Plotino - Enneadi Ma quando l`anima desidera vedere solo per se

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Plotino - Enneadi
Ma quando l'anima desidera vedere solo per se stessa e, così contemplando, si raccoglie in unità ed è una perché
è una con Lui, non crede di possedere ciò che ricerca perché non è diversa dall'oggetto del suo pensiero. Proprio così
deve fare colui che si avvia a filosofare intorno all'Uno. Ora, poiché noi andiamo cercando l'Uno e scrutiamo il Principio
di tutte le cose, cioè il Bene e il Primo, non dobbiamo allontanarci dai primi esseri per cadere nelle cose ultime, ma
dobbiamo elevarci ai primi svincolandoci dalle cose sensibili che sono le ultime, e da qualunque malizia; proprio perché
desiderosi di avvicinarci al Bene, dobbiamo salire al Principio che è immanente e raccoglierci, via dalla molteplicità,
nell'unità, per raggiungere la contemplazione del Principio e dell'Uno. È necessario dunque che l'anima si trasformi in
Intelligenza e tutta si affidi e riposi in lei per poter accogliere, pienamente desta, ciò che l'Intelligenza vede e, con
questo, per poter contemplare l'Uno senza ricorrere a nessuna sensazione o cosa che derivi dal senso: è necessario
con pura intelligenza, anzi col principio stesso dell'Intelligenza, contemplare il Purissimo. [Plotino, Enneadi, VI, 9, 3]
Ma nel contemplare, non rivolgere al di fuori il tuo pensiero. Egli [l'Uno] infatti non è in un punto qualsiasi, privando gli
altri di sé, ma è presente in chi può toccarlo, e in chi non può non è presente. Come non è concesso di pensare
qualcosa a chi ne pensa un'altra e ad essa attende, ma non deve sovrapporre nient'altro a ciò che pensa per poter
trasformarsi realmente nell'oggetto pensato, così bisogna comportarsi anche qui, poiché non è dato, a chi abbia già
nell'anima l'impronta di un'altra cosa, pensare l'Uno; finché questa impronta è operante; anche perché l'anima, mentre è
presa e dominata da altre cose, non può accogliere in sé l'impronta dell'oggetto contrario; all'inverso, come si dice della
materia, che cioè essa deve essere spoglia di qualsiasi qualità, se vuole accogliere le impronte di tutte le cose, così,
in un grado ancor superiore, l'anima dev'esser nuda di forme, se veramente desidera che nulla intervenga a ostacolare
la pienezza e la folgorazione in lei da parte della Natura prima [l'Uno]. [Ibidem, VI, 9, 7] Plotino riprende,
potenziandolo, l'insegnamento "orale" di Platone, tramandato attraverso testimonianze scritte e rimasto vivo nella
tradizione accademica greca. Con molta probabilità tale insegnamento si fondava su una visione del bene come
assoluto ancor più radicale di quanto non compaia nei dialoghi scritti. Nelle Enneadi, questa tradizione trova una
sistemazione dottrinale definitiva e capace di incidere profondamente nella particolare sensibilità spirituale dei secoli che
vedono, accanto al tramontare della filosofia greca, il sorgere della nuova spiritualità cristiana. Poiché non conosciamo,
se non in forma assai vaga, il contenuto delle dottrine platoniche orali attorno al Bene, le Enneadi rimangono il testo di
riferimento per la conoscenza di questa importante applicazione del concetto, che possiamo definire teologica, anche se
in un'accezione molto lontana da quella che prenderà nella filosofia cristiana. Mentre il bene conserva, nella visione
neoplatonica, il connotato di Principio unitario assoluto che già era compreso nell'insegnamento platonico, la
trasformazione più rilevante che il concetto subisce è il suo capovolgimento da principio trascendente a principio
immanente. In quanto Uno (unità, assoluto), il Bene è la coincidenza di pensiero e pensato; ma l'anima non è altra cosa
da ciò a cui essa tende (l'Intelligenza), e la ricerca dell'Unità non può che essere ricerca di se stessa. L'esercizio del
filosofare è una "salita al Principio immanente", dove con salita si intende la purificazione della mente da tutte le
immagini che la distolgono dalla conoscenza della causa prima: questa salita è dunque un esercizio di contemplazione
interiore grazie al quale l'anima ritorna a se stessa nella sua purezza intellettiva. Il Bene è dunque per Plotino il ritrovarsi
dell'anima in se stessa, spogliata dalle molteplici apparenze dei pensieri soggettivi, resa pura Intelligenza e quindi del
tutto simile alla natura dell'Uno. L'interiorità del Principio può essere intesa, alla luce degli sviluppi successivi del
pensiero filosofico, in due modi: a) Come interiorità di Dio,nella concezione che il cristiano Agostino di Ippona ricavò
dalla sua lettura del neoplatonismo. In tal senso il concetto di Bene si inscrive totalmente nella tradizione teologica
cristiana, e viene a coincidere con il Principio inteso come Principio divino. È dunque da ascrivere a Plotino l'idea
agostiniana secondo cui l'ascesa verso il Bene è in pari tempo una discesa nella propria interiorità, un ritornare a se
stessa dell'anima, ovvero la riconquista della propria integrità spirituale - di natura divina - intesa come superamento
della scissione a cui la caduta nella materialità dell'esistenza l'ha condannata; b) Come totalità del Sé, in quella che fu
la posizione espressa in Occidente da Meister Eckart e in Oriente dalla tradizione buddista. In tal senso l'immanenza del
Bene non è qualcosa a cui l'uomo deve tendere in senso attivo, ma a cui deve abbandonarsi: «Alle parvenze sensibili
l'anima è radicata con le sue facoltà inferiori (memoria, fantasia, desiderio, ecc.) e le parvenze sono radicate in essa: un
nulla che sorregge un nulla. In rapporto con le cose l'anima assume nomi e funzioni, esteriorizzandosi dimentica se
stessa. Soltanto l'atto intellettivo le fa ritrovare l'Essere e se stessa; ma l'universale, cui giunge mediante l'astrazione
(che è il suo non-fare teoretico), non è opera dell'anima» [G. Faggin]. Alla totalità di ciò che è divino l'anima giunge
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discendendo sempre più in se stessa, abbandonando ogni differenziazione, ovvero ogni azione intenzionale e ogni
forma di distinzione razionale, lasciandosi sprofondare nella propria natura, nel nucleo più oscuro della quale non c'è
semplicemente il Dio della storia, ma un Assoluto senza nome ancora più ineffabile e profondo, da cui ha origine la
divinità stessa.
Plotino e il suo tempo
Con linguaggio attuale potremmo dire che l'anima, ovvero la psiche, la
coscienza, perde la propria unità identificandosi con i concetti e le funzioni dell'Io, diventando quindi di volta in volta ciò
che l'Io fa, identificandosi con la facciata superficiale delle azioni e della personalità esteriore e perdendo il contatto con
la profondità del proprio Sé, che è la totalità dello spirito umano in cui svaniscono le differenze tra Io e gli altri, io e
mondo, personale e universale. Questa totalità superiore o profonda, in cui la nostra personalità si perde in una totalità
che coincide con la vita stessa, è quello che la psicologia junghiana intende come inconscio collettivo.
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In questa unità
Testo: Storia delle idee
Autore: Maurizio Châtel
Curatore: Maurizio Châtel
Metaredazione: Erica Pellizzoni
Editore: BBN
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