TESI DI APPROFONDIMENTO PER L’AMMISSIONE AL III ANNO DELLA SPECIALITA’ Anno Accademico: 2009-­‐2010. Corso C Titolo: Lo Stile di Personalità tendente al Disturbo Ossessivo-­‐Compulsivo Relatori: dr.ssa: Elisa Bassani dr.ssa: Laura Carelli Indice
Introduzione
1. Il disturbo ossessivo compulsivo: caratteristiche generali
4
6
e inquadramento nosografico.
1.1 Il disturbo ossessivo-compulsivo: caratteristiche generali
6
1.2 Ossessioni e compulsioni nel DOC
9
1.3 Sottotipi nel DOC
10
1.4 Il DOC tra disturbo d’ansia e spettro di disturbi
13
ossessivo-compulsivi: dibattito attuale
1.4.1 Il continuum Impulsività/Compulsività: presupposti e
14
limiti di tale approccio
1.5 Riflessioni epistemologiche sulla psicopatologia
1.5.1
Tra descrizione, spiegazione e comprensione del
15
15
disturbo mentale.
1.6 Considerazioni conclusive
2. Aspetti neurobiologici e neuroanatomia funzionale del DOC
17
18
2.1 Teorie neurobiologiche del disturbo ossessivo-compulsivo
18
2.2 Contributo degli studi cognitivi al modello neurobiologico
21
orbito-fronto-striatale: il circuito dorso-laterale
pre-fronto-striatale
3. Il DOC secondo l’approccio cognitivo di Beck e l’approccio
25
cognitivo post-razionalista di Guidano.
3.1 La teoria cognitiva del DOC
25
3.1.2 Concetti fondamentali della teoria cognitiva razionalista
25
3.1.2 Disfunzioni cognitive nel DOC e nel DOCP
26
3.2 L’approccio cognitivo post-razionalista di Guidano
28
3.2.1 Concetti fondamentali dell’approccio cognitivo post
29
razionalista
2 3.2.2 Dalle Organizzazioni cognitive alle Organizzazioni di
30
Significato Personale
3.2.3 L’Organizzazione di Significato Personale ossessiva
31
3.3 Efficacia dell’approccio cognitivo (comportamentale) al DOC
33
3.4 Considerazioni conclusive
34
4. L’approccio ermeneutico-fenomenologico allo Stile di Personalità 36
tendente al disturbo ossessivo-compulsivo.
4.1 Dall’Io Penso Kantiano alla fenomenologia ermeneutica
36
4.2 Introduzione allo stile di personalità tendente al disturbo
38
ossessivo: Ipseità e Medesimezza
4.3 Lo stile di Personalità tendente al disturbo ossessivo-compulsivo
41
5. Discussione e Considerazioni critiche
45
6. Conclusioni
50
7. Riferimenti bibliografici
51
3 INTRODUZIONE Il presente lavoro nasce dall’intenzione di realizzare un approfondimento, in ottica criticocostruttiva, dello Stile di Personalità tendente al disturbo ossessivo-compulsivo, così come
descritto da Arciero.
La teoria di Arciero circa gli stili di personalità ed i disturbi ad esso correlati si inserisce
all’interno della prospettiva dell’ermeneutica fenomenologica, originata a partire dalla
fenomenologia esistenzialista di Heidegger e dall’ermeneutica di Ricoeur. A tale cornice
epistemologica ed ontologica si aggiunge il contributo delle recenti scoperte realizzate
nell’ambito delle neuroscienze, in particolate lo studio sui neuroni canonici visuo-motori e sui
neuroni mirror, che hanno fornito sostegno empirico alle riflessioni sviluppate di Heidegger
ed altri (tra cui Merleau-Ponty). In particolare, l’atteggiamento di “cura” verso le cose del
mondo, rappresentato dal fatto che l’essere dell'esserci è essere-nel-mondo, inteso come
trascendenza, ovvero come apertura verso le cose per la natura intenzionale della coscienza,
trae conferma dagli studi sui neuroni canonici visuo-motori, che ci mostrano come nella
percezione delle cose che ci circondano siano già contenute le possibilità d’azione che le
stesse offrono (“affordances”). D’altro canto, il carattere pre-riflessivo ed immediato della
comprensione dell’Altro, dato dall’impossibilità di separare il soggetto dall’oggetto, l’Io dal
mondo, trova la sua connotazione biologica nei processi della simulazione incarnata tramite il
quale accediamo alle intenzioni altrui prima ancora di impegnarci in operazioni cognitive per
raggiungere il medesimo scopo.
Il linguaggio occupa un posto di prim’ordine nel processo di comprensione del senso
dell’esperienza propria e degli altri, in quanto esso, articolandosi nel racconto, si pone come
mezzo per la riconfigurazione narrativa degli accadimenti e offrendo tale racconto al lettore
(terapeuta) apre nuove possibilità d’agire.
L’importanza dell’intenzionalità, dell’apertura all’altro e della dimensione narrativa del
linguaggio sembrano, alla luce di tali conferme empiriche, imprescindibili per un approccio
alla psicologia ed alla psicopatologia, in particolare quest’ultima quale scienza della
comprensione della sofferenza.
Gli approcci che tradizionalmente si sono posti l’obiettivo di curare i disturbi mentali, in
particolare il DOC oggetto di questo lavoro, sono spesso partiti da posizioni molto differenti
rispetto a quella della fenomenologia ermeneutica. Questo non significa che alcuni di essi non
abbiano raggiunto innegabili livelli di efficacia nel curare i sintomi ossessivi e compulsivi.
Nella descrizione generale del DOC, abbiamo riportato la prospettiva nosografico-descrittiva
rappresentata dal DSM-IV-TR, che lo colloca all’interno dei disturbi d’ansia, discutendo le
proposte che si sono inserite in tale cornice, insieme a quelle che hanno invece appoggiato
classificazioni alternative (come parte di uno spettro di disturbi ossessivi-compulsivi). Di
entrambe le proposte sono state evidenziate le criticità.
Di seguito nella trattazione abbiamo voluto delineare le teorie neurobiologiche e
neuropsicologiche relative al DOC, spesso utilizzate con intenti esplicativi, piuttosto che solo
correlativi, e due approcci psicoterapeutici, l’approccio cognitivo razionalista di Beck e postrazionalista di Guidano. Il motivo per cui abbiamo scelto di approfondire tali approcci,
4 citando solo, ad esempio, i modelli comportamentali ed escludendo dalla trattazione altre
teorie, come quella psicoanalitica, è rappresentato da ragioni storiche e teoriche. In primo
luogo, i due modelli di matrice cognitivista si seguono temporalmente, pur affiancandosi
tuttora nella pratica clinica, e precedono le riflessioni che hanno portato Arciero a sviluppare
l’attuale approccio teorico e clinico; in secondo luogo, essi condividono inoltre alcuni aspetti
con la teoria di Arciero, primariamente l’approccio post-razionalista, quali il ruolo delle
emozioni ed il continuum tra normalità e patologia. D’altro canto, le innegabili connotazioni
anche neurobiologiche del DOC e l’importanza delle neuroscienze nel progresso non solo
scientifico, ma anche concettuale e pratico della psicoterapia, rendono necessaria la
considerazione di tali aspetti nella descrizione del disturbo.
Abbiamo poi descritto il modello teorico di Arciero, che, all’interno della distinzione tra stili
di personalità inward ed outward, propone un approccio allo Stile di personalità tendente al
DOC profondamente radicato sull’importanza della corporeità e discontinuità dell’esperienza
di essere sè.
Infine, abbiamo voluto racchiudere e approfondire in un ultimo capitolo le osservazioni
critiche che ci sono sorte in parte in modo spontaneo, in parte a seguito di un faticoso
processo di riflessione e sintesi, nei confronti delle proposte diagnostiche, esplicative e
terapeutiche offerte dalla letteratura e sintetizzate nei capitoli precedenti.
Ovviamente, il contenuto di questo lavoro non intende risultare esaustivo nei confronti
dell’argomento trattato, né da un punto di vista della molteplicità degli approcci terapeutici
disponibili, né dal punto di vista dell’approfondimento delle caratteristiche di ciascun
approccio. Il nostro intento era di disporre di una cornice sufficientemente esaustiva da
consentirci di sviluppare riflessioni sensate e possibilmente creative. Alcuni aspetti sono
rimasti fuori dalla trattazione, come alcuni modelli teorici importanti dal punto di vista
storico, quale quello psicoanalitico, insieme ad altri approcci molto dibattuti ma
indubbiamente interessanti, quale quello strategico. Altri aspetti sarebbe stato invece
interessante approfondirli maggiormente. Tra questi, gli studi sull’efficacia dei diversi
trattamenti sia farmacologici che cognitivo-comportamentali, in quanto i dati offerti dalla
letteratura al riguardo, non sempre coerenti, offrono numerosi spunti di riflessione circa i
processi sottesi a tali trattamenti. Inoltre, un ulteriore aspetto solo parzialmente discusso, ma
che potrà essere ampliato in una futura trattazione, è costituito dai correlati esperienziali,
fenomenici e neurobiologici delle emozioni associate al disturbo, insieme alle relazioni
presenti tra tali dimensioni.
In un’ottica della costruzione dell’Identità personale, e della conoscenza, come un processo
costantemente in divenire e sviluppato in senso storico, questo lavoro rappresenta il punto di
origine di un percorso di progressivo arricchimento teorico e, ci auspichiamo, pratico.
Siamo fiduciose, inoltre, nel fatto che la pratica clinica ci consentirà di sviluppare riflessioni
ancora più nostre e radicate nell’esperienza e nella nostra carne.
5 CAPITOLO 1
IL DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO:
CARATTERISTICHE GENERALI E
INQUADRAMENTO NOSOGRAFICO
1.1 Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo: caratteristiche generali
Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) rappresenta un complesso disturbo psichiatrico, di
natura eterogenea e con eziologia multifattoriale, attualmente ancora argomento di dibattito.
La caratteristica principale del DOC è costituita dalla presenza di ossessioni e compulsioni, le
quali devono essere riconosciute come eccessive o irragionevoli ed interferire in modo
significativo con il funzionamento psicosociale del soggetto, così come riportato nel DSMIV-TR (vedi tab.1).
Il DOC è un disturbo gravemente invalidante. Koran et al. (1996) hanno individuato in
pazienti con DOC un funzionamento sociale e capacità strumentali di svolgimento di ruolo
inferiori a quelli della popolazione generale e dei diabetici; la compromissione funzionale
risulta correlata positivamente con la gravità del disturbo (in Dettore D., 2002).
Il DOC è presente in tutti i gruppi culturali ed etnici, e presenta un elevato grado di
comorbidità con altre patologie psichiatriche, quali la depressione maggiore e i disturbi
d’ansia.
Gli studi di comunità hanno stimato una prevalenza lifetime del 2,5 % ed una prevalenza ad
un anno dello 0,5-2,1% negli adulti. Gli studi di comunità nei bambini ed adolescenti hanno
stimato una prevalenza lifetime dell’1-2,3 % ed una prevalenza ad un anno dello 0,7%.
L’età tipica di esordio è più precoce nei maschi che nelle femmine: tra i 6 ed i 15 anni per i
maschi e tra i 20 ed i 29 anni per le femmine. Mentre è stata notata una prevalenza del
disturbo nei maschi nella fanciullezza ed in età adolescenziale, il DOC risulta presente in
proporzione analoga in maschi e femmine adulti.
Per la maggior parte dei casi l’esordio è graduale, ma in molti casi è stato notato un esordio
acuto. La maggior parte degli individui ha un decorso cronico con alti e bassi, con
esacerbazione dei sintomi che può essere in relazione con lo stress.
Il DSM-IV-TR evidenzia un certo grado di sovrapposizione tra DOC e DOC di personalità
(DOCP), sebbene la diagnosi differenziale appaia semplice, in quanto nel DOCP sono assenti
autentiche ossessioni e compulsioni (vedi tab.2). La diagnosi differenziale deve essere inoltre
fatta con altri 3 disturbi di personalità: narcisistico, antisociale e schizoide.
Alla genesi del DOC paiono contribuire fattori di natura genetica, immunologica e
neurobiologica, oltre che processi psicopatologici di natura affettivo-relazionale e cognitivocomportamentale (Mataix Cols et al., 2005, 2009).
I numerosi studi di genetica, farmacologia, neurofisiopatologia, neurochimica, e diagnostica
per immagini, condotti in questi ultimi anni, concordano nell’evidenziare un forte substrato
biologico per il DOC. Tali evidenze, quindi, hanno spostato in maniera significativa il campo
d’indagine del DOC dall’aspetto puramente psicologico a quello biologico. Studi classici sulle
famiglie e sui gemelli hanno evidenziato una chiara componente genetica del DOC: si è
evidenziata, infatti, una maggiore frequenza del DOC nelle famiglie dei pazienti affetti da tale
disturbo rispetto alla popolazione generale. Studi sui gemelli hanno dimostrato un’elevata
6 concordanza per la malattia nei gemelli monozigoti (fino all’87%) rispetto ai dizigoti (fino al
47%). Soggetti affetti da Disturbo di Tourette mostrano un’elevata incidenza di DOC (35%50%), in particolare per quanto riguarda ossessioni con contenuto di controllo e ossessioni per
l’ordine e la simmetria. Tale familiarità è risultata presente solo in riferimento alla
correlazione madre-figlio, ma non a quella padre-figlio.
La frequente presenza del DOC nel disturbo di Tourette è significativa per un’origine genetica
del DOC stesso; il Disturbo di Tourette è, infatti, una malattia quasi sicuramente a
componente ereditaria (autosomica dominante).
Le evidenze empiriche a favore di una base genetica del DOC tuttavia non consentono ad oggi
di distinguere il ruolo dei fattori ambientali da quello dei fattori genetici; mancano, infatti,
studi attendibili su gemelli dati in adozione per disambiguare tale contributo. Studi di rbito
genetico e studi di associazione, che potrebbero offrire dati più significativi circa le
componenti ereditarie del disturbo, sono stati solo recentemente avviati e non forniscono
ancora dati certi circa i geni chiaramente implicati nella genesi del DOC.
Un’ulteriore evidenza a conferma della base biologica dei DOC deriva dall’osservazione che
nuovi farmaci antidepressivi inibitori selettivi e reversibili del reuptake della serotonina
(SSRI) sono attivi contro i sintomi del DOC. Tali risultati hanno condotto alla formulazione
dell’ipotesi serotoninergica della genesi del DOC. Anche la clomipramina, un triciclico
antidepressivo inibitore del reuptake della serotonina, è efficace nel DOC.
Il meccanismo d’azione di tali farmaci sulla malattia è complesso; si è ipotizzato, sulla scorta
delle evidenze di farmacologia clinica e sperimentale, che tali farmaci agiscano riducendo la
sensibilità dei recettori serotoninergici (down regulation).
Sudi condotti con SPECT e PET, hanno evidenziato un aumento dell’attività metabolica a
livello delle regioni rbito frontale e della parte anteriore del giro del cingolo. Tali evidenze
hanno indotto i ricercatori ad ipotizzare che la genesi del DOC risieda in un’alterazione del
circuito corteccia rbito frontale e limbica, nuclei della base, talamo ventrolaterale, giro
temporale superiore e aree della corteccia parietale.
Tali aspetti neurobiologici, insieme a quelli neuropsicologici ed infine psicopatologici,
saranno oggetto di una parte dedicata della trattazione.
7 I criteri diagnostici per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo secondo il DSM-IV-TR* sono i seguenti:
A. Ossessioni o compulsioni.
Ossessioni come definite da 1., 2., 3. e 4.:
1.
pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti, vissuti, in qualche momento nel corso del
disturbo, come intrusivi o inappropriati e che causano ansia o disagio marcati
2.
i pensieri, gli impulsi, o le immagini non sono semplicemente eccessive preoccupazioni per i
problemi della vita reale
3.
la persona tenta di ignorare o di sopprimere tali pensieri, impulsi o immagini, o di
neutralizzarli con altri pensieri o azioni
4.
la persona riconosce che i pensieri, gli impulsi, o le immagini ossessivi sono un prodotto della
propria mente (e non imposti dall’esterno come nell’inserzione del pensiero).
Compulsioni come definite da 1. e 2.:
5.
comportamenti ripetitivi (per es., lavarsi le mani, riordinare, controllare) o azioni mentali (per
es., pregare, contare, ripetere parole mentalmente) che la persona si sente obbligata a mettere
in atto in risposta ad un’ossessione o secondo regole che devono essere applicate rigidamente
6.
i comportamenti o le azioni mentali sono volti a prevenire o ridurre il disagio o a prevenire
alcuni eventi o situazioni temuti; comunque questi comportamenti o azioni mentali non sono
collegati in modo realistico con ciò che sono designati a neutralizzare o a prevenire, oppure
sono chiaramente eccessivi.
B. In qualche momento nel corso del disturbo la persona ha riconosciuto che le ossessioni o le compulsioni
sono eccessive o irragionevoli.
Nota: Questo non si applica ai bambini.
C. Le ossessioni o compulsioni causano disagio marcato, fanno consumare tempo (più di 1 ora al giorno) o
interferiscono significativamente con le normali abitudini della persona, con il funzionamento
lavorativo (o scolastico) o con le attività o relazioni sociali usuali.
D. Se è presente un altro disturbo in Asse I, il contenuto delle ossessioni o delle compulsioni non è limitato
ad esso (per es., preoccupazione per il cibo in presenza di un Disturbo dell’Alimentazione ; tirarsi i
capelli in presenza di Tricotillomania; preoccupazione per il proprio aspetto nel Disturbo da
Dismorfismo Corporeo ; preoccupazione riguardante le sostanze nei Disturbi Correlati a Sostanze ;
preoccupazione di avere una grave malattia in presenza di Ipocondria; preoccupazione riguardante
desideri o fantasie sessuali in presenza di una Parafilia; o ruminazioni di colpa in presenza di un
Disturbo Depressivo Maggiore, Episodio Singolo o Ricorrente).
E. Il disturbo non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es., una droga di abuso, un
farmaco) o di una condizione medica generale.
F.
Specificare se:
Con Scarso Insight: se per la maggior parte del tempo, durante l’episodio attuale, la persona non riconosce
che le ossessioni e compulsioni sono eccessive o irragionevoli.
*American Psychiatric Association (2000). DSM-IV-TR Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders , Fourth Edition, Text
Revision. Edizione Italiana: Masson, Milano.
Tab.1. Criteri diagnostici per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo secondo il DSM-IV-TR
8 I criteri diagnostici per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità secondo il DSM-IV-TR* sono i
seguenti:
A. Un quadro pervasivo di preoccupazione per l’ordine, perfezionismo, e controllo mentale e
interpersonale, a spese di flessibilità, apertura ed efficienza, che compare entro la prima età adulta ed è
presente in una varietà di contesti, come indicato da quattro (o più) dei seguenti elementi:
1.
attenzione per i dettagli, le regole, le liste, l’ordine, l’organizzazione o gli schemi, al punto che
va perduto lo scopo principale dell’attività
2.
mostra un perfezionismo che interferisce con il completamento dei compiti (per es., è incapace
di completare un progetto perché non risultano soddisfatti i suoi standard oltremodo rigidi)
3.
eccessiva dedizione al lavoro e alla produttività, fino all’esclusione delle attività di svago e
delle amicizie
4.
esageratamente coscienzioso, scrupoloso, inflessibile in tema di moralità, etica o valori (non
giustificato dall’appartenenza culturale o religiosa)
5.
è incapace di gettare via oggetti consumati o di nessun valore, anche quando non hanno alcun
significato affettivo
6.
è riluttante a delegare compiti o a lavorare con altri, a meno che non si sottomettano
esattamente al suo modo di fare le cose
7.
adotta una modalità di spesa improntata all’avarizia, sia per sé che per gli altri; il denaro è visto
come qualcosa da accumulare in vista di catastrofi future
8.
manifesta rigidità e testardaggine.
*American Psychiatric Association (2000). DSM-IV-TR Diagnostic and Statistical Manual of Mental
Disorders , Fourth Edition, Text Revision. Edizione Italiana: Masson, Milano.
Tab.2. Criteri diagnostici per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità secondo il DSM-IV-TR
1.2 Ossessioni e compulsioni nel DOC
Dal punto di vista fenomenologico, viene individuata nel DOC una componente mentale (le
ossessioni) ed una componente comportamentale coattiva (le compulsioni o rituali).
Le ossessioni, in particolare, sono costituite da idee, immagini o impulsi indesiderati che si
presentano nella mente di un individuo; queste vengono riconosciute come originate dalla
propria mente, benché vengano sperimentate come “egodistoniche”, in parte aliene in quanto
fuori dal proprio controllo, e perciò causa di stress ed ansia.
Le compulsioni sono invece comportamenti ripetitivi o azioni mentali spesso volte a
neutralizzare l’ansia provocata dalle ossessioni (ad es. controllare, pregare).
In particolare, alcune analisi di gruppo e fattoriali hanno identificato la presenza di almeno 4
dimensioni sintomatiche relativamente indipendenti tra di loro e temporalmente stabili:
ossessioni di contaminazione e rituali di pulizia; ossessioni religiose, aggressive e sessuali e
compulsioni ad esse connesse (solitamente di controllo); ossessioni riguardanti il bisogno di
simmetria o precisione, con compulsioni caratterizzate dall’ordinare/sistemare, contare e
ripetere; collezionismo e hoarding con compulsioni associate (Abramowitz et al., 2008; Stein
D.J. et al., 2009).
9 Emerge da questa descrizione come ossessioni e compulsioni siano tra esse legate da un
substrato comune, in quanto le une possono venir comprese e interpretate, e quindi anche
trattate, solo prendendo in considerazione le altre, in una relazione circolare.
Per spiegare il meccanismo sottostante al DOC, Mataix- Coils e colleghi hanno sviluppato un
modello, di stampo cognitivista, definito “il ciclo del disturbo ossessivo-compulsivo”: le
ossessioni, quali pensieri intrusivi ed involontari, generano livelli significativamente elevati di
ansia; le compulsioni sono atti ripetitivi messi in atto allo scopo di ridurre l’ansia generata
dalle ossessioni. In realtà il sollievo dall’ansia risulta solo temporaneo, in quanto
successivamente i rituali vengono messi in atto in modo automatico e portano ad un aumento,
anziché ad una riduzione, dell’ansia (Mataix-Cols D. et al., 2006). Nella prospettiva di tali
autori, questo meccanismo accomunerebbe il DOC ai disturbi d’ansia, in quanto in entrambi i
casi risulta presente una situazione o stimolo (endogeno o esogeno) temuto e fonte di stress ed
un comportamento messo in atto allo scopo di alleviare l’ansia.
A sostegno di tale modello, Rabavilas e Boulougouris (1977) hanno rilevato che le risposte
psicofisiologiche (frequenza cardiaca e risposta elettrotermica) concomitanti alle ossessioni
sono simili a quelle indotte da stimoli fobici, supportando un parallelismo tra pensieri
ruminativi e stimoli fobici nocivi.
Abramowitz et al. (2008) avanzano alcune critiche alla descrizione fornita nel DSM-IV
rispetto alle ossessioni e compulsioni ed al rapporto intercorrente tra tali dimensioni, che
riportiamo di seguito.
Il DSM-IV (vedi tab.1) indica come condizione necessaria e sufficiente per poter
diagnosticare il DOC la presenza di ossessioni o compulsioni, ritenendo perciò tali due
fenomeni come sostanzialmente indipendenti tra di loro. Tale ipotesi di indipendenza è stata
però avversata da alcuni studi, i quali hanno dimostrato che la stragrande maggioranza dei
pazienti con DOC presentano le due manifestazioni contemporaneamente. Una ricerca di Foa
e Kozak (1980) ha mostrato che il 90% delle compulsioni era funzionalmente legato alle
ossessioni, mentre solo il 10% di esse è risultato (apparentemente) privo di relazione.
Inoltre, tra i pazienti che manifestano ossessioni o compulsioni pure si collocano quei soggetti
caratterizzati da manifestazioni atipiche e meno evidenti della dimensione mancante (come le
compulsioni mentali).
Accanto a questo aspetto, la definizione di “compulsione” presente nel DSM-IV, quale
comportamento eccessivo e privo di significato per il soggetto, ancora una volta non tiene
conto della relazione presente tra ossessioni e compulsioni, che fa sì che queste ultime
risultino lontane dall’essere insignificanti per il paziente.
Parafrasando tali autori, il DSM-IV incarna una prospettiva semplificazionista, caratteristica
dell’approccio nosografico-descrittivo, che sottovaluta la varietà di manifestazioni ossessive e
compulsive individuata in recenti studi, come le compulsioni mentali, i rituali effettuati in
modo non ripetitivo e le compulsioni ego-sintoniche, queste ultime presenti nell’hoarding.
Esamineremo queste manifestazioni separatamente nel corso della trattazione.
1.3 Sottotipi nel DOC
Come è stato già precedentemente chiarito, il DOC è costituito da un eterogeneo gruppo di
disturbi, i quali sono stati inclusi all’interno di alcuni sottotipi, quali cluster di sintomi
osservati nel corso degli studi sperimentali e durante l’osservazione clinica.
In riferimento a ciascuno di questi sottotipi sono stati individuati specifici modelli concettuali
coerenti, i quali ne individuano le caratteristiche fenomeniche e processuali, elencandone gli
aspetti psicopatologici, biologici e relativi al trattamento.
Lo strumento utilizzato per giudicare la natura e la severità dei sintomi ossessivo-compulsivi e
distinguere tra le differenti categorie sintomatiche è rappresentato dalla “Yale-Brown
10 Obsessive Compulsive Scale” (Y-BOCS). La maggior parte degli studi sul DOC riporta tale
questionario come strumento principe impiegato per individuare i cluster di sintomi,
correlandoli con gli aspetti neurobiologici, esplicativi e relativi al trattamento.
I vantaggi di tale categorizzazione sono quelli propri di ogni sistema classificatorio:
consentono una maggiore comunicazione tra esperti, la messa a punto di teorie
eziopatologiche, una miglior previsione del decorso dei sintomi e l’individuazione di
trattamenti adatti a ciascun sottogruppo.
Sebbene tale suddivisione paia rispettare la complessità tipica dei DOC, essa risulta tuttavia
ancora una semplificazione, in quanto sono osservabili all’interno di ciascun sottotipo disturbi
che differiscono tra loro sia da un punto di vista fenomenologico, che, soprattutto, del
significato sottostante ai sintomi ossessivi e compulsivi.
In alternativa a questo approccio, il quale si basa sul contenuto manifesto del disturbo
individuando gruppi coerenti di sintomi (controllo, ordine, contaminazione etc..), si pone un
approccio che si propone di ricercare i meccanismi funzionali e motivazionali, quindi gli
aspetti eziologici nelle ossessioni e compulsioni.
Secondo alcuni autori (Abramowitz e coll., 2008), rispetto ad un approccio basato su
categorie sintomatiche coerenti e chiuse, una prospettiva basata sull’interpretazione dei
sintomi in termini di motivazione e quindi di significato sottostante consente di sviluppare
teorie psicopatologiche di tipo processuale e multifattoriale e tiene conto della possibilità che i
disturbi si collochino secondo un piano dimensionale. Quest’ultimo aspetto implica il
riconoscimento della presenza di un continuum tra situazioni di normalità e condizioni
cliniche, e quindi di una comunanza di meccanismi tra stile di personalità e psicopatologia.
I pazienti possono essere così descritti e studiati in termini quantitativi, in riferimento alla
diversa intensità con cui dimostrano di possedere alcuni sintomi caratteristici del DOC.
Al di là della specifica proposta, l’utilità di un approccio coerente con l’eterogeneità e
complessità del disturbo oggetto di descrizione è confermata dall’osservazione che la maggior
parte dei pazienti con DOC non rientra a pieno all’interno di alcuna categoria sintomatica.
Descriviamo di seguito alcuni sottotipi proposti in riferimento al DOC, così come descritti
nella trattazione a cura Abramowitz, McKay e Taylor (2008).
- Contaminazione e rituali di decontaminazione
Una tematica ricorrente tra le ossessioni e compulsioni nel DOC consiste nella paura di venire
contaminato e di diffondere tale contaminazione. Questo tipo di disturbo è quello con
prevalenza più elevata rispetto alle altre forme di DOC.
I sintomi possono riferirsi ad un timore più o meno realistico (la paura di un contatto con
germi ad esempio) o possono assumere la forma di una sensazione di “sporcizia interna”, con
connotazioni più morali. Per questo motivo, le emozioni associate alle ossessioni possono
variare dalla paura, al disgusto, alla vergogna, al senso di responsabilità e colpa.
In questi pazienti sono osservabili delle forme di pensiero magico, quali l’idea che un
contagio durerà per sempre (in quanto i germi non muoiono mai) e che la semplice
somiglianza con un oggetto “contaminato” possa rendere un altro oggetto allo stesso modo
fonte di contaminazione.
In ottica cognitivo-comportamentale, l’enfasi viene posta sulla presenza di pensieri
disfunzionali, quali la sovrastima del pericolo di nuocere a sé o agli altri, i quali poi vengono
rinforzati quando le strategie neutralizzanti portano ad una riduzione dell’ansia.
11 - Dubbio e controllo compulsivo
Il controllo compulsivo è la seconda forma di DOC con maggior prevalenza. Questo appare
spesso in concomitanza con altre forme di ossessioni e compulsioni presenti nel DOC, come
la paura di contaminazione o l’ossessione per l’ordine e la simmetria.
Il controllo compulsivo è un aspetto tipico anche di altri disturbi psichiatrici, in particolare il
disturbo d’ansia generalizzato, l’ipocondria e il disturbo da dimorfismo corporeo.
I modelli cognitivisti propongono una spiegazione del disturbo basata sul concetto di
“esagerata responsabilità”, ovvero la credenza di possedere la capacità di prevenire o far
avvenire esiti negativi per sé o per gli altri. Un’altra componente cognitiva presente nel
disturbo è l’intolleranza dell’incertezza, individuata anche nel disturbo d’ansia generalizzato.
Un’interessante teorizzazione circa il controllo compulsivo nel DOC suggerisce una
connessione tra tale sintomo ed un inadeguato funzionamento della memoria. Tuttavia, non vi
sono risultati univoci a favore o contro l’ipotesi di deficitarie funzioni mnestiche in pazienti
con controllo compulsivo, sebbene le ricerche depongano a sostegno di una possibile scarsa
fiducia nella propria capacità di ricordare (metamemoria).
- Simmetria e ordine
Le ossessioni e compulsioni riferite alla simmetria ed all’ordine sono molto diffuse nei
pazienti con DOC, anche tra i bambini e gli adolescenti, e sembrano essere un sintomo crossculturale.
Tale sottotipo di DOC viene descritto come peculiare rispetto alle altre tipologie dal punto di
vista delle emozioni sperimentate dai pazienti, che non sono di paura ed ansia, quanto
caratterizzate dal desiderio di far andare le cose nel modo giusto. Tale esperienza veniva già
descritta da Janet come “sentimento d’incompletezza”, caratteristico di soggetti con un forte
bisogno di uniformità ed ordine.
D’altro canto, come gli stessi autori della trattazione affermano, ancora pochi studi si sono
occupati dell’aspetto fenomenologico ed eziologico di tale manifestazione. Le poche teorie
eziologiche presenti propongono un’interpretazione dell’ossessione per la simmetria e
l’ordine come l’esacerbazione o evoluzione psicopatologica di un comportamento normale
presente nella giovinezza, collocando perciò tale sintomo all’estremo di un continuum tra
normalità e patologia.
- Ossessioni pure
Alcuni pazienti con diagnosi di DOC mostrano la presenza di ossessioni frequenti ed intense,
in assenza di compulsioni chiaramente rilevabili. Tale argomento viene utilizzato per criticare
il modello cognitivo-comportamentale, che spiega la genesi ed il mantenimento delle
ossessioni e compulsioni come dovuto ad un meccanismo autogenerato e ricorsivo.
In realtà studi di cluster analisi hanno evidenziato che la maggior parte dei pazienti che non
presentano compulsioni manifeste mostrano forme meno esplicite di compulsione (definite
forme di “neutralizzazione mentale”), tanto da far ipotizzare che tale dimensione si collochi
lungo un continuum, piuttosto che in termini di presenza/assenza. Pertanto anche la stessa
esistenza di tale sottotipo di DOC come entità nosologicamente separata e distinta dalle altre è
stata seriamente messo in discussione.
12 - Ossessioni autogene e reattive
La natura delle intrusioni mentali presenti nel DOC è molto variegata. Con il termine di
“ossessioni autogene” si fa riferimento a pensieri causa per sé stessi di ansia e stress, in
quanto percepiti come minacciosi (ad es. immagini o impulsi di natura sessuale o blasfema);
vengono invece definite “ossessioni reattive” quei pensieri o preoccupazioni con contenuto
realistico che vengono temuti per le conseguenze che essi comportano (ad es, pensieri relativi
alla paura di venire contaminati, dubbio di aver commesso qualche terribile errore etc.).
Ciò che cambia nelle due manifestazioni è quindi l’origine della minaccia (interna o esterna),
e conseguentemente gli aspetti cognitivi e motivazionali ad essa associati.
In particolare, sembra che le ossessioni autogene siano maggiormente associate a tratti
psicotici (caratteristiche di personalità schizotipiche) ed a rituali nascosti, di natura più
superstiziosa e “magica”.
- Hoarding compulsivo
L’hoarding è stato definito da Frost e Gross (1993) come “l’acquisizione e l’impossibilità di
abbandonare proprietà inutili o di valore limitato”. Gli autori aggiungono due ulteriori
caratteristiche chiave per distinguere il disturbo da un comportamento sub-clinico: gli spazi di
vita devono risultati talmente stipati da non consentire lo svolgimento delle attività
quotidiane; il comportamento deve causare uno stress significativo o un limite al normale
funzionamento.
I modelli cognitivi postulano la presenza di una vulnerabilità di natura neurobiologica e
neuropsicologica (disfunzioni nei processi attentivi, mnesici ed esecutivi), insieme a pensieri
disfunzionali circa il significato associato agli oggetti posseduti ed emozioni positive e
negative associate rispettivamente all’accumulo ed alla separazione dagli oggetti.
- Disturbo da TIC.
Gli studi sul DOC hanno documentato la presenza di una significativa correlazione tra il
disturbo ossessivo-compulsivo e la Sindrome di Tourette o il disturbo cronico da tic.
Le caratteristiche dei pazienti che presentano i due disturbi in modo concomitante sono
peculiari (come un’età precoce di insorgenza dei disturbi e una risposta migliore alla terapia
farmacologica con SRI insieme a farmaci antipsicotici), tali da aver fatto ipotizzate che questa
associazione rappresenti una forma distinta di DOC.
1.4 Il DOC tra disturbo d’ansia e spettro di disturbi: dibattito attuale
Nel corso dell'elaborazione nosografica, e precisamente a partire dal DSM-III (A.P.A., 1980)
il DOC è stato inserito nella categoria dei disturbi d'ansia, superando la tradizione della
diagnosi di nevrosi ossessivo-compulsiva.
D’altro canto, il DOC viene oggi da molti considerato come entità nosografica autonoma, con
un nucleo psicopatologico definito, un decorso ed una sintomatologia peculiari e dei correlati
13 neurobiologici che si stanno a poco a poco delineando grazie agli avanzamenti degli studi di
neuroimaging.
Al momento attuale, è presente un’interessante diatriba tra i sostenitori del DOC come
disturbo d’ansia e coloro che invece propongono l’inclusione del disturbo in una nuova
categoria diagnostica, definita “spettro dei disturbi ossessivo-compulsivi” (Abramowitz et al.,
2002, 2008; Storch et al., 2008). Tale riclassificazione assume un particolare significato in
vista della prossima pubblicazione della quinta edizione del DSM.
I presupposti del modello basato sull’inclusione del DOC nello spettro di DOC sono i
seguenti:
- I sintomi di entrambe le classi di disturbo condividono una caratteristica chiave, ovvero la
presenza di comportamenti e pensieri ripetitivi.
- Sono presenti analogie fenotipiche tra le due classificazioni, tra le quali l’età di comparsa, la
comorbidità e la familiarità per il disturbo.
- le due classi di disturbo condividono anomalie nei circuiti cerebrali, fattori
familiari/genetici, e anomalie a livello di sistemi neurotrasmettitoriali/peptidici.
- le due classi di disturbo condividono simili profili di risposte ai trattamenti, in particolar
modo rispetto alle terapie farmacologiche.
Descriveremo di seguito gli aspetti principali di tale proposta, insieme alle problematicità di
natura concettuale ed empirica evidenziate nell’ambito della cornice teorica di stampo
cognitivista, che auspica il mantenimento del DOC tra i disturbi d’ansia.
1.4.1 Il continuum Impulsività/Compulsività: presupposti e limiti di tale approccio
Il modello basato sullo spettro di DOC assume che i disturbi in questione possono essere
distinti sulla base dell’appartenenza alla dimensione dell’impulsività o della compulsività. La
dimensione compulsiva risulta caratterizzata dall’evitamento del danno e dalla riduzione
dell’ansia, mentre la dimensione impulsiva è definita in base alla ricerca del piacere e
comportamenti fonti di gratificazione.
Secondo tale prospettiva, da una parte del continuum ci sarebbero i disturbi compulsivi come
il DOC, l’ipocondria, il disturbo da disformismo corporeo e l’anoressia nervosa; dall’altra
parte, si collocherebbero i disturbi caratterizzati da aspetti impulsivi come il gioco d’azzardo
patologico, le compulsioni sessuali, le varie forme di dipendenza.
Secondo i sostenitori del mantenimento del DOC all’interno dei disturbi d’ansia, il modello
basato sull’esistenza di uno spettro di DOC manca di solide conferme empiriche alle ipotesi
sulle quali si basa.
Secondo tali autori, un evidente limite che tale proposta pone consiste nella sottovalutazione
del ruolo della cognizione nella genesi e mantenimento dei disturbi. D’altro canto gli autori,
di impronta cognitivista, conferiscono grande enfasi alla cognizione, sostenendo la presenza
di pensieri disfunzionali alla base del disturbo ossessivo-compulsivo.
In secondo luogo, gli autori sottolineano che l’identificazione di comportamenti ripetitivi
quale aspetto chiave per individuare i disturbi appartenenti alla stessa classe sindromica
risulta scarsamente provata, nè pare valida da un punto di vista eziologico. Comportamenti
ripetitivi sono infatti caratteristici di molteplici disturbi psichiatrici, tra i quali alcuni disturbi
d’ansia non inclusi nello spettro (come il disturbo da attacco di panico e il disturbo d’ansia
generalizzato).
Lo stesso posizionamento lungo il continuum impulsività/compulsività può essere rintracciato
in altri disturbi di rilevanza clinica, come il disturbo bipolare.
Inoltre, il tentativo di distinguere il DOC dai disturbi d’ansia sulla base del funzionamento
cerebrale e dei sistemi neurotrasmettitoriali manca al momento attuale di solide conferme
empiriche, in quanto i risultati condotti sui due gruppi di pazienti danno risultati controversi e
14 poco coerenti tra i diversi studi. Pertanto anche l’indiretto tentativo di fondare un nuovo
sistema classificatorio sulle caratteristiche neuroanatomiche risulta prematuro.
Un ulteriore aspetto rilevante per la distinzione tra le due classi di disturbi consiste nella
comorbidità tra DOC e disturbi d’ansia da una parte, e DOC e spettro dei DOC dall’altra. In
realtà, i dati di comorbidità propendono verso una maggior co-presenza tra DOC e alcuni
disturbi d’ansia, come il disturbo d’ansia generalizzato e la fobia sociale, insieme a disturbi
dell’umore quale la depressione.
La comorbidità è inoltre una dimensione comune a molti disturbi psichiatrici e non
rappresenta un elemento primario per individuare delle categorie diagnostiche coerenti.
Allo stesso modo, anche la presenza di familiarità per il DOC mostra maggiori analogie con i
disturbi d’ansia rispetto agli altri disturbi includibili nello spettro DOC.
Infine, l’opportunità di utilizzare come criterio per la ri-classificazione del DOC la risposta al
trattamento farmacologico, in particolare basato su inibitori selettivi della ricaptazione della
serotonina (SRI), è risultata priva di fondamenta. I pre-recquisiti di tale proposta (risposta
preferenziale in entrambe le classi di disturbo, assente in altre categorie diagnostiche) non
sono stati infatti confermati empiricamente. Gli SRI risultano essere maggiormente efficaci
per il DOC rispetto agli altri disturbi dello spettro e si sono dimostrati efficaci anche nel caso
della depressione.
In ogni caso, gli stessi autori che promuovono il mantenimento del DOC nella categoria dei
disturbi d’ansia riconoscono che le ossessioni e compulsioni osservabili nei pazienti sono
talmente eterogenee da mettere a rischio anche tale proposta.
A tale riguardo appare, a nostro parere, semplicistica l’individuazione di una/due emozioni
principali (paura e disgusto) tra le componenti affettive del disturbo, in quanto dai resoconti
clinici si rileva una molteplicità di emozioni che spaziano dal senso di colpa e di
responsabilità alla vergogna.
Questo aspetto rischia di minacciare la validità del modello eziologico proposto dagli Autori,
il quale ipotizza alla base del DOC, così come dei disturbi d’ansia, un meccanismo funzionale
costituito da una relazione circolare tra la paura originata dalle ossessioni e l’evitamento della
stessa tramite le compulsioni.
L’entrata in gioco di emozioni come il senso di colpa e la vergogna apre nuovi spazi di
comprensione circa la genesi ed il mantenimento del DOC.
1.5. Riflessioni epistemologiche sulla psicopatologia
Lo studio del funzionamento umano, nella normalità così come nella psicopatologia, non può
non comprendere alcune riflessioni di natura epistemologica relative al modo di affrontare tali
oggetti di indagine.
Nel panorama attuale, in cui lo studio e la comprensione del funzionamento mentale non
possono prescindere completamente dagli avanzamenti realizzati nel campo delle
neuroscienze, sembra necessario giustificare e rifondare la coesistenza di più linguaggi
descrittivo-esperienziali, in particolare in psicopatologia, dove rendere conto dell’esperienza
umana appare, se possibile, ancora più importante.
1.5.1 Tra descrizione, spiegazione e comprensione del disturbo mentale
Una distinzione tradizionalmente utilizzata nel linguaggio psicopatologico e psichiatrico è
quella tra approcci di tipo descrittivo ed approcci di tipo esplicativo.
15 L’approccio descrittivo, ben esemplificato nelle categorie diagnostiche presentate nel DSM, si
propone di fornire delle definizioni dei sintomi quali unicamente descrizioni degli aspetti
clinici così come appaiono all’osservatore, mentre l’eziologia degli stessi non viene presa in
considerazione. I disturbi vengono inoltre classificati su base categoriale, in quanto i disturbi
mentali vengono distinti sulla base di ben definiti “sets di criteri” composti da liste di singoli
sintomi, loro costellazioni, e/o criteri temporali.
Il successo di tale approccio, che pur è evidente, può venire ricondotto all’aver promosso la
condivisione di una terminologia ufficialmente accettata, con l’innegabile pregio di
permettere un’efficace comunicazione tra figure di varia estrazione professionale ed
epistemologica.
Accanto a questo modello, si pongono gli approcci di tipo eziologico, rappresentati sia dalle
teorie di stampo cognitivista che dalle spiegazioni di natura neurobiologica o genetica del
disturbo, che propongono di individuare le cause esplicative del disturbo. Tali cause vengono
generalmente ritrovate nelle strutture sottostanti (di tipo cognitivo o biologico), che portano
ad un funzionamento alterato dell’organismo, in un’ottica deterministica di tipo causa-effetto.
Un’evoluzione dell’approccio esplicativo alla psicopatologia assume che attraverso
l’individuazione dei meccanismi sottostanti al disturbo si possa avere più facile accesso al
significato soggettivo che il sintomo assume per la persona, apportando così vantaggi dal
punto di vista sia diagnostico che del trattamento (Guidano, 1987).
Una prima notazione da fare è che di per sé la distinzione tra un approccio descrittivo ed
esplicativo risulta forzata, in quanto la descrizione è un momento fondamentale della
spiegazione stessa. Pertanto, non possono esistere modelli esplicativi che non contengano una
descrizione delle caratteristiche del disturbo, così come non è possibile proporre un modello
descrittivo a-teoretico e scevro da ipotesi esplicative.
Entrambe le prospettive, inoltre, sembrano fare riferimento a quello che nello studio della
coscienza viene definito “il problema facile”. Il problema facile, caratteristico dell’“approccio
in terza persona” allo studio della coscienza, si caratterizza per una descrizione di natura
meccanicistica o computazionale dei fenomeni coscienti, tale da ritrarre l’immagine di un
individuo anonimo, un personaggio ideale, una tipizzazione. Per spiegare un qualsiasi
fenomeno mentale è necessario indicare in termini neuronali o computazionali come funziona
il meccanismo che lo produce. Il paziente verrà colto nelle sue regolarità fenomeniche, per
quella costellazione di sintomi che lo accomuna ad altri individui. Questo approccio segue
quindi un metodo induttivo, dal particolare al generale.
A differenza del problema facile, il problema difficile consiste in ciò che rimane dopo aver
spiegato i meccanismi alla base di funzioni mentali o cognitive, ovvero la comprensione
dell’esperienza soggettiva, l’effetto che fa avere una determinata esperienza.
Il problema difficile caratterizza l’approccio in prima persona, che consente di cogliere
“l’esperienza irriducibile di essere sé, rilevante per il soggetto che vive, che può essere in
grado o meno di renderne conto” (Arciero, 2006).
L’approccio in prima persona privilegia il metodo della comprensione, caratteristico delle
scienze storiche. La comprensione consente la ricerca dei motivi e delle ragioni, piuttosto
delle cause, alla base delle patologie “storiche”, quali la depressione ed i disturbi d’ansia.
D’altro canto, non bisogna ignorare che alcuni disturbi mentali risultano dalla combinazione
di molteplici fattori, sia di tipo storico (la propria storia personale), che di tipo non storico (ad
es. una lesione cerebrale o una disfunzione neuroendocrina). Pertanto, spiegazione e
comprensione debbono dialogare nello studio della psicopatologia in una relazione dialettica,
dove l’interpretazione del senso dei sintomi è la via sia per la realizzazione della diagnosi, che
per la cura degli stessi.
16 1.6 Considerazioni conclusive
L’estrema complessità che caratterizza la psicopatologia, ed in particolar modo il DOC, rende
necessario l’utilizzo di un atteggiamento critico-costruttivo nei confronti delle tipizzazioni e
classificazioni presenti in letteratura.
Sebbene venga unanimemente riconosciuta l’eterogeneità del disturbo, l’emergere della
soggettività dei pazienti e di aspetti scarsamente inquadrabili in categorie diagnostiche chiuse
è stato spesso attribuito ad un’ancora inadeguata classificazione del disturbo, portando così
alla ricerca di nuovi modi per aggirare il problema difficile.
Il problema difficile, come abbiamo descritto nel paragrafo precedente, implica il
superamento della descrizione di un disturbo psicopatologico in termini dei meri processi
neuronali o cognitivi sottostanti al suo insorgere. Laddove le categorie non riescono a cogliere
la prospettiva in prima persona del paziente, è necessario abbandonare le concettualizzazioni
astratte e generali, lontane dall’esperienza.
Vedremo nei capitoli successivi come le diverse ricerche neurobiologiche e le teorie
psicopatologiche relative al DOC si inseriscono in questo panorama, affrontando il problema
da differenti prospettive.
17 CAPITOLO 2
ASPETTI NEUROBIOLOGICI E NEUROANATOMIA
FUNZIONALE DEL DOC
2.1 Teorie neurobiologiche del disturbo ossessivo-compulsivo
Le attuali teorie neurobiologiche del disturbo ossessivo compulsivo nascono da varie
evidenze: la presenza di sintomi DOC in alcune condizioni neurologiche (la sindrome di
Tourette, la Corea di Hunghtington, la Corea di Sydenham e altri disordini espressione di
lesioni dei gangli della base), la comparsa di comportamenti riconducibili all’espressione dei
sintomi classicamente appartenenti allo spettro DOC in pazienti con lesioni focali da trauma
cranico e il fatto che interventi chirurgici che interrompono i circuiti ritenuti fondamentali
nella genesi di questo disturbo ne riducono la sintomatologia. I notevoli progressi nello
studio delle neuroimmagini ottenuti grazie alla risonanza magnetica funzionale e alla
tomografia a emissione di positroni (PET) hanno mostrato la partecipazione di diverse regioni
cerebrali nei processi cognitivi ed emozionali alterati nel disturbo ossessivo-compulsivo
(Phillips Mataix-Cols, 2004; Abramowitz, 2003).
Altri studi sono stati condotti attraverso morfometria basata sui voxel (tecnica di analisi in
neuroimaging che consiste nell'investigazione di differenze focali nell'anatomia del cervello,
usando l'approccio statistico noto come mappatura statistica parametrica).
Gli studi di neuroimmagini funzionali sono state effettuate sia in uno stato cosiddetto di
“riposo”, ovvero senza presentazione di stimoli attivanti i sintomi, sia attraverso presentazione
di immagini, elicitanti la produzione di sintomi da parte dei pazienti.
Questi ultimi protocolli sperimentali sembrano avere una maggiore rilevanza nell’elicitazione
di pattern di attivazione neurale collegate all’emergenza di sintomi ossessivo-compulsivi
rispetto ai paradigmi basati sulla misurazione dell’attività funzionale in uno stato di riposo.
Recenti meta-analisi quantitative voxel-based che hanno tenuto conto degli studi di risonanza
magnetica funzionale (fMRI) e di tomografia a emissione di positroni (PET) basati sul
paradigma di provocazione dei sintomi e dello studio della densità della materia grigia in
pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo, confrontati con soggetti sani, hanno dimostrato
significativi e consistenti cambiamenti nella corteccia orbito-frontale di sinistra e nel nucleo
caudato bilateralmente e hanno mostrato come altre regioni del cervello risultino implicate
nella fisiopatologia del disturbo.
A questo proposito si farà riferimento ad una meta-analisi condotta da Rotge et al. (2008), con
l’obiettivo di correlare circuiti neurali cortico-sottocorticali con l’espressione dei processi
patologici dello spettro ossessivo-compulsivo. Stein et al. (2009) invece riportano come il
disturbo ossessivo sia correlato ad una disfunzione nel sistema serotoninergico e questo
spiegherebbe il miglioramento dell’espressione sintomatica con i regolatori farmacologici del
reup-take della serotonina.
Rotge mette in luce come la corteccia orbito-frontale sia classicamente suddivisa in una parte
mediale che si connette con il sistema limbico e para-limbico, includendo la corteccia
dell’insula, il giro cingolato, l’amigdala e l’ipotalamo e una parte laterale che ha connessione
privilegiata con la corteccia dorso-laterale. La regione mediale sembra essere altamente
coinvolta nella rappresentazione di un risultato atteso, utilizzato per anticipare le conseguenze
positive e negative di una data azione.
18 La regione orbitale laterale si pensa che giochi un ruolo importante in molti processi cognitivi
e in particolare nella selezione, confronto e giudizio di determinati stimoli ambientali e nel
monitoraggio e riconoscimento degli errori durante lo svolgimento di un’ azione.
L’interpretazione che ne viene data è che queste regioni cerebrali che risultano maggiormente
attive nei pazienti con disturbo OC, potrebbero contribuire alla convinzione di sovrastimate
conseguenze negative in seguito ad una determinata azione. Sempre secondo gli autori, questo
fenomeno potrebbe generare pensieri ossessivi che conducono a comportamenti ritualistici e
ripetitivi per prevenire conseguenze negative e dunque ridurne l’ansia associata.
Altra regione implicata nella fisiopatologia del disturbo è la corteccia cingolata anteriore, di
cui si riconosce una parte più cognitiva (la parte più dorsale) e una parte più affettiva (la parte
più ventrale). Gli studi di neuroimaging funzionale che hanno osservato pazienti con DOC
hanno dimostrato come la divisione più cognitiva del cingolo sia implicata nel monitoraggio
disfunzionale di situazioni conflittuali che pongono classicamente questi pazienti nella
sensazione di commettere potenzialmente un errore. L’accentuata attività di questa regione
sembra essere correlata con l’interpretazione di un’azione erroneamente considerata sbagliata
o con potenziali conseguenze negative. D’altra parte la regione ventrale della corteccia
cingolata, che è la parte più affettiva e connessa strettamente con il sistema limbico, sembra
mediare l’espressione clinica dell’ansia associata ai processi ossessivi.
La corteccia orbito-frontale e il cingolato anteriore hanno strette connessioni con lo striato e
in particolare con il nucleo caudato e accumbens, il nucleo pallido e il talamo.
A questo proposito, Harrison et al. (2009) hanno studiato attraverso risonanza magnetica
funzionale in stato di riposo, l’attivazione del circuito ventrolimbico-cortico-striatale, con
l’obiettivo di validare l’ipotesi di alterata eccitabilità neurale cortico-striatale in soggetti
affetti da DOC, confrontandoli con soggetti privi del disturbo.
I risultati hanno mostrato come non vi siano differenze tra il gruppo patologico e il gruppo di
controllo nell’attivazione della regione caudata dorsale, mentre i pazienti presentano una
connessione più importante della regione ventrale del caudato e del nucleo accumbens con la
corteccia orbito-frontale mediale, la corteccia pre-frontale anteriore, la corteccia cingolata
anteriore e il giro paraippocampale. Per quanto riguarda la regione del putamen, nella sua
parte più dorsale, i pazienti dimostrano di avere una minore connessione funzionale di
quest’area con il talamo ventro-laterale e con la corteccia inferiore pre-frontale rispetto al
gruppo di controllo. Il gruppo di controllo dimostra più connessioni, a livello dell’area più
ventrale invece del putamen, con la corteccia frontale inferiore e l’operculum. Nei pazienti si
ritrovano a livello di questa regione, maggiori connessioni con il cingolato anteriore e la
corteccia orbito-frontale mediale posteriore. Altra osservazione importante è la grande
connettività tra la regione dorsale e ventrale del nucleo caudato, che gli autori correlano con i
comportamenti ritualistici e compulsivi, mentre rilevano una ridotta connessione funzionale
delle regioni ventrali striatali con l’area ventrale tegmentale, del putamen con la corteccia
frontale inferiore e del nucleo caudato dorsale con la corteccia pre-frontale dorso-laterale.
Harrison ha così meglio rappresentato il modello neurobiologico come alterazione di network
funzionali tra gangli basali e corteccia frontale. La grande differenza tra persone affette da
DOC e le altre non patologiche è stata osservata nella forza delle connessioni funzionali tra
le regioni ventrali cortico-striatali, ovvero tra le regioni ventrali striatali e la corteccia
orbito-frontale mediale e anteriore, il cingolato anteriore e le regioni para-ippocampali.
Questa disfunzione è stata ritrovata anche negli studi sui parenti più prossimi dei pazienti.
Rotge, nella sua meta-analisi, ha messo in luce, oltre ai network di cui si è parlato,
l’attivazione del giro temporale superiore di sinistra, del precuneo e della corteccia prefrontale dorso-laterale e il loro ruolo nella fisiopatologia del disturbo ossessivo-compulsivo.
Vediamo in che modo.
Il giro temporale superiore si trova nella parte anteriore del polo temporale, che riceve dalle
aree corticali sensoriali primarie e associative e ha dense connessioni con la regione affettiva
della corteccia cingolata anteriore, la corteccia orbito-frontale, l’amigdala e l’ippocampo.
19 Evidenze di neuroimaging hanno dimostrato come il polo temporale sia implicato
nell’accoppiamento di risposte emotive viscerali con stimoli visivi. Nei pazienti con DOC si
ritrova un volume inferiore di materia grigia in questa regione temporale.
L’autore ha correlato questi dati con le manifestazioni di ansia comunemente esperite dai
pazienti con DOC, piuttosto che nella genesi dei sintomi ossessivo-compulsivi.
Il precuneo a sua volta corrisponde alla parte mediale del lobo parietale posteriore, ha
connessioni con altre aree parietali, con la corteccia pre-frontale dorso-laterale, la corteccia
pre-motoria e la corteccia cingolata anteriore; ha proiezioni sottocorticali con il nucleo
caudato dorso-laterale e il putamen. Tale circuito fronto-dorsale-parietale sembra correlato
con i processi di auto-generazione dei pensieri e di shift attentivo attraverso diverse modalità
sensoriali associato a compiti cognitivi e a processi di attiva inibizione dell’attenzione.
L’importante attivazione a livello di questi circuiti osservata negli studi, potrebbe essere
correlata, secondo gli autori, al costante sforzo dei pazienti di ignorare e di spostare la loro
attenzione dai pensieri ossessivi. Questa possibile interpretazione è supportata dai processi
cognitivi e dalle emozioni esperite dai pazienti durante gli studi con paradigma di
provocazione del sintomo.
Le osservazioni rilevate in sintesi dalla meta-analisi di Rotge et al. e da Harrison et al. che
aiutano a chiarire e ampliare il modello neurobiologico orbito-fronto-striatale sono:
• I circuiti cortico-sottocorticali originati dalla corteccia orbito-frontale e dalla parte
dorsale, “cognitiva” della corteccia cingolata anteriore sembra avere un ruolo
fondamentale nei processi cognitivi associati all’insorgenza dei sintomi
• La regione ventrale “affettiva” della corteccia cingolata anteriore e il giro temporale
superiore sembrano essere coinvolti direttamente, attraverso le loro connessioni con
le strutture limbiche nella manifestazione dell’ansia associata ai sintomi DOC
• I circuiti dorsali fronto-parietali di sinistra sembrano essere correlati ai tentativi dei
pazienti di distogliere l’attenzione dai pensieri ossessivi.
• I gangli della base influenzano sia i generatori di pattern motori del midollo spinale e
del tronco encefalico come anche generatori di pattern cognitivi nella corteccia
cerebrale, stabilendo rituali cognitivi e motori
• La corteccia orbito-frontale pare avere un ruolo fondamentale nella rappresentazione
e nella anticipazione di ricompense e punizioni, nei processi di generazione dell’ansia
ed emotivi, come anche nel controllo inibitorio di azioni e pensieri.
Sono stati correlati in alcuni studi, ripresi dall’articolo di Rotge, talune specifiche dimensioni
di sintomi del disturbo DOC con determinati circuiti neurali, vediamone brevemente un
accenno.
Rauche et al. hanno trovato un aumento del flusso sanguigno e dunque iperattività nei pazienti
con sintomi riconducibili alle ossessioni di controllo nello striato, mentre nei pazienti con
l’ossessione del lavarsi e della contaminazione era alta l’attivazione nell’area cingolata
anteriore bilaterale e nella corteccia orbito frontale di sinistra. Durante uno studio di risonanza
magnetica funzionale condotto secondo il paradigma di provocazione del sintomo, Philips et
al. hanno confrontato pazienti con sintomi correlati all’ossessione della contaminazione e
pazienti con l’ossessione del controllo, mentre mostrano loro immagini rilevanti per i primi o
immagini classicamente provocanti disgusto.
Si è visto che solo i pazienti con sintomi correlati all’ossessione della pulizia attivavano in
modo importante regioni implicate nella percezione del disgusto e nelle emozioni associate,
quali la corteccia insulare di destra, la corteccia ventro-laterale e il giro paraippocampale,
mentre gli altri pazienti nelle regioni fronto-striatali e nel talamo, come vorrebbe il modello
neurobiologico.
Saxena et al. invece, in uno studio con 12 pazienti con sintomi tipici dell’hoarding hanno
trovato un ridotto metabolismo del glucosio nel giro cingolato posteriore rispetto a soggetti
non sintomatici e nella corteccia dorso-laterale pre-frontale, confrontati con pazienti con altri
sintomi DOC ma non di accaparramento.
20 Questi pochi studi citati ci dicono come al di là di un modello neurobiologico che sintetizzi il
funzionamento neurale sottostante il disturbo ossessivo-compulsivo, differenti sintomatologie
siano mediate da distinti sistemi neurali.
Nel paragrafo successivo verranno riportate evidenze di studi cognitivi che supportano tale
tesi e in particolare il contributo di Menzies (2008), che propone un modello orbito-fronto
striatale rivisitato proprio alla luce dell’integrazione di studi di neuroimaging e
neuropsicologici in pazienti DOC confrontati con soggetti non affetti dal disturbo.
2.2 Contributo degli studi cognitivi al modello neurobiologico orbito-fronto-striatale: il
circuito dorso-laterale pre-fronto-striatale
Tests neuropsicologici computerizzati (utilizzando compiti come il go/no go o SSRT – stop
signal reaction time- che misura i processi inibitori motori e il test di Stroop) a cui sono stati
sottoposti pazienti affetti da DOC hanno dimostrato deficit nell’inibizione della risposta
(Menzies 2008). E’ interessante notare come anche i parenti prossimi dei pazienti con DOC
non affetti dal disturbo, risultano avere performances inferiori rispetto ai soggetti del gruppo
di controllo.
Le difficoltà nel test SSRT sembrano essere dipendenti da disfunzione del giro inferiore
frontale, ma non della corteccia orbito-frontale, mentre studi di neuroimaging mostrano come
appaiano essere coinvolte nell’inibizione di una risposta motoria un’ estesa rete di aree che
comprende corteccia cingolata anteriore, corteccia frontale mediale e temporale, corteccia
parietale, parte della corteccia orbito-frontale, il cervelletto e i gangli basali, ma mancano
studi che indagano precisamente il coinvolgimento di alcune di queste aree nel funzionamento
dei pazienti DOC.
Per ciò che concerne studi cognitivi sul set shifting, abilità che riguarda la flessibilità,
Menzies riporta deficit nei pazienti con DOC, seppure venga fatta una distinzione tra shifting
di un set affettivo e di un set attentivo. Il primo si riferisce all’abilità di adeguare il proprio
comportamento alla modificazione del valore di ricompensa di uno stimolo, (ad esempio una
risposta viene prima ricompensata e poi no) e dipende strettamente dall’attivazione della
corteccia orbito-frontale. Il secondo, ovvero lo shift attentivo, riguarda le questioni
dimensionali di uno stimolo (ad esempio forma o colore), che il soggetto si aspetta debbano
modificarsi ed è correlato con l’attivazione di circuiti della corteccia pre-frontale laterale e
pre-frontale ventro-laterale.
Gli studi riportati da Menzies sono controversi, in sintesi però sembra che non vi siano
distinzioni tra i pazienti e il gruppo di controllo nella flessibilità di tipo valore di uno stimolo,
mentre in compiti di flessibilità attentiva ci sono prove di difficoltà accentuate nei pazienti
rispetto a soggetti sani. Questo depone a favore di un coinvolgimento importante della
corteccia dorso-laterale accanto alla corteccia orbito-frontale, annoverata come area
cruciale da molti neuroscienziati, nella fisiopatologia del disturbo.
Sembrano esserci invece evidenze per una disfunzione dei circuiti della corteccia dorsolaterale, correlati con la difficoltà dei pazienti con DOC, rispetto ai soggetti di controllo, nella
performance nel test della Torre di Londra, sensibile agli aspetti pianificatori delle funzioni
esecutive. Uno studio di neuroimaging, citato da Menzies (Heuvel et al. 2005), ha mostrato
una diminuità attività, durante questo compito, nei circuiti dorso-pre-fronto-striatali, ovvero
nei network neurali che connettono la corteccia pre-frontale dorsale e le aree parietali
posteriori con la testa del caudato, il talamo ventrale e medio-dorsale attraverso vie nervose
che coinvolgono il globo pallido e la parte reticolata della sostanza nera. Questa importante
rete neurale pare essere coinvolta nell’attenzione spaziale e nei processi di working memory,
disfunzionali nei pazienti con DOC.
21 E’ importante riportare come anche nei parenti prossimi dei pazienti sono state riportate
performance più basse rispetto ai soggetti del gruppo di controllo (Menzies 2007). Si può
delineare già come le difficoltà cognitive riscontrate in pazienti DOC siano correlate con
disfunzioni non dipendenti dalla corteccia orbito-frontale, bensì in circuiti più relati alla
corteccia pre-frontale dorsale e ai gangli della base. Gli studi sul decision-making risultano
essere controversi. Studi condotti da Sachdev e Malhi (2005) avevano correlato difficoltà nei
pazienti DOC nell’attribuire un valore adeguato alla riuscita o meno di un risultato atteso,
nella soppressione e inibizione di risposte inappropriate al contesto e nell’integrazione di
informazioni più sul versante affettivo, a una disfunzione del circuito orbito-frontale,
concettualizzando persino il disturbo ossessivo-compulsivo come un disordine dell’abilità
cognitiva del decision making. Studi successivi, condotti utilizzando lo Iowa Gambling Task,
che simula condizioni di presa di decisioni della vita reale e clinicamente sensibile a
disfunzioni del lobo frontale, non ha rilevato differenze tra soggetti affetti da DOC e non.
In sintesi:
• la corteccia pre-frontale-dorso-laterale è implicata nei deficit di pianificazione, di
inibizione della risposta e di shifting attentivo nei suoi collegamenti con la corteccia
parietale
• disfunzioni nel lobo parietale e nella giunzione temporo-parietale correlano con i
deficit di shifting attentivo, di percezione spaziale e working memory.
I pazienti dimostrano deficit in facoltà neuropsicologiche non tanto correlate classicamente
alla corteccia orbito-frontale, ma dipendenti dalla corteccia dorso-laterale e ventro-laterale
pre-frontale, nonché dalla corteccia parietale e dalla giunzione temporo-parietale. Questo
depone a favore dell’interessamento di un circuito dorso-laterale pre-fronto-striatale accanto
al circuito orbito-fronto-cortico-striatale. Il primo è maggiormente correlato alle difficoltà
cognitive sottostante la patologia DOC, il secondo maggiormente alla sintomatologia
fenomenica espressa e percepita dai pazienti.
Le evidenze degli studi di neuroimaging funzionali, mostrano dunque come la fisiopatologia
del disturbo ossessivo-compulsivo sia direttamente correlata con disfunzioni del circuito
orbito-fronto-striatale nei suoi aspetti di produzione di pensieri intrusivi e ritualistici e nelle
compulsioni, con l’importanza cruciale dei gangli basali attivanti veri e propri generatori di
pattern motori e cognitivi. Correlato invece agli aspetti cognitivi deficitari pare essere il
circuito dorso-laterale pre-fronto-striatale.
A questo proposito riportiamo un diagramma semplificato dei circuiti disfunzionali finora
menzionati, in modo da sintetizzare ciò che fino ad ora è stato detto, consapevoli però del
riduzionismo neuroscientifico effettuato al fine di creare tale modello. Questo diagramma è
stato tratto dall’articolo di Menzies sopra citato.
22 Giro
angolare/sopramarginale
(lobo parietale)
Cingolato
anteriore
Ippocampo
Amigdala
basolaterale
CPFVL
Parietale posteriore
CPFDL
Caudato
Sostanza nera
OFC
STN
Globo pallido
Talamo
ventrioanteriore/mediodorsale
Circuito
dorso -laterale -prefronto -striatale
Striato ventrale
Pallido ventrale
Talamo mediodorsale
Circuito
orbito-fronto-cortico-striatale
Il diagramma rappresenta un sommario delle regioni presunte implicate nella fisiopatologia
del disturbo, ma bisogna essere cauti nel trarre conclusioni per diversi motivi. Innanzitutto gli
studi consultati e qui riportati hanno ammesso come limiti sia la variabilità dei campioni di
studio nell’età, nel genere, nel periodo di esordio del disturbo, nella comorbidità con altri
disturbi sia la rilevanza probabile dell’assunzione di una determinata terapia farmacologica.
Non meno importante è la caratterizzazione sintomatica dei gruppi di pazienti confrontati con
i gruppi di controllo, nel senso della difficoltà di approcciare con studi di neuroimaging la
natura multisintomatica del disturbo ossessivo-compulsivo, tenendo conto anche del fatto che
lo stesso soggetto può presentare più espressioni sintomatiche e che variano nell’arco della
sua vita.
Queste potenti tecniche di neuroimaging che hanno portato a correlare network neuronali e
regioni anatomiche con il funzionamento cognitivo e affettivo sottostante la patologia DOC,
perderebbero il loro significato se non supportati da una cornice e un’interpretazione
fenomenologica. A questo proposito vorremmo riportare una frase di Gallese che ci pare
essere calata ad hoc in questo contesto: “Tali tecniche ci hanno messo in grado di osservare
direttamente ciò che accade nel nostro cervello quando siamo impegnati in una varietà di
compiti percettivi, esecutivi e cognitivi. Dovremmo, tuttavia, essere consapevoli dei rischi
derivanti dall’affidarsi ciecamente al solo potere euristico di queste tecniche correlative, se
non supportate da un’analisi fenomenologica dei processi (percettivi, esecutivi e cognitivi)
indagati…I rischi di un mero approccio correlativo aumentano ulteriormente se i dati ottenuti
con tali tecniche sono acriticamente utilizzati in modo strumentale per convalidare modelli e
nozioni concernenti la natura della mente umana e il suo funzionamento ritenuti veri a
priori…”.Dobbiamo essere consapevoli dell’assoluta esigenza di creare un modello di
funzionamento neuronale dinamico sottostante la patologia DOC, ricordandone però la natura
23 riduzionistica imprescindibile negli studi neuroscientifici, l’apporto in terza persona, che non
rende però ragione dell’esperienza vissuta e raccontata in prima persona.
Qual è la differenza tra un approccio in terza persona, (definito da Chalmers “the easy
problem”) e l’esperienza in prima persona (che Chalmers chiama “the hard problem”)?
L’approccio in terza persona, su cui si fondano gli studi di neuroimaging, permette di spiegare
in termini neurali, neurofisiologici o comunque computazionali un dato fenomeno cognitivo o
emotivo di un cervello, si on-line, cioè mentre esegue o pensa, ma un cervello “anonimo” che
appartiene a tutti o a nessuno. Si tratta di una descrizione o di una spiegazione dell’esperienza,
intesa però come prodotto del funzionamento di un determinato meccanismo o circuito, che in
termini neuro scientifici è neurale. E’ in pratica il linguaggio e l’approccio delle scienze
naturali. Ma come ad un seminario Gallese ha ben espresso, “i neuroni non
pensano…scaricano e non sono agenti epistemici…” e dunque il vero problema difficile
reclamato da Chalmers riguarda l’essere proprio dell’esperienza dell’uomo, ma proprio di
quell’uomo, con il suo romanzo di vita e il suo essere situato in un determinato momento
della sua esistenza presso le sue cose, presso il suo il mondo. L’esperienza in prima persona,
riguarda che effetto fa il proprio sentirsi in questo o quel modo e tale “effetto” è accessibile
solo dal punto di vista del soggetto che esperisce attraverso l’immersione nel suo mondo e
nella sua storia, in un racconto che si fa condiviso. A questo proposito vorremmo riportare,
per concludere, le parole di Arciero tratte da “Sulle tracce di sé” che in un lampo illuminano il
discorso fin qui affrontato: “…posso rendere conto del disturbo ossessivo invocando
un’alterazione del sistema serotoninergico oppure un’iperattività del lobo frontale, questi
dati però non appaiono nella sfera mentale della persona, non sono parte della sua
esperienza. L’ossessivo non sente il suo iperfrontalismo o la modificazione del funzionamento
del sistema della serotonina”.
24 CAPITOLO 3
Il DOC SECONDO
L’APPROCCIO COGNITIVO DI BECK E L’APPROCCIO
COGNITIVO POST-RAZIONALISTA DI GUIDANO
3.1 La teoria cognitiva del DOC
Le teorizzazioni sul disturbo ossessivo-compulsivo di stampo cognitivista razionalista, che si
rifanno in modo più o meno rilevante al lavoro di Aaron Beck, forniscono accurate descrizioni
delle strutture cognitive sottostanti al disturbo.
Gli approcci cognitivisti di stampo razionalista intendono il disagio psichico come
conseguenza di uno scostamento del paziente da una realtà esterna oggettiva, a causa di
pensieri disfunzionali e irrazionali, in termini di convinzioni distorte che devono essere quindi
cambiate per ristabilire l’equilibrio alterato che origina il sintomo come emozioni disturbanti.
Il focus dell’attenzione è quindi sul dominio razionale-emotivo del paziente.
Presentiamo di seguito i concetti principali della terapia cognitiva, seguiti dalla presentazione
delle caratteristiche cognitive rilevate nei soggetti con DOC e dalla sintesi di alcune teorie
relative al disturbo. Nella trattazione di questa parte, faremo principalmente riferimento al
testo di Dettore D. sul disturbo ossessivo-compulsivo (2002).
3.1.1 Concetti fondamentali della teoria cognitiva razionalista
La terapia cognitiva individua 3 livelli del pensiero presenti nella normalità così come nella
psicopatologia:
1) i pensieri automatici;
2) le credenze o convinzioni;
3) gli schemi cognitivi sottostanti.
I pensieri automatici sono delle forme di commento interno che emergono in alcune situazioni
(ad es.“non riuscirò mai a finire per tempo questo lavoro. Come fare? Se continuo così
perderò il lavoro”) e possono essere coscienti o inconsci; questi possono in ogni caso essere
portati alla consapevolezza con un adeguato allenamento.
Le credenze si collocano ad un livello maggiore di profondità, in quanto sono regole tacite
alla base dell’insorgere dei pensieri automatici, che spesso assumono una forma di tipo “se x,
allora y” (ad es., “devo avere successo in tutto ciò che faccio altrimenti gli altri non mi
ameranno”).
Esiste poi un terzo livello nella cognizione, più profondo, chiamato “schema”; questo viene
inteso come l’insieme di regole di base utilizzate per organizzare la percezione di sé, del
mondo e del futuro. Gli schemi vengono considerati come nuclei centrali, in quanto sono più
difficilmente accessibili e quindi modificabili e danno origine alle credenze di ordine
25 superiore. Gli schemi possono essere attivi o latenti, a seconda che le specifiche situazioni di
vita ne comportino l’attivazione o meno; possono inoltre essere pervasivi o discreti, nel
secondo caso attivi solo in certe situazioni.
Inoltre, si distinguono gli schemi di sé (SS) e gli schemi interpersonali (SI). Gli schemi di sé
riguardano l’atteggiamento verso di sé ed il mondo; derivano dall’integrazione delle diverse
esperienze e consentono un senso di stabilità personale e continuità.
Gli schemi interpersonali racchiudono invece una sequenza di interazioni tra sé e gli altri,
perciò forniscono strutture che regolano le condotte interpersonali, e si costituiscono a partire
dal legame d’attaccamento nella prima infanzia.
Gli schemi cognitivi possono venire modificati dalle informazioni derivanti dall’ambiente
circostante, tramite un processo di accomodamento. Tuttavia, in quanto agiscono da filtro nei
confronti del mondo esterno, tendono ad automantenersi mediante processi di selezione dei
dati in ingresso. Da questo processo autoreferenziale originano le “distorsioni cognitive” o
“biases cognitivi”, quali interpretazioni preferenziali delle informazioni.
Il processo che avviene quindi, in situazioni patologiche così come nella normalità, è che:
-
un dato stimolo giunge all’attenzione del soggetto;
si attiva uno schema disfunzionale, con le annesse distorsioni cognitive;
viene attivato un pensiero automatico;
vengono prodotti comportamenti ed emozioni conseguenti.
Lo scopo della psicoterapia cognitiva, in questa prospettiva, consiste nell’individuare la
sequenza di eventi mentali e comportamentali che accompagnano il sintomo, con lo scopo di
modificare il modo di interpretare gli eventi, ai diversi livelli di profondità della cognizione.
La modificazione degli schemi cognitivi rappresenta l’obiettivo più elevato, ma complesso da
raggiungere.
3.1.2 Disfunzioni cognitive nel DOC e nel DOCP
L’Obsessive Compulsive Cognitions Working Group, che studia le cognizioni nel DOC, ha
individuato 6 campi generali di convinzioni ritenute importanti nel disturbo.
Frost e Steketee (2002) hanno approfondito tali tematiche in una loro opera, della quale
riportiamo di seguito le conclusioni.
-
Eccessiva importanza attribuita al pensiero: l’importanza del pensiero viene
sovrastimata, portando ad aspetti caratteristici della fusione tra pensiero ed azione,
quali il pensiero magico e la superstizione.
In particolare, tale sovrastima emerge relativamente a 3 aspetti: la presenza di pensieri
intrusivi indica che in essi vi è qualcosa di importante a proposito di sé stessi; l’avere
pensieri intrusivi aumenta il rischio che si verifichino cose negative; i pensieri
intrusivi negativi devono essere importanti per il semplice fatto che si sono verificati.
Questo campo riguarda per lo più le ossessioni relative al timore di aver provocato
qualche grave danno, piuttosto che altre forme di pensiero ossessivo. Risulta presente
in modo rilevante anche nel disturbo post-traumatico da stress e nel disturbo d’ansia
generalizzato.
-
Necessità di un controllo totale sui pensieri: questo campo riguarda la
sopravvalutazione dell’'importanza di avere un controllo completo su pensieri, impulsi
e immagini; questa importanza è alimentata dall’idea che tale controllo sia possibile e
26 auspicabile. Questa dimensione è caratteristica sia del DOC che del DOC di
personalità (DOCP).
-
Senso eccessivo di responsabilità: la preoccupazione riguarda l’essere responsabili per
colpe sia di commissione che di omissione; pertanto vi è l’idea da parte della persona
di detenere un potere enorme rispetto a ciò che succede nell’ambiente circostante.
-
Sopravvalutazione della minaccia: comporta un’esagerazione della probabilità e
gravità del danno.
-
Intolleranza dell’ambiguità e dell’incertezza: riguarda la convinzione circa la necessità
di essere certi di poter sempre fronteggiare qualsiasi mutamento, anche il più
imprevedibile. Questo aspetto, insieme alla sopravvalutazione della minaccia, non
sembra discriminare il DOC dagli altri disturbi d’ansia.
-
Perfezionismo: consiste in un’eccessiva preoccupazione per la possibilità di
commettere errori e nella credenza che esiste una soluzione perfetta ad ogni problema,
e che pertanto questa vada obbligatoriamente trovata e perseguita.
Anche questo aspetto pare essere condiviso con altri disturbi, come i disturbi d’ansia, i
disturbi alimentari e la depressione.
Tali convinzioni intervengono successivamente nella valutazione delle esperienze intrusive, in
riferimento alle valutazioni di responsabilità, di controllo e dell’importanza del pensiero.
A livello funzionale, tali convinzioni innescherebbero un meccanismo di tipo auto-generato e
ricorsivo con i rituali messi in atto a scopo preventivo o di controllo: ogni volta che il
comportamento compulsivo viene emesso, esso genera un’implicita conferma della potenziale
pericolosità della situazione dalla quale è scaturito. In tale modo, viene rinforzata sia la
necessità di mantenere il rituale, che le convinzioni di rischio sottostanti le ossessioni
(Dettore, 2003).
I soggetti con DOC condividono con il DOCP alcuni disturbi del ragionamento ed alterazioni
nell’elaborazione delle informazioni, in parte riferiti ad i processi meta cognitivi.
Lo stesso tema dell’ipercontrollo è stato individuato in entrambi i disturbi, sebbene nel DOCP
assuma caratteristiche più generalizzate, mentre nel DOC sembra maggiormente circoscritto
ad alcune tematiche specifiche.
Beck e Freeman (1990) hanno descritto le seguenti convinzioni prodotte dagli schemi
cognitivi di base nei pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo di personalità:
sono pienamente responsabile di me stesso e degli altri;
devo contare su me stesso per assicurarmi che le cose vengano fatte;
gli altri tendono ad essere troppo superficiali, irresponsabili, indulgenti con sé stessi ed
incompetenti;
è importante fare sempre un lavoro perfetto;
ho bisogno di ordine, metodo e regole affinchè un lavoro risulti ben fatto;
se non ho metodo, tutto andrà a finire male;
ogni imperfezione e difetto in ciò che si fa può condurre ad una catastrofe;
è necessario puntare sempre a livelli più alti, o le cose finiranno male;
ho bisogno di avere il pieno controllo delle mie emozioni;
la gente dovrebbe fare le cose a modo mio;
se non ottengo prestazioni al massimo livello fallirò;
le imperfezioni, i difetti e gli errori sono intollerabili;
27 -
i dettagli sono estremamente importanti;
il mio modo di fare le cose è generalmente il migliore.
Sia le teorizzazioni relative al DOC che quelle relative al DOCP costituiscono, di fatto, delle
descrizioni, per quanto accurate e precise, di stati cognitivi, evidenziate dall’osservazione
clinica e dalla somministrazione di strumenti di indagine strutturati o semistrutturati.
Gli esponenti dell’approccio cognitivista hanno proposto assai pochi modelli di tipo
eziologico circa l’origine delle ossessioni e compulsioni.
Uno di questi è il modello interpretativo proposto da Cottraux e Gèrard (1998), il quale offre
una possibile spiegazione del perché alcuni soggetti con DOC siano così preoccupati circa la
propria responsabilità negli eventi. I DOC sarebbero portatori di una vulnerabilità biologica
verso una forte impulsività, che verrebbe quindi compensata dalla messa in atto di
comportamenti compulsivi. Anche in questo caso, si verrebbe a creare un circuito ricorsivo,
tramite il quale i dubbi circa la propria affidabilità (in termini cognitivi, di memoria ad
esempio) indurrebbero i rituali, i quali a loro volta confermerebbero i dubbi.
E’ questo un interessante sforzo di coniugare le evidenze neurobiologiche e neuropsicologiche
circa la presenza di alterazioni nel funzionamento cerebrale dei soggetti con DOC, seppur
ancora inserito all’interno di una cornice meccanicistica e deterministica.
Alcune teorie cognitive sul DOC hanno preso in considerazione, esplicitamente o
implicitamente, l’importanza della percezione di sé nella determinazione delle risposte alle
intrusioni.
Rachman ha suggerito che misinterpretazioni catastrofiche relative alla rilevanza personale di
pensieri intrusivi possano costituire la causa principale dello sviluppo e del mantenimento
delle ossessioni. Secondo Rachman, i pensieri intrusivi che sono percepiti dall'individuo come
una fonte di pericolo per la propria visione di sé attiveranno un’escalation di comportamenti
disfunzionali o causeranno un uso più intenso di strategie di controllo del pensiero. Rachman
ha inoltre proposto che il contenuto specifico delle intrusioni, come temi di aggressione, il
sesso e blasfemia, svolga un ruolo importante in questo processo, fungendo da innesco
iniziale per valutazioni disfunzionali. Quindi, Rachman enfatizza sia il contenuto delle
intrusioni che la presenza di credenze disfunzionali, tra cui auto-valutazioni, nel processo che
porta le intrusioni a divenire ossessioni.
Allo stesso modo, Clark & Purdon hanno proposto che la valutazione di un pensiero come in
contrasto con il senso di sé e/o delle proprie credenze e di valori (ovvero, come egodistonico), insieme a credenze di ordine superiore riguardanti l'importanza del controllo del
pensiero siano all’origine dell’esacerbazione delle ossessioni. Dati recenti sostengono l'idea
che il disagio evocato da pensieri intrusivi è legato al contenuto delle intrusioni ed
all’autopercezione da parte dell'individuo (in Dettore, 2002; Doron, 2005).
3.2 L’approccio cognitivo post-razionalista di Guidano
Con l’approccio cognitivo post-razionalista di Vittorio Guidano il cognitivismo sposta il focus
dell’indagine dalla dimensione più strettamente descrittiva del DOC, ovvero l’analisi delle
credenze disfunzionali, agli aspetti dinamico-processuali posti alla base della strutturazione
del disturbo.
Al cuore della teoria di Guidano si pone il costrutto delle Organizzazioni di Significato
Personale (OSP), che viene applicato per spiegare la costruzione ed il mantenimento
dell’identità personale, all’interno di un continuum tra normalità e psicopatologia (Guidano,
1991).
Presentiamo di seguito gli aspetti principali di tale teoria.
28 3.2.1 Concetti fondamentali dell’approccio cognitivo post-razionalista
All’interno dello sviluppo dell’attuale approccio cognitivo post-razionalista possono essere
individuate alcune tappe principali, caratterizzate da passaggi significativi sia dal punto di
vista epistemologico, che ontologico.
La fase iniziale di tale percorso prende il via dall’allontanamento di Guidano e Liotti rispetto
al modello cognitivo allora predominante, quello americano di Beck, motivato
dall’insoddisfazione nei confronti dell’eccessiva enfasi posta sulla razionalità
nell’adattamento all’ambiente e la sottovalutazione dei processi inconsci e degli aspetti
affettivi. A tale allontanamento farà seguito la strutturazione di un approccio nel quale
confluiranno le influenze della teoria dell’attaccamento e dell’epistemologia evoluzionista. Si
colloca in questa fase del pensiero di Guidano e Liotti lo sviluppo del costrutto delle
Organizzazioni Cognitive, inizialmente concettualizzate come schemi disfunzionali di
costruzione della conoscenza, quindi come mancata aderenza ad una realtà esterna oggettiva.
La novità rispetto all’approccio cognitivo classico, presentata nel testo del 1983, consiste qui
nell’indagine, prima elusa, circa il rapporto tra pattern d’attaccamento e genesi degli schemi
cognitivi (Guidano, Liotti, 1983).
Una svolta dal punto di vista teorico è data dall’incontro con la cibernetica di Maturana e
Varela (Maturana, Varela, 1984), la cui “teoria dei sistemi” viene ripresa da Guidano ed
utilizzata come modello per spiegare come avviene la costruzione di conoscenza nell’uomo.
Questo momento, che segna la separazione tra Guidano e Liotti, prende l’avvio con i testi
“The Complexity of the Self” (1987) e “The Self in process” (1991).
All’interno di questo nuovo approccio alla costruzione di conoscenza individuale, il sistema
conoscitivo umano viene definito come “una complessità organizzata autoreferenzialmente,
che struttura ed ordina la realtà in una serie di regolarità prevedibili” (Guidano, 1987). In
questa prospettiva, l’attività autopoietica umana consente il mantenimento del senso di
individualità ed unicità personale.
Le perturbazioni che provengono dall’ambiente vengono trasformate in informazioni
significative per il mantenimento dell’ordine interno; il risultato dell’interazione con
l’ambiente è la conservazione della coerenza interna a spese dell’ambiente stesso. L’Autore si
riferisce a questo processo con il termine di adattamento, distinguendolo dall’adattamento
tradizionalmente inteso, quale modificazione delle caratteristiche dell’organismo per
conformarsi alle esigenze poste dall’ambiente esterno.
L’esito del processo di adattamento è un aumento della complessità interna, tramite la
strutturazione di livelli sempre più complessi ed integrati di funzionamento. La flessibilità
dell’organismo risulta dalla distribuzione del controllo all’interno di tale organizzazione
gerarchica. L’attività mentale è pertanto un processo di continuo confronto dei dati in entrata
con i modelli rappresentativi interni.
Il primo sistema conoscitivo aut organizzato, atto a strutturare un insieme di regolarità
ambientali e consentire la prevedibilità e l’adattamento, è rappresentato dalle sensazioni e
dalle emozioni, nella forma di schemi emozionali che si auto-organizzano gerarchicamente.
Questi schemi emozionali sono alla base della costruzione del significato personale, quale
garante del senso di unicità ed individualità personale.
La costruzione di sé avviene nell’ambito dei processi di attaccamento, che assumono diversi
ruoli nel corso della crescita. La relazione genitore-bambino è una fonte di informazioni
significative su di sé all’interno di un attaccamento reciproco (ad es. come amabile e
competente), e sulla possibilità di esplorare l’ambiente (presenza di una base sicura).
All’interno di tale relazione avviene anche l’organizzazione delle sensazioni in emozioni
fondamentali, poi organizzate in modelli sempre più integrati grazie anche allo sviluppo
cognitivo.
Vengono così a costituirsi delle “scene nucleari”, come descrizioni di situazioni prototipiche,
significativa per il loro contenuto affettivo. Queste vengono ad organizzarsi in un nucleo
29 organizzativo autoreferenziale, tale da veicolare un senso di sé e comportamenti ed emozioni
coerenti.
Nel processo di sviluppo dell’identità personale, Guidano distingue tra un livello tacito ed un
livello esplicito di conoscenza di sé.
Il livello tacito è gerarchicamente sovraordinato, ed è costituito dai processi ordinativi di base,
ovvero le regole per codificare e ordinare il flusso sensoriale; il livello esplicito è invece
costituito dai modelli rappresentativi stabili di sé e della realtà elaborati a partire dalle regole
di ordinamento tacito. Quest’ultima dimensione rappresenta il frutto dell’emergere delle
capacità riflessive, che consentono una parziale indipendenza dalla variabilità del flusso
esperienziale, insieme ad un distaccamento dall’immediatezza dell’esperienza caratteristica
della prima infanzia.
Quando giunge una perturbazione significativa dall’ambiente avviene un processo di
ricostruzione delle regole implicite di ordinamento, che viene poi esplicitato ed integrato ad
un metalivello di conoscenza esplicita, attraverso la mediazione della riflessione e della
consapevolezza.
Una scarsa capacità di astrazione, ovvero di riflessione metacognitiva e consapevole su di sè,
contribuisce all’esito psicopatologico di una perturbazione significativa, poiché non consente
quell’interazione circolare e costruttiva tra processi taciti ed espliciti alla base del
cambiamento.
La difficoltà nell’accesso esplicito e consapevole ai propri processi taciti (relativi
all’esperienza immediata) porta ad un loro affiorare in modo incongruente rispetto
all’immagine esplicità di sé, sotto forma di emozioni perturbanti e incontrollabili che vengono
percepite come estranee a sé.
Il ciclo di vita è caratterizzato da una tensione continuamente oscillante tra i due livelli di
conoscenza. Nel testo “The self in process”, Guidano aggiungerà che il Sé, che coincide con
l’identità, appare come un processo dialettico ininterrotto e continuo tra questi due poli o
processi opposti: l’esperienza immediata, l’”io” e l’immagine cosciente di sé, ricavata
dall’esperienza immediata, il “me” (1991). Il Sé viene quindi a generarsi dalla riflessione
continua sulla propria esperienza, la quale consente di rendere significativa tale esperienza.
L’identità personale risulta dall’assemblaggio di un insieme di modelli rappresentativi di sé
oscillanti tra polarità antitetiche di significato personale, che il soggetto percepisce come una
gamma di sé possibili.
In questa prospettiva, la terapia diventa una collaborazione esplorativa che aiuta il cliente a
conoscere gli assunti taciti derivanti dall’attaccamento, a partire dai quali egli crea la sua
realtà esperienziale. Solo a partire da questa scoperta, la persona sarà in grado di elaborare
autonomamente altri schemi, più funzionali. In altre parole, lo scopo della terapia non è
cambiare la logica del paziente per sostituirla con la logica, più “corretta”, del terapeuta, ma è
far sì che il paziente riconosca, comprenda e concettualizzi meglio la propria verità, in
un’ottica costruttivistica radicale.
3.2.2 Dalle Organizzazioni cognitive alle Organizzazioni di Significato Personale (OSP)
Guidano sviluppa la nozione di OSP in un secondo momento, a partire dal costrutto di
Organizzazione Cognitiva personale (Guidano, 1987). Egli ipotizza la presenza di un numero
limitato di organizzazioni, le quali danno luogo a specifici modelli di disfunzione cognitiva
ogniqualvolta si verifichino disequilibri nella loro coerenza sistemica. Queste sono
rappresentate dall’organizzazione tipo ossessiva, fobica, depressiva, disturbi alimentari
psicogeni.
Nel testo “The complexity of the Self” (1987), Guidano descrive tali organizzazioni quali
modalità specifiche ed idiosincratiche di ordinamento della realtà che forniscono stabilità al
30 senso di sé; tali organizzazioni verrebbero generate a partire dagli scritti nucleari
dell’infanzia, costruiti nell’ambito del legame di attaccamento.
All’interno delle organizzazioni cognitive vengono riconosciuti aspetti sia di chiusura (legata
all’autoreferenzialità), che di apertura (data dagli scambi con l’ambiente che consentono una
ridefinizione continua dell’immagine di sé).
Ciascun modello, inteso come una peculiare “grammatica della cognizione” si strutturerebbe a
partire da una diade centrale di polarità emotive antagoniste, tra le quali è presente
un’oscillazione ricorsiva che determina una situazione di equilibrio dinamico.
Con il testo “The complexity of the Self” prende l’avvio un’ulteriore fase del pensiero di
Guidano, che si completerà nell’opera “The Self in process” con il passaggio dal costrutto di
“Organizzazioni Cognitive” a quello di “Organizzazioni di Significato Personale”.
Le OSP vengono qui a perdere ogni diretto rimando a condizioni psicopatologiche e sono
adesso intese come particolari configurazioni caratterizzate non da specifiche disfunzioni
cognitive, quanto da caratteristici pattern emotivi ricorrenti e da uno specifico modo di
leggere l’esperienza interna. Le quattro OSP hanno origine a partire da un equivalente numero
di modelli di attaccamento.
In quest’ottica, normalità, nevrosi e psicosi si dispongono lungo un continuum, sulla base
delle capacità raggiunte dai processi d’integrazione del Sé e dalla flessibilità del sistema.
L’ultima fase del pensiero di Guidano, che prende l’avvio dagli anni ’90, consiste
nell’introduzione nella definizione delle OSP di due dimensioni di coerenza interna, la “fielddependence/filed independence” e la “inwardness/outwardness”. Non è negli scopi di questo
lavoro approfondire tale modello; basti solo dire che tale nuovo inquadramento delle OSP
appare ad alcuni più vicino alle effettive modalità processuali ed implicite di fare esperienza,
rispetto alla precedente teoria che poneva maggiormente il focus dell’attenzione sui contenuti
espliciti.
3.2.3. L’organizzazione di Significato Personale Ossessiva
La caratteristica centrale di un’organizzazione ossessiva può essere vista nell’elaborazione di
un senso di sé ambivalente e dicotomico, nel quale l’esperienza immediata è vissuta in due
dimensioni simultanee, come un senso di sè stesso d’essere alternativamente buono e cattivo o
corretto e scorretto; questo in quanto il bambino si percepisce, a livello della sua esperienza
immediata, con un doppio “io”: un io positivo, dato che è desiderato, e un io negativo,
prodotto dal sentirsi rifiutato.
Questo induce chi è portatore di questo significato ad incontrare una necessità assoluta di
certezza, come modo di risolvere gli squilibri che per lo più sono sperimentati come assoluti
difetti del controllo. Queste esperienze d’incontrollabilità si riferiscono all’emergenza di
pensieri, condotte e immagini intrusive e persistenti, che sono vissute come estranee.
Il modello di attaccamento disfunzionale è rappresentato da un comportamento genitoriale
sorretto da un’ambivalenza di fondo, rappresentata da un atteggiamento ostile e rifiutante
mascherato da una facciata di dedizione ed interesse. Tali due aspetti contradditori sono
solitamente simultanei, veicolati dai diversi canali comunicativi (il contenuto del discorso, la
voce, l’espressione del viso) e ricreano una situazione analoga a quella definita “di doppio
legame”.
Questa ambivalenza è alla base dello sviluppo nel bambino di un senso di imprevedibilità ed
incontrollabilità all’interno della relazione d’attaccamento.
Un’ulteriore caratteristica delle famiglie ossessive è l’importanza data alla comunicazione
analitico-digitale rispetto a quella analogica-immediata, che determina la prevalenza del
31 canale verbale a sfavore di quello motorio ed espressivo. I genitori attuano così una continua
svalutazione nei confronti delle attività ludiche dei figli, incoraggiando quelle intellettuali.
L’ambiente familiare si presenta come molto esigente nei confronti del bambino, con una
grande enfasi posta sui valori morali ed i principi religiosi. Viene esercitato in questo modo
un controllo sulle sensazioni corporee incompatibili con tali valori, veicolato dal messaggio
che “tali emozioni non si devono mai provare”.
Nell’ambito del contesto familiare in cui origina il DOC è possibile distinguere tra una
famiglia ambivalente coercitiva ed una ambivalente evitante. Nel primo caso, la famiglia
risulta caratterizzata da un’attenzione estremamente centrata sul figlio in termini di controllo
sia del pericolo connesso alla dimensione fisica, che quello connesso alla sfera emotiva e
morale. La famiglia ambivalente evitante è invece caratterizzata da genitori esigenti e freddi,
non supportivi, che usano l’umiliazione come punizione.
Dal punto di vista dello sviluppo dell’identità, l’ambivalenza dell’atteggiamento genitoriale
porta alla costruzione di modelli dicotomici di sé, basati sull’alternanza di amabilità e non
amabilità. Quest’alternanza nella percezione di sé si accompagna alla strutturazione di schemi
emozionali antitetici, dove le emozioni di rabbia e ostilità susseguono il senso di non
amabilità. Questo rende difficile la costruzione di una percezione di sé unitaria ed integrata.
Con lo sviluppo delle capacità cognitive, in particolare con la comparsa del pensiero concreto,
queste discrepanze diventano sempre più evidenti, ma contemporaneamente aumenta la
capacità di controllare le oscillazioni tra modelli dicotomici di sé e di adattarsi a un’immagine
di riferimento.
Questo però ha un costo, espresso dalla disattivazione dell’attenzione sui propri stati emotivi
discrepanti, e dalla produzione di attività diversive qualora queste sensazioni affiorino alla
coscienza. Queste attività sono costituite da pensieri ripetitivi (ruminazioni) connessi con
azioni stereotipate (rituali).
Un altro modo per mantenere una percezione stabile di sé, soprattutto durante l’adolescenza
dove l’emergere delle sensazioni discrepanti è più intenso, è l’adozione di una modalità di
pensiero del tipo “tutto o nulla”: questa rende possibile in ogni situazione il mantenimento di
una percezione netta di sé, che in un caso potrà avere una connotazione positiva, in un altro
caso una connotazione negativa.
Il bisogno costante di controllabilità si accompagna ad un atteggiamento perfezionistico,
quale adesione estrema, ma formale, ad un’insieme di regole e principi esterni, e ad
un’attenzione eccessiva per i dettagli a discapito della visione d’insieme (sottoinclusione). La
sottoinclusione è accompagnata da una difficoltà nel prendere una decidere circa cosa è
rilevante e cosa non lo è.
Il dubbio sistematico, volto alla ricerca dell’atteggiamento giusto in ogni situazione, diventa
la strategia privilegiata per raggiungere un’esperienza coerente e unitaria.
Tale equilibrio, assai instabile, può venire compromesso, tanto da dare origine ad una
sintomatologia clinica, da una varietà di situazioni nelle quali è difficile determinare con
esattezza gli aspetti positivi e quelli negativi (delusioni o fallimenti professionali, gravidanza,
separazioni affettive, lutti, problemi interpersonali).
L’alterazione di tale equilibrio viene espressa sia attraverso meccanismi che si manifestano a
livello esplicito, che a livello implicito.
A livello esplicito, la ricerca compulsiva di un controllo assoluto porta alla produzione di
pensieri ricorrenti ed intrusivi (ad es. ruminazioni e dubbi) e rituali, come tentativo estremo di
raggiungere una certezza, in questo caso della propria negatività e delle sue conseguenze.
A livello tacito, le emozioni e sensazioni ambivalenti in ogni caso presenti portano alla
comparsa di immagini bizzarre e vivide (ad es. la sensazione di essere sporco dentro), e la
messa in atto di corrispondenti comportamenti incontrollabili (ad es., la compulsione a
pulire).
Sia nel bambino, che nell’adolescente e poi nell’adulto, l’emergere di stati interni discrepanti
rispetto ai canoni di riferimento porterà a emozioni e comportamenti differenti, a seconda che
32 predomini il versante coercitivo o quello evitante. Ad esempio, nel caso di un bambino più
polarizzato sul versante coercitivo, la discrepanza porterà ad un aumento di insicurezza
personale, percepita come pericolosa per sé o le figure d’attaccamento; a questa farà seguito la
manifestazione di esagerate richieste di rassicurazioni nei confronti dei genitori o la
descrizione delle proprie immagini di morte alle quali possono seguire rituali di lavaggio e
controllo.
Nel caso invece del bambino polarizzato sul versante evitante, la risposta a situazioni critiche
per la stabilità dell’identità sarà più sul versante della ricerca di certezza secondo modalità
auto-compulsive, volte alla ricerca di perfezione (ad es. attraverso la ruminazione mentale e
l’analisi dei pensieri ed azioni in ricerca di possibili errori).
La disfunzione cognitiva sottostante al DOC tende a stabilizzarsi nel tempo, in quanto
percepita comunque come miglior garanzia di stabilità dell’identità personale rispetto
all’ammissione dei propri limiti e debolezze. Questa può sfociare in un disturbo di tipo
psicotico, laddove i pensieri ed i comportamenti assumono forme deliranti, nel 5% dei casi.
3.3 Efficacia dell’approccio cognitivo (comportamentale) al DOC
Gli studi relativi all’efficacia della psicoterapia ad indirizzo cognitivo hanno spesso
considerato in modo indifferenziato le terapie cognitive e le terapie cognitivocomportamentali.
Tuttavia, l’utilizzo di tecniche comportamentali, rispetto al solo intervento di modificazione
dei pensieri disfunzionali “dal di fuori”, modifica in modo significativo strategie e processi
dell’intervento psicoterapico.
La tecnica, di stampo comportamentista, dell'esposizione con prevenzione della risposta
(ERP) viene spesso considerata come il trattamento psicologico di elezione per il disturbo
ossessivo-compulsivo. Tramite l’ERP, il soggetto impara ad esporsi agli oggetti o alle
situazioni temute, e a prevenire la sua solita risposta di neutralizzazione (rituali, evitamenti,
ecc.). Ad esempio, ad una persona che teme contagi potrebbe venir richiesto di toccare
persone da lei considerate “pericolose” (esposizione) evitando di lavarsi dopo (prevenzione
della risposta). In questo modo il soggetto si abitua a compiere azioni ansiogene senza che le
conseguenze temute si manifestino. Di solito l’esposizione si svolge con una modalità
graduale, iniziando con i compiti più facili e procedendo con quelli più difficili.
Numerosi studi hanno confrontato l’efficacia dell’ERP con quella della terapia cognitiva.
Una review di meta-analisi sull’efficacia della terapia cognitiva condotta da Butler et al.
(2006) riporta alcuni dati interessanti a tal proposito. In questo lavoro vengono descritti i
risultati di alcuni studi, tra i quali sintetizziamo di seguito le conclusioni relative al
trattamento del DOC.
Una meta-analisi condotta da Van Balkom et al. (1994) ha mostrato che i trattamenti cognitivi
o cognitivo-comportamentali per il DOC portavano a sostanziali riduzioni dei sintomi DOC,
sia valutati da pazienti (ESu = 1.30), che dagli esaminatori clinici (ESu = 1,86). Inoltre, gli
effetti del trattamento sono risultati persistere a 6 mesi ed anche a 12 mesi di follow-up.
Tuttavia, questi risultati sono stati ottenuti tramite uno studio non controllato, ovvero sulla
base di un confronto tra la fase pre e post trattamento in assenza di un gruppo di controllo o
del confronto con trattamenti alternativi. Pertanto tale risultato potrebbe risentire di minacce
alla validità interna (ad esempio l’effetto della maturazione, la storia, la regressione verso la
media).
In un’altra meta-analisi, Abramowitz (1997) ha evidenziato, confrontando l’effect size della
terapia cognitivo-comportamentale con quello dell’ERP in quattro diversi studi, una pari
efficacia nei due diversi tipi di trattamento. Tali studi avevano utilizzato come variabile di
outcome delle misure comportamentali ed il punteggio ottenuto alla Yale-Brown Obsessive
Compulsive Scale.
33 Più di recente, in uno studio clinico controllato, un trattamento combinato (terapia cognitiva
più ERP) è risultato conferire vantaggi clinici superiori all’ERP da solo nel trattamento di
pazienti con DOC non rispondenti alle terapie farmacologiche (Rector et al., 2005).
In un interessante lavoro, Abramowitz e coll. discutono i vantaggi ed i limiti della terapia
cognitiva rispetto alla tecnica ERP. Gli Autori si trovano a confronto con un’ampia mole di
studi che riportano un’efficacia paragonabile tra i due tipi di trattamento, quando non
maggiore per l’ERP (Abramowitz et al., 2005). L’unico aspetto a favore della terapia
cognitiva consiste nella minor frequenza di drop-out nel trattamento.
Avendo identificato, alla base del disturbo ossessivo-compulsivo, la presenza di pensieri
disfunzionali, ed essendo proprio tali pensieri disfunzionali il target dei trattamenti di stampo
cognitivista, gli Autori faticano a spiegarsi i risultati non ottimali ottenuti dalla terapia
cognitiva rispetto a tale disturbo.
Essi giungono a considerare che anche l’ERP comporti una modificazione nei pensieri
disfunzionali, che potrebbe in questo caso venire mediata dall’esercizio comportamentale
implicato nell’ERP (come affermato da Bandura).
Abramowitz e colleghi aggiungono che in molti casi il DOC non si associa a pensieri
disfunzionali di entità clinica, ed in tali casi la terapia cognitiva risulta necessariamente meno
efficace rispetto all’ERP.
Un recente lavoro di Solem e colleghi (2009), volto ad indagare i cambiamenti di tipo
cognitivo, in particolare a livello di metacognizione, in seguito ad una terapia basata
sull’ERP, ha evidenziato come tale tecnica porti sia ad una riduzione dei sintomi
comportamentali, che a significative modificazioni a livello cognitivo.
Gli Autori si interrogano sulla relazione causale presente tra le modificazioni di tipo cognitivo
ed il miglioramento dei sintomi in seguito al trattamento, ipotizzando che possa essere il
miglioramento dei sintomi stessi a causare una riduzione delle alterazioni nella cognizione.
D’altro canto, l’ERP è basata su un processo di abituazione e pertanto non ci si dovrebbe
aspettare che agisca anche a livello della cognizione.
Di fatto, il meccanismo sottostante al cambiamento mediato dalle tecniche cognitivocomportamentali nella sintomatologia ossessivo-compulsiva è ancora ampiamente discusso,
tra gli stessi esponenti di tale approccio.
Riguardo agli approcci cognitivi al DOC di matrice post-razionalista, tra i quali il maggiore
esponente è Guidano, mancano al momento attuale studi sistematici di confronto di efficacia
rispetto ad approcci alternativi.
3.4 Considerazioni conclusive
In questo capitolo sono stati presentati due modelli teorici, entrambi di stampo cognitivista,
relativi al disturbo ossessivo-compulsivo.
E’ stato in primo luogo brevemente illustrato l’approccio cognitivista razionalista, il quale ha
fornito accurate descrizioni relative alle strutture cognitive presenti nei soggetti con DOC.
In seguito, è stata delineato l’approccio post-razionalista di Guidano, il quale dedica maggior
attenzione ai processi, su base evolutivo-affettiva, sottostanti allo sviluppo di uno stile di
personalità (OSP) predisposto alla genesi del DOC.
Abbiamo infine sintetizzato i risultati di alcuni studi di efficacia riferiti alla terapia cognitiva
(comportamentale) nel trattamento dei sintomi del DOC.
Concludiamo con alcune considerazioni.
In generale, possiamo osservare che le teorie cognitive descrivono degli schemi cognitivi
sottostanti al DOC che, tuttavia, si trovano alla base anche di diversi altri disturbi (ad esempio
disturbi d’ansia e di personalità), che paiono quindi differenziarsi solo circa il modo in cui
34 l’individuo affronta le emozioni che scaturiscono. Gli esponenti di questo approccio non
sembrano in grado di fornire spiegazioni esaurienti circa il motivo per cui ciascun soggetto
ricorra a diverse strategie e quindi manifesti una specifica sintomatologia, tipica di ciascun
disturbo. Questa scarsa specificità nelle ipotesi eziologiche è presente anche dal punto di vista
delle forme di intervento terapeutico, che tuttavia non sono state affrontate in modo specifico
in questa trattazione.
D’altro canto, gli studi di efficacia mostrano risultati poco consistenti negli effetti
dell’approccio cognitivo al disturbo ossessivo-compulsivo, laddove l’approccio
comportamentale da solo sembra consentire una riduzione sintomatologica ed una
modificazione dei processi cognitivi non spiegabile all’interno dell’approccio cognitivo al
disturbo. L’efficacia di tecniche comportamentali quali l’ERP, basata su processi di
abituazione, apre inoltre una serie di interrogativi circa i meccanismi alla base del
cambiamento in psicoterapia ed il ruolo causale della cognizione nella genesi del disturbo.
Per quanto riguarda l’approccio cognitivo post-razionalista, rappresentato dalla teoria di
Guidano, le corrispondenze tra specifico modello di attaccamento, organizzazione del
significato personale e sviluppo del disturbo appaiono forse eccessivamente regolari e
prevedibili per rendere conto della complessità del funzionamento umano. Il tentativo di
classificare nella stessa categoria situazioni anche molto diverse tra loro, riducendo la
variabilità della storia individuale alla relazione con le figure genitoriali nella prima infanzia,
appare talvolta forzato e riduttivo.
Entrambi gli approcci, sia quello cognitivista classico che quello post-razionalista, sembrano
ricercare le invarianti strutturali alla base del DOC; vengono così trascurate le dimensioni
soggettive e storiche a favore della delineazione di ideal-tipi, personaggi ridotti alla
configurazione dei loro processi interni, di natura cognitiva o affettiva.
Sebbene con il pensiero di Guidano sembri realizzarsi una maggior attenzione all’interiorità,
alla dimensione affettiva ed agli aspetti evolutivi del disturbo, non viene adottato ancora un
approccio in prima persona alla psicopatologia, capace di catturare e restituire il modo in cui
la persona dà senso alla propria esperienza. Domina, infatti, una prospettiva solipsistica e
deterministica dell’esperienza.
35 CAPITOLO 4 L’APPROCCIO ERMENEUTICO-FENOMENOLOGICO
ALLO STILE DI PERSONALITA’ TENDENTE AL DISTURBO
OSSESSIVO COMPULSIVO
Verrà di seguito presentato l’approccio alla psicopatologia ed alla psicoterapia proposto da
Giampiero Arciero e basato sul metodo dell’ermeneutica fenomenologica. Faremo quindi
riferimento ai due testi principali dell’Autore, “Sulle tracce di sé” (2006) e “Selfhood, Identity
and Personalty styles” (2009).
4.1 Dall’Io Penso Kantiano all’ermeneutica fenomenologica
Un’esperienza comune tra gli esseri umani è quella di essere costantemente immersi in
molteplici situazioni nel corso della vita, caratterizzate da diversi luoghi, lavori, relazioni e
stati d’animo, pur mantenendo sempre un senso della propria continuità, del proprio Sé. Ma
da dove origina il senso di Sé?
Il modo condiviso di riferirsi al Sé è di qualcosa che in primo luogo appartiene solo a noi
stessi, e pertanto è impenetrabile ed in qualche modo determina una condizione di solitudine
mentale in ciascuno di noi.
Questa concezione è espressa chiaramente da alcuni modi di dire, come “cosa ti passa per la
testa”, e da alcuni gesti comunicativi, come il battere le dita sulle tempie per indicare un
comportamento bizzarro del quale siamo appena stati spettatori.
In realtà, poche persone sanno che questo modo di pensare trae origine dalla prospettiva
kantiana al Sé. Egli, per spiegare il rapporto tra molteplicità delle esperienze e continuità del
senso di Sé, distingue tra un Sé come soggetto, che fa riferimento al senso di appartenenza
delle diverse esperienze nel tempo alla stessa persona, ed un Sé come oggetto, determinato di
volta in volta dall’interazione con l’ambiente e con gli altri. James riprenderà questo concetto
distinguendo tra un Io, il Sé come conoscitore, ed un Me, il Sé come oggetto della
conoscenza.
Il Sé come soggetto rimane quindi costante, quale connessione tra la molteplicità delle
esperienze sempre diverse. Kant definisce questa dimensione l’Io penso (la cosa pensante),
che origina però un’aporia, dovuta al fatto che tale ordine rimane di fatto inconoscibile e
indeterminato, a differenza della molteplicità delle esperienze.
La concezione kantiana della soggettività ha influenzato, sia dal punto di vista epistemologico
che ontologico, le teorie sviluppate nell’ambito delle scienze cognitive, in primo luogo la
cibernetica di primo e second’ordine.
La cibernetica di prim’ordine, i cui maggiori esponente sono McCulloch e Walter Pitts,
paragona la mente ad una macchina di tipo logico-matematico, che funziona sulla base di un
processo di tipo deduttivo a partire da alcune regole operazionali di base a livello dei singoli
neuroni (l’a-priori kantiano).
36 A partire da questa concezione della mente, dalla seconda metà degli anni ’70 è stata
sviluppata la teoria dei sistemi auto-organizzati, che ha spostato l’attenzione dai singoli
neuroni alle strutture globali del sistema. Quello che determina il funzionamento
dell’organismo è adesso l’insieme di interconnessioni tra le unità. L’organismo viene qui
concepito come un sistema auto-organizzato che, nel corso del proprio sviluppo, subisce delle
modificazioni rimanendo all’interno di stati di stabilità dinamica, ovvero intorno ad uno
spazio coerente che caratterizza il sistema.
Nell’ambito dello studio del Sé nella psichiatria, la teoria dei sistemi non-lineari è stata
accolta da Cloninger e adattata per lo studio della personalità. Questa viene concepita
dall’autore come un sistema complesso che evolve nel tempo e che è una combinazione di due
elementi costitutivi, il temperamento ed il carattere, all’interno dei quali sono individuabili
ulteriori dimensioni.
Il temperamento ed il carattere agiscono in modo sinergico determinando la configurazione
del sistema in evoluzione; il sistema risponderà alle perturbazioni ricercando cambiamenti
adattivi della personalità, pur fluttuando sempre intorno ad uno spazio coerente intorno
rispetto al quale si definisce l’organismo. Il principio d’ordine qui, l’a-priori kantiano, è
quindi dato dall’unità del sistema.
Un approccio successivo, sul quale si baserà il costruttivismo radicale, è costituito dalla
cibernetica di second’ordine, nella quale ritroviamo il pensiero di Maturana e Varela
(Maturana, 1988).
All’interno di questa prospettiva, gli organismi vengono concepiti come sistemi
autoreferenziali e chiusi, caratterizzati da una coerenza interna le cui caratteristiche sono
distinte e relativamente indipendenti dall’ambiente. In conseguenza di questa impermeabilità
nei confronti dell’ambiente, quest’ultimo potrà solo veicolare delle perturbazioni alle quali
l’organismo reagirà attraverso la messa in atto di cambiamenti strutturali nel sistema.
Perciò, essere un Sé implica il mantenimento dell’organizzazione del sistema attraverso
continui cambiamenti strutturali accoppiati con le perturbazioni che originano nell’ambiente
in cui il Sé si colloca. Ne discende che si realizza una profonda separazione tra la sfera
dell’esperienza vissuta, ovvero la dinamica del cambiamento interno, e la realtà esterna.
Dal punto di vista della psicopatologia, Guidano fa corrispondere i criteri di organizzazione
interna del sistema con il dominio del significato personale (1988, 2002).
Guidano descrive il modo in cui la sfera del significato personale ha origine postulando la
presenza di due livelli dell’esperienza, un livello di esperienza immediata di Sé (l’Io) ed un
livello di osservazione e riflessione consapevole sulla stessa (il Me). Riprendendo un’idea di
Maturana, per il quale non è possibile distinguere nel livello dell’esperienza immediata tra
percezione, illusione e allucinazione, Guidano propone una concezione dell’esperienza come
non significativa né informativa di per sé, ma solo in seguito ad un processo di tipo riflessivo.
Come si evince dalle teorie finora illustrate, fino a questo punto della trattazione i diversi
Autori rimangono fermi ad un livello solipsistico di costruzione del significato dell’esperienza
e ad uno studio dell’uomo che coincide con lo studio di una “res cogitans”.
Lo spostamento da uno studio dell’uomo come un “che cosa” ad uno studio dell’uomo come
“un chi” implica un cambiamento ontologico che viene introdotto da Heidegger.
Heidegger, a partire dall’approccio fenomenologico di Husserl che intende analizzare i
processi attraverso i quali la coscienza si rapporta alla realtà, sposta l’oggetto di indagine al
modo di essere della persona che compie questi atti, alla struttura fondamentale dell’essere.
Diventa necessaria un‛ “analisi esistenziale”, che ponga al centro dell‛indagine non più l‛atto,
ma l‛uomo, nelle sue dimensioni costitutive (Heidegger, 1971).
Heidegger definisce l’essere come un esser-ci, un essere situato nel mondo, nel continuo
incontro con l’Altro e le cose che mi fanno un effetto. Una nozione fondamentale è quella di
intenzionalità, come proprietà della coscienza caratterizzata dall’essere sempre diretta verso
qualcosa o qualcuno. L’esperienza non è mai isolata, ma ha sempre un riferimento al mondo e
37 nel mondo, inteso come ambiente sia fisico che culturale e sociale. La relazione è quindi, fin
da subito, costitutiva dell’essere sé, l’ambiente è costitutivo del mio esser-ci.
Per il fatto che tutto ciò che mi concerne mi fa un’impressione, per questa pienezza di valore,
l’esperienza, prima ancora che il frutto di un atto riflessivo, è significativa di per sé.
In questa prospettiva si colloca l’opera “Fenomenologia della percezione”, di Merleau_Ponty
(1965). Partendo dallo studio della percezione, Merleau-Ponty giunge alla conclusione che il
corpo proprio non è solamente una cosa, un potenziale oggetto di studio della scienza, ma è
anche la condizione necessaria dell'esperienza: il corpo costituisce l'apertura percettiva al
mondo. Per così dire, il primato della percezione significa un primato dell'esperienza, nel
momento in cui la percezione riveste un ruolo attivo e costitutivo.
In accordo con Heidegger, Merleau-Ponty sostiene che l’apertura al mondo ha a che fare
necessariamente con la corporeità, con il nostro essere incarnati in un corpo vivo che sente e
patisce e assume diverse forme in relazione alle nostre esperienze.
Si evince quindi che lo studio dell’uomo come de-storicizzato, basato sulla ricerca delle
invarianti nella costruzione dell’identità non consente di cogliere l’essere mio dell’esperienza,
e quindi perde la dimensione soggettiva e continuamente variabile della stessa.
La storicità e temporalità dell’azione sono al centro del pensiero di Paul Ricoeur. Egli,
esponente dell’ermeneutica come scienza dell’interpretazione dei testi storici, sostiene che
esista una relazione necessaria tra l’attività di raccontare una storia ed il carattere temporale
dell’esperienza umana: “il tempo diviene tempo umano nella misura i cui è articolato in modo
narrativo; il racconto è significativo nella misura in cui disegna i tratti dell’esperienza
temporale” (Tempo e racconto,1983). Questa circolarità tra tempo e racconto caratterizza ogni
investigazione ermeneutica.
Attraverso le 3 Mimesis, quali fasi del processo ermeneutico di interpretazione del racconto,
Ricoeur afferma la dimensione pre-riflessiva dell’azione, già significativa prima ancora di
essere raccontata (Mimesis 1) e l’importanza dell’Altro, che legge il racconto e restituisce il
racconto al tempo dell’agire, aprendo nuovi spazi di azione e cambiamento (Mimesis 3).
L’incontro tra la fenomenologia esistenzialista di Heidegger e l’ermeneutica di Ricoeur danno
origine all’approccio definito “ermeneutica fenomenologica”, che si esprime sul piano della
pratica psicoterapeutica con l’opera di Arciero. Dal punto di vista metodologico,
l’ermeneutica fenomenologica vede il paziente impegnato con il terapeuta nell’afferrare
l’esperienza per riappropriarsene attraverso la relazione. Dal punto di vista metodologico, la
comprensione del senso dell’esperienza per il paziente si basa sulla possibilità di restituire a
tale esperienza il contesto in cui è avvenuta, in quanto l’Altro (inteso come altra persona o in
senso generale come mondo) è costitutivo del nostro essere. In questo processo di restituzione
di senso hanno un ruolo fondamentale le emozioni che, esperite a livello del corpo,
rappresentano l’apertura di un dominio di azioni possibili nel mondo, perciò sono esse stesse
dell’ordine dell’intenzionalità e non possono essere ridotte alla dinamica interna
dell’organismo.
4.2 Introduzione allo stile di personalità tendente al disturbo ossessivo: Ipseità e
Medesimezza
Abbiamo detto precedentemente che il mutamento ontologico che si propone con l’approccio
fenomenologico ermeneutico tratta il sé, l’uomo, come un “chi”, come un se stesso che appare
in continuazione, che non è mai dato, che è la stessa esperienza che fa, perché ha una struttura
ontologica intenzionale, è presso le cose e la relazione con l’altro è un fatto ontologico stesso.
Questo accadere continuamente nel mondo e il sentirsi sempre se stesso in esperienze diverse,
in contesti diversi, con persone diverse si definisce ipseità. Per meglio gettare luce sul
concetto di ipseità, è bene chiarire che il sentirsi se stessi non emerge da alcun atto riflessivo,
38 la dimensione ontologica dell’ipseità è pre-riflessiva, è il proprio modo di essere
intenzionalmente diretto verso il mondo ed è questa continuità dell’essere gettati nel mondo,
tra le persone, nelle cose della vita quotidiana che dà il senso di continuità dello stesso sé. In
che senso? La coscienza di sé implica una profonda relazione originale e ontologicamente
costituita con il mondo e con l’alterità. L’esistenza umana è sempre un’apertura a qualcosa,
un essere con, un essere situati in questo o quel modo, in questa o quella esperienza. L’essere
sé si rivela quindi sempre nel suo vivere quotidiano, è eccentrico perché non è un sistema
chiuso ma sta nel mondo, nelle situazioni, è sempre nel momento del farsi. L’esperienza di
per sé risulta già significativa per l’uomo, il significato stesso è strutturato nell’esperienza
immediata e se l’uomo si appresta al mondo con una storia, il mondo stesso si appresta
all’uomo con dei contesti, intesi anche come possibilità di azione. Il significato emerge
proprio dall’incontro tra l’essere sé e le possibilità del mondo. L’ipseità è racchiusa in un
attimo, nel senso che ogni emozione, ogni percezione della persona, che si costituiscono
nell’esperienza nel mondo, si dissolvono nel momento medesimo in cui compaiono e la
persona continua a sentirsi se stessa ancora un attimo dopo.
Ogni esperienza non è contenuta solo nella situazione attuale, ma condensa la storia di un
uomo e le sue possibilità, anche future. E’ come se il futuro venga incontro e l’uomo possa
essere contemporaneamente nel momento attuale e dove dovrà arrivare, come nel caso di un
progetto di vita. L’ipseità è sempre dunque correlata alle cose e all’altro da sé, che siano
persone, sogni, progetti, il passato o il futuro e afferra se stessa dalle cose della vita quotidiana
con cui si ha a che fare, il lavoro, il gioco, i doveri e tutto ciò di cui sono fatte le nostre
giornate e i nostri silenzi. Queste relazioni determinano il modo in cui agisce in accordo con
determinati stati emotivi.
Il sentirsi sempre se stesso è incarnato, nel senso che il corpo è il modo in cui la persona
accede al mondo e il mondo la incontra. Il corpo, che è lo stesso corpo che le neuroscienze
studiano in terza persona, è il luogo in cui il disvelamento del mondo e delle emozioni sono
vissuti. Ognuno di noi è se stesso nell’essere incarnato nel proprio corpo e avere questa o
quella esperienza è data dal modo dell’Io corpo di essere presente in quel momento. La
coscienza stessa, nella sua intenzionalità è incarnata, è un “Io posso”, ovvero i vari modi in
cui facciamo esperienza, i diversi modi di essere pre-riflessivamente diretti verso il mondo lo
sono attraverso l’ingaggio della nostra corporeità, del nostro emozionarci. E’ in questo “Io
posso” che di volta in volta ci si ritrova in questo o in quel modo. L’elemento comune ad ogni
esperienza vissuta è dunque un entrare in rapporto a, essere rivolti verso; lo stato emozionale
stesso non è chiuso in una interiorità, ma è un modo di stare insieme, di essere nel mondo e
allo stesso tempo sentire la propria esistenza come propria, al di là del tempo e delle
situazioni.
Il proprio sentirsi in questo o quel modo sempre lo stesso, nel corso del tempo viene ad essere
conservato, la carne è il supporto dell’esperienza mentre accade, conservandone le tracce.
Quindi, insieme al fare esperienza di volta in volta, contemporaneamente questa esperienza
lascia delle tracce che ci inclinano a fare esperienza, ad emozionarci e a incontrare l’alterità in
un determinato modo che ci appartiene, che è nostro. Tale ricorrenza di sé è definita
medesimezza. La medesimezza è una sorta di permanenza di sé, in relazione a dei tratti stabili,
ma non immutabili, sono attitudini permanenti che generano azioni, emozioni e cognizioni,
riguarda abitudini, pratiche corporee e condotte etiche.
Se l’ipseità accade sempre al presente e la medesimezza è la sedimentazione dell’esperienza
in noi; nell’arco della vita c’è sovrapposizione tra le due, a livello pre-riflessivo c’è una
dialettica continua. Si possono scorgere per un attimo singolarmente quando nel nostro vivere
l’attualità come ripetizione e quindi abbiamo una certa stabilità (medesimezza), incontriamo
una novità che ci stupisce. La possibilità di generare e incontrare novità fa uscire dalla
medesimezza e dunque in tale dialettica può avvenire l’integrazione dell’elemento di novità
esperienziale.
39 Ciò che struttura il dominio pre-riflessivo è dunque sempre l’atto di compiersi, l’ipseità e la
medesimezza, con il corpo sempre messo in gioco, costituiscono il modo di organizzare
l’esperienza. Il linguaggio permette di riconfigurare il nostro accadere in una sequenza storica
temporale, creando la nostra storia e la storia costruisce il nostro personaggio che muta come
il mutare della storia. Questa dialettica tra medesimezza e ipseità, riconfigurata tramite il
linguaggio, è l’identità narrativa. L’identità narrativa modula tra ciò che rimane sedimentato
e ciò che muta, ci dà il senso di ricollocarci e di ritrovarci. Gli eventi, gli accadimenti della
nostra vita, a volte discrepanti con la medesimezza, devono essere riconfigurati nella
continuità della nostra storia. Il linguaggio che riconfigura l’azione, ci passa l’esperienza
attraverso il suono. Con il nostro racconto integriamo gli eventi in un’ unità che è l’unità della
nostra storia.
In questo modo si costituisce il personaggio a cui i fatti si riferiscono per cui l’identità
personale è data dalla dialettica tra ipseità e medesimezza nel modo di accedere al mondo e di
fare esperienza anche nell’emozione e da come ci si racconta, ovvero dall’identità narrativa.
La ricomposizione narrativa presuppone una pre-figurazione del senso delle azioni che però
risulta già inscritto nell’agire e nel sentire e nella connessione temporale stessa delle
esperienza. A livello pre-riflessivo noi stabiliamo già delle configurazioni di fatto, delle
concatenazioni che vincolano le possibilità di racconto.
Nella narrazione però possiamo permanere nel tempo e consegnare il nostro racconto a un chi
che può condividerne il senso; la narrazione permette nel senso temporale, la tensione tra
l’orizzonte dell’aspettativa, il progetto, e lo spazio dell’esperienza fatta e dunque la memoria,
dando il senso di una unitarietà narrativa. L’identità però non è mai data, non è definitiva, è
un processo che ha fine solo con la morte.
La patologia nasce dallo iato che si crea tra come una persona fa esperienza e il suo racconto
di vita, nell’incongruenza tra queste due dimensioni. Quando un evento non è integrabile nella
nostra storia di vita, ovvero è indicibile, si ha un racconto alterato che non è congruo
all’esperienza stessa. Un racconto alterato continua, nella dialettica, a generare l’esperienza
che lo ha alterato e si auto-alimenta e ogni patologia risulta essere una sorta di ripetizione
della stessa cosa.
Se l’ipseità è il modo in cui ci sentiamo situati e ha supporto nel corpo, noi ci sentiamo
sempre nell’emozione e se essa è comprensiva dell’alterità noi costruiamo la nostra stabilità
emotiva o centrata su noi stessi o sull’Altro da noi. Differenti categorie di persone avvertono
in modo diverso una stessa emozione. Arciero, nel suo scritto “Le tracce di sé”, riporta a
questo punto come ci siano due modi per sentirsi situati. Una persona può orientare la
percezione della propria stabilità personale secondo un frame di referenze che per situarsi usa
in prevalenza un sistema di coordinate centrate sul proprio corpo. Questo stile emotivo è
definito inward ed è una tendenza che caratterizza diversi stili di personalità, la cui peculiarità
comune è la ricerca della stabilità personale, privilegiando la messa a fuoco degli stati interni.
All’altro polo c’è chi per situarsi emotivamente usa in prevalenza un sistema di coordinate
esterno a sé, l’Alterità diventa una possibilità di co-percepirsi. L’alterità può situarsi nelle
altre persone, nel mondo delle cose o in un set di regole impersonali o di norme morali e
religiose.
Per una personalità che si organizza avendo come punto di riferimento l’alterità, è complesso
scindere il senso di sé dalla definizione, come dice Arciero “sentita, immaginata, ascoltata o
allucinata” dell’Altro.
40 4.3 Lo stile di Personalità tendente al disturbo ossessivo-compulsivo
Nel continuum tra i poli inward e outward, lo stile ossessivo-compulsivo si pone sul versante
outward. Infatti, la caratteristica strutturale di questo stile di personalità è stabilmente ancorata
ad un sistema di coordinate esterne sulle quali si basa la percezione di sé. Il sentirsi
emotivamente situato si genera dalla conformità ad un ordine stabilito e il modo di fare
esperienza è continuamente riferito ad un determinato set di referenze esterne.
L’alterità in questo caso può essere rappresentata da norme impersonali che siano religiose,
morali, scientifiche o che trattino di convenzioni sociali. Si tratta dunque di un’alterità che è
in qualche modo astratta, è indipendente dalle persone e se vi è una relazione con gli altri,
essa è mediata da certi sistemi di riferimenti che la persona ritiene fondamentali. I rapporti
affettivi e le relazioni intime sono caratterizzati da quella che Arciero definisce come
un’alchimia di preoccupazione e distanza, sollecitudine e indifferenza, severità e dedizione.
L’ipseità acquista significato attraverso la sua corrispondenza a delle referenze impersonali,
che allo stesso tempo mediano l’incontro stesso del soggetto con il mondo. Nel momento in
cui questa adesione barcolla o viene meno, il soggetto avvertirà una distanza tra la sua
esperienza e il senso del sistema di riferimento. L’assenza di corrispondenza tra esperienza
vissuta e l’intero sistema impersonale di significati genera una condizione percepita dal
soggetto come disgregante la propria integrità e il proprio senso di stabilità. Un esempio
potrebbe essere quello di un marito cattolico devoto alla moglie che ha sempre creduto che il
matrimonio fosse per sempre e un giorno si accorge di essere innamorato di una giovane
donna che gli accende emozioni forti. A questo punto il suo sistema riferimento personale, il
suo senso di essere un marito retto e devoto, si scontra con l’esperienza di sentirsi innamorato.
Questo può avere un impatto critico sul mantenimento della stabilità personale.
In effetti situazioni affettive o emotive di intensità e qualità non prevedibili, come la
gravidanza, un lutto o momenti di per sé già critici dell’esistenza come l’adolescenza possono
destabilizzare il senso di adesione della propria esperienza al sistema di riferimento.
L’alterazione tra il sistema di significato e la propria esperienza crea un senso di indecisione,
insicurezza e incompletezza in quanto c’è una continua ricerca di corrispondenza tra ciò che si
vive, tra le proprie azioni e i propri pensieri e il sistema esterno con cui la persona si copercepisce. Molto tempo viene speso nel riflettere e nel ripensare, nel rimurginare sugli
episodi in modo da valutare ogni singola conseguenza delle proprie azioni e la possibilità di
evitare in futuro di discostarsi dal proprio sistema di riferimento.
Gli studi di neuroimaging sembrano, come abbiamo visto nel capitolo dedicato, confermare
questa visione. In effetti si è studiata l’attività disfunzionale della regione cingolata, correlata
pare al monitoraggio di situazioni in cui un soggetto erroneamente interpreta errata una
azione o prevede conseguenze negative. La regione ventrale della corteccia cingolata, che è la
parte più affettiva e connessa strettamente con il sistema limbico, sembra mediare
l’espressione clinica dell’ansia associata ai processi di valutazione delle situazioni.
Se è proprio la corrispondenza tra la propria esperienza e le coordinate esterne che permette
ad un soggetto con questo stile di personalità di assicurarsi la propriatezza dell’esperienza
stessa e il sentirsi situato, da un punto di vista emotivo le emozioni non basiche sono quelle
preponderanti. Queste emozioni originano dal fatto che questi soggetti co-percepiscono i loro
sentimenti e le loro azioni attraverso i valori del proprio sistema di riferimento, grazie al quale
essi valutano il loro modo di comportarsi. Si tratta quindi di emozioni rivolte su di sé quali la
vergogna, l’orgoglio o la colpa derivanti dalla valutazione delle proprie azioni, o l’imbarazzo
dovuto alla condivisione di spazio e azioni con altre persone. Fanno parte del set emozionale
di questo stile di personalità anche il disgusto, la rabbia correlati con la sensazione di
disattendere e di violare l’ordine prestabilito dal proprio sistema di riferimento. Anche le
emozioni stesse devono essere corrispondenti ai valori di riferimento e acquistano significati
diversi in persone diverse a seconda di quale sia il sistema di riferimento. Gli aspetti cognitivi
41 di valutazione, la previsione di eventuali conseguenze che discostano i loro atti dalle norme
che li dovrebbero regolare fanno ritenere che ci sia una sorta di “ipertrofico sovrasviluppo di
aspetti cognitivi” (Arciero), come confermano anche i dati di neuroimaging.
Il cuore dell’ipseità, dunque di questo stile di personalità, giace sull’aderenza a un sistema
impersonale di significati che può configurarsi in vari modi. Tale aderenza conferisce ordine
al mondo e alle proprie esperienze dando un senso di stabilità personale. L’alterazione di
questo sentirsi situati che si genera dalla distanza dell’esperienza dal sistema di riferimento,
provoca quella che viene definita “imperfezione psicologica”, che spinge i soggetti in
manifestazioni quali l’indecisione nella sfera dell’azione, il dubbio nella sfera cognitiva e un
senso di forte inquietudine a livello emotivo, che sono tratti caratteristici della personalità
ossessiva. In questo senso Arciero cita Janet.
Quando determinati comportamenti sono vissuti come non completamente aderenti al sistema
di riferimento, il soggetto con questo stile di personalità percepisce un senso di
incompletezza. Tale incompletezza focalizza l’attenzione del soggetto ad un’ analisi
dettagliata del presente, limitando il proprio senso di iniziativa. Ecco come questa ricerca di
conformità assoluta al sistema di significati esterni, porta a due tratti caratteristici dello stile di
personalità ossessivo-compulsivo, ovvero il perfezionismo e l’indecisione.
Il perfezionismo della personalità è un perfezionismo strutturale, implicito nel bisogno di
aderire ad un sistema di significato per potersi co-percepire. Il perfezionismo rappresenta il
tentativo di assicurarsi o ristabilire la sicurezza di attenersi scrupolosamente al sistema
impersonale di significati e questo nel disturbo ossessivo-compulsivo conduce alla messa in
atto di comportamenti ritualistici di controllo, ad una attenzione eccessiva a dettagli che
appaiono irrilevanti ad un osservatore esterno e ad una accuratezza sopra le righe nel
compimento di azioni. In questo senso, la messa in atto di comportamenti o atti mentali
ripetitivi e ritualistici messi in atto nel disturbo ossessivo-compulsivo hanno il potere di
mentenere controllata l’ansia.
E’ possibile distinguere all’interno all’interno del perfezionismo strutturale di questo tratto di
personalità tre forme che permettono l’ancoraggio del senso di sé. Sono caratteristiche del
disturbo ossessivo-compulsivo e mediano la relazione con il mondo, con se stessi e con le
altre persone, si tratta della scrupolosità, dell’accaparramento e della compiacenza logica.
La scrupolosità è definita come un particolare perfezionismo strutturale che porta il soggetto
ad assegnare senso all’esperienza in base a norme di carattere religioso o morale. In questo
contesto, Arciero pone l’accento su come il corpo viene ad acquistare un ruolo centrale in
quanto può diventare fonte di esperienze che non aderiscono ai principi morali della persona e
perciò percepito come immorale e peccaminoso. I temi più comuni sono quelli riguardanti la
sessualità e le emozioni percepite la rabbia, l’invidia. Nel disturbo si possono ritrovare
ossessioni religiose, sessuali e aggressive.
Se ad esempio un uomo esperisce l’emergenza di una fantasia o di un’attivazione sessuale non
conformi alle sue norme morali, egli la sente come aliena a sè, non la riconosce come propria,
nella misura in cui non si conforma con il set di regole con cui co-determina la sua esperienza.
La conseguenza è un’alterazione del proprio sentirsi situati e questo accende un profondo e
stabile senso di insicurezza, di incertezza sulla propria rettitudine morale.
Tale condizione porta ad un aumento della vigilanza riguardo ai propri pensieri, parole e
azioni nel tentativo di individuare anticipatamente qualsiasi violazione peccaminosa anche
nelle circostanze più disparate, controllando qualsiasi atto proprio e del contesto. Il bisogno di
attenersi alle regole ne rinforza l’adesione, aumentando il perfezionismo e generando un
circolo vizioso.
Questi processi determinano vergogna e colpa, aumentano i dubbi e gli atti mentali volti ad
analizzare qualsiasi dettaglio, la mente è ingombrata da dialoghi interni che ricostruiscono gli
episodi al fine di valutare ogni conseguenza. Un altro disagio correlato alla scrupolosità è il
sorgere di pensieri intrusivi e non voluti, con cui il soggetto lotta al fine di scacciarli, con il
risultato di aumentarne la frequenza. Forse si può creare un collegamento tra questa
42 manifestazione clinica e i dati di neuroimaging, che pongono l’attenzione sul circuito
prefrontale dorso-laterale attivo nello shift attentivo e nello sforzo dei soggetti nell’allontanare
i pensieri ossessivi, come descritto nel capitolo sulla neurobiologia del disturbo. Rituali
compulsivi e mentali vengono messi in atto per ridurre l’ansia, seppure coinvolgano la
maggior parte delle giornate e consumano molti sforzi.
L’accaparramento è la seconda forma di perfezionismo strutturale ed è più legato alla
relazione del soggetto con il mondo, piuttosto che con un sistema di regole come nel caso
precedente.
L’accaparramento compulsivo clinicamente consiste nel collezionamento o nella
conservazione di oggetti di poco valore (giornali, vecchi vestiti, ecc..), che spesso diventano
una quantità tale da diventare un vero e proprio ingombro nello spazio di vita. Il soggetto
impiega molto tempo e energie nell’attività di accaparramento, mettendo da parte anche
qualsiasi altro impegno della vita di tutti i giorni.
Il cuore di questo disordine nel disturbo ossessivo-compulsivo sta nella co-percezione con un’
alterità costituita da oggetti inanimati che il soggetto continua ad accumulare. Essa diventa il
sistema di adesione esterno che crea la situatezza della persona.
Si possono distinguere due modalità di accaparramento, o, termine utilizzato in letteratura,
“hoarding”. La prima è tipica di chi accumula oggetti o roba di poco valore, con un valore di
potenziale utilità in un futuro. Il soggetto sente che potrebbe presentarsi una situazione in cui
ciò che lui ha accumulato fornisca una soluzione in caso di pericolo o difficoltà proiettata nel
futuro. In questo modo sente la responsabilità di accumulare oggetti per affrontare possibili
situazioni eccezionali. In tal caso la relazione tra l’esperienza e gli oggetti sta
nell’anticipazione di un set di elementi concreti e stabili che danno la percezione di poter
controllare la relazione con il mondo stesso legata al futuro.
La seconda modalità riguarda l’accumulo di oggetti con un certo valore sentimentale, nel
senso che sono legati a momenti importanti e significativi della vita dell’individuo. Questi
oggetti (foto, libri, biglietti, ecc.), rappresentano un legame con la storia della persona,
possiedono un valore unico e insostituibile perché collegato a cari momenti della vita o a
persone ritenute importanti. Questa modalità ancora il soggetto alla memoria del passato e gli
consente di riferire la propria esperienza ad un mondo di significato costituito da questi
oggetti.
In entrambe le modalità, l’accumulo di oggetti consente il sentirsi situato e il soggetto sente
come catastrofica la possibilità di perdere il proprio patrimonio di oggetti perché questo gli dà
un senso di sicurezza e senza sentirebbero spezzato il legame con la sua stessa storia di vita.
Il profondo e pervasivo senso di insicurezza che attanaglia la persona con questo disordine, lo
conduce a cristallizzare il tempo tramite il possedimento delle cose.
La compiacenza logica corrisponde al sentirsi situati rispetto ad un sistema di riferimento
esterno che è rappresentato da valori incarnati da altre persone ritenute significative. Se il
soggetto percepisce un’assenza di conformità a tale sistema di valori, sente un forte imbarazzo
morale, vergogna, senso di non essere degno e senso di vuoto. Il senso di vuoto, la colpa, per
non riuscire ad attenersi ai principi degli altri crea un senso di incertezza che genera dubbio e
immobilità fino a focalizzarsi sul corpo per sentirsi, per coprire quel vuoto esperienziale. In
clinica si assiste a disordini, in questo senso come i disordini alimentari, la tricotillomania e
ad esempio i comportamenti auto-lesivi. I disordini alimentari in questo senso possono essere
letti alla luce della ricerca di conformità del soggetto ad un sistema di riferimento che lo
definisce.
Arciero ci dice che accanto al perfezionismo, altri tratti caratteristici sono l’indecisione e il
dubbio. Qual è il loro significato? Essi sono connessi con la previsione di conseguenze
derivanti dai propri stessi comportamenti, dalla possibilià che un atto possa portare a risultati
inattesi e catastrofici perché a livello pre-riflessivo si ha la sensazione di demarcarsi dal
proprio sistema di riferimento. Questo conduce ad una paralisi o comunque una importante
lentezza nel prendere decisioni e ad un blocco dell’iniziativa per la valutazione di ogni
43 singolo datteglio dell’azione. Correlata alla anticipazione di eventuali conseguenze negative si
trova una patologica percezione di senso di responsabilità, nel senso di sensazione
disfunzionale di possedere il potere di arrecare o prevenire importanti danni per gli altri, come
nelle ossessioni di poter fare del male o uccidere o per sé, come nelle ossessioni patologiche
di controllo. Ciò che fa percepire un senso di responsabilità patologico è l’incapacità di
distinguere ciò che è rilevante da ciò che non lo è e quindi anche questo contribuisce al blocco
dell’iniziativa di cui parlavamo prima.
Riassumendo, il cuore del disturbo ossessivo-compulsivo secondo l’approccio ermeneuticofenomenologico di Arciero vede la persona ancorata nella sua situatezza ad un sistema di
riferimento esterno che media e cristallizza la relazione con se stesso, con gli altri e con il
mondo. Nel soggetto in cui il tema della scrupolosità è preponderante, l’esperienza personale
acquista significato in relazione a un set di regole a cui aderire, in chi ha eccessiva necessità
di accaparramento, la stabilità personale è sostenuta dalla relazione con le cose inanimate.
Nell’individuo in cui la compiacenza acquista significato estremo, il senso di sentirsi situato
dipende da un sistema di valori incarnato da altri. Tale sistema morale a cui aderire,
rappresentato dagli altri può prendere la forma di una serie di princìpi estetici o formali,
convenzioni sociali condivise con gli altri.
In accordo con questa visione, che si discosta da quella cognitivista post-razionalista, le
ossessioni, quali componenti caratteristiche del disturbo, insieme alle compulsioni, hanno
origine dalla mancanza di corrispondenza tra la propria esperienza e il sistema di referenze
attraverso il quale l’esperienza stessa acquista significato. Questa mancanza di corrispondenza
genera quel disagio emozionale in cui la persona sente contemporaneamente l’esperienza
come propria, ma anche come aliena perché si discosta dalle coordinate dell’alterità. Il
contenuto delle ossessioni dipende dall’origine del senso di incertezza. Può quindi riguardare
il soggetto in relazione con se stesso e il suo sistema di regole come nelle ossessioni religiose,
sessuali o connesse al timore di commettere crimini, di essere matti o alla paura della morte e
della malattia. Può riguardare la relazione con il mondo e quindi le ossessioni sono di
contaminazione, accaparramento, precisione e simmetria o controllo. Se il contenuto pertiene
alla relazione con gli altri, allora acquistano significati che riguardano il corpo, come nella
tricotillomania e nei disordini alimentari.
Le compulsioni invece permettono al soggetto di arginare il disagio emozionale nel presente
perché consentono, grazie alla loro struttura di ristabilire una connessione tra l’esperienza e il
sistema di significati. Anche le compulsioni possono essere centrate su di sé, come nel caso di
atti purificatori nel caso di ossessioni ad esempio religiose o nel controllo legato invece al
pensiero ossessivo di fare del male. Possono altresì essere centrate sulla relazione
dell’esperienza con il mondo delle cose come nel caso di compulsioni tendenti all’ordine e
alla precisione o a evitare la contaminazione. Se sono centrate sulla relazione con gli altri, ad
esempio si possono avere compulsioni legate all’ossessione della bruttezza e allora molto
tempo può essere speso nel guardarsi allo specchio o nella cura di sé.
Sia per le ossessioni che per le compulsioni anche i dati neurobiologici confermano
l’attivazione di aree differenti per sintomi diversi, come ad esempio le aree dell’insula e
tipicamente correlate al disgusto nelle ossessioni riguardanti la pulizia e la contaminazione o
l’attivazione disfunzionale dello striato in particolare nelle compulsioni legate al controllo.
Per una trattazione più ampia si rimanda al capitolo sui dati neuroanatomici.
Alla luce di ciò che abbiamo scritto, il disturbo ossessivo-compulsivo nasce quindi da
un’alterazione del senso di situatezza del soggetto, che sperimenta un senso di perdità di sé
perché non sente più la propria esperienza adesa al proprio sistema di riferimento. Esperienza
che deve essere riconfigurata in una trama narrativa che definisce la sua storia che è peculiare
di quella persona, come lo è il sistema di significati con cui si co-percepisce.
Questo stile, così come anche gli altri, non è una categoria che racchiude la persona
nell’intero arco della sua vita, ma può essere caratteristico di un momento della sua vita.
44 CAPITOLO 5
DISCUSSIONE E CONSIDERAZIONI CRITICHE
Abbiamo cercato di apportare durante la trattazione di ogni parte di questa tesi alcune
considerazioni critico-costruttive, in quanto ci sarebbe risultato complesso racchiuderle
unitariamente in un ultimo capitolo. Alla luce del nostro percorso formativo ancora in essere
ci siamo ritrovate a confrontare “on-line” le conoscenze fino ad oggi maturate relative alla
fenomenologia, alle neuroscienze e all’approccio ermeneutico fenomenologico alla psicologia
e alla clinica proposto da Arciero e Liccione con i modelli attualmente proposti dalla
letteratura corrente sul disturbo ossessivo-compulsivo. Abbiamo trovato molto difficile
confrontare e integrare le diverse fonti relative all’eziologia, la clinica e le terapie elettive di
questo disturbo in quanto è ancora ampiamente dibattuta sia l’eziopatogenesi che
l’inquadramento diagnostico e fenomenico del disturbo. Come abbiamo visto nel primo
capitolo, relativo alle caratteristiche generali del DOC, in ambito nosografico-descrittivo esso
viene inquadrato all’interno dei disturbi d’ansia. Questa scelta sembra giustificata in primo
luogo dall’esperienza soggettiva riportata dai pazienti, che portano alla clinica sentimenti di
ansia marcata in riferimento agli impulsi e ai pensieri vissuti come intrusivi e inappropriati. Il
DSM riporta anche in questi pazienti dei comportamenti di evitamento delle situazioni che
riguardano il contenuto delle ossessioni che vengono così a costituire una sorta di stimolo
fobico. Seppure il DSM si proponga in una veste a-teoretica e solamente descrittiva, ci pare
che il modello cognitivo-comportamentale si sovrapponga nella spiegazione del meccanismo
funzionale sotteso a quella che l’approccio nosografico propone come una descrizione. Nel
modello di Mataix- Coils et al., definito “ciclo del disturbo ossessivo-compulsivo”, le
ossessioni, quali pensieri intrusivi ed involontari, generano livelli significativamente elevati di
ansia; le compulsioni sono atti ripetitivi messi in atto allo scopo di ridurre l’ansia generata
dalle ossessioni. Il sollievo dall’ansia risulta solo temporaneo, in quanto successivamente i
rituali vengono messi in atto in modo automatico e portano ad un aumento, anziché ad una
riduzione, dell’ansia. In letteratura abbiamo trovato che l’alternativa all’inclusione del DOC
nei disturbi d’ansia è la sua collocazione all’interno di uno spettro di disturbi ossessivocompulsivi. Questa proposta si basa su un’assunzione di continuità polarizzata su due estremi,
l’impulsività e la compulsività. Secondo tale prospettiva, da una parte del continuum ci
sarebbero i disturbi compulsivi come il DOC, l’ipocondria, il disturbo da disformismo
corporeo e l’anoressia nervosa; dall’altra parte, si collocherebbero i disturbi caratterizzati da
aspetti impulsivi come il gioco d’azzardo patologico, le compulsioni sessuali, le varie forme
di dipendenza. In questo modo vengono a trovarsi insieme disturbi ed espressioni
sintomatologiche da un punto di vista eziologico e fenomenico molto differenti.
Questa proposta non è stata confermata empiricamente, tuttavia anche il modello che propone
che non si parli di spettro ma di una sotto-categoria del disturbo d’ansia, fatica a giustificare il
fatto che oltre alla paura abbiano un ruolo importante nella sofferenza soggettiva altre
emozioni, quali il senso di colpa e la vergogna. In effetti, come abbiamo già visto nel capitolo
sugli aspetti neurobiologici, le vie neurofisiologiche che sottendono all’espressione emotiva
del disturbo, sono maggiormente riferibili ad un’attivazione corticale piuttosto che viscerale,
tipica delle emozioni non basiche.
Questi dibattiti ci portano ad una riflessione e ad alcune domande aperte.
45 Secondo noi, la difficoltà riscontrata nell’individuazione di categorie univoche e coerenti non
viene percepita come frutto di una fallacia epistemologica ed ontologica di base, rappresentata
dall’incapacità di andare oltre all’adozione di un approccio in terza persona. Questo non vuol
dire che quest’ultimo vada escluso, ma deve essere chiaro che, se è elettivo nelle scienze
naturali e può essere utile nello studio della psicopatologia, non ha niente a che fare con la
comprensione del singolo individuo e quindi con la clinica psicoterapica.
Anche una recente proposta di basare le nuove categorie diagnostiche contenute nel DSM-V
sulla condivisione di analoghe alterazioni dei processi neurobiologici sottostanti sembra porsi
in questa prospettiva in terza persona.
Saremmo perplesse dall’utilizzo di modelli neurobiologici per la caratterizzazione dei
disturbi, in quanto gli studi condotti non hanno la pretesa di fornire ipotesi eziopatogenetiche
o descrittive dei sintomi. Diversamente si propongono correlazioni tra l’attivazione di
determinati circuiti neuronali e situazioni di laboratorio che prevedono risposte emotive o
cognitive. Dobbiamo ricordare che il riduzionismo, nelle neuroscienze è una condizione
assolutamente necessaria. Niente ci viene detto sulla storia dell’uomo che è nella macchina
della risonanza magnetica e non è possibile neanche ricreare in laboratorio i contesti che
quell’uomo incontra nella sua quotidianità. Gli esperimenti non rendono conto dell’esperienza
della persona che incontra in modo intenzionale l’Altro. E’ la questione del problema facile,
di cui abbiamo parlato proprio nel capitolo dei modelli neurobiologici. L’aspetto
maggiormente preoccupante di tale proposta è che il motivo per cui non è stata accettata è la
mancanza di dati coerenti dalle ricerche finora condotte; sembra che ancora nessun dei
sostenitori o oppositori di tale proposta si sia posto la domanda se tale omogeneità potrà mai
essere rilevata!
Ovviamente, con ciò non si intende significare che non vi sia una connotazione anche
neurobiologica del disturbo, in quanto questa è presente e significativa, ma che dei dati PET o
fMRI perdono il loro significato se non vengono inseriti in una cornice interpretativa, ed allo
stesso tempo ogni esperimento è basato su un preciso modello teorico. Ogni dato ottenuto
dagli studi neuro scientifici può venire utilizzato in modo strumentale per sostenere un
modello teorico piuttosto che un altro. Gli stessi autori quando riportano i limiti degli studi
sostengono che sono state scelti determinati circuiti o aree neuro anatomiche a priori,
cercando un po’ di convalidare determinate ipotesi teoriche sottostanti il funzionamento
stesso. Nello stesso disturbo ossessivo-compulsivo, si possono delineare diverse
interpretazioni riguardanti gli studi. Noi abbiamo cercato di interpretare i dati del modello
neurobiologici che abbiamo riportato nel capitolo relativo agli aspetti neuro scientifici alla
luce dell’approccio ermeneutico-fenomenologico.
Nella nostra trattazione abbiamo affrontato soprattutto l’approccio cognitivo derivato da
Beck, quello cognitivo post-razionalista di Guidano e quello ermeneutico-fenomenologico di
Arciero. E’ evidente come l’approccio ermeneutico-fenomenologico si discosti nel profondo
rispetto all’approccio cognitivista razionalista e post-razionalista che l’hanno preceduto.
Innanzitutto è presente in tali modelli uno iato rispetto alle recenti scoperte del gruppo di
Parma relative ai neuroni canonici visuo-motori e al sistema mirror, che hanno fornito delle
basi empiriche alle riflessioni fenomenologiche relative all’ontologia. L’uomo non è più visto
come un sistema chiuso auto-referenziale ma come un essere sempre presso il mondo che lo
circonda, e che offre costantemente delle possibilità d’azione. Non siamo più noi che diamo
significato alle cose in modo riflessivo, ma il significato delle cose sta nell’incontro (né in
noi, né nella cosa). “L’evidenza del sentire non si fonda su un cogito o su una coscienza ma
sul movimento del nostro essere al mondo, un partecipare alla cosità del mondo che è
“veduta preoggettiva” (Merleau-Ponty). Noi non siamo determinati una volta per sempre, ma
accadiamo continuamente nel mondo, comprendiamo gli altri e noi stessi senza alcun atto
riflessivo e la conferma neuroscientifica di questa comprensiono pre-concettuale si ritrova
negli studi sui neuroni a specchio.
46 Al contrario, solipsismo e determinismo sono presenti sia nell’approccio cognitivo
razionalista che nell’approccio post-razionalista di Guidano. Né l’uno, né l’altro prendono in
considerazione il contesto, storico e relazionale, dell’esperienza portata dal paziente, il quale è
costitutivo della stessa. In particolare, Guidano riconduce l’esperienza di questo momento ad
una struttura affettivo-relazionale che ha avuto origine nell’infanzia, a partire dal legame di
attaccamento, isolandola dalla cornice di riferimento storica. La stessa tecnica della moviola,
utilizzata in questo approccio teorico, mette tra parentesi il mondo per portare alla
consapevolezza i meccanismi di funzionamento latenti. E’ questa una derivazione dell’a-priori
kantiano, che non tiene conto della struttura profondamente intenzionale della nostra
coscienza.
All’interno del disturbo ossessivo-compulsivo, abbiamo ritrovato dei punti di rottura
importanti tra i due approcci. Vorremmo soffermarci, ad esempio, sul concetto di
perfezionismo, che la maggior parte degli Autori riporta come caratteristico del disturbo.
Nella trattazione di Arciero relativa allo stile di personalità tendente al disturbo ossessivocompulsivo, il perfezionismo è una caratteristica strutturale dello stile di personalità che si
può declinare nella scrupolosità, nell’hoarding o nella compiacenza logica, ma che permette
sempre all’individuo di aderire a un sistema di riferimento esterno per dare senso alla propria
esperienza, sentendola come propria. Per Arciero, quindi, il perfezionismo è un modo per
ristabilire la certezza del senso della propria esperienza Nel cognitivismo, invece, il
perfezionismo, è visto come pensiero disfunzionale importante per la genesi del disturbo e
conseguente all’indecisione. L’indecisione stessa, in Arciero, è dovuta alla ricerca,
nell’azione, di una conformità assoluta al sistema di significati esterni, limitando per questo il
senso d’iniziativa e cristallizzando il soggetto in un’impossibilità ad agire. Pertanto, il
perfezionismo e l’indecisione, piuttosto che possedere connotazioni esclusivamente cognitive,
sono intrinseche all’esperienza stessa.
Rispetto alla psicopatologia, per Guidano essa origina da una dialettica interrotta tra aspetti
impliciti e aspetti consapevoli di sé, così che la psicoterapia consiste nel far sì che il paziente
riconosca, comprenda e concettualizzi meglio la propria verità, nel caso del DOC
rappresentata dalla propria configurazione di significato personale ossessiva. Arciero invece
legge la psicopatologia come un disancoraggio dell’esperienza dai sistemi di coordinate
esterne che porta l’individuo a non riconoscere l’esperienza come propria, a viverla come
aliena; pertanto la psicoterapia consente il riappropriarsi della propria esperienza riportando
l’esperienza dentro al mondo e il mondo nell’esperienza, riconfigurandola nell’identità
narrativa.
Non esiste quindi un livello meta che riflette sul proprio funzionamento per mantenerne la
stabilità, ma tale stabilità è mantenuta attraverso la riappropriazione dell’esperienza, che può
avvenire solo tramite il linguaggio.
La psicopatologia, per Arciero, altera la relazione con sé stesso, con il mondo e con gli altri e
questa alterazione è alla base del sentimento di incertezza che caratterizza l’individuo con
disturbo ossessivo-compulsivo nonostante l’eterogeneità delle sue manifestazioni
sintomatiche. Il contenuto delle ossessioni dipende proprio dall’origine del senso di
incertezza, può quindi riguardare il soggetto in relazione con sé stesso ed il suo sistema di
regole, come nelle ossessioni religiose, sessuali o ipocondriache. Se riguarda la relazione con
il mondo i pensieri acquistano un contenuto ad esempio di contaminazione, hoarding o
simmetria. Se invece pertiene alla relazione con gli altri acquista significato il corpo, come ad
esempio nei disordini alimentari e nella tricotillomania.
Un aspetto che ci ha colpito particolarmente è l’attenzione al tempo della storia
dell’individuo. Nel caso dello Stile di personalità tendente al disturbo ossessivo-compulsivo,
c’è sempre una tensione con il futuro ed una necessità di aderenza al passato. Il futuro deve
47 essere sempre anticipato, controllato e previsto in tutti i suoi aspetti; il passato deve essere
trattenuto, pena la perdita della propria identità, tramite il possesso di oggetti inanimati, ma
che creano un forte legame con le memorie dei momenti e delle relazioni salienti della propria
storia di vita. Ciò che appare è una sorta di interruzione della permanenza di sé nel tempo, che
non necessita di riflessione “alla Guidano”, ma avviene nella riconfigurazione narrativa che
permette all’individuo di “surfing in his/her time”.
In questi soggetti, c’è uno sforzo per tenere insieme elementi esperienziali che di per sé
appaiono slegati. Ad esempio nell’hoarding “sentimentale” c’è la necessità di tenere da conto
oggetti con valore affettivo perché questi ancorando il soggetto alla memoria del proprio
passato gli consentono di tenere insieme la propria storia personale. In un’altra forma di
hoarding, chiamata “strumentale”, l’accumulo di oggetti potenzialmente utili fornisce la
percezione al soggetto di controllare la relazione con il mondo seppure proiettata in un tempo
futuro.
In nessun altro approccio teorico è stata posta una tale attenzione alla storicità e temporalità
dell’individuo; al contrario, è evidente uno sbilanciamento nel valore attribuito ai primi anni
di vita, che non rendono giustizia neanche alla totalità della dimensione temporale del passato,
ma solo ad una sua parte. Questo modo di rapportarsi alla storicità dell’individuo è in realtà
un modo di non rapportarsi alla stessa, in quanto elude la nostra tensione verso il futuro e il
nostro essere sempre nel momento del farci.
Un ulteriore approccio che, pur non avendo affrontato esaurientemente, riveste un ruolo
importante nella clinica del DOC è rappresentato dalla terapia comportamentale. Abbiamo
citato, nel corso della trattazione, la tecnica di esposizione con prevenzione della risposta
(ERP) che da molti è considerato il trattamento elettivo del disturbo ossessivo-compulsivo.
Come spiegarci, alla luce delle precedenti riflessioni sull’approccio ermeneuticofenomenologico, l’efficacia di una terapia basata su un processo di abituazione, e come può
tale tecnica di natura sostanzialmente comportamentista andare a modificare non solo i
sintomi ma anche le disfunzioni cognitive sottostanti il disturbo? Alcuni tra gli stessi
rappresentanti del cognitivismo si interrogano sulla relazione causale presente tra le
modificazioni di tipo cognitivo ed il miglioramento dei sintomi in seguito al trattamento,
ipotizzando che possa essere il miglioramento dei sintomi stessi a causare una riduzione delle
alterazioni nella cognizione.
Dal nostro punto di vista, una possibile spiegazione può essere individuata nella pratica stessa
di questa tecnica, ovvero nella “gettatezza” totale nell’esperienza, che ne modifica a livello
pre-riflessivo il modo stesso di viverla con il proprio corpo in quella determinata situazione.
Non è la cognizione che cambia la cognizione, ma è l’esperienza, declinata nell’emozione e
nell’azione, che modifica il modo di stare nel mondo, anche a livello cognitivo e
comportamentale.
C’è da dire però che, secondo noi, nell’approccio comportamentista i compiti esperienziali
assegnati ricalcano in qualche modo gli esperimenti di laboratorio, hanno un carattere chiuso
e decontestualizzato e sono proposti da un'altra persona, il terapeuta, non dipendono
dall’incontro, che è sempre imprevedibile, tra l’individuo ed il mondo.
Ci teniamo a mettere in luce che, lo Stile di personalità tendente al disturbo ossessivocompulsivo non è una sorta di categoria immutabile a cui un individuo appartiene, così come i
due poli Inward ed Outward. Un individuo si può collocare tendenzialmente verso un polo o
l’altro lungo l’arco della vita, e quindi in uno stile di personalità o in un altro. Addirittura
nello stesso momento di vita entrambi i modi di emozionarsi, inward e outward, possono coesserci, in riferimento a persone e contesti diversi.
Crediamo che questa sia la ricchezza e, contemporaneamente, la difficoltà di accesso a questo
approccio, in quanto richiede di superare la nostra tendenza, radicata culturalmente, a
48 cristallizzare un individuo in categorie di conoscenza. La difficoltà ad abbandonarle può
dipendere dal fatto che queste ci permettono di salvarci dal dubbio e dall’incertezza, ma ci
distolgono dal vero obiettivo, che è la cura della persona che deve riappropriarsi della sua
storia, e non fare propria quella che gli viene attribuita in modo impersonale dall’esterno.
49 CONCLUSIONI
Giunte al termine di questa trattazione relativa allo Stile di personalità tendente al disturbo
ossessivo-compulsivo, l’unica certezza da noi percepita è la sensazione che tutto quello che
abbiamo scritto potrebbe essere arricchito e ri-aggiornato. Questo in quanto la conoscenza,
come forma del fare esperienza, è in continuo divenire e già oggi vorremmo riscrivere l’intero
lavoro perché a riflessioni se ne aggiungono altre nuove.
La questione che abbiamo già aperto nell’introduzione, relativa alla vastità della letteratura sul
DOC ed alla necessità di selezionare tra i diversi approcci quelli rappresentativi nella clinica e
nella psicopatologia oggi, ci restituisce un senso di incompletezza. Infatti, a sostegno di
ciascun approccio citato, abbiamo constatato che c’è una moltitudine di studi e diverse
possibili interpretazioni dello stesso modello. Questo senso di incompletezza lo sentiamo
ancora più significativo rispetto alla necessità di mantenere un atteggiamento criticocostruttivo nei confronti di tali approcci. Per poter sviluppare delle critiche costruttive che
siano autentiche riteniamo infatti che sia necessario avere una padronanza della teoria e del
metodo del nostro approccio ed una conoscenza esaustiva delle teorie che sottendono gli altri
modelli di intervento.
La riflessione che abbiamo maturato e che ci portiamo a casa è che lo studio e l’essere sempre
on-line con i progressi teorici e neuroscientifici diventa una condizione necessaria, insieme
alla pratica clinica con i pazienti, per essere dei terapeuti critico-costruttivi e orientati verso la
cura.
Parte di questa tesi è stata dedicata alla descrizione del DOC nei suoi tratti caratteristici. Ci
auspichiamo che nel corso della nostra pratica professionale, laddove avvenga l’incontro con
un paziente che manifesta alcuni di questi tratti, saremo in grado di mantenere un
atteggiamento di apertura e curiosità per la storia peculiare che quella persona ci porta.
La realizzazione di questo lavoro ha permesso l’incontro di due persone caratterizzate da un
background personale e culturale profondamente differente in uno spazio condiviso di azione.
La condivisione dei significati è stata frutto di un lavoro di costante mediazione tra i nostri
modi di approcciarci a questo compito che ha racchiuso la dimensione del progetto.
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