A Ringrazio Teresa Morda per il suo prezioso aiuto Rocco Paternostro Letteratura italiana dell’emigrazione con Antologia dei testi Copyright © MMXI ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, /A–B Roma () ISBN ---- I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. edizione: febbraio Alla memoria di mia madre, Luisa Gambuti Indice Parte I: Breve storia dell’emigrazione italiana e della sua letteratura Capitolo I Motivi storici, politici, economici e sociali dell’emigrazione italiana . Le cause di un fenomeno, – . I riformatori meridionali e l’emigrazione, – . Le classi dirigenti e l’emigrazione. La nascita della Questione meridionale, – . I meridionalisti liberali e l’emigrazione, – . Ambiguità delle proposte dei meridionalisti meridionali, – . L’azione di tutela e di protezione dell’emigrazione svolta dal gruppo villariano, – . Dalla crisi del al grande esodo del –, Capitolo II Caratteri e aspetti della letteratura italiana dell’emigrazione Parte II: Antologia dei testi Capitolo III Inchieste, memorie, saggi critici . F G, Della emigrazione italiana in America comparata alle altre emigrazioni europee, – . F F, New York, – . F M, L’Europa alla conquista dell’America Latina, – . U O, L’America vittoriosa, – . A A B, L’Italia randagia verso gli Stati Uniti, – . M E, Il lavoro dei ragazzi friulani dall’età giolittiana alla Grande Guerra, – . C L, Le mille patrie. Uomini, fatti, paesi d’Italia, – . B B, Ragazzi per il mondo. L’emigrazione minorile dall’Unità alla Prima Guerra Mondiale, – . I S, L’immagine dell’immigrante italiano nella stampa americana del primo decennio del Novecento, – . L A, L’emigrazione italiana, – . E F, Lettaratura italiana dell’emigrazione Merica! Merica! Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti e friulani in America Latina , Capitolo IV Testi narrativi . G G, La tratta dei fanciulli, – . A F, Malombra, – . E D A, Il piccolo patriotta padovano, – . E D A, Dagli Appennini alle Ande, – . E D A, Sull’oceano, – . A R, Un italiano in America, – . L P, Il vitalizio, – . L P, L’altro figlio, – . L P, Scialle nero, – . L P, Il fumo, – . S A, Una donna, – . G P, La grande Proletaria si è mossa, – . L C, Gli americani di Ràbbato, – . G D, Canne al vento, – . L P, Filo d’aria, – . L P, Nell’albergo è morto un tale, – . S A, Amo, dunque sono, – . F P, Emigranti, – . C A, Il marito, – . C A, I denari, – . M S, America primo amore, – . G D, La chiesa della solitudine, – . C L, Cristo si è fermato ad Eboli, – . C P, La luna e i falò, – . G R, Peccato originale, – . L S, La zia d’America, – . L S, Passione di Rosa, – . M R– S, Vecchia America, – . L S, Il lungo viaggio, – . E G B, Pane amaro, – . D M, Milano non esiste, – . A P, Canale Mussolini, Capitolo V Testi Poetici . E D A, Gli emigranti, – . M R, Emigranti, – . G D, America e Sardegna, – . B B, I va in Merica, – . B B, El globo, – . G P, Italy, Sacro all’Italia raminga, – . G P, Pietole, – . G P, Inno degli emigranti a Dante, – . C P, I mari del sud, – . N M, Emigranti, – . R S, Così papà mio nell’America, – . R S, C’era l’America, – . R S, Salmo alla casa e agli emigranti, – . D M, Le finestre restano chiuse, – . D M, La bambina che lasci, – . D M, Ha un altro colore oggi il Natale, – . D M, Colpa di tutto il ghiaccio, tutto il freddo, – . D M, Per via della guerra e della resistenza, – . D M, La prima cosa che ho fatto, Indice Capitolo VI Testi di espressione popolare . Lettera di Don Domenico Munari, – . Lettera di Gio Batta Mizzan, – . Lettera di Luigi Basso, – . Lettera di Anonimo, – . Lettera di Antonio, Luigi e Felice Taschetto, – . Lettera di Francesco Costantin, – . Testimonianza di Luigi Malandruccolo, – . Domani se imbarchemo, – . Io parto per l’America, – . Italia bella mostrati gentile , – . Pi l’America partenza, – . Viva la nostra America, – . Da l’Italia siam partiti, – . La marsigliese del lavoro [L’inno dei pezzenti], – . Stornelli d’esilio, – . Mamma mia dammi cento lire, – . Son maritata giovane, – . Merica, Merica, – . Trenta giorni di nave a vapore, – . Sei bella negli occhi, – . Cara moglie, di nuovo ti scrivo, – . La meju gioventù partiu l’America, – . Chiantu de l’emigranti, Parte I Breve storia dell’emigrazione italiana e della sua letteratura Capitolo I Motivi storici, politici, economici e sociali dell’emigrazione italiana : – . Le cause di un fenomeno, – . I riformatori meridionali e l’emigrazione, – . Le classi dirigenti e l’emigrazione. La nascita della Questione meridionale, – . I meridionalisti liberali e l’emigrazione, – . Ambiguità delle proposte dei meridionalisti meridionali, – . L’azione di tutela e di protezione dell’emigrazione svolta dal gruppo villariano, – . Dalla crisi del al grande esodo del –, . . Le cause di un fenomeno Un’insostenibile «condizione di miseria» e di «fame» fu alla base della «spettacolare e drammatica» emigrazione oltre Oceano di milioni di italiani, registratasi agli inizi dello scorso secolo sia verso gli Stati Uniti ma soprattutto verso l’Argentina e il Brasile che, avendo bisogno di incremento demografico, avevano incoraggiato il fenomeno. Il governo argentino approvò nel una legge che stabiliva uno speciale trattamento per gli emigranti per lo più operai e agricoltori, facilitandone lo sbarco, l’avviamento a destinazione e il collocamento. Quello brasiliano, da parte sua, istituì dal , dopo l’abolizione della schiavitù, il sistema di corrispondere a chi promuoveva il trasporto degli emigranti un premio ragguagliato al numero di espatriati sbarcati nel territorio dell’impero, come ben dimostra la legge sull’emigrazione di tre anni dopo, febbraio , con cui il presidente della provincia di San Paolo, con l’intento di introdurre centomila emigranti europei da destinare all’agricoltura, era autorizzato Lettaratura italiana dell’emigrazione a pagare — come sostenne il deputato Luigi Bonghi fiero oppositore dell’emigrazione — a titolo di indennizzo per il passaggio degli emigranti alla società promotrice «fino alla somma di circa lire per ogni adulto, la metà per i ragazzi e un quarto per i bambini». Invero, il fenomeno non riguardò solamente poche, limitate province del paese, ma gran parte di quelle dall’intera nazione. Già il gennaio , nella sala di Palazzo Vecchio a Firenze, allora capitale d’Italia, l’onorevole Ercole Lualdi, deputato del collegio di Busto Arsizio, aveva richiamato l’attenzione del presidente del consiglio Menabrea sulla triste e preoccupante realtà dell’emigrazione che, incominciata a manifestarsi nel nel circondario del suo collegio, era continuata nel tempo ad aumentare sino a raggiungere la «desolante» cifra di oltre mille persone nel solo . Tale triste realtà l’onorevole Lualdi l’aveva sottoposta all’esame della camera e del ministero, affinché si indagasse su quali fossero le cause che la provocavano, in modo da mettere in atto rimedi per diminuirne la portata. Con queste accorate e allarmanti parole aveva terminato il suo discorso: Non verrò a sostenere che si possa o si debba impedire ai cittadini italiani di emigrare, se così loro piace. Però è certo che non è niente affatto lusinghiero e confortante né è buono per la causa politica del nuovo regno d’Italia il fenomeno cui tristemente assistiamo di moltissimi cittadini costretti dalla fame a emigrare. Sentiamo dire continuamente: si svilupperà il commercio, l’industria, l’agricoltura; ma, se andiamo di questo passo, mancheranno gli uomini necessari per lavorare i terreni e per sviluppare l’industria. Menabrea, in verità, non dette grande importanza alle parole dell’onorevole Lualdi. Difatti dopo aver ammesso che era vero che gli italiani andandosene lasciavano in difficoltà i padroni dei campi o gli imprenditori industriali e che, quindi, il governo avrebbe fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità per regolare l’emigrazione, aveva concluso il suo discorso chiamando in causa direttamente le classi padronali. In proposito aveva detto: È pur necessario che i cittadini, per iniziativa privata, facciano in modo che gli individui che appartengono alle classi povere della società trovino nel proprio paese il modo di lavorare utilmente, di procacciarsi convenienti mezzi di sussistenza. Certamente, se i proprietari e gli industriali non largheggiano per dare alla gente Motivi dell’emigrazione italiana del popolo una condizione conveniente, è chiaro che quella povera gente, con le promesse con cui viene allettata, e con i mezzi di trasporto resi più facili, decida di emigrare. Nonostante il problema fosse divenuto di dominio pubblico anche sulla stampa, non per questo era stato trattato in maniera diversa da come lo aveva posto il Menabrea, solo che gradualmente alle voci allarmate degli uomini del nord si aggiunsero anche quelle del meridione. Nel maggio del il deputato di Cosenza Guglielmo Tocci, in un discorso dagli accenti accorati, rivolto in parlamento a Lanza, ministro dell’interno e presidente del consiglio, dopo aver sostenuto che l’emigrazione era indizio del malessere nel quale si trovavano le classi infime che volevano sfuggire alla terribile minaccia della fame, richiamando lo Stato alle sue responsabilità, così aveva concluso il suo intervento: Vedete, questa emigrazione è la vita che si ritira dallo stomaco e dagli arti inferiori cui il capo nega il nutrimento! Badate a questi fatti, sennò lo Stato non potrà reggere. Lanza, nella risposta che diede, non vedeva nel fenomeno dell’emigrazione nessun pericolo per e nessuna responsabilità dello Stato. Tutt’altro. Il fenomeno era — a suo parere — segno di energia, di forza, di iniziativa delle popolazioni e portava più ad arricchire che a impoverire il paese e così, come aveva fatto quattro anni prima il Menabrea, anche egli richiamò alle loro responsabilità le classi padronali: Io credo che uno dei mezzi per eliminare il male e rendere vieppiù tollerabile se non prospera la condizione della classe proletaria dei contadini sta nel risveglio della classe dei possidenti: sono essi che devono procurare di dar maggior lavoro, di far produrre di più le loro terre e le loro industrie, poiché a ciò non trovano ormai ostacoli di nessun genere. E aveva aggiunto: Il mio avviso è di continuare come si è fatto in passato ad estendere sempre più l’istruzione, le vie di comunicazione e i mezzi di lavoro, e poi ognuno nella sua Lettaratura italiana dell’emigrazione sfera privata cerchi di eccitare i proprietari a far fruttare più che sia possibile i loro patrimoni, e per tal modo aumentare il lavoro e quindi la mano d’opera. Allora pochi avranno interesse ad abbandonare il suolo natio, nel quale c’è sempre un istintivo attaccamento, e per vincerlo bisogna che vi siano cause assai forti. Le cause erano davvero assai forti, se , pochi mesi dopo questo suo intervento alla camera, il gennaio , fu costretto a emanare una circolare ai prefetti con cui si davano una serie di limitazioni ai sindaci circa i permessi di migrazione, invitandoli a «dissuadere i loro amministrati dall’espatriare, rappresentando loro il pericolo di cadere nelle mani di astuti speculatori», ovvero degli agenti d’emigrazione, la cui azione del resto era già stata denunciata nel dal Lualdi, il quale, come vedremo in seguito in modo più dettagliato, condannava l’azione dei comitati sparsi nel nord d’Italia ed anche nel Canton Ticino. Difatti gli agenti di emigrazione, veri e propri imbroglioni, spesso dopo essersi fatto pagare il biglietto d’imbarco da centinaia e centinaia di famiglie contadine con il miraggio di un lavoro assicurato e ben retribuito nell’America, in ispecie quella latina, davano appuntamento a costoro nella città da cui si doveva partire, per lo più Genova, e poi si dileguavano. Così un giornale di Genova documentava il quotidiano calvario degli emigranti: Siamo alla solita triste musica degli emigranti delusi! Seicento emigranti del circondario di Treviglio giunsero ieri alle tre e mezzo alla stazione di Milano. Erano diretti a Genova dove dicevano di doversi imbarcare per il Brasile. L’autorità di Milano domandò alla prefettura di Genova se vi fosse in porto una nave per il trasporto di quei seicento contadini che lasciavano i loro campi per ideate ricchezze. La prefettura di Genova cascò dalle nuvole. Nel porto non c’era nemmeno l’ombra di una nave in partenza per l’America. Quei seicento villici restarono disillusi, e ritornarono al loro paese vittime dei soliti truffatori che illudono e tradiscono la povera gente con la maschera infame di agenti d’emigrazione. Certo, quel fenomeno, che allora si manifestò per la prima volta era destinato a crescere a dismisura nel tempo. Di fatti era la deflagrazione più manifesta e più grave di un lungo, graduale, crescente, inarrestabile degrado politico e sociale che aveva sconvolto le province italiane sin dalla unità nazionale. E al fenomeno non si sottrassero certamente quelle meridionali che a esso pagarono un forte contri- Motivi dell’emigrazione italiana buto, in quanto maggiormente depauperate dall’unificazione. Proprio ciò cercherò di dimostrare in questo mio lavoro. Del resto, tutta la storia passata e più recente del Mezzogiorno era stata attraversata e segnata profondamente dall’emigrazione. E, in ognuna delle fasi storiche in cui s’era manifestato, il fenomeno aveva acquistato un rilievo sì diverso, ma sempre drammatico. L’emigrazione fu dapprima interna, poi esterna e infine di massa. Ai contadini dell’Abruzzo aquilano che periodicamente si recavano nella campagna romana, erano seguiti quelli che, da ogni regione del Meridione, si recavano per determinati periodi dell’anno negli Stati d’Europa, oppure, definitivamente, nelle Repubbliche d’oltre Oceano. Così le poche migliaia di meridionali che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, avevano abbandonato i loro paesi, erano, con il tempo, divenuti un esercito abnorme per numero. Dei milioni mila italiani che fra il e il erano emigrati nella America, ben milioni mila provenivano dalle province del Sud. Questa massa umana in grandissima parte si dirigeva verso gli Stati Uniti, andando a ingrossare l’esercito proletario di quel sistema industriale in fase di intenso sviluppo monopolistico. Era gente povera, e nella gran parte analfabeta (R. Villari). Contadini, braccianti, giornalieri, piccoli fittaiuoli, suonatori ambulanti, artigiani e piccoli proprietari; tutti privi di protezione sociale. Intere famiglie che avevano sentito sulla propria pelle i morsi della crisi agricola. Questi, disoccupati e disperati della miseria, irrimediabilmente tagliati fuori dallo sviluppo economico del Paese, volevano dare un calcio ai problemi del lavoro scarso e faticoso e a quello più grave della fame. Ed erano soprattutto loro a pagare, con l’esodo, le colpe e le inadempienze di una classe dirigente che aveva lasciato incancrenire le disfunzioni d’ordine socio–economico, endemicamente radicate nel tessuto strutturale del Mezzogiorno e cause di guasti irreparabili. E soprattutto causa del fenomeno che come un “filo roso” da sempre attraversava la storia di quelle province. E chi voglia spiegarsi le ragioni di questo esodo di massa verso gli Stati Uniti, non può non ripercorrere a ritroso la storia politica, sociale, economica del Mezzogiorno. Vale a dire ricercare le cause più profonde del depauperamento di quelle regioni e quindi della condizione di miseria e di sottomissione della popolazione meridionale. Que- Lettaratura italiana dell’emigrazione ste vanno individuate, in primo luogo, nel feudalesimo meridionale; e, in secondo luogo, nelle responsabilità e inadempienze della classe dirigente risorgimentale. Il feudalesimo meridionale aveva dato vita a un sistema politico e sociale che aveva sprofondato i contadini in uno stato assai simile, per certi aspetti, a quello dei servi della gleba. E se per il passato non aveva esitato a consegnare il Mezzogiorno a Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Austriaci, Borboni, aveva trovato, proprio sotto il dominio di questi ultimi, terreno fertile per poter ulteriormente crescere o prosperare. Con quali esiti negativi per i destini di quelle regioni è cosa ormai risaputa. Quando il Mezzogiorno fu unito al resto dell’Italia, il nuovo Regno eredità, a seguito di decenni di malgoverno borbonico, una situazione economico–sociale a dir poco disastrosa. Mancavano scuole, strade, acquedotti. La povera gente s’aggirava questuante nei quartieri popolari di Napoli e di Palermo, dove s’era ammassata, conducendo una vita precaria in tutto. Era quasi completamente assente una classe operaia per la pressoché totale mancanza di fabbriche. E l’agricoltura, l’unica risorsa economica, versava in uno stato di arretratezza arcaica. Vincoli e pedaggi medievali, nonché la concentrazione della proprietà terriera nelle mani di pochi latifondisti, rendevano la situazione insostenibile per i contadini e i braccianti. Nelle province meridionali — scriveva nel P. Villari — [è possibile osservare] molte città popolose, in cui si trovano poche famiglie di ricchi proprietari, il più delle volte imparentati fra loro, in mezzo a una moltitudine di proletari, che sono contadini. Salvo qualche impiegato, altri ordini di cittadini non vi sono. La campagna è deserta, i suoi lavoratori formano il popolo della città. Non v’è industria, non v’è borghesia, non v’è pubblica opinione che freni i proprietari, che sono i padroni assoluti di quella moltitudine, la quale dipende da essi per la sua sussistenza e, se viene abbandonata, non ha modo alcuno di vivere. Miseria, fame, sfruttamento, lavori penosi e massacranti abbrutivano quella povera gente, costretta a una vita di stenti, e spesso insostenibile. Quei contadini, quelle donne non vedevano né per sé, né per i propri figli possibilità alcuna di affrancarsi da quella dura realtà. E la loro era la rassegnazione dettata dalla disperazione. Motivi dell’emigrazione italiana Era una ragazza bruna — così Verga descriveva la sua eroina Nedda nella novella omonima che segnava la sua produzione verista — vestita miseramente; aveva quella attitudine timida e ruvida che danno la miseria a l’isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana. [. . . ] Gli occhi erano neri, grandi, [. . . ], quali li avrebbe invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala sociale, se non fossero stati offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria, o non fossero sembrati stupidi per una triste e continua rassegnazione. Le sue membra schiacciate da pesi enormi, o sviluppate violentemente da sforzi penosi erano diventate grossolane, senza essere robuste. [. . . ] I cenci sovrapposti in forma di vesti rendevano grottesca quella che avrebbe dovuto essere la delicata bellezza muliebre. [. . . ]. Nessuno avrebbe potuto dire quanti anni avesse codesta creatura umana; la miseria l’aveva schiacciata da bambina con tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, l’anima e l’intelligenza. Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia. Ma la triste e continua rassegnazione che nel Verga leggeva nei volti e negli sguardi dei contadini della provincia catanese, e che Villari aveva letto in quelle dei contadini delle province meridionali in generale, non era stata sempre tale. I contadini proletari, spinti dalla disoccupazione, avevano dato vita al fenomeno del brigantaggio. Questo, durato dal al , si caratterizzò, a parere di G. Fortunato, come una vera e propria guerra civile, segnata da feroci delitti e da ancor più feroci repressioni, mila contadini, s’organizzarono in bande (si ricordino per tutte quelle del Caruso e del Crocco) e alimentarono continui focolai di rivolta nella Basilicata, nelle Puglie, nel Molise. Del resto il malcontento, che ora s’incanalava e s’organizzava nel fenomeno del brigantaggio, non era apparso come un fulmine a ciel sereno. Esso covava nella cenere come dimostrano e l’agitazione contadina di Bronte dell’agosto del , e la rivolta sanfedistica scoppiata in Irpinia nel settembre successivo, sanguinosamente represse e stroncate dai garibaldini. E se si considera come il fenomeno del brigantaggio fosse stato fomentato anche dalle forze restate fedeli al re Francesco II, si capirà come l’Italia appena unita corse il grave pericolo di spaccarsi politicamente in due. Perché? Quali erano le cause che avevano determinato tutto ciò? La più povera plebe di Napoli e i più miseri contadini, pur non trovandosi nella me- Lettaratura italiana dell’emigrazione desima situazione ed oppressione che sotto i Borboni, avevano, con la nuova libertà, peggiorato la loro sorte. Sulle loro spalle gravava il grande peso delle tasse che il nuovo governo aveva imposto per far fronte alle spese sostenute dallo stato piemontese per la conquista delle province del Sud e del Nord. E, quando vennero ceduti i beni demaniali e i beni ecclesiastici, i contadini furono depredati delle terre. Queste vennero accaparrate in grandissima parte dagli agrari meridionali. E, persino quelle pochissime che furono divise fra i contadini finirono nelle mani dei signori, perché ai contadini mancavano i capitali per poterle mettere a coltura. Le condizioni sociali del contadino — scriveva P. Villari nel — non furono soggetto [. . . ] di alcun provvedimento che valesse direttamente a migliorarne le condizioni. Uno solo dei provvedimenti iniziati tendeva direttamente a questo scopo, ed era la vendita dei beni ecclesiastici in piccoli lotti, e la divisione di alcuni beni demaniali. Ciò poteva ed era inteso a creare una classe di contadini proprietari, il che sarebbe stato grande beneficio per quelle province. Ma [. . . ] il risultato fu assai diverso dallo sperato; perché è un fatto che quelle terre, [. . . ] andarono e vanno rapidamente ad accrescere i vasti latifondi dei grandi proprietari, e la nuova classe dei contadini non si forma. La condizione, dunque, della gente meridionale già di per sé insostenibile, si era aggravata, a seguito dell’unità nazionale. Con questi versi, oggi, ricorda quel periodo il poeta Franco Costabile: [. . . ] l’anno del sole e dell’uva l’anno coglionatura. Rullò il tamburo del re. Rullò nei boschi tanto per la Legna. Rullò nei campi Motivi dell’emigrazione italiana tanto per la macina. Rullò nei vicoli tanto per il sale. l’anno cane l’anno caporale di giornata. Metà. Di un esercito scese a spall’arm per le vigne senza leggere sulle carte il dolore coperto dalla primavera, varcò l’imboccatura nera dei vicoli, inastò la baionetta al primo pianto di bambino affamato. [. . . ] Solo l’Appennino oscuro e dolce rimase il vecchio monte amico dei pastori. I problemi e le difficoltà che la realizzazione unitaria incontrava nelle province del Sud, tradottesi nel fenomeno del brigantaggio, furono oggetto di studio da parte di una commissione parlamentare d’inchiesta. L’on. Massari che della commissione faceva parte così spiegava le cause del fenomeno, nella sua relazione del : Le prime cause [. . . ] del brigantaggio sono le predisponenti. E prima fra tutte, la condizione sociale, lo stato economico del campagnuolo, che in quelle province, Lettaratura italiana dell’emigrazione appunto dove il brigantaggio ha raggiunto proporzioni maggiori, è assai infelice [. . . ]. Il contadino non ha nessun vincolo che lo stringa alla terra [. . . ]. Mangiano pane «che non ne mangerebbero i cani», diceva il direttore del demanio e tasse. La realtà che dunque emergeva dalla relazione era questa. Dove il contadino stava peggio, là era grande il contingente dato al brigantaggio; dove, invece, la sua condizione migliorava, là il brigantaggio «scemava o spariva». Anzi, nell’Abruzzo, per la sola ragione che il contadino, ridotto alla miseria e alla disperazione, poteva andare a lavorare la terra della campagna romana, dove prendeva le febbri spesso lasciandoci la pelle, lo stato delle cose mutava sostanzialmente. L’emigrazione impediva l’esistenza del brigantaggio e provava come esso nascesse da una vera e propria disperazione. Per cui l’on. Massari così concludeva: Il brigantaggio diventa in tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie. Interrogato sul perché le popolazioni dimostrassero tanta simpatia per il brigante, il generale Govone aveva risposto: I cafoni veggono nel brigante il vindice dei torti che la società loro infligge. E l’on. Castagnola, anch’egli membro della commissione, in un discorso tenuto il luglio di quell’anno alle Camera dei deputati, confermava ampiamente le conclusione del collega Massari. E, poiché la situazione di quelle province dove esistevano solamente due classi sociali, galantuomini e cafoni, separate da un odio profondo, epperò represso, gli ricordava il Medioevo, aveva proposto, per risolvere il problema, rimedi radicali: Vi è la questione sociale, per sciogliere la quale — aveva concluso — converrebbe promuovere il benessere della popolazione, fare strade, far cessare l’usura, istituire dei Monti frumentari, far nascere il credito agricolo. Ma la classe dirigente risorgimentale, piuttosto che seguire i consiglio dell’on. Castagnola, preferì risolvere il problema del brigantag- Motivi dell’emigrazione italiana gio con i bersaglieri e i soldati dell’esercito regio. Se con il ricorso alla repressione (tra morti negli scontri o per fucilazione, e arrestati, il brigantaggio pagò un contributo di . uomini) il fenomeno fu soffocato, non fu certamente raggiunto l’obiettivo della pacificazione sociale di quelle province. Il malcontento dei contadini restò latente, pronto di nuovo ad esplodere in rivolta come dimostrerà quella del dei Fasci siciliani violentemente repressa da Crispi. Questa era la strada preferita e praticata dal governo ogni qual volta i contadini del Sud manifestavano la loro protesta. Perché avveniva ciò? Forse che lo Stato sabaudo aveva inteso l’unione delle province meridionali al nuovo Regno come una semplice annessione di colonie? Oppure, come nel caso del brigantaggio, troppo preoccupato del buon esito della realizzazione unitaria, in quel fenomeno vedeva seri pericoli di scollamento dello stato da poco costituito? Certamente queste due tendenze erano entrambe presenti. E andavano ricondotte a motivi politici e ideologici che erano stati il presupposto dell’unificazione italiana. Vale a dire, a quella corrente moderata che, emersa intorno agli anni Quaranta dell’Ottocento aveva diffuso un atteggiamento ideologico e una pratica politica mirante a mediare tra loro «spinte d’innovazioni profonde e prese di posizioni intolleranti di qualsiasi pur minimo cambiamento». Che il partito moderato avesse potuto determinare, prima, la realizzazione, e, dopo, le linee di sviluppo dell’unificazione italiana si spiega da un complesso di cose. La situazione e le strutture economico–sociali italiane non consentivano «altra soluzione all’infuori di quella moderata». Ogni tentativo di tipo giacobino «era obbiettivamente irrealizzabile per le caratteristiche socio–economiche delle campagne». Le forze democratiche «erano praticamente confinate nell’ala estrema della borghesia intellettuale, senza esercitare una presa diretta su più vasti strati della popolazione». Lo stesso pensiero mazziniano non considerava i contrasti nelle campagne e le condizioni dei contadini in maniera adeguata alla loro effettiva importanza nella società italiana. Il pensiero di C. Pisacane, che rappresentava «un frammento di socialismo nella storia d’Italia», e l’unico a porsi il problema dell’inserimento delle masse contadine nella rivoluzione nazionale, non aveva trovato posto, se non a latere, nel panorama politico dell’Italia di allora. Così, quando l’esercito Lettaratura italiana dell’emigrazione regio al comando di Vittorio Emanuele II intervenne, il ottobre del , nella guerra di unificazione nazionale, vennero decise le linee di sviluppo del nostro paese, non solo politiche, ma anche sociali. Il corno del dilemma tra un’Italia democratica e repubblicana, e un’Italia regia e moderata, fattore di ordine e di equilibrio, si risolse a favore del secondo. E si rese operante la solidarietà di classe tra conservatori e moderati piemontesi lombardi toscani, e conservatori e moderati siciliani e napoletani. Allora la borghesia italiana compì una scelta storica destinata a condizionare tutto lo sviluppo futuro della nostra società e che finì con l’accentuare lo squilibrio economico tra Nord e Sud. È chiaro così che i contadini del Sud non avrebbero potuto mai spezzare le catene della loro miseria senza suscitare violente risposte repressive. Restava loro una sola via: quella dell’emigrazione. . I riformatori meridionali e l’emigrazione Nella sua relazione del , l’on. Massari aveva individuato nell’emigrazione abruzzese l’elemento che aveva tenuto lontano da quella provincia il brigantaggio. In questo modo, il Massari glissava il problema più drammatico della realtà sociale del Meridione. E, accettandolo come salutare, elaborava in embrione uno dei nuclei teorico– politici con cui, più tardi, l’emigrazione sarebbe stata trattata e affrontata dalla classe dirigente italiana. Ma comunque lo si ponga, l’atteggiamento del Massari è significativo delle responsabilità politiche del nuovo Stato nei confronti della realtà meridionale, e quindi della risoluzione della questione sociale di cui l’emigrazione era l’aspetto più scottante e palese. Allora non si capì, o non si potette per la particolare contingenza storico–politica, che brigantaggio ed emigrazione erano due facce del medesimo problema. Di un problema, cioè, tanto grave e drammatico da aver urgente bisogno di profondi e radicali interventi. Il Massari propose sì rimedi “a lunga scadenza”, dei quali, però, avvertiva la pratica realizzazione solo in quanto avrebbero potuto contribuire a rallentare la crisi politica dei moderati. Del resto, già nel , il Villari e il Pantaleoni «avevano colto Motivi dell’emigrazione italiana i dati essenziali della situazione napoletana nei termini dell’alternativa tra pronta attuazione del programma “sociale” e crisi politica dei moderati» (R. Villari). Ma la responsabilità del Massari va ben oltre. E appare oggi in tutta la sua gravità. L’esigenza immediata che egli esprimeva era quella di legalizzare la repressione. In nome dei principi unitari, la classe politica rispondeva ai problemi sociali della realtà meridionale con la legge Pica che fece, come scrive Mark Smith, della repressione più rigorosa «non una misura eccezionale, ma la regola sanzionata dal diritto». La repressione ebbe come effetto immediato l’alleanza degli agrari del Sud con la borghesia industriale del Nord. Tale alleanza dette luogo a quel sistema di governo che, completatosi in seguito con la politica protezionistica a favore dell’industria del Nord, segnò l’inizio dell’epoca forse più rovinosa per il Meridione. Quelle province furono lasciate alla mercè di una borghesia “meschina” e parassitaria, di proprietari senza scrupoli che si lanciarono nella speculazione della terra. Le condizioni di vita dei contadini ancor più si aggravarono. E se i ceti dominanti del Sud ebbero in tutto questo grosse e pesanti responsabilità, ciò fu loro possibile per le acquiescenze del nuovo Stato. La nuova classe politica, volutamente, per ragioni di alleanze tattico–economiche, decise di tener gli occhi chiusi, tranne ad aprirli, e in maniera a dir poco sconcertante, quando il problema sociale era diventato così drammatico, da non potere più essere negato. Ma anche allora, a parte un sottofondo di sincera filantropia e umanitarismo, la classe dirigente fu spinta a interessarsi del problema meridionale soprattutto per motivi di sopravvivenza politica. Si trattava, come diremmo oggi, di non farsi scavalcare a sinistra. Di anticipare l’avversario, cavalcando la tigre, con lo scopo finale di ammansirla. E il gruppo villariano, l’ala più intelligente e avvertita del moderatismo, se per primo capì la gravità del problema additandolo all’opinione pubblica, lo fece perché concretamente paventava la possibilità che contadini e lavoratori potessero sovvertire l’ordine sociale e politico esistente. Le loro proposte si fondavano su di una cospicua presenza di paternalismo mirante ad esorcizzare i pericoli derivanti dall’anarchismo, dal socialismo e comunismo che avevano avuto una prima reale, concreta realizzazione in Francia con l’esperienza della Comune di Parigi. Ma Lettaratura italiana dell’emigrazione di ciò parlerò in seguito. Il problema meridionale e quindi quello a esso relativo dell’emigrazione non furono allora trattati per la prima volta. Ebbero le loro premesse nella elaborazione ideale di una società nuova dei riformatori meridionali. Costoro posero, per la prima volta, i temi del rinnovamento del Mezzogiorno. Furono loro, i Genovesi, i Filangieri, i Galiani, i Galanti, i primi a sviluppare «dalla crisi e dalla disgregazione del regime feudale, quel complesso di rapporti che costituirono la base e la premessa del contributo meridionale al compimento della rivoluzione nazionale e, insieme, il fondamento storico della questione meridionale» (R. Villari). Il problema sociale del Mezzogiorno fu da loro analizzato, esaminato in ognuno dei suoi aspetti. Si individuarono le cause della povertà e della arretratezza di quelle province nella condizione della terra, nella fuga dei contadini dalle campagne, nel feudalesimo, e infine nell’emigrazione. E se si considera come quegli studi fossero uniti tra loro da una sorta di comunanza ideale apparirà evidente ciò: tutti andavano a confluire in quello del Galanti sull’emigrazione degli abruzzesi aquilani nel Lazio. Difatti, allorché il Galanti individuava la causa di quella emigrazione nelle imperiose necessità in cui versavano le popolazioni dell’Abruzzo, egli non prescindeva da quanto avevano scritto il Genovesi, il Filangieri, il Galiani circa la situazione di miseria e di sottosviluppo del Mezzogiorno. Le cause erano da ricercarsi nell’impoverimento e nel degrado delle terre, soprattutto perché sui latifondi pesava la “mano morta” dei grandi proprietari e degli ecclesiastici, e si esercitava lo strapotere delle forze feudali e parassitarie. Ci è manifesto — scriveva il Genovesi — che [. . . ] due terzi dei beni stabili di questo Regno erano tra le mani degli ecclesiastici [. . . ]. Bisognerà dividere il rimanente in tre altre parti, ed un solo terzo di un terzo lasciarne alla gente bassa dello campagne: essendo più che certo che due di questi terzi siano posseduti da’ gentiluomini e signori. I grandi possessori — precisava il Filangieri — fanno non solo [. . . ] la rovina della popolazione, ma anche dell’agricoltura, sì per l’abuso che fanno de’ terreni, come per le ricchezze e per gli uomini che richiamano nelle capitali. Motivi dell’emigrazione italiana Questi sono i mali grandi della Calabria ulteriore — scriveva il Galiani, all’indomani del terremoto che nel sconvolse quella provincia —: la prepotenza de’ baroni; la soverchia ricchezza delle ‘mani morte’. Il degrado della terra favoriva poi una sorta di circolo vizioso. La miseria che da esso derivava spingeva i contadini verso le grandi città. Questo fatto non solo rendeva ancor più disastrosa la condizione delle terre, ma. rendeva tale anche quella dei contadini inurbati. Essi finivano con il perdere la loro funzione di produttori, per assumere, come vedeva lucidamente il Filangieri, quella di “servitori” e di “mendicanti”. E in proposito scriveva: Occorre diminuire la somma di quegli esseri oggi così eccessiva nelle grandi città di quegli esseri, io dico, che fanno un commercio infame della loro libertà, e la condizione de’ quali non differisce in altro dalla vera schiavitù che nel dritto di poter mutare un padrone. La miseria che favoriva l’inurbamento dei contadini era alla base dell’altro grave fenomeno della realtà meridionale: l’emigrazione. Invero, questa ancora non aveva assunto le caratteristiche e le proporzioni numeriche che avrebbe assunto da lì a un settantennio, ma già si manifestava con una certa preoccupante frequenza e periodicità, anche se limitata alle sole province dall’Abruzzo aquilano e a quelle limitrofe della Campania. Leggiamo in proposito il resoconto che del fenomeno fece il Galanti, a seguito di un suo viaggio compiuto nel in quelle terre. [. . . ] In novembre comincia tale emigrazione. Partono uomini, donne e fanciulli dopo i dieci anni, e si spandono nelle campagne romane. Si occupano a cavar fossi, alla costruzione dello strade, a zappar vigne, a seminare e nettare grani, a raccorre fieno, a segare legname, a fare carboni e calce. Moltissimi di Amatrice, di Civitareale, di Montereale stazionano perpetuamente in Roma, dove fanno gli osti, i bettolai, i facchini, i cioccolatieri. La maggior parte de’ lavoratori delle campagne viene assoldata da’ così detti ‘caporali’, che prendono in appalto dalla Camera apostolica, da’ principi romani i lavori delle strade, delle tenute e per lor conto le fanno eseguire. Vi sono i ‘caporaletti’ che presiedono a’ lavoratori divisi in drappelli. Sono i primi veri incettatori di uomini per un certo tempo. Fanno gran lucri, e non è raro l’abusare delle necessità de’ poveri lavoratori. Lettaratura italiana dell’emigrazione I tredicimila abruzzesi che lasciavano le loro terre per un periodo oscillante dai tre agli otto mesi all’anno, una volta rientrati, trovavano un’amara sorpresa ad attenderli. I soldi guadagnati servivano principalmente a pagare i pesi fiscali: Le sanguisughe politiche, dette governatori, lasciano i paesi col partire che fanno gli abruzzesi a novembre e tornano col ritorno a giugno. Scriveva amaramente il Galanti. Ma il fenomeno dell’emigrazione non riguardava solamente la provincia aquilana. Esso interessava anche la parte limitrofa della Campania. Lasciamo ancora la parola al Galanti. Oltre settemila che per un mese escono dal Regno a cagione delle messe, [. . . ] pe’ mesi d’inverno sono: che si portano alla campagna di Roma per lavori di zappa; a’lavori delle Paludi pontine. Lo stato di Fondi, composto di Fondi, d’Itri e di Lenola somministra alle paludi duemila individui all’anno. Gli altri paesi donde esce tutta questa gente sono i seguenti: Pescosolido, Campoli, Sora, Soniavi, Casale, Casalvieri, Santo Padre, San Donato, Settefrati, Isola, Brocco, Arce, Alvito, Vicalvi, Rocca d’Arco, Castelluccio, Gallinaro, Roccasecca, Arpino, Posta, Fontana. [. . . ]. In molti paesi [. . . ] di Terra di lavoro si è abbandonata la coltura de’ poderi per coltivare quello dello Stato romano, e la ragione si è che i proprietari nostri vogliono pagare poco, e nello Stato gli appaltatori pagano meglio. Se tali emigrazioni riuscivano vantaggiose agli abruzzesi, erano poi nocive nel rapporto politico e generale del Regno, aggiungeva il Galanti. è vero che mediante gli emigrati entravano nelle casse della Regione ingenti somme di denaro, ma questa era poi solo ricchezza rappresentativa. La vera ricchezza, data dallo bonifica dei terreni, era appannaggio esclusivo dello Stato romano. Con le braccia degli abruzzesi le terre di quello Stato prosperavano, mentre quelle del Regno restavano abbandonate e “mefitiche”. Il governo aveva cercato di porre rimedio a ciò. Il aprile del aveva emanato una prammatica con la quale si faceva espresso divieto a quelle popolazioni di emigrare, pena la confisca dei beni. Ma il Galanti definiva questo provvedimento “indecoroso” e individuava in interventi di ben altra natura la strada da seguire per eliminare il fenomeno (R. Villari). Motivi dell’emigrazione italiana Spediente più proprio — scriveva — era quello di erigere delle fabbriche di arti e di manifatture nell’Abruzzo, [. . . ], con provvedere al tempo medesimo alla conservazione e riproduzione dei boschi. Ma questo non basta — aggiungeva — ad impedire l’emigrazione [. . . ]. L’emigrazioni disposte dall’imperiosa necessità serbano le stesse leggi delle derrate o del commercio. Bisognerebbe occuparci delle nostre maremme quasi tutte coperte di acque stagnanti, chiamarvi a lavorare gli abruzzesi e pagare la loro opera come si paga nello Stato della Chiesa. Il Galanti aveva individuato le cause e la gravità del fenomeno. L’emigrazione nasceva dalla miseria, e anziché eliminarla finiva coll’aggravarla, perché di fatto depauperava, per mancanza di braccia, quelle terre. Bisognava allora correre ai ripari con interventi che incidessero realmente sul tessuto socio–economico del Regno, ammodernandone le strutture. Le fabbriche, la bonifica delle terre paludose, le strade, gli acquedotti avrebbero raggiunto lo scopo. Tali interventi avrebbero promosso la circolarità dei capitali, favorito una reale ricchezza, e quindi eliminato l’emigrazione perché eliminata l’imperiosa necessità di gran parte della popolazione. Ma per raggiungere l’ammodernamento delle strutture del Regno era necessario anche e soprattutto dare avvio alla riforma della distribuzione fondiaria. Era questo il primo, imprescindibile provvedimento, che avrebbe risolto la triste condizione in cui versava l’agricoltura. A tal fine era necessario «livellare e censurare in perpetuo» i fondi in mano ai signori, ai baroni e agli ecclesiastici. Il solo rimedio che ci veggo — scriveva il Genovesi — è quello a cui penserà ogni uomo prudente [. . . ] ed è quello del livellare e censurare in perpetuo i fondi che sono in mano di coloro i quali o non possono o non debbono coltivare. In simile direzione erano orientate le proposte del Filangieri e del Galiani. Ma, seppure avanzate per i tempi, tali proposte non potevano affrontare e risolvere concretamente il problema della riforma della distribuzione fondiaria. Del resto di ciò i riformatori meridionali erano consapevoli Ma noi — scriveva lucidamente il Genovesi nel — non siamo sì trascorsi avanti anche in mezzo alle buone o savie leggi, che non ci resta apertura nessuna alle leggi agrarie e che non fosse per essere cagione di maggior male. Lettaratura italiana dell’emigrazione Il problema si pose in modo reale e concreto durante la rivoluzione del . La presenza di forze democratiche e repubblicane introdusse, allora, nuove prospettive nella lotta antifeudale. Per la prima volta «si cercò di superare i limiti della riforma giuridica dell’istituto della proprietà». Allora si parlò apertamente della confisca delle terre baronali e di mutamento della distribuzione fondiaria. Però al gruppo del Cestari sostenitore di questa tesi, si oppose, nel Consiglio legislativo della Repubblica napoletana dell’aprile del , la maggioranza moderata capeggiata dal Pagano (R. Villari). Pagano — scrive il Cuoco — credeva non essere giunto ancora il tempo di decidere la controversia: egli riconosceva necessarie e giuste le abolizioni dei diritti [feudali], ma voleva che non si toccassero i termini, quasi che un popolo non dovesse essere oppresso, ma potesse essere legittimamente misero. Il ritardo, complici anche i rappresentanti francesi, dell’approvazione della legge, apertamente osteggiata dai baroni, fece perdere alla Repubblica l’occasione di guadagnare gli animi di milioni di uomini (Cuoco). Ma soprattutto fece perdere al Mezzogiorno un appuntamento storico di grande importanza. Così, quando la Rivoluzione fu sconfitta, restavano da risolvere i problemi di sempre. In primo luogo quello dell’effettiva liquidazione della proprietà terriera parassitaria. A tal fine si orientarono le proposte di Luigi Blanch. Queste furono proposte di tipo “liberale”. Il compito di creare le condizioni per la liquidazione del potere dell’aristocrazia e della proprietà terriera privata veniva affidata dal Blanch all’azione di una nuova classe sociale. Di una classe, cioè, capace di creare capitali “intellettuali e naturali”, attraverso «il sapere, l’industria, il commercio e l’economia» (R. Villari). Un paese agricolo — scriveva — trae le sue ricchezze da’ prodotti della terra. Quando questa è posseduta da una classe della società, e tutte le leggi tendono a conservarle il possesso del suolo, ne risulta che la ricchezza non può facilmente nascere perché la proprietà è concentrata. La industria, il commercio e le colonie creano ed hanno creato l’importanza della classe media in Istati ove tutto tende ad impedire la trasmissione dei fondi. Alle forza della denuncia dei riformatori meridionali, alle propo- Motivi dell’emigrazione italiana ste avanzate da uomini di tendenza liberale, non seguì un’incisiva azione politica volta a modificare la drammatica realtà strutturale del Mezzogiorno. Così, il nuovo Stato, nato dall’unificazione, eredità, insieme a quelle province anche problemi vecchi di anni. Ai quali, a sua volta, non seppe rimediare. Anzi, l’alleanza seguita alla repressione del brigantaggio, segnò l’inizio di una fase ancor più rovinosa per il Mezzogiorno. Soprattutto le condizioni di vita dei contadini precipitarono notevolmente. E il fenomeno dell’emigrazione iniziò ad assumere un aspetto allarmante per natura e proporzioni numeriche. I contadini non emigravano più da una regione d’Italia all’altra. Ma si dirigevano verso l’America, soprattutto meridionale, e, nei migliori dei casi, verso Paesi europei quali: Francia, Svizzera, Germania Austria Russia. E qualcuno prendeva la strada del Levante e dell’Africa. Gli anni , , , , furono cruciali per il fenomeno. Con una frequenza di – mila partenze all’anno, più di . persone avevano lasciato l’Italia. Una buona parte delle quali erano contadini meridionali. E il desiderio che li animava era in tutti il medesimo: iniziare una vita nuova e migliore. Ma se in questi anni, ovvero prima del , l’emigrazione poteva ancora sembrare un fenomeno al quale si potesse porre rimedio con una politica tendente a frenarla e/o scoraggiarla, non così fu negli anni successivi, poiché fu lo stesso fenomeno a scoraggiare coloro i quali volevano fare una politica seriamente repressiva. Difatti ci si rese conto che fattori imponderabili, e per certi aspetti incontrollabili, giocavano un ruolo importantissimo. Alla questione sociale interna si univano anche cause esterne, costituite dalle sollecitazioni di altri Stati che avevano bisogno di incremento demografico come l’Argentina e il Brasile, di cui peraltro ho già scritto, nonché dal crearsi di situazioni favorevoli come il ribasso dei noli marittimi e gli inviti degli emigrati a parenti e ad amici rimasti in patria. Dal Veneto al Friuli, dall’Abruzzo alla Sicilia, insomma dalle province del Nord a quelle diseredate e abbandonate del Sud una massa di disperati, per lo più contadini analfabeti, inseguivano il miraggio di una vita migliore fuori dai confini della Patria, divenendo facile preda di qualunque mascalzone offrisse loro uno spiraglio di speranza. Vendevano quel poco che possedevano al fine di mettere insieme il danaro per acquistare il bi- Lettaratura italiana dell’emigrazione glietto d’imbarco e, così, inconsapevoli dell’avventura in cui si imbarcavano, espatriavano e in molti casi per sempre. Il fenomeno aveva raggiunto proporzioni talmente vaste che si sentì il bisogno di varare una legge sull’emigrazione, che, dopo un acceso dibattito in cui, fra gli altri, intervennero il deputato Luigi Bonghi, fiero oppositore dell’emigrazione e il parlamentare friulano Valussi, contrario al suo impedimento e quindi favorevole a che ognuno ne facesse da sé la prova, in quanto a suo dire, l’emigrazione se ben tutelata e diretta in molti casi era un bene per alcuni paesi anche perché «le espansioni — come egli sosteneva — giovano alle industrie, alla navigazione e al commercio della madre patria»; il fenomeno, dicevo, aveva raggiunto proporzioni così vaste che si sentì il bisogno di varare una legge sull’emigrazione che dopo un acceso dibattito fu approvata dal parlamento il dicembre di cui ben presto, però, ne venne sottolineata la parzialità e la ristrettezza, in quanto suo principale obiettivo era quello di regolarizzare l’attività degli agenti e delle agenzie di emigrazione limitandone gli abusi che tanto scandalo avevano suscitato, e la cui attività truffaldina era già stata denunciata sin dal lontano dall’on. Lualdi con queste amare parole: Ci sono dei comitati sparsi nel nord d’Italia e anche nel vicino Canton Ticino, i quali adoperano ogni mezzo per far emigrare questa povera gente eccitati come sono da un guadagno: credo che per ogni persona che riescono a far salire su un bastimento a Genova, o in un altro porto, ricevano poi da a lire di premio Così, dopo vent’anni dal grido d’allarme lanciato in Palazzo Vecchio a Firenze dall’onorevole Lualdi si giunse finalmente ad approvare una legge che dopo la solenne premessa «l’emigrazione è libera», aveva un unico protagonista: l’agente d’emigrazione. L’emigrante, in quanto tale, esisteva unicamente o soltanto nei suoi rapporti con l’agente, non come cittadino da seguire, da assistere dalla partenza sino al paese d’arrivo. Del resto, era ciò quello che chiedevano strati sempre più larghi di opinione pubblica che facevano proprie le idee di personaggi rappresentativi della nostra politica come Nitti ed Einaudi. Giustino Fortunato, da parte sua così scriveva in proposito: Pensiamo a proteggere, a difendere, sia alla partenza che nel viaggio, sia all’arrivo, Motivi dell’emigrazione italiana le migliaia di nostri fratelli, i quali, non più rassegnati alla fame, come proprio retaggio, volontariamente solcano il mare infido, scendono a Rio de Janeiro, a Buenos Ayres, e mandano in Italia, ogni anno a furia di privazioni e di fatiche, da a milioni di lire. Sono quei milioni di lire per l’appunto, e non altri, che salvano dall’inedia alcune nostre province del Mezzogiorno. Penso sia debito supremo dell’Italia aver piena coscienza di quanto importino, di quanto debbano importare, per la sua buona fama, per lo stesso suo bene, la cura e la tutela di quegli oltre due milioni di suoi figli che sono nell’America Latina. Intorno a tale esigenza espressa da Giustino Fortunato di un allargamento della sfera di competenze dello Stato nell’opera di tutela dell’emigrante anche fuori della Patria nacquero iniziative private, nelle quali un notevole peso lo ebbero quelle clericali che — come scrisse Luigi Einaudi nella primavera del — ormai non più estranee alla vita pubblica dovevano formare la base di un nuovo progetto di legge sull’emigrazione, destinato e reprimere le piaghe più acute allora «ancora sanguinanti nella nostra emigrazione». Fu così che il gennaio venne approvata la nuova legge sull’emigrazione. Scomparvero gli agenti sostituiti dai vettori di emigranti che dovevano avere patente e licenza; venne istituito un fondo per l’emigrazione, creato il Commissariato Generale per l’emigrazione. Ma gli agenti non si rassegnarono a scomparire, e, alla vigilia della discussione parlamentare della legge, pubblicarono questo volantino: L’agente di emigrazione oggi, per quanto glielo consentono le sue forze, difende l’emigrante da tutti i possibili soprusi di cui può essere vittima non fosse altro che per acquistarsi la simpatia del cliente augurandosi così di ingrandire la sua clientela. Mentre il giorno in cui solo pochi privilegiati monopolizzeranno tutto il traffico dell’emigrazione italiana, non saranno certamente loro che assisteranno all’imbarco all’esplicazione di tutte le operazioni di detti emigranti. Questi signori affideranno tali esplicazioni ad impiegati che certamente non potranno sentire la simpatia e l’interesse, che l’agente di emigrazione sente per lo sventurato che lascia il proprio paese. Cambierà il nome, ma non l’andamento, e la sola differenza che si avrà sarà solo che oggi con detto traffico vivono migliaia di famiglie e domani, invece, questo servirà ad arricchire sempre più pochi e forti azionisti, mentre l’emigrante, per le sue condizioni intellettuali e sociali, subirà sempre i danni e le conseguenze dei miasmi che, sia nei propri paesi, che nei porti d’imbarco, su di essi si annidano.