approfondimento lezione 4 Tacito Annales

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Claudio accoglie i Galli nell’ordo senatorio
(Tacito, Annales, XI, 23-24)
Il testo che segue riporta il dibattito che si tenne in Senato nel 48 d.C. circa l’ammissione al rango
senatorio di alcuni maggiorenti delle Tre Gallie. L’intervento dell’imperatore Claudio, favorevole
al provvedimento, diviene l’occasione per un excursus storico sul rapporto tra Roma e gli alleati e
sui benefici ricavati dall’estensione dei diritti di cittadinanza. Tale processo viene presentato
secondo una prospettiva unitaria di lunga durata, i cui inizi si fanno risalire a Romolo: vengono
taciute le costanti resistenze, peraltro presenti anche in questa discussione, da parte delle
oligarchie senatorie, che resero tutt’altro che facile e spontaneo l’allargamento dei diritti e dei
privilegi ad essi collegati. Ricordiamo in proposito la guerra sociale (91-88 a.C.) e la strenua
opposizione ai provvedimenti cesariani del 44 a.C. che estendevano ai Transpadani la cittadinanza
romana. L’orazione originale fu incisa su tavole di bronzo esposte a Lugdunum (Lione) e ritrovate
nel XVI sec.: il testo epigrafico, a differenza dell’elaborazione retorica di Tacito, ha taglio più
spiccatamente giuridico e contiene alcune differenze rilevanti, prima tra tutte l’attestazione della
superiorità dei senatori nati in Italia rispetto ai provinciali.
23. A. Vitellio L. Vipstano consulibus cum de supplendo senatu agitaretur primoresque Galliae,
quae Comata appellatur, foedera et civitatem Romanam pridem adsecuti, ius adipiscendorum in urbe
honorum expeterent, multus ea super re variusque rumor. et studiis diversis apud principem
certabatur adseverantium non adeo aegram Italiam ut senatum suppeditare urbi suae nequiret.
suffecisse olim indigenas consanguineis populis nec paenitere veteris rei publicae. quin adhuc
memorari exempla quae priscis moribus ad virtutem et gloriam Romana indoles prodiderit. an parum
quod Veneti et Insubres curiam inruperint, nisi coetus alienigenarum velut captivitas inferatur? quem
ultra honorem residuis nobilium, aut si quis pauper e Latio senator foret? oppleturos omnia divites
illos, quorum avi proavique hostilium nationum duces exercitus nostros ferro vique ceciderint,
divum Iulium apud Alesiam obsederint. recentia haec: quid si memoria eorum moreretur
qui sub Capitolio et arce Romana manibus eorundem perissent satis: fruerentur sane vocabulo
civitatis: insignia patrum, decora magistratuum ne vulgarent.
[24] His atque talibus haud permotus princeps et statim contra disseruit et vocato senatu ita exorsus
est: 'maiores mei, quorum antiquissimus Clausus origine Sabina simul in civitatem Romanam et in
familias patriciorum adscitus est, hortantur uti paribus consiliis in re publica capessenda,
transferendo huc quod usquam egregium fuerit. neque enim ignoro Iulios Alba, Coruncanios
Camerio, Porcios Tusculo, et ne vetera scrutemur, Etruria Lucaniaque et omni Italia in senatum
accitos, postremo ipsam ad Alpis promotam ut non modo singuli viritim, sed terrae, gentes in nomen
nostrum coalescerent. tunc solida domi quies et adversos externa floruimus, cum Transpadani in
civitatem recepti, cum specie deductarum per orbem terrae legionum additis provincialium
validissimis fesso imperio subventum est. num paenitet Balbos ex Hispania nec rninus insignis viros
e Gallia Narbonensi transivisse? manent posteri eorum nec amore in hanc patriam nobis concedunt.
quid aliud exitio Lacedaemoniis et Atheniensibus fuit, quamquam armis pollerent, nisi quod victos
pro alienigenis arcebant? at conditor nostri Romulus tantum sapientia valuit ut plerosque populos
eodem die hostis, dein civis habuerit. advenae in nos regnaverunt: libertinorum filiis magistratus
mandare non, ut plerique falluntur, repens, sed priori populo factitatum est. at cum Senonibus
pugnavimus: scilicet Vulcsi et Aequi numquam adversam nobis aciem instruxere. capti a Gallis
sumus: sed et Tuscis obsides dedimus et Samnitium iugum subiimus. ac tamen, si cuncta bella
recenseas nullum breviore spatio quam adversus Gallos confectum: continua inde ac fida pax. iam
moribus artibus adfinitatibus nostris mixti aurum et opes suas inferant potius quam separati habeant.
omnia, patres conscripti, quae nunc vetustissima creduntur, nova fuere: plebeii magistratus post
patricios, Latini post plebeios, ceterarum Italiae gentium post Latinos. inveterascet hoc quoque, et
quod hodie exemplis tuemur, inter exempla erit.'
23. Sotto il consolato di A. Vispanio e L. Vitellio, poiché si discuteva sull’integrazione nel senato di
nuovi membri, e poiché i più nobili abitanti della Gallia detta Comata1, che avevano già prima
ottenuto trattati di alleanza e il diritto di cittadinanza romana, chiedevano la facoltà di esercitare i
diritti politici in città e di essere eletti, le opinioni al riguardo erano molte e diverse. E con strategie
diverse si cercava di ottenere l’appoggio del principe: c’erano quelli che insistevano sul fatto che
l’Italia non era così mal ridotta da non essere in grado di fornire il senato alla sua capitale. Dicevano
che un tempo gli autoctoni erano stati sufficienti per governare i popoli dello stesso sangue, e che
non ci si doveva pentire degli usi della vecchia repubblica: era anzi possibile ricordare esempi di
gloria e virtù, forniti dal carattere romano, secondo gli antichi costumi. Non era forse già abbastanza
grave il fatto che i Veneti e gli Insubri avessero fatto irruzione nella curia2, senza che con una massa
di stranieri si facessero entrare in senato dei, per dir così, prigionieri? Che carriera politica restava
per i residui membri della nobilitas, o per un povero senatore di origini laziali, se mai ce n’era
ancora qualcuno? Tutti i posti li avrebbero occupati quegli arricchiti, i cui nonni e bisnonni, alla
guida di tribù ostili, avevano fatto strage con ferro e violenza dei nostri eserciti, e avevano assediato
ad Alesia il divino Giulio3. Per non parlare che delle vicende recenti: cosa sarebbe accaduto se si
fosse risvegliato il ricordo di quelli che erano morti in difesa del Campidoglio e dell’acropoli della
città4, abbattuti dagli attacchi proprio di costoro? Si accontentassero dunque di esser considerati
cittadini romani: non si dovevano avvilire le insegne dei padri, gli onori delle magistrature.
24. Per nulla turbato da queste opinioni, e altre di questo genere, il principe immediatamente tenne
un discorso e, convocato il senato, cominciò così: “I miei antenati, di cui il primo, Clauso, di origine
sabina5, fu accolto nella cittadinanza romana e fra le famiglie patrizie, mi esortano ad adottare simili
decisioni nel governo dello stato, portando qui quanto di egregio vi sia stato altrove. Infatti so bene
che i Giulii vengono da Alba, i Coruncani da Camerio, i Porci da Tusculo6, e, per non considerare
solo stirpi antiche, altri sono stati chiamati in senato dall’Etruria, dalla Lucania e da ogni parte
d’Italia. Infine l’Italia stessa ha allargato i suoi confini fino alle Alpi, così che non solo gli uomini,
presi singolarmente, ma anche le terre, i popoli, crescessero insieme nel nostro nome. Da quando,
fatti entrare nella cittadinanza i Transpadani, si è portato aiuto al nostro dominio indebolito con
l’aggiunta delle valide forze dei più validi fra i provinciali, col pretesto di fondare colonie militari in
tutto il mondo, godiamo in patria di una stabile pace e siamo prosperi nelle vicende internazionali.
Forse ci siamo pentiti che siano venuti qui i Balbi7 dalla Spagna, o uomini non meno nobili dalla
Gallia Narbonese? Rimangono i loro discendenti, e non ci sono inferiori nell’amore verso questa
patria. Cos’altro fu rovinoso per Spartani e Ateniesi, benché fossero potenti sotto il profilo militare,
se non il fatto che tenevano lontani i vinti, trattandoli da stranieri8? Invece il nostro fondatore,
Romolo, fu così saggio da considerare moltissimi popoli nello stesso giorno prima nemici, poi
concittadini9. Abbiamo avuto re stranieri10. Affidare le magistrature ai figli dei liberti non è
consuetudine recente, come molti ritengono ingannandosi, ma era d’uso anche per gli antichi 11. Ma
abbiamo combattuto contro i Senoni12: Volsci ed Equi, di sicuro, non hanno mai combattuto contro
di noi13! Siamo stati fatti prigionieri dai Galli: ma abbiamo dato ostaggi agli Etruschi14 e abbiamo
subito il giogo dei Sanniti15. E tuttavia, se si ripercorrono tutte quante le guerre, nessuna è durata
meno di quelle contro i Galli: e dopo la pace è stata continua e sicura. Ora, assimilati i nostri
costumi, attività, parentele, ci portino anche il loro oro e le loro ricchezze, piuttosto che, separati da
noi, se le tengano per loro. Senatori, tutto ciò che ora ha antichissima tradizione, un tempo fu
nuovo. I plebei hanno ottenuto l’accesso alle magistrature dopo i patrizi, dopo i plebei i Latini, e
dopo i Latini tutti gli altri Italici. Anche la decisione di oggi un giorno sarà antica, e quello che oggi
legittimiamo attraverso esempi del passato, sarà considerato un esempio nel futuro”.
1. Viene così definita la Gallia Transalpina con riferimento alle lunghe chiome dei suoi abitanti; si differenziava dalla
Narbonese, provincia romana dal 121 a.C., e dalla Cisalpina, detta Togata poiché gli abitanti adottarono rapidamente la
toga romana, alla quale furono estesi i diritti di cittadinanza da Giulio Cesare.
2. Gli Insubri, popolazione celtica stabilitasi nell’area lombarda, furono sconfitti più volte dai Romani e si allearono ad
Annibale durante la seconda Guerra punica; nel 149 a.C. strinsero definitivamente alleanza con Roma, conservando
l'autonomia della loro capitale Mediolanum (Milano). Nell'89 a.C. ottennero la cittadinanza latina e nel 49 a.C. quella
romana insieme a tutta la Gallia Cisalpina. I Veneti erano insediati in tutta la regione veneta. La loro città più
importante fu Padova, che una leggenda vuole fondata dal troiano Antenore. Ebbero sempre rapporti amichevoli con i
Romani, che si insediarono pacificamente nel Veneto. Nonostante la ormai assodata romanizzazione di queste genti, nel
testo viene rimarcata la diffidenza dell’oligarchia senatoria che ritiene un’irruzione (inrupuerint) il loro ingresso in
Senato.
3. L’oppidum di Alesia fu sede nel 52 a.C. della battaglia decisiva tra i Galli e Cesare, che ne descrisse con minuzia le
fasi nel De bello gallico (VII, 69-90). Diverse tribù galliche coalizzate sotto la guida dell’arverno Vercingetorige, in
tutto 80000 soldati oltre alla popolazione locale, furono assediati, poi sconfitti. In seguito la Gallia fu sottomessa e
divenne Provincia romana; non vi furono più rivolte indipendentiste per oltre tre secoli.
4. Si fa riferimento ad uno degli episodi considerati tra i più traumatici della storia di Roma, al quale sono legati fatti e
figure esemplari: nel 390, dopo aver sconfitto i Romani presso il fiume Allia, un’avanguardia di Galli Senoni guidati da
Brenno (in celtico appellativo del capo) si spinse fino a Roma, la incendiò e la saccheggiò, fece strage di quanti non
riuscirono a rifugiarsi sul Campidoglio. Qui la leggenda narra delle oche sacre a Giunone, che diedero l’allarme e
impedirono l’accesso dei Galli al colle, e del coraggio di Furio Camillo, conquistatore di Veio, che avrebbe impedito il
pagamento al nemico di un ingente
riscatto e avrebbe fatto fuggire i Galli senza bottino. In realtà, i Galli non intendevano occupare stabilmente Roma e si
portarono via il bottino di guerra.
5. Claudio, cultore e scrittore di storia, oppone un ragionamento uguale e contrario partendo dai primi popoli che
entrarono a contatto con Roma. Nomina dapprima i Sabini, antico popolo dell’Italia centrale in relazione con Roma fin
dalle origini: il loro re Tito Tazio affiancò Romolo dopo l’alleanza che seguì l’episodio del ratto delle Sabine. Furono
sabine molte delle cento gentes originarie tra cui la gens Claudia, i cui capi andarono a costituire il nucleo del Senato.
6. Alba Longa, la più antica città latina, ebbe come mitico fondatore Iulo, figlio di Enea, quindi nipote di Venere, e
capostipite della gens Iulia. Di Camerio era originario Tiberio Coruncanio, homo novus e console nel 280 a.C.,
pontefice e giurista illustre. Tuscolo, da taluni considerata per il suo nome di origine etrusca, divenne romana con la
battaglia del lago Regillo (500 a.C. circa) e ricevette la cittadinanza nel 380 a.C.; diede i natali a Catone il Censore e
Cicerone vi risiedette in una sua villa dove ambientò le Tusculanae disputationes.
7. Era una famiglia di origine fenicia proveniente da Gades (Cadice). Tra i Balbi famosi ricordiamo Marco Azio Balbo,
nonno materno di Augusto, e Lucio Cornelio Balbo, amico di Pompeo e Cesare; seguì quest’ultimo nelle Gallie e in
Spagna e ricevette la cittadinanza romana per meriti. Cicerone lo difese nel 56 a.C. con la pro L. Cornelio Balbo.
8. In latino “victos pro alienigenis arcebant”: arceo, ‘tener lontano’, ha la stessa radice di arx, arcis la cittadella
fortificata, nel punto più alto della città e difesa da mura: alla debolezza di Sparta e Atene, che non riuscirono mai a
creare uno stato solido, contribuì la demonizzazione del nemico, l’incapacità di renderlo simile.
9. Si riferisce all’episodio del ratto delle Sabine, cfr. nota 5.
10. Furono stranieri, secondo Tito Livio, i re della dinastia etrusca, fra cui Tarquinio Prisco, originario di Corinto, e
Servio Tullio, che secondo la tradizione era figlio di una forestiera di nobili origini, schiava dello stesso Tarquinio
Prisco.
11. Alcuni figli di liberti furono ammessi in senato nel 310 a.C. dal censore Appio Claudio Cieco; la scelta fu
considerata a tal punto scandalosa e disonorevole (lectio infamis atque invidiosa, dice Livio, V, 29) che il collega di
Appio si dimise dalla carica di censore.
12. Confutando puntualmente le argomentazioni dell’opposizione, Claudio fa riferimento ai Galli che presero Roma nel
390 a.C. (cfr. nota 4): essi appartenevano alla tribù dei Senoni, giunti nella penisola italica agli inizi del IV sec. a.C. e
stanziati stabilmente nel Piceno. Ne conserva il nome la città di Senigallia, l’antica Sena Gallica.
13. L’espressione è ironica: Equi e Volsci furono popolazioni italiche stanziate nel Lazio nord-orientale, a lungo alleate
contro Roma e definitivamente sottomesse dopo la seconda guerra sannitica. Si distinsero nelle lotte contro di essi
Romani esemplari come Cincinnato e Coriolano.
14. Si fa riferimento ai tempi del predominio etrusco sul Lazio, del re Porsenna e di Muzio Scevola (inizi del VI sec.
a.C.).
15. L’antico popolo dei Sanniti era stanziato sull’Appennino meridionale tra Campania, Abruzzo e Lucania; parlavano
l’osco, una lingua indoeuropea del gruppo italico. I Romani si opposero alla loro espansione nelle tre guerre dette
appunto sannitiche (IV-III sec. a.C.). Claudio fa qui riferimento alla battaglia delle Forche caudine (321 a.C.), in seguito
alla quale i Romani sconfitti vennero gravemente umiliati dovendo passare sotto il giogo disarmati e insultati dai
vincitori che li sovrastavano in posizione dominante.
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