UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “FEDERICO II” DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE Federica Web Learning Corso di STORIA DELLE RELAZIONI EUROMEDITERRANEE A.A. 201 4/2015 (Prof. Matteo Pizzigallo) MATTEO PIZZIGALLO (Martina Franca,1950) si è laureato in Scienze Politiche nell’Università “La Sapienza” di Roma ove ha iniziato la carriera scientifica in qualità di assistente ordinario. Dal 1980 Professore all’Università di Bari, nel 1992 è stato chiamato all’Università di Napoli “Federico II”, Facoltà di Scienze Politiche ove tuttora lavora in qualità di Professore ordinario di Storia delle Relazioni Internazionali. Studioso di diplomazia mediterranea, degli aspetti politico internazionali della questione energetica e di relazioni italo-arabe, è autore di numerosi volumi, articoli e saggi. Tra i suoi lavori più recenti: L’Italia e il Mediterraneo orientale (Milano, 2004), Amicizie mediterranee e interesse nazionale (Milano, 2006). La diplomazia italiana e i Paesi arabi dell’Oriente Mediterraneo, (Milano,2008), Il Ponte sul Mediterraneo, (Roma 2011), L’Italia e le monarchie petrolifere del Golfo, (Roma 2012), La Politica araba dell’Italia democristiana, (Milano 2013). Giornalista pubblicista. Programma del corso Il Mediterraneo nel XX secolo: storia e problemi. Il Mediterraneo dal primo al secondo dopoguerra. Analisi di scenario e casi di studio. La nascita del nazionalismo arabo e la “liberazione” del mediterraneo. La politica mediterranea della Repubblica italiana e le relazioni bilaterali italo-arabe. La crisi di Suez. Le ripercussioni mediterranee delle guerre arabo-israeliane: aspetti politici ed economici. I tentativi di pace in Medio Oriente. Origini storico-politico-diplomatiche della Cooperazione euromediterranea. Il processo di Barcellona e i suoi sviluppi. L’Unione per il Mediterraneo. Il ruolo dell’Italia. La “primavera” araba e il nuovo scenario mediterraneo. Tunisia, Marocco, Egitto, Libia e Siria. Il ruolo delle monarchie petrolifere del Golfo. Indice delle lezioni PARTE PRIMA 1.“Il mare unisce i popoli che separa”: lezione introduttiva 2.Il mediterraneo alla vigilia della prima guerra mondiale 3.Il mediterraneo e la prima guerra mondiale 4.Il Mediterraneo fra le due guerre mondiali 5.Il Mediterraneo nel secondo dopoguerra 6.La “Liberazione” del Mediterraneo 7.La Battaglia di Algeri e la Crisi di Suez 8.La politica mediterranea della Repubblica italiana 9.Il difficile cammino della pace nell’Oriente mediterraneo 10.Dalla Conferenza di Barcellona alla Unione per il Mediterraneo PARTE SECOINDA 11.La Primavera araba e il nuovo scenario mediterraneo 2013 12.Primavera in Marocco 13.Rivoluzioni in Egitto 14.Il complicato "rebus" Libia 15.La guerra civile in Siria Tratto da http://www.federica.unina.it/corsi/storia-delle-relazioni-euromediterranee/ Impaginazione a cura di MASSIMO IAQUINANGELO 1.“Il mare unisce i popoli che separa”: lezione introduttiva “Il mare unisce i popoli che separa” A. Pope Immagini mediterranee Le due immagini che seguono illustrano con efficacia la prospettiva in cui intendono collocarsi queste lezioni di Storia delle relazioni euromediterranee. La prima immagine è il “Mediterraneo rovesciato”, carta geografica del XIII secolo custodita (e speriamo lo sia ancora) nella Biblioteca nazionale di Baghdad. Ci fa vedere come all’epoca veniva rappresentato dai geografi orientali e come appariva ai navigatori che da Levante facevano rotta sui porti cristiani attraverso il Mare Bianco d’Oriente, Ak Deniz. La seconda immagine è il “Porto del Mediterraneo”, dipinto tra il 1744 e il 1749, sulla parete di una prestigiosa dimora inglese dal vedutista modenese Antonio Joli. In questo porto immaginario sono presenti tutti insieme vari elementi architettonici che richiamano i porti di Genova, Venezia e Napoli nonché, in una mescolanza di colori e abiti orientali, diverse figure che, insieme o separatamente, si sarebbero potute incontrare in un qualsiasi porto mediterraneo dell’epoca. Il mediterraneo rovesciato – XII secolo - Porto del Mediterraneo (Antonio Joli) Che cos’è il Mediterraneo? “Che cos’è il Mediterraneo?- ha scritto il grande storico Fernand Braudel- Molte cose al tempo stesso. Non una civiltà, ma più civiltà ammassate l’una sull’altra. Il Mediterraneo è un antico crocevia. Da millenni tutto è confluito verso questo mare, scompigliando ed arricchendo la sua storia.” Una storia che la modernità ha reso ancora più complessa e di difficile lettura. E così talvolta è accaduto, specie in alcuni studi recentemente apparsi, che l’accuratezza critica e l’analisi storica siano state sopraffatte dalla tentazione sempre in agguato di ricorrere alle semplificazioni preconcette oppure alle inconscie suggestione dei miti. “Non esiste una sola cultura mediterranea…” “…non esiste una sola cultura mediterranea …” SABRATAH, Great Socialist People’s Lybian Arab Jamahirya “… Il resto è mitologia …” “Molte definizioni che fanno parte del nostro patrimonio –scrive l’illustre slavista Pedrag Matvejevic’devono essere prese con cautela. Non esiste una sola cultura mediterranea: ce ne sono molte in seno a un solo Mediterraneo. Le somiglianze sono dovute alla prossimità di un mare comune e all’incontro sulle sue sponde di nazioni e forme di espressioni vicine. Le differenze sono segnate da origini e storia, credenze e costumi, talvolta inconciliabili. Né le somiglianze né le differenze sono assolute o costanti: talvolta sono le prime a prevalere, talvolta le ultime. Il resto è mitologia”. “… Una visione differenziata …” Un approccio metodologicamente corretto alla storia delle relazioni euromediterranee in età contemporanea può essere dunque rappresentato dall’analisi delle “somiglianze e delle differenze” incrociata però con lo studio delle politiche interne e internazionali dei singoli Paesi della Sponda Sud del Mediterraneo lette anche alla luce delle più recenti ricerche e interpretazioni di qualificati storici del Litorale arabo. Insomma un primo sperimentale tentativo di analisi che tenga anche conto del Mediterraneo “rovesciato”, nella prospettiva non tanto di scrivere un’impossibile “storia condivisa”, che appartiene ai miti, quanto piuttosto di “condividere una visione differenziata dei problemi e, soprattutto, delle loro radici profonde. Attraverso il Mediterraneo Possiamo iniziare il nostro viaggio attraverso il Mediterraneo e le sue storie partendo dai primi anni del Novecento, quando l’Europa delle grandi potenze aveva consolidato il suo dominio sulle colonie d’Oltremare… 2.Il mediterraneo alla vigilia della prima guerra mondiale Vigilia di guerra Alla vigilia della prima guerra mondiale tutti i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo erano controllati dalle Potenze europee; Per la precisione, il Marocco e la Tunisia erano sotto protettorato francese. Solo da un punto di vista formale nei due Paesi i rispettivi sultano e bey continuavano a regnare, mentre di fatto tutti i gangli vitali della politica e dell’economia erano sotto l’esclusivo controllo francese; L’Algeria, invece, sin dalla prima metà dell’ottocento era una vera e propria colonia francese “di sfruttamento e di popolamento” e, quest’ultimo aspetto, molti anni dopo, come vedremo nelle lezioni seguenti, sarebbe stato all’origine di gravi problemi; La Libia, dal 1911 era una “nuova” colonia dell’Italia, anche se il reale controllo del territorio da parte delle Autorità italiane era solo limitato a Tripoli ed ad alcune zone costiere. Nel quadro delle operazioni militari connesse alla guerra di Libia, L’Italia aveva altresì occupato Rodi e le isole del Dodecanneso. La guerra libica L’Egitto di Fuad L’Egitto era dalla fine dell’ottocento una colonia della Gran Bretagna, che controllava anche il Canale di Suez, l’importante Base di Aden ed il Sudan. Per quest’ultimo Paese fu inventato il “condominio” anglo-egiziano, di fatto una vera e propria finzione giuridica, perché il controllo del territorio era esercitato esclusivamente dal governatore britannico. Nel 1914 la Gran Bretagna trasformò l’Egitto in protettorato e, solo nel 1922, avrebbe concesso l’indipendenza affidandone la corona a Fuad (nella foto a sinistra). Come sempre, però, si sarebbe trattato, ancora una volta, di una finta indipendenza, perché la Gran Bretagna avrebbe mantenuto il controllo esclusivo sul Canale di Suez (presidiato da truppe inglesi) nonché sulle forze armate dell’Egitto e sulla sua politica estera. L’emiro Hussein I Paesi Arabi del Mediterraneo orientale, Libano, Palestina e Siria, facevano parte integrante di quel che restava (larga parte della Penisola arabica tra il Mar Rosso e il Golfo persico) dell’antico grande Impero ottomano; Alla vigilia della prima Guerra Mondiale, l’occhiuta sorveglianza turca aveva avvertito una forte ripresa dal nazionalismo arabo che, sia pur declinato nelle varie province dell’Impero con modalità e aspirazioni diverse, non sempre compatibili, sprigionava però una comune spinta all’autonomia e all’indipendenza; E così mentre l’Emiro dell’Hijaz, Hussein (nella foto a sinistra), capo della nobile famiglia degli Hashemiti ( cui appartiene l’attuale re di Giordania), sognava per sé la creazione di un grande regno arabo, i nazionalisti siriani e libanesi, espressione di una borghesia mercantile più aperta ed evoluta, rivendicavano subito maggiori diritti, autonomia politica e autogoverno. Sulla sponda sud del Mediterraneo Sulla sponda Sud del Mediterraneo nello stesso periodo, anche nelle colonie nordafricane delle Potenze europee, gli arabi erano sempre più insofferenti nei confronti della rapace ed opprimente dominazione straniera. A tal proposito, il grande storico francese André Nouschi scrive : "Il capitalismo ha conquistato tutta la regione e si è introdotto persino nelle campagne più chiuse. Questa penetrazione ha trasformato la struttura dell’economia rurale e urbana; attraverso la colonizzazione ha tolto all’Egitto e al Magreb le terre migliori, ha aggravato i contrasti tra i più ricchi e i più poveri. Ha contribuito a disintegrare le strutture sociali tradizionali; ha posto, inoltre, sotto il dominio degli uomini di affari europei l’insieme delle ricchezze minerarie dei Paesi mediterranei." 3.Il mediterraneo e la prima guerra mondiale Le cause del conflitto In larga parte provocato dall’insanabile conflittualità interimperialistica anglo-germanica, cui si aggiunsero anche altre cause, come le inarrestabili spinte espansionistiche di alcune nazioni e le forti aspirazioni irredentistiche di altre, il primo conflitto mondiale (iniziato con la dichiarazione di guerra dell’Impero austriaco alla Serbia del 28 luglio 1914) si estese rapidamente a quasi tutte le potenze europee vincolate dalle rispettive alleanze contratte nel tempo. Da un lato, l’Intesa, la coalizione anglo-franco-russa cui si aggiunsero via via nuovi alleati: l’Italia (1915), la Romania (1916) e Stati Uniti (1917). In particolare, questi ultimi diedero un decisivo contributo soprattutto in termini di mezzi e di risorse finanziarie. Dall’altro, gli Imperi germanico, austriaco e turco cui si aggiunse la Bulgaria. La prima guerra mondiale L’assedio di Gallipoli I Turchi, con un potente dispiegamento di artiglieria, rafforzarono le difese costiere e minarono le acque dei Dardanelli e del Bosforo, chiudendo gli Stretti alla flotta russa bloccata nel Mar Nero. Le potenze dell’Intesa decisero, dunque, d’intervenire.(nella foto a sinistra artiglieria inglese a Gallipoli). Dopo un intenso bombardamento navale anglo-francese degli Stretti, ai primi di Marzo 1915, circa 500.000 uomini sbarcarono a Gallipoli, scontrandosi duramente con le forti capacità di resistenza delle armate turche, in parte sottovalutate dai Comandi inglesi. Alla fine dell’anno, gli alleati furono costretti a far rimpatriare il loro contingente, decimato dai sanguinosi scontri avvenuti nella penisola di Gallipoli. Le promesse inglesi Fallita, almeno per il momento, l’opzione militare, gli inglesi, d’intesa con gli Alleati, per colpire al cuore l’Impero turco, adottarono una spregiudicata strategia politico-diplomatica, non priva di forti elementi di ambiguità. Gli inglesi fecero leva sulle aspirazioni all’indipendenza e sulle forti ambizioni personali dell’emiro dell’Higiaz Hussein, (nella foto) capo degli Hascemiti, una delle più antiche famiglie dell’aristocrazia araba e insofferenti della lunga dominazione turca. In cambio della proclamazione della rivolta contro il Sultano di Istambul delle tribù beduine che avrebbero partecipato alla lotta armata, i diplomatici inglesi promisero all’ambizioso Hussein la creazione, sotto la sua corona, di un grande regno arabo indipendente, dalla Penisola arabica alla Mesopotamia ed alla Siria. Lawrence D’Arabia Il 26 giugno 1916, Hussein proclamò la rivolta araba e chiamò i capi delle tribù del deserto alla “guerra santa” contro i turchi. I ribelli arabi guidati dagli stessi figli di Hussein, Alì, Faysal e Abdallah (bisnonno dell’attuale re di Giordania) contribuirono in maniera significativa alle operazioni militari contro i turchi, alleggerendo impegno e compiti degli eserciti alleati. Sul fronte arabo un ruolo importante fu svolto da un ufficiale dell’ Intelligence inglese Thomas Lawrence (nella foto) destinato a diventare molto famoso e la cui vita, a metà tra storia e leggenda, sarebbe stata poi raccontata nell’omonimo celebre film del 1962 vincitore di ben 7 Oscar. Hussein Mentre Hussein si accingeva alla rivolta, sognando il grande regno indipendente fino alla Siria ed alla Mesopotamia promesso dagli Inglesi, questi ultimi, in maniera molto spregiudicata, violando deliberatamente gli impegni assunti con gli Arabi, sottoscrivevano, all’insaputa anche degli altri alleati Europei (tra cui l’Italia) una serie di accordi segreti con la Francia noti come Accordi Sykes- Picot (dal nome dei due negoziatori) ratificati nel maggio del 1916. In forza di questi accordi segreti, gli Inglesi ed i Francesi si dividevano il controllo proprio di quegli stessi territori che avrebbero dovuto formare il regno arabo promesso. In estrema sintesi, Libano e Siria alla Francia, Mesopotamia all’Inghilterra. A complicare ulteriormente la già intricata rete di accordi volti ad “imbrigliare” sotto il controllo anglo- francese (sia pur con modalità da stabilire in seguito al termine del conflitto) i vasti territori già promessi agli Arabi, si aggiungeva una nuova mossa del Governo di Londra. Infatti, nel tentativo di associare allo sforzo bellico occidentale anche le organizzazioni dei movimenti sionisti, il Ministro degli esteri britannico Lord Balfour il 2 novembre 1917 dichiarò che il Governo di Londra vedeva “con favore lo stabilirsi in Palestina di una Sede nazionale per il popolo ebraico”. Il generale britannico Allenby Il 12 dicembre 1917 il generale britannico Allenby (nella foto) alla testa di un contingente interalleato entrava a Gerusalemme posta sotto il controllo dell’amministrazione militare. Il 18 settembre 1918 Allenby riprendeva l’offensiva contro i Turchi e, il mese successivo, conquistava Damasco e Beirut. Il 30 ottobre 1918 sulla nave inglese Agamennon ancorata nel porto di Mudros i plenipotenziari turchi firmarono l’armistizio con gli Alleati. Ma per i Paesi arabi il peggio doveva ancora incominciare. 4.Il Mediterraneo fra le due guerre mondiali La scomparsa degli antichi imperi La prima guerra mondiale cambiò profondamente l’assetto geopolitico del Mediterraneo. Scomparvero per sempre antichi imperi. Quello zarista fu travolto dalla rivoluzione bolscevica del 1917. Gli imperi germanico, austriaco e turco furono sconfitti sul campo dalle Grandi potenze occidentali che, con cupidigia, si spartirono il ricco bottino di guerra. Fu però una spartizione ineguale a vantaggio di Gran Bretagna e Francia. Di conseguenza in alcuni Paesi (fra cui anche l’Italia), che durante il conflitto avevano contribuito alla vittoria finale, cominciò gradualmente a diffondersi un certo malessere e, soprattutto, una profonda sfiducia per il nuovo ordine internazionale generato dalla guerra. All’indomani dalla vittoria, le diplomazie dell’Alleanza occidentale predisposero i vari Trattati di pace, di fatto poi imposti con la forza ai Paesi vinti, ove furono subito percepiti come eccessivamente severi e punitivi. Sembrò quindi giusto opporsi con tutti i mezzi a quegli iniqui trattati per cercare di modificarli. Ma, tenuto conto dei rilevanti interessi dei Paesi vincitori e delle accese spinte revisioniste dei Paesi vinti, non era né semplice né facile mettere in cantiere modifiche condivise. Il trattato di Sèvres (1920) L’assetto del mediterraneo orientale fu stabilito con il Trattato di Sèvres (1920) imposto dai vincitori al rassegnato ed acquiescente Governo dell’ultimo sultano di Istanbul, disposto a tutto pur di salvare la dinastia. Il Trattato di Sèvres prevedeva, tra l’altro, la perdita di tutti i territori arabi dell’Impero ottomano, la temporanea cessione della provincia di Smirne alla Grecia (che l’aveva già occupata), nonché la spartizione dell’Anatolia in zone di influenza economica riservate ai Paesi europei. Kemal Ataturk Contro questo umiliante ed iniquo Trattato, si levò la violenta protesta del più prestigioso capo militare turco, Mustapha Kemal (nella foto a sinsitra), deciso a difendere con la forza l’orgoglio e la dignità della sua Patria offesa dal sultano e umiliata dagli stranieri. Armi in pugno Kemal, dopo avere sconfitto i greci e deposto l’ultimo sultano, ottenne un nuovo Trattato di pace ( firmato poi a Losanna il 24 luglio 1923) che, pur confermando la perdita delle province arabe, restituiva la piena integrità territoriale alla nuova Turchia repubblicana. Sotto la guida illuminata di Kemal detto Ataturk ( padre dei turchi) la Repubblica turca conobbe un lungo periodo di stabilità, durante il quel ebbe altresì inizio un graduale e condiviso processo di modernizzazione. La sistemazione del Medio oriente Più complessa fu la sistemazione delle ex province ottomane del Medio Oriente che, in base alle fraudolenti promesse inglesi avrebbero dovuto costituire il grande Regno Arabo destinato alla nobile famiglia degli Hascemiti, che si era ribellata al sultano ed aveva combattuto al fianco degli Alleati, contribuendo alla vittoria finale. Invece, Inghilterra e Francia onorarono soltanto gli accordi segreti Sykes-Picot (vedi lezione n.3) e, pertanto, si spartirono il Medio Oriente con la “complicità” della Società delle Nazioni ( la più importante organizzazione internazionale del tempo). Dopo vari negoziati fu infatti stabilito che la Francia ottenesse il mandato ( un raffinato istituto concepito dai giuristi per permettere di affidare alcuni Stati ritenuti non ancora maturi per l’indipendenza alla interessata tutela di alcune Potenze vincitrici della guerra) sulla Siria e sul Libano e l’Inghilterra sulla Palestina e sulla antica Mesopotamia che raggruppava le tre Province di Mosul, Baghdad e Bassora, cui fu dato il nome di Iraq. Il Mediterraneo orientale nel 1923 I mandati francese ed inglese in Medio oriente I francesi decisero di governare direttamente e separatamente i loro mandati di Siria e Libano. L’atteggiamento colonialista assunto dalla Francia nell’amministrazione di questi territori, creò non pochi problemi con le forze politiche locali, soprattutto con quelle di più marcato orientamento nazionalista, che lottavano per l’indipendenza e per la libertà. Nei territori sottoposti al loro mandato, gli inglesi, per recuperare il rapporto con gli Hascemiti, cui erano state fatte tante vane promesse, offrirono a Faysal la corona dell’Iraq e a suo fratello Abdallah quella della Transgiordania: un “nuovo” Stato ottenuto staccando un’ampia porzione dal Mandato palestinese. Il Mandato palestinese fu amministrato direttamente dalle Autorità britanniche, che consentirono l’immigrazione ebraica. Un’ immigrazione inizialmente limitata che, però, negli Anni Trenta, con l’inizio delle persecuzioni razziali in Europa, si fece via via più consistente. I sovrani Hascemiti A sinistra Faysal, re dell’Iraq. A destra suo fratello Abdallah, emiro della Transgiordania. 5.Il Mediterraneo nel secondo dopoguerra Il Mediterraneo nel secondo dopoguerra Durante la seconda guerra mondiale, il Mediterraneo fu teatro di accesi scontri fra i belligeranti. Tutti i Paesi della sponda Sud furono ripetutamente attraversati da eserciti contrapposti in un groviglio di alleanze. Da un lato gli Alleati anglo-americani e le truppe di France libre del generale De Gaulle; dall’altro le forze armate di Germania e Italia sconfitte su tutti i fronti. Al termine del conflitto lo scenario politico del Mediterraneo era completamente mutato, mentre già si sentivano i primi venti di guerra fredda originati dalla nascente contrapposizione fra i due Blocchi: occidentale a guida americana e orientale a guida sovietica. Nonostante le resistenze di Francia ed Inghilterra, gelose custodi di quel che restava dei loro imperi coloniali, le spinte all’indipendenza dei popoli arabi si facevano sempre più forti. Per alcuni Paesi il cammino verso la libertà fu relativamente semplice; per altri, come Marocco, Tunisia e soprattutto Algeria (come vedremo nella prossima lezione) fu molto difficile e complesso. La Libia, già colonia italiana, dopo un breve periodo di occupazione militare inglese, il 24 dicembre 1951 diventava un regno indipendente. L’Egitto (come si è visto nella lezione n.2) era già indipendente dal 1922. Ma si trattava di una finta indipendenza, perché la Gran Bretagna controllava il Canale di Suez e continuava ad esercitare sulla politica egiziana, un forte ed invasivo condizionamento sempre più mal sopportato dal re, dal Parlamento e, soprattutto, dai giovani ufficiali egiziani. La fine dei mandati Libano e Siria, nonostante un certo atteggiamento dilatorio della Francia, con modalità diverse, nel 1946 riuscirono finalmente ad ottenere la piena indipendenza e l’evacuazione di tutte le truppe straniere, segnatamente francesi ed inglesi. Più complessa fu la fine del mandato britannico sulla Palestina, dove, al termine della Guerra Mondiale, nonostante i controlli e i divieti delle autorità inglesi, continuavano ad affluire nuove consistenti ondate di disperati immigrati clandestini ebrei (drammaticamente memorabile fu la vicenda della nave Exodus, che ispirò il noto film di Otto Preminger -nella foto a sinistra la locandina del film-) molti dei quali sopravvissuti alle spietate persecuzioni e ad i campi di concentramento nazisti. Il piano dell’ONU per la Palestina La forzata coabitazione fra arabo-palestinesi ed immigrati ebrei diventò sempre più difficile, dando luogo a continui drammatici episodi di reciproche intolleranza ed ostilità, ben presto degenerati in aperti scontri armati con gravissime conseguenze per l’ordine pubblico, che le Autorità inglesi non riuscivano più a gestire, diventando Esse stesse bersaglio di ripetuti attacchi ed attentati compiuti da entrambe le controparti in lotta. Dopo un lungo lavoro istruttorio, non privo di contrasti e polemiche, il 29 novembre 1947, l’Assemblea dell’ONU approvava una risoluzione che prevedeva la spartizione della Palestina e la creazione di uno Stato ebraico e di uno Stato palestinese. Il piano di spartizione fu accolto con ostilità da entrambe le controparti e la guerra civile strisciante fra le due comunità ebraica ed arabo-palestinese esplose con rinnovato vigore e particolare violenza, mettendo a dura prova le Autorità britanniche che ancora occupavano la regione. La prima guerra arabo-israeliana Nel pomeriggio del 14 maggio 1948 (poche ore dopo l’improvvisa e precipitosa partenza del contingente militare inglese che poneva fine all’ormai ingestibile Mandato sulla Palestina), nel Museo di Tel Aviv, i dirigenti dei movimenti ebraici proclamavano, unilateralmente, la nascita della Stato di Israele (nella foto: David Ben Gurion Primo Ministro alla nascita dello Stato d’Israele) su tutto il territorio dell’ormai ex Mandato. Il giorno seguente gli eserciti di Egitto, Siria, Libano, Giordania e Iraq passavano all’attacco, dando origine alla prima guerra arabo-israeliana, la prima di una lunga serie destinata ad aprire una profonda e dolorosa ferita nel cuore del Medio Oriente che, ancora oggi, dopo sessanta anni, stenta a rimarginarsi e continua a provocare intensa sofferenza. La prima guerra arabo-israeliana, pur se temporaneamente sospesa dalle ripetute tregue d’armi imposte dall’ONU, durò dal maggio 1948 al gennaio 1949. I colloqui per l’armistizio fra Israele ed Egitto si conclusero il 24 febbraio 1949 con la firma del relativo atto ufficiale, il cui schema fu poi ripreso anche negli altri negoziati armistiziali fra Israele e i Paesi arabi che avevano preso parte alla guerra. Al Nakba, la catastrofe del popolo palestinese Israele, armi in pugno, si era conquistato con la forza il diritto ad esistere entro i confini di quasi tutto (comprendendo così anche la parte che avrebbe dovuto costituire lo Stato palestinese invano proposto dall’ONU) il territorio dell’ex Mandato inglese. Ad eccezione: - di Gerusalemme Est e della Cisgiordania (la regione sulla riva destra del fiume Giordano) occupate durante la guerra dall’emiro Abdallah che, contro il volere degli altri Stati arabi, decise, unilateralmente, di annetterle alla Transgiordania, dando così vita al Regno Hascemita di Giordania (ancora oggi sotto la stessa dinastia); - della Striscia di Gaza, occupata dall’Egitto, ove si riversarono oltre duecentomila profughi palestinesi ormai senza più una patria. Altre migliaia di disperati profughi palestinesi si rifugiarono in Libano e negli altri Paesi arabi. “Per i Palestinesi - come ha scritto lo storico Thomas Fraser - gli eventi del 1948-49 rappresentarono al Nakba, la catastrofe, della cui gravità stavano appena cominciando a rendersi conto…” 6.La “Liberazione” del Mediterraneo "Rialza la testa fratello…" "Rialza la testa fratello, i giorni dell'umiliazione sono passati". Queste parole ritmicamente ripetute nella notte come un gioioso canto di guerra riecheggiavano per le strade del Cairo svegliata alle prime luci dell'alba del 23 luglio 1952 dai soldati del generale Neguib (nella foto al centro) che, nelle prime ore del mattino, occupavano tutti gli edifici pubblici e la sede della Radio. Era incominciata la "rivoluzione di luglio" concepita dagli Ufficiali Liberi, un gruppo di giovani militari fra i quali Nasser (nella foto a sinistra) e Sadat destinati ad un ruolo importante nella storia dell'Egitto. La sera del 25 luglio il Comando rivoluzionario decise di far abdicare re Faruq, ritenuto il massimo responsabile della grave crisi economica del Paese e, soprattutto, degli indebiti arricchimenti di spregiudicati funzionari e di corrotti cortigiani spesso asserviti agli interessi stranieri. Il successo degli Ufficiali Liberi aveva prodotto in tutto l'Egitto grandi speranze e forti richieste di cambiamento che le componenti moderate del movimento e lo stesso Neguib non erano in grado di contenere. Gli Ufficiali più giovani e più estremisti, vicini al trentaquattrenne colonnello Nasser, puntavano direttamente a trasformare il Paese. E ciò doveva avvenire subito sulla base di semplici e chiare parole d'ordine: riforme sociali, fratellanza araba, lotta contro tutte le forme di colonialismo. Dopo un duro braccio di ferro, Nasser, nel novembre 1954, riuscì, alla fine, a liquidare il moderato Neguib concentrando tutti i poteri su di sé. Superata questa ultima fase di assestamento, l'Egitto ritrovava uno stabile assetto regolato dal Presidente Nasser, che avviava subito una intensa stagione di riforme, imboccando, al tempo stesso, la via dello scontro aperto contro tutte le forme di colonialismo ancora presenti nel Mediterraneo e contro i condizionamenti diretti o indiretti delle Potenze imperialistiche sui Paesi della Sponda Sud. La rivoluzione di Nasser si diffonde La rivoluzione di Nasser (nella foto Nasser in trionfo)sprigionò in gran parte del mondo arabo una forte carica liberatoria che galvanizzò l’entusiasmo dei movimenti nazionalisti nei Paesi mediterranei. Si accesero nuove speranze e i vari movimenti di liberazione "rialzarono la testa" e ripresero la lotta per l'indipendenza. L’indipendenza del Marocco La "liberazione" dei Paesi mediterranei della Sponda Sud si declinò con modalità diverse da Paese a Paese. In Marocco il principale partito nazionalista l'Istiqlal, che chiedeva la fine del protettorato francese, era sostenuto dal sultano Mohammed V. Questi però nell'agosto del 1953 fu "esiliato" in Madagascar dalle Autorità francesi, che insediarono al suo posto lo zio paterno Ben Arafa, ritenuto più conciliante. Ma dal suo esilio durato due anni, il deposto sultano Mohammed continuò a lottare per l'indipendenza del Marocco conquistandosi la fiducia del suo popolo, mentre l'Istiqlal intensificava le attività di resistenza anche armata. Intanto la situazione in Marocco tendeva a complicarsi e la posizione di Ben Arafa "il sultano dei francesi“, sostenuto solo dal alcuni notabili locali, diventava sempre più difficile. Il primo ottobre 1955 Ben Arafa lasciava il trono e partiva per Tangeri. Il 16 novembre 1955 il legittimo sovrano Mohammed V (nella foto a sinistra) rientrava a Rabat. L’indipendenza del Marocco (segue) Nei mesi seguenti venivano ripresi i colloqui franco marocchini che, non senza qualche acceso contrasto, si conclusero il 2 marzo 1956 con una dichiarazione comune che stabiliva il riconoscimento della piena indipendenza del Marocco retto da una monarchia costituzionale. "Gli ambienti colonialisti della Francia- ha recentemente scritto il giovane studioso marocchino Misk Hamidnei confronti del problema marocchino sentivano che davanti a loro la via sembrava libera. Grazie alla linea dura ed alla repressione, gli ambienti colonialisti vinceranno i primi confronti con i movimenti nazionalisti fino al giorno in cui a loro volta verranno vinti…” La liberazione della Tunisia (nella foto a sinistrai il primo presidente tunisino: Burghiba e nella foto a destra la bandiera della Tunisia ) I "colonialisti" francesi furono vinti anche in Tunisia dai nazionalisti del partito Neo-Destur che, nel 1952, guidati dal loro prestigioso capo Habib Burghiba, intensificarono le loro azioni di lotta per l’indipendenza. Per evitare che la situazione nel Paese si aggravasse ulteriormente, anche per il moltiplicarsi degli scontri fra guerriglieri tunisini e Forze dell’ordine, le Autorità francesi accettarono di intavolare negoziati diplomatici con i dirigenti del Neo-Destur. Dopo circa sei mesi di negoziati, finalmente, il 20 marzo 1956 veniva proclamata l’indipendenza della Tunisia e l’anno seguente veniva approvata la costituzione della Repubblica con Habib Burghiba presidente. Il presidente Burghiba mise in cantiere un ampio programma di riforme sociali e di struttura che, nel volgere di pochi anni, avrebbero trasformato e modernizzato la Tunisia. Menzione particolare va fatta del grandioso piano decennale di istruzione, lanciato nel 1958, e destinato ad infliggere un duro colpo alla secolare piaga dell’analfabetismo. Molto più complessa e dolorosa fu la liberazione dell’Algeria, la prima colonia francese nell’Africa mediterranea, che il Governo di Parigi aveva deciso di non cedere. In Algeria, come vedremo nella prossima lezione, la situazione era altresì complicata dall’antica presenza di oltre un milione di cittadini francesi (i cosiddetti Pied noirs) che si opponevano ad ogni forma di indipendenza o di autonomia della colonia e volevano nella maniera più assoluta solo il mantenimento di un’Algeria francese. 7.La Battaglia di Algeri e la Crisi di Suez La guerra di Algeria All’alba del primo novembre 1954 una nutrita serie di attentati contro caserme e posti di polizia francesi scuoteva l’Algeria. Gli attacchi furono rivendicati dal Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) che guidava la lotta per l’indipendenza dalla Francia. Incominciò così la guerra d’Algeria, la più drammatica e sanguinosa delle guerre di “liberazione” del Mediterraneo. La questione era complicata non solo dalla ferma volontà del Governo di Parigi di mantenere, per motivazioni di ordine politico ed economico, quel vasto territorio d’oltremare, ma anche dalla presenza in Algeria di quasi un milione di francesi, i cosiddetti pied noirs, che non volevano assolutamente staccarsi dalla Madrepatria. Nonostante l’immediata reazione delle forze di sicurezza francesi, l’insurrezione algerina continuò a crescere di intensità, elevando il livello di scontro che toccò il culmine nel 1956-57, con la crudele “Battaglia di Algeri”. Seguì, con l’intervento dei parà del generale Jacques Massu, una violenta e brutale repressione che, nei mesi successivi, non mancò di turbare molte coscienze democratiche francesi, aprendo un vivace dibattito, dentro e fuori le Aule parlamentari, destinato ad acuire la profonda crisi politica nazionale e accelerando la fine della Quarta Repubblica. Il ritorno di De Gaulle e gli Accordi di Evian Solamente con il ritorno al potere di De Gaulle (nella foto a sinistra) la situazione in Algeria, nonostante l’opposizione di alcuni settori oltranzisti, imboccò gradualmente la via (peraltro non senza ostacoli come, ad esempio il tentato golpe di alcuni generali ribelli) del negoziato diplomatico. Finalmente, dopo quasi un anno di trattative fra i rappresentanti del Governo francese e quelli del Governo rivoluzionario algerino, il 18 marzo 1962 furono firmati ad Evian gli Accordi per l’indipendenza dell’Algeria, sancita poi dal voto del luglio 1962. Primo Presidente della Repubblica di Algeria fu Ben Bella (nella foto a sinistra ed al centro con Boumedienne), uno dei capi del FLN, cui fece seguito, nel 1965, Houari Boumedienne (nella foto a destra ed al centro con Ben Bella) valoroso combattente della guerra di Liberazione. Destinato a governare a lungo, Boumedienne guidò una radicale trasformazione dell’Algeria in senso decisamente socialista non disgiunta da una marcata arabizzazione e islamizzazione delle varie istituzioni repubblicane. La crisi di Suez Mentre la guerra di Algeria era in pieno svolgimento, la crisi di Suez( nella foto a sinistra una cartolina d’epoca del Canale di Suez), si abbatteva sul Mediterraneo. Le cause della crisi di Suez vanno ricercate nell’aumento della tensione nell’Oriente mediterraneo provocato anche dall’atteggiamento delle Potenze europee, segnatamente Inghilterra e Francia, in forte ritardo nell’elaborazione politica di rinnovati modelli di relazione con i Paesi arabi di nuova indipendenza che, dal canto loro, rivendicavano la più totale autonomia nelle scelte di schieramento internazionale. Insieme ad altri leader africani ed asiatici, Nasser aveva dato vita al movimento dei Paesi “non allineati” (rispetto ai due Blocchi contrapposti americano e sovietico) caratterizzati da un forte impegno“neutralista”, anticolonialista ed imperialista. Percepiti (proprio per questa loro forte caratterizzazione) come potenziali “nemici” delle Potenze europee, i Paesi “non allineati” erano invece guardati con simpatia dall’Unione Sovietica, all’epoca autoproclamatasi “nume tutelare” di tutti i movimenti che nel mondo lottavano contro l’imperialismo occidentale. Il timore nutrito da larga parte degli ambienti politici e finanziari occidentali nei confronti di Nasser, sempre più “neutralista” militante, furono alla base, nel luglio 1956, del “ritiro” di un piano americano di cospicui aiuti promessi all’Egitto per la costruzione ad Assuan della grande diga sul Nilo (opera pubblica di vitale importanza per lo sviluppo economico del Paese). Nasser rispose colpendo al cuore la più emblematica immagina dell’Occidente nel Mediterraneo orientale. E così, il 26 luglio 1956, Nasser nazionalizzava la potente Compagnia anglo-francese che da quasi un secolo gestiva il Canale di Suez. Attacco all’Egitto I Governi inglese e francese, all’insaputa dei loro stessi Alleati della NATO, pianificarono segretamente una sciagurata operazione militare (concertata con il Governo israeliano) per risolvere la questione con la forza. Il 29 ottobre 1956 truppe israeliane attaccavano l’Egitto occupando il Sinai. Il 31 ottobre inglesi e francesi iniziavano il bombardamento degli aeroporti egiziani, seguito, qualche giorno dopo, da ripetuti lanci di paracadutisti. Il 4 novembre Nasser bloccava il Canale di Suez con conseguenze devastanti per i traffici marittimi dell’Occidente.Stati Uniti ed Unione Sovietica, sia pur con motivazioni e finalità diverse, condannarono l’unilaterale e velleitario attacco anglo-franco-isrealiano all’Egitto. La soluzione concertata in ambito ONU Con fermezza Usa ed Urss imposero l’immediata cessazione delle operazioni militari ed incanalarono la crisi verso una soluzione diplomatica concertata in ambito O.N.U. Il 7 novembre 1956 l’ONU ordinava il ritiro dal territorio egiziano dei contingenti stranieri di occupazione, pianificando altresì l’invio dei “caschi blu” in alcune zone di confine sensibili. All’indomani della Crisi di Suez, il prestigio di Nasser (nella foto in alto a sinistra è raffigurata una delle tante manifestazioni di Giubilo in onore di Nasser nelle Capitali Arabe), il rais, che aveva coraggiosamente difeso l’orgoglio e la dignità nazionale resistendo alle arroganti Potenze colonialiste (di fatto costrette a ritirarsi e a rinunciare al controllo del canale), raggiunse il culmine in tutto il mondo arabo, fino ad allora diviso e alla ricerca di modelli ispiratori. 8.La politica mediterranea della Repubblica italiana La diplomazia dell’amicizia (Foto: Mediterraneo, olio di G.Patriarca, 1951) Nel 1946, con la nascita della Repubblica, l’Italia, dopo la drammatica esperienza della seconda guerra mondiale, tornava verso la “normalità” che, sul piano internazionale, imponeva il passaggio attraverso la porta stretta del negoziato per il Trattato di Pace con i Paesi vincitori, firmato poi a Parigi il 10 febbraio del 1947. Un Trattato molto duro che, oltre alla perdita di tutti i possedimenti coloniali, stabiliva anche dolorose rinunce territoriali sul confine orientale. Nonostante la sua debole posizione internazionale l’Italia mise subito in cantiere una “nuova” politica mediterranea finalizzata: a ritrovare e riannodare i fili dei tanti rapporti non solo politici con i Paesi arabi rivieraschi che la guerra aveva sommerso se non addirittura reciso; a ricostruire l’immagine della nostra giovane Repubblica. Un’immagine nuova, posta sotto il segno della pace, dell’autodeterminazione dei popoli arabi e della cooperazione. Ma, soprattutto, posta sotto il segno della diplomazia dell’amicizia, ossia quell’originale modello politico, tipicamente italiano, di relazioni mediterranee progressivamente perfezionato nel corso degli anni. La ripresa delle relazioni diplomatiche con l’Egitto Il 30 giugno 1947, con la presentazione delle credenziali del diplomatico Cristoforo Fracassi a re Faruq, venivano riprese le relazioni fra Italia ed Egitto interrotte dalla guerra. Alla fine di settembre dello stesso anno, con l’arrivo del diplomatico Luigi Cortese a Damasco, venivano stabilite per la prima volta regolari relazioni con la Siria. Menzione particolare va fatta delle relazioni fra Italia e Libano stabilite il 15 marzo 1947. Come rappresentante diplomatico a Beirut fu designato Adolfo Alessandrini. Il 15 febbraio 1949 veniva firmato, dallo stesso Alessandrini, il Trattato di amicizia fra Italia e Libano. Il primo di una lunga serie di trattati e di accordi con i vari Paesi mediterranei di nuova indipendenza, che l’Italia, negli anni successivi, avrebbe via via firmato. La "vocazione" mediterranea La spinta al "movimentismo" mediterraneo della nostra diplomazia era determinata non solo dalla naturale vocazione mediterranea dell’Italia legata alla sua stessa posizione geografica, ma anche dalla necessità di stabilire intese politiche con i Paesi arabi produttori di petrolio per tentare di risolvere le fondamentali esigenze nazionali di approvvigionamento energetico, liberando il Paese dal condizionamento delle grandi multinazionali. Punta avanzata di questa strategia fu il gruppo Eni-Agip, presieduto da Enrico Mattei (nella foto a sinistra con Nasser), uno dei più prestigiosi e lungimiranti manager pubblici italiani. Mattei riuscì a stabilire rapporti diretti con quei Paesi produttori di nuova indipendenza, che si erano riappropriati collettivamente delle risorse del proprio sottosuolo e puntavano ad emanciparsi dall’interessato controllo delle multinazionali. Per una politica di pace Convinto sostenitore di un’autonoma politica mediterranea di più largo respiro fu Aldo Moro (nella foto a sinistra), Presidente del Consiglio negli Anni Sessanta, ai tempi del primo Centro-sinistra e poi a lungo Ministro degli Esteri. Nonostante i limiti imposti dai rigidi schemi della contrapposizione fra i due Blocchi (rispettivamente guidati da Stati Uniti e Unione sovietica) Moro profuse, fino alla sua tragica morte, un costante impegno a sostegno del dialogo e della cooperazione, considerati come i fondamentali prerequisiti di una vera politica di pace e di stabilità nell’Oriente mediterraneo. Pace e stabilità messi a dura prova dalle guerre arabo-isrealiane e da certi rigidi atteggiamenti degli Stati Uniti e di alcuni Paesi europei talvolta inclini ad allontanarsi dalla faticosa via della mediazione. Una "costante" della politica estera italiana Alla stessa stregua del leale e costruttivo impegno europeista anche la diplomazia dell’amicizia (intesa come modello di relazioni mediterranee finalizzato a promuovere il dialogo bilaterale e multilaterale con i Paesi rivieraschi) è sempre stata, e lo è diventata ancor di più negli ultimi anni, una costante della politica estera italiana largamente condivisa, sia pur con sfumature e sensibilità diverse, da ampi settori dello schieramento parlamentare, indipendentemente dalle maggioranze di Governo e dai vari “inquilini” di Palazzo Chigi e della Farnesina che si sono via via succeduti. Fra i moltissimi casi di studio che si potrebbero citare, nel corso degli anni, a sostegno di questa ipotesi interpretativa, mi limito soltanto a ricordare, a titolo esemplificativo, due avvenimenti recentissimi: il decisivo ruolo svolto, a partire dall’estate 2006, dall’Italia (memore della sua antica amicizia con il Libano) per l’attivazione e l’invio, sotto l’egida dell’ONU, di una missione internazionale di pace in quel martoriato Paese. il Trattato di amicizia fra Italia e Libia firmato a Bengasi il 30 agosto 2008, che chiude l’annoso contenzioso sul passato coloniale e si propone di rilanciare le relazioni bilaterali fra i due Paesi, in un quadro di ritrovata amicizia e di cooperazione tecnica e culturale. Foto di gruppo nella scuola di un villaggio del Libano meridionale (2008) 9.Il difficile cammino della pace nell’Oriente mediterraneo Nella foto un caccia sovietico naviga nel Mediterraneo “curiosamente” affiancato alla portaerei americana Saratoga. Il nuovo scenario mediterraneo La crisi di Suez (vedi lezione n.7) ed i suoi successivi sviluppi avevano segnato il definitivo ed irreversibile tramonto del ruolo dominante svolto, per oltre un secolo, da Inghilterra e Francia sulle relazioni euromediterranee. Ormai alla fine degli Anni Cinquanta e, soprattutto nei decenni successivi, la leadership mediterranea passava direttamente nelle mani delle due superpotenze, Stati Uniti ed Unione Sovietica, all’epoca in permanente ostile coesistenza competitiva. In questo contesto, anche nello scacchiere mediterraneo si riprodusse uno schema di contrapposizione bipolare. Alla solidarietà politica e alle rilevanti forniture militari stabilmente garantite dall’Unione Sovietica (in cambio dell’uso di basi navali) all’Egitto, alla Siria e poi anche alla Libia (all’indomani della ‘rivoluzione’ guidata da Gheddafi) si contrappose l’aperto e permanente sostegno diplomatico, economico e militare assicurato dagli Stati Uniti ad Israele, sin dalla sua nascita sempre circondato da Paesi arabi nemici ma che, con le forniture sovietiche di armi, stavano diventando di anno in anno sempre più pericolosi. Intanto nel 1964 nasceva l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, OLP, di cui ben presto Arafat avrebbe assunto la guida. La stagione dei conflitti L’irriducibilità del contrasto (sul diritto all’esistenza di Israele e sul problema della Palestina e dei suoi disperati abitanti) fra la coalizione araba guidata dall’Egitto (nella foto il Presidente egiziano Sadat (successore di Nasser) e il leader dell’OLP Arafat nel 1973). e lo Stato di Israele fu alla base delle guerre arabo-israeliane del giugno 1967 e dell’ottobre 1973. Le due guerre, soprattutto la prima, segnarono una forte supremazia militare dello Stato d’Israele ed aggravarono oltre misura la tragedia dei palestinesi scacciati anche dai nuovi territori, che gli israeliani avevano conquistato (nel 1967) e dove stavano insediando (soprattutto in Cisgiordania) i propri coloni. La questione della Palestina, la ferita aperta nel cuore del Vicino Oriente, diventò ben presto la ‘madre’ di tutte le questioni, complicando le relazioni euromediterranee non solo perché si intrecciava alla preesistente contrapposizione USA-URSS; ma anche per le sue ripercussioni sui rapporti politici tra i Paesi europei consumatori e i Paesi arabi produttori di petrolio, i cui prezzi (sotto lo sguardo compiaciuto dell’Urss autosufficiente dal punto di vista energetico) venivano usati come una micidiale arma per destabilizzare e disarticolare il sistema economico occidentale. La stagione delle speranze di pace Dopo un lungo periodo di contrasti, di attentati, di rivolte, di repressioni, di stragi, (tragicamente nota quella avvenuta nel 1982 nel campo profughi palestinesi a Sabra e Chatila in Libano) la questione palestinese nei primi Anni Novanta, in un quadro internazionale profondamente mutato (soprattutto per effetto della dissoluzione dell’Unione Sovietica) cominciò lentamente ad incanalarsi verso una possibile soluzione diplomatica. Prima attraverso una serie di accordi fra lo Stato di Israele e l’Egitto (1979) e poi attraverso accordi diretti con l’OLP. Per la prima volta infatti fu segretamente avviato, nel 1993, un negoziato diretto bilaterale fra lo Stato d’Israele e l’OLP. Il negoziato si svolse ad Oslo, durò circa sei mesi e culminò con un importante trattato firmato poi a Washington, alla presenza del presidente americano Clinton, il 13 settembre 1993, dal premier israeliano Rabin e dal leader palestinese Arafat(.nella foto in alto a sinistra la “storica” stretta di mano fra Rabin ed 1993). Arafat, In forza di questo trattato fra Stato d’Israele e OLP, dopo il reciproco riconoscimento fra le due Parti contraenti, venivano poste le basi per l’avvio del graduale ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati (a partire dalla città di Gerico in Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza) che sarebbero stati amministrati dai palestinesi. Il 4 giugno 1994 veniva istituita l’Autorità Nazionale Palestinese con giurisdizione su Gerico e sulla Striscia di Gaza: il primo embrione di quello che sarebbe dovuto diventare il tanto atteso autonomo Stato palestinese che però, a tutt’oggi, non riesce ancora a nascere. Un’equazione a troppe incognite Purtroppo, nel volgere di pochi anni, il costruttivo ‘spirito di Oslo’ ben presto evaporò e il cammino della pace in Oriente divenne nuovamente impervio ed irto di ostacoli alternativamente disseminati, con modalità, finalità e tempi diversi, dagli opposti estremisti di entrambe le Parti in causa. Nel giugno del 2007 le strutture paramilitari del partito islamico Hamas (che l’anno precedente aveva battuto alle elezioni politiche palestinesi il partito Al Fatah guidato, dopo la morte di Arafat, dal presidente dell’ANP Abu Mazen –nella foto il presidente palestinese Abu Mazen fra i suoi sostenitori- ) assumevano il controllo totale della Striscia di Gaza. Il miliziani di Hamas ribadivano il loro assoluto rifiuto di riconoscere la legittimità dello Stato d’Israele e quindi di negoziare con i suoi rappresentanti. Inoltre, dopo un duro scontro, i miliziani espellevano con la forza dalla Striscia di Gaza le organizzazioni politico-militari di Al Fatah e tutti i funzionari pubblici leali al ‘moderato’ presidente Abu Mazen. L’ultimo attacco a Gaza Il governo israeliano mise subito in atto una serie di contromisure di sicurezza culminata con la definitiva chiusura dei valichi di frontiera e il blocco totale della Striscia di Gaza. Una vera e propria blindatura israeliana di Gaza, che impediva persino il transito dei convogli umanitari di soccorso per la sfinita popolazione civile. Nel corso del 2008 i miliziani di Hamas intensificarono i lanci di razzi contro le città più vicine, cui sistematicamente seguivano le rappresaglie israeliane. Si alimentava così un micidiale meccanismo ‘azione-reazione’ destinato a far salire in maniera incontrollata la tensione. Dopo il mancato rinnovo della tregua d’armi, la situazione esplose: e i rimedi furono peggiori del male. Il 28 dicembre 2008 l’esercito israeliano scatenava un massiccio violento attacco a Gaza mietendo un numero altissimo di vittime non soltanto fra i miliziani, ma anche e soprattutto fra l’inerme e stremata popolazione civile. Lo sproporzionato attacco israeliano, severamente condannato dai Paesi arabi e da alcuni Governi europei, creò intenso allarme e preoccupazione in tutta la comunità internazionale. Ai primi di febbraio 2009, grazie alla paziente diplomazia segreta di alcuni Paesi arabi, Egitto in testa, ha finalmente visto la luce una nuova tregua d’armi di diciotto mesi. Sarebbe molto auspicabile che, nei prossimi mesi, con la spinta congiunta della nuova Presidenza americana e dell’Unione Europea, potesse finalmente riprendere il cammino della pace fra Israele e Palestina: due Popoli, due Stati. Una pace giusta, durevole, presidiata dal consenso di entrambe le Parti. 10.Dalla Conferenza di Barcellona alla Unione per il Mediterraneo L’avvio della cooperazione euromediterranea Le relazioni euromediterranee, con particolare riferimento alle relazioni specifiche tra l’Unione Europea ed i Paesi della Sponda Sud del Mediterraneo, risalgono ai primi anni Settanta, quando al Vertice europeo di Parigi (1972) dell’allora Comunità economica europea (all’epoca composta solamente dai Sei Paesi fondatori: Italia, Francia, Repubblica Federale di Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo) furono fissate le linee guida di una politica globale mediterranea volta a promuovere una prima serie di accordi di cooperazione. In seguito, con l’adesione alla Cee di Irlanda, Danimarca e Gran Bretagna (1973) e, in particolare di Grecia (1981) e poi di Spagna e Portogallo (1986), il “confine” meridionale dell’Europa comunitaria si allungava nel Mediterraneo. “Le sponde meridionali ed orientali del Mediterraneo, come del resto il Medio Oriente – recitava il documento finale del Consiglio europeo di Lisbona (1992) di quella che era già diventata l’Unione Europea (a Dodici Stati) – sono aree geografiche nei confronti delle quali l’Unione ha forti interessi in termini di sicurezza e di stabilità sociale”. Al Consiglio europeo di Essen (1994) dell’UE (che l’anno seguente sarebbe divenuta Europa a Quindici con l’adesione di Austria, Svezia e Finlandia) venne ribadita la centralità della cooperazione mediterranea. La Conferenza di Barcellona I tempi erano dunque maturi (in un quadro internazionale completamente mutato, che stava gradualmente riassorbendo gli effetti dirompenti del crollo dei regimi comunisti dell’Europa orientale) per lanciare una politica euromediterranea di più ampio respiro, che coinvolgesse direttamente i Paesi della Sponda Sud. Ebbe quindi luogo a Barcellona, alla fine del novembre 1995, la prima importante Conferenza euromediterranea, con la partecipazione dei delegati dei 15 Paesi membri dell’Unione Europea e di 12 Paesi delle Sponde meridionale e orientale del Mediterraneo: Marocco, Algeria,Tunisia, Egitto, Israele, Giordania, Autorità Nazionale Palestinese, Libano, Siria, Turchia, Cipro e Malta. (Nella foto a sinistra la locandine del film di G. Salvatores). Da Barcellona a Napoli Fu firmata un’importante Dichiarazione comune, che metteva in cantiere il Processo di Barcellona finalizzato a stabilizzare una “piattaforma multilaterale di relazioni durature fondate su uno spirito di partnership, con particolare attenzione ai valori peculiari di ciascuno dei partecipanti”. Per l’attuazione di questa nuova “cooperazione globale” diretta a promuovere pace, stabilità e sviluppo nel Mediterraneo venivano individuate tre linee d’intervento prioritario: ”Partenariato politico e di sicurezza; economico- finanziario; culturale”. Prendeva dunque il via il “Partenariato euromediterraneo”, Pem, sviluppatosi lungo un percorso, non sempre lineare e senza ostacoli, tracciato dalle varie Conferenze euromed, che si sono susseguite negli anni nelle più belle città mediterranee. Menzione particolare, sotto questo profilo, va fatta della Conferenza euromed tenuta a Napoli ai primi di dicembre 2003.(nella foto a sinistra una dedica alla città Napoli del poeta polacco Slowacki (1809 – 1849). Alla Conferenza di Napoli furono, tra l’altro, decise: la creazione dell’Assemblea parlamentare euromed composta dai deputati designati dai vari Parlamenti nazionali ed europeo; la creazione della Fondazione per il dialogo fra culture, ospitata ad Alessandria d’Egitto; il rifinanziamento del Fondo d’investimento e partenariato. I “limiti” del Processo di Barcellona Ma nonostante l’impegno profuso da molti Paesi, tra i quali l’Italia, il Processo di Barcellona non ha raggiunto tutti gli obiettivi che, con un misto di ambizioni e di speranze, i Paesi fondatori si erano prefissati. Il barometro internazionale ha spesso registrato repentini mutamenti del clima politico nello scacchiere mediterraneo, a causa dell’invasione americana dell’Iraq e, soprattutto, a causa del peggioramento della “questione palestinese” che hanno messo a dura prova il dialogo euro-arabo. Ma, come ha giustamente scritto il politologo Roberto Aliboni: “La macchina del Pem non è rimasta inoperosa. Non riesce a produrre accordi risolutivi o cruciali, ma ne ha prodotti alcuni limitati. Inoltre ha dato luogo ad un’apprezzabile socializzazione diplomatica, anche se ben lontana da quella comunitarizzazione e risoluzione comune dei conflitti che si aveva in mente nel 1995”. Sarkozy e l’Unione per il Mediterraneo All'indomani dell’elezione a Presidente della Repubblica francese, Sarkozy ha rilanciato con forza il suo progetto, da tempo coltivato, di un’Unione mediterranea volta a creare un nuovo "attore" in grado di imprimere una spinta aggiuntiva alle politiche mediterranee dell'UE. Accolto con un iniziale scetticismo in alcuni ambienti politici e diplomatici dell'UE, il progetto francese (grazie anche alla mediazione italiana e spagnola) si è progressivamente perfezionato. E così, con il consenso di tutte le Parti interessate, al Vertice di Parigi del luglio 2008, è nata l'Unione per il Mediterraneo, comprendente ben 43 Paesi (vedi slide seguente) che, recuperando il Processo di Barcellona, metterà in campo rafforzati strumenti finanziari e adeguate iniziative politiche per contribuire a costruire un "futuro di pace e prosperità all'intera regione". Con la nascita dell'UpM termina il nostro Corso di lezioni. Speriamo vivamente che la neonata creatura si rafforzi e possa, al più presto, trasformare davvero il Mediterraneo in un mare ove abbiano per sempre dimora la pace e la giustizia. I Paesi dell’Unione per il Mediterraneo 11.Parte seconda: La Primavera araba e il nuovo scenario mediterraneo 2013 In principio fu la Tunisia ‘‘Le società arabe non ne possono più di sentirsi prigioniere in un vicolo cieco dove ognuno è oppresso o dal despota locale o dal mullah estremista. Sono società che hanno dimostrato il desiderio di voler rientrare a far parte della Storia universale, da cui sono state scansate o dal dittatore di turno o dalla Jihad’’. Così Gilles Kepel, uno dei più autorevoli studiosi del mondo arabo, in un’intervista apparsa su La Repubblica del 30 gennaio 2011, con efficace sintesi spiegava la ventata rivoluzionaria che, partita dalla Tunisia, si stava in quei giorni diffondendo nei Paesi della Sponda Sud del Mediterraneo. (nella foto: manifestazione diritti delle donne in Tunisia. Fonte: Toda). I media Era incominciata la primavera araba che, nel corso del 2011, sostenuta dalle potenti emittenti televisive Al Jazeera, basata a Doha nel Qatar (ma con redazioni anche a Washington e Londra ed edizioni in lingua inglese) e Al Arabiya basata a Dubai negli Emirati Arabi Uniti, avrebbe travolto dittatori e regimi dispotici. Regimi, peraltro, di diversa matrice e struttura, in genere poco attenti alle libertà individuali, ai diritti civili e ai diritti sociali; regimi caratterizzati da una forte vocazione al dispotismo, talvolta praticato con estremo rigore, e da diffusi fenomeni di corruzione della pubblica amministrazione. (nella foto: studi della redazione Al Jazeera). Le tensioni Le prime tensioni esplosero proprio in Tunisia. Tensioni legate alla gravissima crisi economica, che colpiva duramente le classi più deboli e più povere e che, al tempo stesso, aggravava ulteriormente le difficoltà interne del logoro e immobile regime di Ben Alì, incapace di fronteggiare le difficoltà e non più sorretto da un autentico consenso popolare. Deposto Ben Alì, la Tunisia iniziava non senza qualche difficoltà la costruzione della sua democrazia. Una democrazia declinata non necessariamente nelle forme occidentali, quanto piuttosto nelle sue varianti mediterranee, ritagliate sulle storie e sulle culture delle popolazioni. (nella foto: manifestazione popolare a Tunisi il 14/01/2011 giorno della fuga di Ben Alì. Fonte: Agenzia stampa quotidiana nazionale). Le politiche Alle prime libere elezioni della fine del 2011, si registrava l’importante vittoria del Partito Ennahda di ispirazione islamista. Comunque la transizione della Tunisia verso una democrazia compiuta era destinata a durare ancora a lungo, creando difficoltà e contrasti tra i movimenti di ispirazione islamica e i giovani della rete, primi protagonisti della rivolta contro il deposto regime di Ben Alì. Da un punto di vista economico non mancavano dubbi e perplessità sulle politiche economiche del governo a guida Ennahda, specificatamente in ordine alla questione del progressivo oneroso indebitamento con istituzioni internazionali e banche straniere giudicato (dai partiti di opposizione e dagli attivisti democratici tunisini), eccessivo e foriero di condizionamenti anche politici.(nella foto: elettori in fila per votare. Fonte: Palestina Felix). Tunisia: situazione meno incerta In Tunisia, attualmente, la situazione sembrerebbe (il condizionale è sempre d’obbligo in questi casi) meno incerta. Infatti, nonostante le grandi manifestazioni popolari di protesta contro il partito islamista di maggioranza Ennahda (seguite ai recenti omicidi politici di deputati di opposizione) il Governo di coalizione guidato, da marzo 2013, da Ali Larayed potrebbe essere in grado di reggere. (nella foto: esponenti di ennahda nell'assemblea costituente. Fonte: Wikipedia). Relazioni bilaterali italo-tunisine Per quel che riguarda le relazioni bilaterali italo-tunisine, imperniate su accordi di cooperazione rafforzata in materia di sicurezza, immigrazione e pattugliamento delle acque, va detto che esse sono caratterizzate da una solida amicizia. Dopo la visita ufficiale del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano del 17 maggio dello scorso anno, dal 22 al 24 aprile 2013, si è recato in Tunisia il ministro dell’Interno italiano che ha firmato un accordo di cooperazione bilaterale nel campo della sicurezza con il suo omologo tunisino, al quale consegnava anche alcuni mezzi navali per il pattugliamento delle acque. (nella foto: Giorgio Napolitano con il capo di Stato tunisino Moncef Marzouki il 17 maggio 2012. Fonte: Quotidiano Lettera 43). Materiali di studio Articoli di Matteo Pizzigallo pubblicati sulla rivista scientifica trimestrale Gnosis, annata 2011-2013 da cui sono tratte le lezioni dalla 11 alla 15. 12.Primavera in Marocco Primavera in Marocco “La democrazia non è una pillola che si scioglie nel caffè del mattino. E’ una cultura: educarsi ad essa richiede tempo. I marocchini stanno imparando a vivere insieme. Se saranno democratici o meno dipende solo da loro. Il re non vuole stare in secondo piano. Ha ragione. E’ un uomo che ama il suo Paese con passione e che vuole vederlo evolvere verso una modernità reale”. (Tahar Ben Jelloun, scrittore marocchino. (nella foto: Mohammed IV ritratto sulla copertina della rivista Time). Vento di rivolta Dopo le prime proteste in Tunisia, il vento della rivolta, ha cominciato a soffiare anche in Marocco dando vita a grandi manifestazioni popolari, culminate in quella di domenica “20 febbraio 2011”, data da cui prese nome il Movimento di protesta giovanile promosso e organizzato dal popolo della rete automobilitatosi. A differenza del dispotico regime di Ben Alì in Tunisia, il sistema politico del Marocco si articolava su un ampio e variegato ventaglio (dalla destra ultraconservatrice alla estrema sinistra) di partiti di diverso peso elettorale, molti dei quali di limitate dimensioni, con inevitabili conseguenze sotto il profilo della governabilità, anche a causa dell’eccessiva frammentazione. (nella foto: manifestanti sfilano in corteo in Marocco. Fonte: Radio onda d'urto). Crisi economica La crisi economica e i suoi devastanti effetti occupazionali, soprattutto sulla popolazione giovanile, in larga parte istruita, (popolazione giovanile che costituisce la stragrande maggioranza dell’intera popolazione del Regno) hanno di gran lunga contribuito ad accrescere il diffuso malessere generazionale nei confronti delle classi dirigenti marocchine, (accusate di essere autoreferenziali e chiuse ad ogni ipotesi di ricambio) e nei confronti dei partiti tradizionali, poco attenti ai nuovi fermenti da tempo in atto nel vivace e inquieto mondo giovanile arabo, assetato di democrazia e di libertà. (nella foto: manifestazione per il referendum costituzionale del 1 luglio 2011. Fonte: Sollevazione). Il sistema politico-istituzionale La nuova Costituzione del Marocco, approvata con il Referendum del 1 luglio 2011, nel complesso, segna un passo avanti verso una maggiore parlamentarizzazione del sistema politico- istituzionale del Paese, mantenendo però in capo al sovrano ancora alcuni poteri militari e prerogative religiose. La persona del re perde la sua “sacralità”, ma rimane “inviolabile” e conserva la funzione di “Capo dei credenti”. Il potere legislativo del sovrano, esercitato attraverso i decreti reali, viene circoscritto ad alcune ben definite materie. Nella nuova Costituzione sono espressamente sancite: l’indipendenza e l’autonomia della magistratura; la libertà di pensiero e di opinione; la perfetta parità di genere in ambito politico, civile e sociale. Infine, ma non per ultimo, insieme all’arabo, viene riconosciuta come lingua ufficiale anche il tamazight, la lingua dei Berberi. Grafico del sistema politico marocchino. Fonte: Reuters. La nuova costituzione del Marocco Questa nuova Costituzione del Marocco, nell’attuale delicato momento politico internazionale, rappresenta senza dubbio un fatto positivo, forse il “primo fiore” della primavera araba sbocciato in modo spontaneo e naturale. Forse non così bello come avrebbero voluto i giovani radicali del “Movimento 20 Febbraio”, ma comunque di particolare importanza anche perché portato avanti senza alcun intervento di interessati “suggeritori” stranieri. (nella foto: giubilo popolare per l'approvazione della nuova costituzione marocchina). Lo sviluppo democratico I n questo percorso sulla via dello sviluppo democratico delle riforme e della tutela dei diritti umani, Mohammed VI sa di poter sempre contare, e non solo da ora, sull’aperta collaborazione dell’Unione Europea e, in particolare, dell’Italia, ove peraltro vive e opera una consistente comunità marocchina in larga parte ben integrata. Le relazioni politiche bilaterali fra Italia e Marocco sono da tempo eccellenti e molto attiva è la cooperazione economica in vari importanti settori. (nella foto: Roma 14 novembre 2012 festa dell'amicizia e della cooperazione Italia-Marocco). 13.Rivoluzioni in Egitto I giovani di piazza Tahrir Nel gennaio 2011, l’improvviso potente urlo, a lungo soffocato, della giovane folla egiziana di Piazza Tahrir, assetata di libertà e democrazia, coraggiosamente decisa a fronteggiare e sfidare, a mani nude, gli spietati e sanguinosi tentativi di repressione subito messa in atto dalle forze di sicurezza, mandava letteralmente in frantumi Hosni Mubarak e il suo dispotico regime. I giovani di Piazza Tahrir, appassionati custodi dello spirito originario e delle parole d’ordine della primavera egiziana (libertà, democrazia e giustizia sociale) utilizzando tutti i possibili mezzi di comunicazione, dai telefonini a Twitter e a Facebook, hanno rappresentato la preziosa avanguardia rivoluzionaria egiziana, che ha sprigionato una forte carica liberatoria, riaccendendo tante nuove speranze e, soprattutto, spingendo l’Egitto “a rialzare la testa” come al tempo della ribellione alla dominazione coloniale. (nella foto: giovani in piazza Tahrir). La transizione Iniziava così una nuova delicata, lunga e tormentata fase di transizione orientata e guidata (non senza ambiguità e compromessi con la vecchia nomenklatura, soprattutto sotto il profilo della mancata discontinuità con le vecchie logiche di potere) dai militari del Consiglio supremo delle Forze armate (Scaf). Finalmente, domenica 24 giugno 2012, dopo circa dieci giorni dall’annuncio dei risultati del secondo turno elettorale fra i due candidati alla presidenza, giorni di attesa snervante, in un clima politico avvelenato da denunce, sospetti, inquietanti minacce, esibizioni muscolari dei militari, oscure trattative, la Commissione elettorale egiziana proclamava ufficialmente Mohammed Morsi, presidente della Repubblica egiziana. (nella foto: proclamazione di Mohammed Morsi a Presidente della Repubblica egiziana). Associazione dei Fratelli Musulmani Mohammed Morsi è il primo presidente egiziano non militare. È un autorevole esponente dell’Associazione dei Fratelli Musulmani, cui si ispira il Partito Libertà e Giustizia, partito di maggioranza relativa alle prime libere elezioni. Il consistente successo elettorale dei partiti vicini alle organizzazioni islamiche era largamente prevedibile, tenuto conto del radicamento territoriale di queste organizzazioni che operano, non solo nel campo della formazione religiosa, ma anche e soprattutto in quello dell’assistenza sociale e sanitaria nei confronti dei ceti meno abbienti e della vasta popolazione rurale. Fra queste organizzazioni, l’Associazione dei Fratelli musulmani (fondata nel 1928) è la più importante, meglio strutturata e capillarmente diffusa organizzazione islamica, perseguitata e combattuta dal deposto regime egiziano, ma sempre molto attiva in Egitto e in tutta l’Africa mediterranea. (nella foto: manifestazione dell'Associazione Fratelli Musulmani). La fine della transizione La transizione egiziana era destinata a riservare nuove sorprese. L’iniziale forte consenso popolare intorno a Morsi evaporava rapidamente. Il 3 luglio, dopo massicce manifestazioni di protesta, il presidente Mohammed Morsi, esponente di spicco della Fratellanza musulmana, veniva deposto dai militari guidati dal generale Abdel Al-Sisi fra le grida di giubilo dei manifestanti antigovernativi, in larga parte giovani rivoluzionari di Piazza Tahrir. Il presidente Morsi, regolarmente eletto da appena un anno, non sembrava più sorretto dall’iniziale diffuso consenso popolare e, per di più, era accusato di aver rallentato i processi democratici, di avere esasperato i rapporti istituzionali e di aver ulteriormente aggravato le condizioni economiche del Paese e anche di aver istigato alla violenza. La fine del dialogo Superata la fase iniziale di incertezza e smarrimento, i Fratelli musulmani hanno subito rialzato la testa, dando vita ad imponenti manifestazioni popolari a sostegno del reintegro del presidente Morsi, denunciando altresì la illegittimità del governo provvisorio imposto dai generali. E così l’agosto 2013 è stato caratterizzato da ripetute esplosioni di violenza diffusa, che hanno seriamente preoccupato la comunità internazionale impegnata a ricercare, affannosamente, una via di uscita. In un clima carico di forte tensione, i ripetuti tentativi di mediazione e di riattivazione del dialogo fra i sostenitori del presidente Morsi e i sostenitori del nuovo governo vicino ai generali, a vario titolo esperiti da politici e diplomatici americani ed europei, non sortivano i positivi effetti sperati. (nella foto: violenza per le strade egiziane). La repressione Il 14 agosto 2013, a cominciare dal sanguinoso sgombero di Piazza Rabaa al Alawiah, una sorta di fortino dei sostenitori del deposto presidente Morsi, incominciava la dura e violenta repressione di ogni forma di opposizione imposta dai vertici militari che, in un crescendo di misure e provvedimenti restrittivi, culminava con l’arresto della guida spirituale Mohamed Badie, nonché di molti altri dirigenti e militanti della Fratellanza Musulmana. Incuranti dello sconcerto suscitato nella comunità internazionale per le modalità della loro azione, i militari egiziani ben consapevoli della centralità dell’Egitto nel mantenimento della sicurezza delle province di confine (a cominciare dalla penisola del Sinai), non cambiavano né linea né atteggiamento, imponendo all’Egitto una nuova forzata normalizzazione tutt’ora in corso e il cui esito finale appare ancora incerto. 14.Il complicato "rebus" Libia Il Consiglio Nazionale di Transizione In Libia, dopo la “giornata della collera” del 17 febbraio 2011, la situazione stava inesorabilmente precipitando verso il tremendo buco nero della guerra civile. Per guidare la lotta di liberazione contro il regime di Gheddafi, a Bengasi veniva creato il Consiglio Nazionale di Transizione che, il 5 marzo 2011, si autoproclamava come unico legittimo rappresentante dello Stato libico. (nella foto: Giornata della collera, manifestazione delle donne). Il Consiglio di Sicurezza Negli stessi giorni, scesi apertamente a fianco degli insorti di Bengasi, i Governi francese ed inglese (nelle competenti sedi internazionali) si attivavano energicamente per mobilitare il Consiglio di Sicurezza dell’Onu. E così, dopo le sanzioni, l’embargo e il congelamento dei beni di Gheddafi (deciso dall’UE) e le accuse contro di lui della Corte penale internazionale per la crudele e violenta repressione della rivolta popolare, entrava in azione anche il Consiglio di Sicurezza. Il 17 marzo 2011, il Consiglio di Sicurezza adottava la ben nota risoluzione 1973 che autorizzava la comunità internazionale ad istituire la No-Fly Zone sulla Libia e a prendere “tutte le misure necessarie” a protezione della popolazione civile sotto attacco delle truppe ancora fedeli a Gheddafi. (nella foto: Toyota Land Cruiser modificate e armate dai ribelli libici). Operazione Odissea all’alba (Nella foto: Mappa della strategia d'attacco dell'operazione Odissea all'alba). Nel tardo pomeriggio del 19 marzo 2011, i caccia francesi effettuavano i primi raid aerei contro le forze lealiste in marcia verso Bengasi. I raid erano seguiti da ripetuti lanci di oltre cento missili Tomahawk da parte di unità navali americane e inglesi posizionate davanti alle coste libiche. Era dunque incominciata l’operazione “Odissea all’alba”, inizialmente attivata dalla “coalizione dei volenterosi” anglo-franco-americana. Solo quattro giorni dopo, anche per l’insistenza della diplomazia italiana, entrava in azione la Nato che, per l’emergenza libica, attivava l’operazione Unified Protector, assumendone la guida pur in un equilibrato quadro di comando condiviso e concertato, in parallelo, con i vari comandi militari degli Stati impegnati e con una sorta di direttorio politico ristretto. Operazione Unified Protector (Nella foto: Mappa basi aeree e navali militari). Dal suo canto, il Governo italiano, dopo un iniziale atteggiamento dilatorio di fronte alla scelta anglo-francese (atteggiamento che da un lato aveva rinfocolato le polemiche politiche interne e, dall’altro, aveva suscitato qualche perplessità all’estero) si era ben presto allineato alle posizioni degli Alleati partecipando all’operazione Unified Protector. Alla fine di agosto, i ribelli riuscivano a “strappare” Tripoli alle forze leali a Gheddafi e questi, a sua volta, il 20 ottobre 2011, veniva ucciso in circostanze drammatiche. Il 31 ottobre 2011, Unified Protector, assolto il compito affidato, terminava la sua missione. La ricostruzione (Nella foto: Libia's Trybes. Fonte: Stratfor). Crollato in maniera violenta il regime che da oltre quaranta anni governava il Paese, per la Libia, ancora molto segnata dal rancore e dagli strascichi di una guerra civile particolarmente brutale, iniziava la fase della ricostruzione. In primo luogo la ricostruzione della convivenza democratica e la ricerca di nuove forme di coesione nazionale difficili da trovare in un Paese caratterizzato dalla costante presenza di forti e potenti legami identitari di appartenenza alle numerose antiche tribù libiche La ricostruzione economico-sociale In secondo luogo, la ricostruzione economico-sociale del Paese che passava soprattutto attraverso la riattivazione degli impianti petroliferi in parte danneggiati dalla guerra civile. (Nella foto: Libya's population and energy production. Fonte: Stratfor) I rapporti italo-libici Per oltre un secolo, per ragioni antiche e per diverse motivazioni (non tutte di segno positivo), l’Italia, come si è visto nelle precedenti lezioni, ha avuto con la Libia altalenanti rapporti privilegiati in cui non sono mancate, anche in tempi più recenti, (mi riferisco in particolare ad alcuni aspetti specifici del Trattato del 2008) né luci né ombre. Nei confronti del nuovo Governo libico, l’Italia ha messo in campo un atteggiamento molto flessibile finalizzato a recuperare, con aperto spirito di collaborazione, quel che di positivo era stato costruito in precedenza. Mustafa Abdel Jalil, in Italia in visita ufficiale il 16 dicembre 2011, ha incontrato l’allora presidente del Consiglio Mario Monti e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Oggetto dell’incontro la decisione comune di riattivare il Trattato di amicizia firmato nel 2008 a Bengasi e sospeso durante il conflitto che ha condotto alla fine del regime di Muammar Gheddafi. (nella foto: Muammar Gheddafi, in Italia in visita ufficiale il 16 dicembre 2011, ha incontrato l'allora presidente del Consiglio Mario Monti e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Oggetto dell'incontro la decisione comune di riattivare il Trattato di amicizia firmato nel 2008 a Bengasi e sospeso durante il conflitto che ha condotto alla fine del regime di Mu'ammar Gheddafi. Fonte: AgrPress). La stabilizzazione del sistema politico libico Nel corso del 2012 proseguiva gradatamente la non semplice stabilizzazione del sistema politico libico resa ancor più complicata, come sempre avviene all’indomani delle guerre civili, dalla ingombrante presenza di vari gruppi di miliziani armati, di diversa matrice e ben poco disponibili a farsi disarmare dal rinato Esercito regolare libico. Comunque, il 7 luglio 2012, avevano luogo le elezioni dei deputati al Congresso Nazionale Generale che doveva sostituire il Consiglio Nazionale di Transizione. L’8 agosto 2012 avveniva il passaggio delle consegne fra il CNT e il Congresso nazionale che, il giorno seguente, eleggeva a maggioranza come suo presidente Mohamed el Magariaf. (nella foto: HiIlary Clinton con Mohamed el Magariaf). Il nuovo governo libico con Ali Zeidan Dopo un lungo negoziato, in un clima teso (funestato anche dall’attacco, l’11 settembre 2012 al Consolato americano di Bengasi, in cui perse la vita il diplomatico Chris Stevens), finalmente, il 14 novembre 2012, veniva varato il nuovo governo libico guidato da Ali Zeidan. Certamente il percorso di definitiva stabilizzazione e normalizzazione del nuovo Stato libico non è ancora ultimato (né poteva essere diversamente, se si tiene conto del breve tempo trascorso dalla fine della guerra civile): sono comunque stati fatti alcuni passi avanti. (nella foto: le bandiere della nuova Libia sventolano sugli impianti petroliferi). La collaborazione italo-libica Nelle prossime tappe da raggiungere, la Libia è ben consapevole di poter contare sulla rafforzata collaborazione bilaterale con l’Italia con cui riannodare, gradatamente, i fili di una ritrovata “nuova” amicizia attenta non più solo all’interesse nazionale, ma anche e soprattutto ai diritti umani e al consolidamento della democrazia e della libertà. (nella foto: Letta e Ali Zeidan, conferenza stampa a Palazzo Chigi). In quest’ottica, il 4 luglio 2013 aveva luogo a Roma il primo incontro del presidente del Consiglio Enrico Letta con il premier libico Ali Zeidan. Venivano messe in campo varie specifiche iniziative di cooperazione rafforzata nel comparto energetico, in quello delle grandi infrastrutture. “Da entrambi le parti – precisava il comunicato diffuso al termine del vertice italo – libico – è stata sottolineata l’importanza del livello di collaborazione già in atto e la comune volontà di proseguire e rafforzare ulteriormente i rapporti bilaterali con particolare riferimento ai profili della sicurezza, del contrasto all’immigrazione clandestina e al traffico di esseri umani”. 15.La guerra civile in Siria La primavera araba in Siria All’improvviso, nonostante la sorveglianza e i rigidi controlli dei servizi di sicurezza, il vento della primavera araba cominciò a soffiare anche in Siria, mettendo a dura prova il mito della solidità e della stabilità del regime del presidente Bashar Assad. Ben presto, nei primi mesi del 2011, le proteste di massa si diffusero da Homs a Damasco, da Banyas ad Aleppo. (nella foto: Banyas, Venerdì della rabbia, 29 aprile 2011). La Siria da un punto di vista religioso A differenza di Tunisia, Egitto e Libia, in Siria la situazione era ben diversa innanzitutto da un punto di vista religioso. Infatti, in Siria circa il 10% della popolazione è di religione cristiana (sia cattolici che ortodossi), mentre il 75% circa è di religione musulmana di osservanza sunnita; la rimanente quota minoritaria è sì di religione musulmana, ma di osservanza alawita, una sorta di ramo siriano della più grande confessione religiosa sciita, ben radicata prevalentemente in Iran. Di osservanza alawita sono tutti i componenti della famiglia presidenziale Assad, nonché tutte le alte cariche del regime e, soprattutto, larga parte dei militari delle ben addestrate unità di élite dell’esercito. (nella foto: Bashar Assad in preghiera). La guerra civile Le notizie della “primavera araba” tunisina ed egiziana sono state subito accolte dalla stragrande maggioranza della popolazione siriana di osservanza sunnita (per lungo tempo discriminata dalla vita politica) come la tanto attesa occasione liberatoria per protestare contro l’oppressivo regime degli Assad. Ma la risposta del regime nei confronti delle grandi manifestazioni popolari di protesta fu ovunque violenta, feroce e spietata, lasciando sul campo migliaia e migliaia di vittime civili, provocando inoltre un gran numero di profughi. Ben presto la Siria precipitò nel buco nero della guerra civile. (nella foto: giovane armato). Il veto di Russia e Cina Questa guerra asimmetrica a tutt’oggi in corso fra il regime siriano e una parte consistente del suo popolo, ha riempito i notiziari televisivi e le pagine dei giornali di tutto il mondo, creando indignazione e sconcerto nell’opinione pubblica e nella comunità internazionale. A differenza di quanto è avvenuto nel caso della Libia (laddove è stato possibile attuare un intervento militare legittimato dall’Onu), nel caso della Siria, tutte le varie proposte di eventuali iniziative multilaterali messe in campo dalla comunità internazionale, si sono infrante sul veto assoluto posto da Russia e Cina a qualsiasi azione militare esterna comunque concepita, bloccando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. (nella foto: riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite). Incognita russa (Nella foto: Centro tecnico di manutenzione ospitato nel porto di Tartus). E così, la già difficile equazione siriana veniva complicata dall’incognita russa. Infatti, ben consapevole della cruciale posizione geostrategica del suo Paese, il presidente siriano Bashar Assad, non aveva mai smesso di coltivare buoni rapporti, non solo con l’irrequieto vicino regime sciita iraniano, ma anche e soprattutto con la Russia. Una Russia sempre più desiderosa di riprendere, dopo gli anni più bui del declino, una nuova politica di potenza, a cominciare proprio dal Mediterraneo orientale. Delle basi nel Mediterraneo, l’unica e sola, rimasta ininterrottamente in funzione (sopravvissuta allo smantellamento di tutte le basi navali russe all’estero) è proprio il Centro tecnico di manutenzione ospitato nel porto di Tartus che è, a tutt’oggi, in grado di fornire adeguata assistenza e rifornimenti di ogni genere alle navi russe in transito nel Mediterraneo. Il perimetro dell’area è presidiato da personale militare della rinata Marina russa. Insomma, nel Mediterraneo il Centro di Tartus rappresenta l’unica postazione militare in cui ancora sventola stabilmente, e da quarant’anni, la bandiera della Marina russa. Gli scenari inqietanti del crollo della Siria di Assad L’ostinazione del Governo di Mosca nel continuare a difendere, in tutte le sedi internazionali, quel che resta dell’indifendibile e dispotico regime siriano da possibili aggressioni militari esterne, comunque configurate, si spiega con la preoccupazione per le micidiali ripercussioni che un crollo non assistito di Assad provocherebbe in tutto il Medio Oriente. Se quel che resta della Siria di Assad crollasse all’improvviso per effetto, sia pur indiretto, di una, sia pur limitata e circoscritta, “azione punitiva” americana, per la Russia si aprirebbe uno scenario inquietante. (nella foto: Bashar al-Assad con Vladimir Putin). La transizione concertata Mercoledì 21 agosto 2013 i media di tutto il mondo diffondevano le crudeli immagini di oltre mille morti ammazzati a Damasco con il gas nervino. Orrore e raccapriccio per quelle vittime, molte delle quali donne e bambini, scuoteva l’opinione pubblica, suscitando un rabbioso moto di indignazione e di autentica repulsione nei confronti del regime siriano e che, sul fronte emotivo, ha fatto spontaneamente salire in tutti una forte richiesta di giustizia e di intervento diretto da parte delle Nazioni Unite per farla finita con Assad e il suo regime. Ancora una volta la Russia in nome dei propri interessi geopolitici e geostrategici, si ostina a difendere, nelle varie sedi internazionali, l’attuale regime siriano, “ammonendo” i vari Attori statuali, a cominciare dagli Stati Uniti, a non prefigurare per la Siria soluzioni unilaterali, ma a creare, invece, i presupposti per una fase di transizione concertata, che si faccia carico degli interessi di tutti i soggetti coinvolti a livello internazionale ed a livello locale. (nella foto: soccorritori con maschere antigas). Gli appelli di pace (nella foto: il segretario di Stato americano Kerry e il ministro degli Esteri russo Lavrov a Ginevra). In questo quadro di forte incertezza si profilano ipotesi diverse e contrapposte e, soprattutto, non si sono ancora placati i minacciosi venti di guerra. Al tempo stesso, propiziato dagli appelli di Papa Francesco e dalle diplomazie europee, prima fra tutte da quella italiana, è stato avviato, ai primi di settembre 2013, a Ginevra il dialogo tra Kerry e Lavrov per una soluzione diplomatica della crisi. Una iniziativa che potrebbe spingere la comunità internazionale a farsi carico della crisi, nella prospettiva di convocare finalmente la tanto attesa conferenza internazionale, la cosiddetta «Ginevra due», cui dovrebbero partecipare, senza precondizioni e con spirito di pace, tutti gli Attori statuali e non statuali, globali e regionali, coinvolti. Auspichiamo che tutto questo avvenga al più presto e che la tragedia del popolo siriano abbia termine. Corso di STORIA DELLE RELAZIONI EUROMEDITERRANEE A.A. 2014/2015 (Prof. MATTEO PIZZIGALLO) Tratto da http://www.federica.unina.it/corsi/storia-delle-relazioni-euromediterranee/ Impaginazione a cura di MASSIMO IAQUINANGELO