latino. Inizialmente circolò col titolo Liber Aristotelis de expositione bonitatis purae, e come opera di Aristotele fu tradotto dall’arabo in latino da Gerardo da Cremona per poi essere successivamente copiato, commentato e adottato nelle università europee. Oggi sappiamo che il Liber de causis deriva in gran parte dagli Elementi di teologia di Proclo, e dalle Enneadi di Plotino. Tommaso d’Aquino nel suo commento esplicativo fu il primo a dimostrare la derivazione del Liber de causis da Proclo, dato che nel frattempo il confratello Guglielmo di Moerbeke aveva approntato la traduzione latina degli Elementi di teologia. Ciò che Tommaso non poteva sapere è il fatto che il testo originario fu scritto in arabo da Al-Kindi o da qualcuno dei suoi collaboratori a Baghdad nel IX secolo, quando l’attuale capitale dell’Iraq era la capitale dell’Impero abbaside. Al-Kindi, oltre che il fondatore della falsafa, fu l’organizzatore di un grandioso progetto di traduzione delle opere di Aristotele e Plotino destinato ad avere un ruolo decisivo nella trasmissione del sapere greco all’occidente cristiano. Quando Alfonso VI di Leòn conquistò Toledo nel 1054 in questa città esisteva da tempo una comunità ebraica numerosa che svolgeva un importante ruolo di «mediazione culturale», diremmo noi oggi, tra cristiani e musulmani, nonostante i conflitti politici che opponevano i proseliti delle tre religioni del libro. L’attività dei traduttori ricevette un impulso particolare dall’arcivescovo Raimondo di Sauvetat, e da Toledo si irradiò la conoscenza delle opere di Aristotele in quella versione neoplatonizzante che era stata elaborata dagli arabi. Contrariamente a quanto ancora oggi si continua a leggere in molti libri di testo, lo stesso universo dantesco si configura secondo un modello che fonde in maniera originale le dottrine aristoteliche e neoplatoniche, in particolare il neoplatonismo greco conosciuto attraverso il Liber de causis, e quello arabo derivante da Avicenna. Ma torniamo a Plotino. Il processo che ci ha condotto dalla contemplazione della bellezza della natura all’anima del mondo trova la sua continuazione con la conquista di quel sapere razionale e discorsivo che appartiene all’anima, premessa necessaria per giungere a una forma ulteriore di razionalità che Plotino identifica nella figura concettuale dell’Intelletto. Tutto ciò che l’anima concepisce attraverso passaggi, mediazioni, procedure discorsive, l’Intelletto lo vede simultaneamente nell’unità di un medesimo atto noetico. Ricorrendo alle immagini della mitologia tradizionale, Plotino paragona l’Intelletto al dio Kronos: «Il dio più sapiente, anteriore alla generazione di Zeus ha in se stesso le cose che genera, per cui è pieno intelletto in sazietà [«vous en korõ»]» (Enneadi V 1, 7, 35-40). L’immagine del dio Kronos che divora i figli, una volta interpretata in chiave allegorica, ci svela un teorema filosofico: l’intelletto è eternamente volto alla contemplazione dei propri contenuti di pensiero, gli intelligibili, in maniera tale che non li percepisce come un oggetto esteriore, come farebbe la coscienza di un essere finito, ma li contiene tutti in se stesso. L’intelletto, quindi, non è altro dalle idee, e in esso vi è perfetta coincidenza di essere e pensiero, secondo l’antico motto di Parmenide. In questa dottrina vediamo prefigurata la tesi di quella perfetta identità di pensante e pensato nell’immanenza dello Spirito di cui la filosofia idealistica di Giovanni Gentile costituirà l’ultima e più compiuta rielaborazione. Se da un punto di vista fenomenologico lo spirito si identifica con l’anima, la quale, salendo al di sopra di sé e 4 volgendosi all’intelletto acquisisce la capacità di cogliere gli intelligibili secondo una unità che trascende le mediazioni del pensiero discorsivo, dal punto di vista della gerarchia delle cause, e quindi sotto il profilo ontologico, per Plotino è l’Intelletto inteso come ipostasi che genera l’anima. Il processo attraverso cui si ascende dall’anima all’intelletto si correla ancora una volta con la catabasi corrispondente: la discesa a un livello più profondo del nostro essere coincide con l’ascesa verso un livello superiore della realtà intelligibile. L’ultimo tratto del percorso è quello che sfocia dall’intuizione intellettuale all’estasi mistica intesa come «assimilazione all’Uno» o, il che è lo stesso, «adsimilatio Dei». La perfetta simplicitas appartiene solo ed esclusivamente a Dio, ma Dio è ineffabile e trascendente rispetto alle categorie dell’umano intelligere. Salvezza e conoscenza ultima coincidono e consistono nel diventare «semplici». Ciascuno di noi è chiamato a «scolpire la propria statua», dichiara Plotino nella prima Enneade, e scolpire vuol dire togliere il superfluo, portare alla luce l’essenziale, eliminare la croste che impediscono al nostro essere di rilucere in tutto il fulgore della sua potenza originaria. Questo processo coincide appunto con il risalire verso ciò che vi è di divino dentro di noi, perché l’anima, anche se immersa nella materia, non ha mai realmente abbandonato la Patria di lassù: «Poiché l’anima è una realtà così preziosa e divina, confidando che essa raggiunga dio, ascendi a lui con l’aiuto dell’Intelletto; il tuo slancio, dove che sia, non cadrà affatto lontano, perché i gradi intermedi non sono molteplici. Cogli dunque l’ambito che confina con l’anima verso l’alto, più divino di questa stessa realtà divina che è l’anima» (Enneadi V I, 3, 1-5). Plotino appronta una soteriologia dell’Intelletto in cui la dimensione cristiana della Grazia è del tutto assente. Con una lucidità speculativa sorprendente, Plotino riesce a saldare il razionalismo della scienza greca, si pensi all’esempio spesso citato della geometria di Euclide, con il misticismo della tradizione orfica e di Eleusi. Questa soteriologia a sua volta è come un ampliamento del concetto platonico di anamnesi. Il ricordo è ciò che salva, il ricordo permette il ritorno alla Patria, ma il vero ricordo è memoria di ciò che perdura, e non memoria del transeunte. Per realizzare questo processo è necessario sconfessare il mondo delle immagini, il mondo della spettacolarità, il mondo delle brighe e delle cure in cui siamo impelagati nel nostro vivere quotidiano. È necessario porsi in ascolto di ciò che è essenziale. Tutto ciò che è stato per noi motivo di ira, di speranza, di timore appartiene al corpo ed è destinato a dissolversi con il corpo. Tutto ciò che ci ha distratto dalla nostra vera essenza, fobie, timori, incertezze del momento, di tutto questo non resterà nulla. Le immagini che sono sfilate dinanzi ai nostri occhi son fatte della stessa pasta di cui sono fatti i sogni, e come tracce di un sogno si dissolveranno nel momento in cui abbandoneremo il corpo. Plotino ci esorta a coltivare la memoria di ciò che permane nel momento stesso in cui esalta la forza dell’oblio verso ciò che «trapassa» di momento in momento. Nella fase di passaggio dall’età tardoantica al Medioevo, la filosofia si interroga costantemente sul tema della cittadinanza, e le dottrine di Plotino da questo punto di vista sono sintomatiche. La risposta che egli fornisce a tale problema ha una valenza metafisica che si configura come l’esatto contrario di quella proposta dal cosmopolitismo immanentistico degli stoici. Identificando l’ordine razionale del cosmo con il Divino, e togliendone ogni alterità rispetto alla natura, gli stoici distruggono l’idea stessa di patria intesa come radicamento in un determinato luogo, come identità derivante dalla appartenenza a un «nomos della terra». Se per gli stoici la patria si dissolve nell’ubiquità della natura, per i seguaci di Plotino la vera patria è la patria dell’anima, non esiste in nessun luogo fisico, si sublima nella trascendenza di un Altrove che coincide col luogo al quale dobbiamo tornare. Troviamo un’eco potente di questa riflessione nel concetto di «doppia cittadinanza» elaborato nel De civitate Dei dal Padre della Chiesa occidentale che forse meglio e più di altri ha attinto alla sorgente dei neoplatonici, Agostino di Ippona. Originariamente Agostino è un immigrato nordafricano che nella seconda metà del IV secolo arriva nella Milano imperiale, in cui è vescovo Sant’Ambrogio. La formazione umanistica di Agostino è fortissima, tale da indurlo ancora a ostentare un aristocratico disprezzo nei confronti del rozzo antropomorfismo di cui sembra intessuto il testo biblico. Superata una iniziale adesione al manicheismo, Agostino esce dall’impasse dello scetticismo proprio grazie all’incontro con la filosofia di Plotino, che si verifica a Milano grazie alla mediazione di Ambrogio. Da Plotino egli impara che la condizione di straniero su questa terra appartiene a tutti gli esseri umani, al punto di esserne un tratto definitorio quasi dello stesso 5 rango del tradizionale binomio «animale razionale». La curvatura trascendente che il concetto di «patria» assume in Agostino, man mano che si avvicina al cristianesimo, ha una prima impronta neoplatonica. Nel XII libro delle Confessioni questa idea raggiunge il compimento: esempio del perfetto «civis» è l’angelo, l’essere che fin dal primo giorno della creazione contempla il Volto del Padre, puro intelletto speculante che ignora la miseria del raziocinare discorsivo. L’angelo vive in quello stato di perenne beatitudine che Agostino delinea costantemente attraverso le immagini della «civitas» e della «domus». Il modello da cui Agostino attinge nella definizione dell’intelligenza angelica, mente pura compiutamente insediata in Dio nello «stabilimentum» della Gerusalemme celeste, è proprio l’Intelletto di Plotino inteso come seconda ipostasi metafisica. La differenza che passa tra Intelletto e Anima del mondo viene tradotta dai padri della chiesa nella distinzione tra le intelligenze angeliche e le anime umane, in un contesto chiaramente improntato a un creazionismo che non può che respingere l’impianto emanazionistico di Plotino. È la stessa differenza che passa tra la beatitudine intesa come sazietà intellettuale, e la sete umana di Dio intesa come «nostalgia». La dimensione nostalgica che caratterizza l’esperienza cristiana della vita terrena, intesa e vissuta come esilio dalla vera patria di lassù, può essere considerato uno dei molteplici effetti della ellenizzazione del cristianesimo. Quello di Agostino è un tipico esempio di come il cristianesimo storicamente si costituisca nei termini di una fede aperta alle influenze del pensiero greco maggiormente orientate in senso metafisico, nonostante il fatto che la concezione nostalgica della patria non può prescindere dall’aspetto messianico e dall’idea della promessa escatologica. Quest’ultimo elemento è estraneo all’universo mentale dei greci, perché oltre a presupporre l’idea provvidenzialistica di un Dio personale che interviene nella storia, implica altresì quel concetto di alleanza che appartiene alle matrici ebraiche del monoteismo. La «terra promessa» non può coincidere con Itaca, e l’itinerario della mente in Dio, se da una parte si configura come un esercizio di anamnesi volto a recuperare l’originario rapporto di immagine e somiglianza che sussisteva tra Dio e l’uomo, dall’altra costituisce una renovatio radicale che implica il definitivo abbandono della terra d’origine. Quando si arriverà alla compiuta Parusia, al disvelarsi del Vero nell’Apocalisse ultima, ta prota apelthan, questo primo mondo sarà passato e questa terra finita (Apocalisse 21, 4). Ecco allora che il cristianesimo di Agostino prende forma attraverso un continuo intersecarsi di Atene e Gerusalemme, tra nostalgia dell’origine e speranza di «vita nova», tra l’escatologia intermedia del ritorno delle anime in cielo e l’escatologia ultima definita dal messaggio apocalittico. Tra Atene e Gerusalemme, temporalmente, si colloca Baghdad. L’idea malsana che uno scontro di civiltà tra Occidente e Islam sia un destino ineluttabile può essere fugata anche attraverso l’approfondimento e lo studio delle forme della civiltà medievale, e di questo percorso la storia del neoplatonismo costituisce un momento ineludibile. Alessandro Raffi, 16 aprile 2010 6