UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “FEDERICO II”
DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE
Federica Web Learning
Corso di
STORIA DELLE RELAZIONI EUROMEDITERRANEE A.A. 201 4/2015
(Prof. Matteo Pizzigallo)
MATTEO PIZZIGALLO (Martina Franca,1950) si è laureato in Scienze Politiche
nell’Università “La Sapienza” di Roma ove ha iniziato la carriera scientifica in
qualità di assistente ordinario. Dal 1980 Professore all’Università di Bari, nel 1992 è
stato chiamato all’Università di Napoli “Federico II”, Facoltà di Scienze Politiche
ove tuttora lavora in qualità di Professore ordinario di Storia delle Relazioni
Internazionali. Studioso di diplomazia mediterranea, degli aspetti politico internazionali della questione
energetica e di relazioni italo-arabe, è autore di numerosi volumi, articoli e saggi. Tra i suoi lavori più
recenti: L’Italia e il Mediterraneo orientale (Milano, 2004), Amicizie mediterranee e interesse nazionale
(Milano, 2006). La diplomazia italiana e i Paesi arabi dell’Oriente Mediterraneo, (Milano,2008), Il Ponte
sul Mediterraneo, (Roma 2011), L’Italia e le monarchie petrolifere del Golfo, (Roma 2012), La Politica
araba dell’Italia democristiana, (Milano 2013). Giornalista pubblicista.
Programma del corso
Il Mediterraneo nel XX secolo: storia e problemi.
Il Mediterraneo dal primo al secondo dopoguerra. Analisi di scenario e casi di studio. La nascita del
nazionalismo arabo e la “liberazione” del mediterraneo.
La politica mediterranea della Repubblica italiana e le relazioni bilaterali italo-arabe. La crisi di Suez. Le
ripercussioni mediterranee delle guerre arabo-israeliane: aspetti politici ed economici. I tentativi di pace
in Medio Oriente. Origini storico-politico-diplomatiche della Cooperazione euromediterranea. Il processo
di Barcellona e i suoi sviluppi. L’Unione per il Mediterraneo. Il ruolo dell’Italia.
La “primavera” araba e il nuovo scenario mediterraneo. Tunisia, Marocco, Egitto, Libia e Siria. Il ruolo
delle monarchie petrolifere del Golfo.
Indice delle lezioni
PARTE PRIMA
1.“Il mare unisce i popoli che separa”: lezione introduttiva
2.Il mediterraneo alla vigilia della prima guerra mondiale
3.Il mediterraneo e la prima guerra mondiale
4.Il Mediterraneo fra le due guerre mondiali
5.Il Mediterraneo nel secondo dopoguerra
6.La “Liberazione” del Mediterraneo
7.La Battaglia di Algeri e la Crisi di Suez
8.La politica mediterranea della Repubblica italiana
9.Il difficile cammino della pace nell’Oriente mediterraneo
10.Dalla Conferenza di Barcellona alla Unione per il Mediterraneo
PARTE SECOINDA
11.La Primavera araba e il nuovo scenario mediterraneo 2013
12.Primavera in Marocco
13.Rivoluzioni in Egitto
14.Il complicato "rebus" Libia
15.La guerra civile in Siria
Tratto da http://www.federica.unina.it/corsi/storia-delle-relazioni-euromediterranee/
Impaginazione a cura di MASSIMO IAQUINANGELO
1.“Il mare unisce i popoli che separa”: lezione introduttiva
“Il mare unisce i popoli che separa” A. Pope
Immagini mediterranee

Le due immagini che seguono illustrano con efficacia la prospettiva in cui intendono collocarsi
queste lezioni di Storia delle relazioni euromediterranee.

La prima immagine è il “Mediterraneo rovesciato”, carta geografica del XIII secolo custodita (e
speriamo lo sia ancora) nella Biblioteca nazionale di Baghdad. Ci fa vedere come all’epoca veniva
rappresentato dai geografi orientali e come appariva ai navigatori che da Levante facevano rotta
sui porti cristiani attraverso il Mare Bianco d’Oriente, Ak Deniz.

La seconda immagine è il “Porto del Mediterraneo”, dipinto tra il 1744 e il 1749, sulla parete di
una prestigiosa dimora inglese dal vedutista modenese Antonio Joli. In questo porto immaginario
sono presenti tutti insieme vari elementi architettonici che richiamano i porti di Genova, Venezia e
Napoli nonché, in una mescolanza di colori e abiti orientali, diverse figure che, insieme o
separatamente, si sarebbero potute incontrare in un qualsiasi porto mediterraneo dell’epoca.
Il mediterraneo rovesciato – XII secolo -
Porto del Mediterraneo (Antonio Joli)
Che cos’è il Mediterraneo?

“Che cos’è il Mediterraneo?- ha scritto il grande storico Fernand Braudel- Molte cose al tempo
stesso. Non una civiltà, ma più civiltà ammassate l’una sull’altra. Il Mediterraneo è un antico
crocevia. Da millenni tutto è confluito verso questo mare, scompigliando ed arricchendo la sua
storia.”

Una storia che la modernità ha reso ancora più complessa e di difficile lettura. E così talvolta è
accaduto, specie in alcuni studi recentemente apparsi, che l’accuratezza critica e l’analisi storica
siano state sopraffatte dalla tentazione sempre in agguato di ricorrere alle semplificazioni
preconcette oppure alle inconscie suggestione dei miti.
“Non esiste una sola cultura mediterranea…”
“…non esiste una sola cultura mediterranea …”
SABRATAH, Great Socialist People’s Lybian Arab Jamahirya
“… Il resto è mitologia …”
“Molte definizioni che fanno parte del nostro patrimonio –scrive l’illustre slavista Pedrag Matvejevic’devono essere prese con cautela. Non esiste una sola cultura mediterranea: ce ne sono molte in seno a un
solo Mediterraneo. Le somiglianze sono dovute alla prossimità di un mare comune e all’incontro sulle sue
sponde di nazioni e forme di espressioni vicine. Le differenze sono segnate da origini e storia, credenze e
costumi, talvolta inconciliabili. Né le somiglianze né le differenze sono assolute o costanti: talvolta sono
le prime a prevalere, talvolta le ultime. Il resto è mitologia”.
“… Una visione differenziata …”

Un approccio metodologicamente corretto alla storia delle relazioni euromediterranee in età
contemporanea può essere dunque rappresentato dall’analisi delle “somiglianze e delle differenze”
incrociata però con lo studio delle politiche interne e internazionali dei singoli Paesi della Sponda
Sud del Mediterraneo lette anche alla luce delle più recenti ricerche e interpretazioni di qualificati
storici del Litorale arabo.

Insomma un primo sperimentale tentativo di analisi che tenga anche conto del Mediterraneo
“rovesciato”, nella prospettiva non tanto di scrivere un’impossibile “storia condivisa”, che
appartiene ai miti, quanto piuttosto di “condividere una visione differenziata dei problemi e,
soprattutto, delle loro radici profonde.
Attraverso il Mediterraneo
Possiamo iniziare il nostro viaggio attraverso il Mediterraneo e le sue storie partendo
dai primi anni del Novecento, quando l’Europa delle grandi potenze aveva
consolidato il suo dominio sulle colonie d’Oltremare…
2.Il mediterraneo alla vigilia della prima guerra mondiale
Vigilia di guerra

Alla vigilia della prima guerra mondiale tutti i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo erano
controllati dalle Potenze europee;

Per la precisione, il Marocco e la Tunisia erano sotto protettorato francese. Solo da un punto di
vista formale nei due Paesi i rispettivi sultano e bey continuavano a regnare, mentre di fatto tutti i
gangli vitali della politica e dell’economia erano sotto l’esclusivo controllo francese;

L’Algeria, invece, sin dalla prima metà dell’ottocento era una vera e propria colonia francese “di
sfruttamento e di popolamento” e, quest’ultimo aspetto, molti anni dopo, come vedremo nelle
lezioni seguenti, sarebbe stato all’origine di gravi problemi;

La Libia, dal 1911 era una “nuova” colonia dell’Italia, anche se il reale controllo del territorio da
parte delle Autorità italiane era solo limitato a Tripoli ed ad alcune zone costiere. Nel quadro delle
operazioni militari connesse alla guerra di Libia, L’Italia aveva altresì occupato Rodi e le isole del
Dodecanneso.
La guerra libica
L’Egitto di Fuad
L’Egitto era dalla fine dell’ottocento una colonia della Gran Bretagna, che
controllava anche il Canale di Suez, l’importante Base di Aden ed il Sudan. Per
quest’ultimo Paese fu inventato il “condominio” anglo-egiziano, di fatto una vera
e propria finzione giuridica, perché il controllo del territorio era esercitato
esclusivamente dal governatore britannico. Nel 1914 la Gran Bretagna trasformò
l’Egitto in protettorato e, solo nel 1922, avrebbe concesso l’indipendenza
affidandone la corona a Fuad (nella foto a sinistra). Come sempre, però, si
sarebbe trattato, ancora una volta, di una finta indipendenza, perché la Gran
Bretagna avrebbe mantenuto il controllo esclusivo sul Canale di Suez (presidiato da truppe inglesi)
nonché sulle forze armate dell’Egitto e sulla sua politica estera.
L’emiro Hussein

I Paesi Arabi del Mediterraneo orientale, Libano, Palestina e Siria,
facevano parte integrante di quel che restava (larga parte della Penisola arabica
tra il Mar Rosso e il Golfo persico) dell’antico grande Impero ottomano;

Alla vigilia della prima Guerra Mondiale, l’occhiuta sorveglianza turca
aveva avvertito una forte ripresa dal nazionalismo arabo che, sia pur declinato
nelle varie province dell’Impero con modalità e aspirazioni diverse, non sempre
compatibili,
sprigionava
però
una
comune
spinta
all’autonomia
e
all’indipendenza;

E così mentre l’Emiro dell’Hijaz, Hussein (nella foto a sinistra), capo della nobile famiglia degli
Hashemiti ( cui appartiene l’attuale re di Giordania), sognava per sé la creazione di un grande
regno arabo, i nazionalisti siriani e libanesi, espressione di una borghesia mercantile più aperta ed
evoluta, rivendicavano subito maggiori diritti, autonomia politica e autogoverno.
Sulla sponda sud del Mediterraneo
Sulla sponda Sud del Mediterraneo nello stesso periodo, anche nelle colonie nordafricane delle Potenze
europee, gli arabi erano sempre più insofferenti nei confronti della rapace ed opprimente dominazione
straniera.
A tal proposito, il grande storico francese André Nouschi scrive : "Il capitalismo ha conquistato tutta la
regione e si è introdotto persino nelle campagne più chiuse. Questa penetrazione ha trasformato la
struttura dell’economia rurale e urbana; attraverso la colonizzazione ha tolto all’Egitto e al Magreb le
terre migliori, ha aggravato i contrasti tra i più ricchi e i più poveri. Ha contribuito a disintegrare le
strutture sociali tradizionali; ha posto, inoltre, sotto il dominio degli uomini di affari europei l’insieme
delle ricchezze minerarie dei Paesi mediterranei."
3.Il mediterraneo e la prima guerra mondiale
Le cause del conflitto

In larga parte provocato dall’insanabile conflittualità interimperialistica anglo-germanica, cui si
aggiunsero anche altre cause, come le inarrestabili spinte espansionistiche di alcune nazioni e le
forti aspirazioni irredentistiche di altre, il primo conflitto mondiale (iniziato con la dichiarazione
di guerra dell’Impero austriaco alla Serbia del 28 luglio 1914) si estese rapidamente a quasi tutte
le potenze europee vincolate dalle rispettive alleanze contratte nel tempo.

Da un lato, l’Intesa, la coalizione anglo-franco-russa cui si aggiunsero via via nuovi alleati: l’Italia
(1915), la Romania (1916) e Stati Uniti (1917). In particolare, questi ultimi diedero un decisivo
contributo soprattutto in termini di mezzi e di risorse finanziarie. Dall’altro, gli Imperi germanico,
austriaco e turco cui si aggiunse la Bulgaria.
La prima guerra mondiale
L’assedio di Gallipoli
I Turchi, con un potente dispiegamento di artiglieria, rafforzarono
le difese costiere e minarono le acque dei Dardanelli e del Bosforo,
chiudendo gli Stretti alla flotta russa bloccata nel Mar Nero. Le
potenze dell’Intesa decisero, dunque, d’intervenire.(nella foto a
sinistra artiglieria inglese a Gallipoli).
Dopo un intenso bombardamento navale anglo-francese degli Stretti, ai primi di Marzo 1915, circa
500.000 uomini sbarcarono a Gallipoli, scontrandosi duramente con le forti capacità di resistenza delle
armate turche, in parte sottovalutate dai Comandi inglesi.
Alla fine dell’anno, gli alleati furono costretti a far rimpatriare il loro contingente, decimato dai
sanguinosi scontri avvenuti nella penisola di Gallipoli.
Le promesse inglesi
Fallita, almeno per il momento, l’opzione militare, gli inglesi, d’intesa con gli
Alleati, per colpire al cuore l’Impero turco, adottarono una spregiudicata strategia
politico-diplomatica, non priva di forti elementi di ambiguità. Gli inglesi fecero
leva sulle aspirazioni all’indipendenza e sulle forti ambizioni personali dell’emiro
dell’Higiaz Hussein, (nella foto) capo degli Hascemiti, una delle più antiche
famiglie dell’aristocrazia araba e insofferenti della lunga dominazione turca.
In cambio della proclamazione della rivolta contro il Sultano di Istambul delle tribù beduine che
avrebbero partecipato alla lotta armata, i diplomatici inglesi promisero all’ambizioso Hussein la
creazione, sotto la sua corona, di un grande regno arabo indipendente, dalla Penisola arabica alla
Mesopotamia ed alla Siria.
Lawrence D’Arabia
Il 26 giugno 1916, Hussein proclamò la rivolta araba e chiamò i capi delle tribù
del deserto alla “guerra santa” contro i turchi. I ribelli arabi guidati dagli stessi
figli di Hussein, Alì, Faysal e Abdallah (bisnonno dell’attuale re di Giordania)
contribuirono in maniera significativa alle operazioni militari contro i turchi,
alleggerendo impegno e compiti degli eserciti alleati. Sul fronte arabo un ruolo
importante fu svolto da un ufficiale dell’ Intelligence inglese Thomas Lawrence
(nella foto) destinato a diventare molto famoso e la cui vita, a metà tra storia e
leggenda, sarebbe stata poi raccontata nell’omonimo celebre film del 1962 vincitore di ben 7 Oscar.
Hussein

Mentre Hussein si accingeva alla rivolta, sognando il grande regno indipendente fino alla Siria ed
alla Mesopotamia promesso dagli Inglesi, questi ultimi, in maniera molto spregiudicata, violando
deliberatamente gli impegni assunti con gli Arabi, sottoscrivevano, all’insaputa anche degli altri
alleati Europei (tra cui l’Italia) una serie di accordi segreti con la Francia noti come Accordi
Sykes- Picot (dal nome dei due negoziatori) ratificati nel maggio del 1916. In forza di questi
accordi segreti, gli Inglesi ed i Francesi si dividevano il controllo proprio di quegli stessi territori
che avrebbero dovuto formare il regno arabo promesso. In estrema sintesi, Libano e Siria alla
Francia, Mesopotamia all’Inghilterra.

A complicare ulteriormente la già intricata rete di accordi volti ad “imbrigliare” sotto il controllo
anglo- francese (sia pur con modalità da stabilire in seguito al termine del conflitto) i vasti territori
già promessi agli Arabi, si aggiungeva una nuova mossa del Governo di Londra. Infatti, nel
tentativo di associare allo sforzo bellico occidentale anche le organizzazioni dei movimenti
sionisti, il Ministro degli esteri britannico Lord Balfour il 2 novembre 1917 dichiarò che il
Governo di Londra vedeva “con favore lo stabilirsi in Palestina di una Sede nazionale per il
popolo ebraico”.
Il generale britannico Allenby

Il 12 dicembre 1917 il generale britannico Allenby (nella foto) alla testa
di un contingente interalleato entrava a Gerusalemme posta sotto il controllo
dell’amministrazione militare. Il 18 settembre 1918 Allenby riprendeva
l’offensiva contro i Turchi e, il mese successivo, conquistava Damasco e Beirut.

Il 30 ottobre 1918 sulla nave inglese Agamennon ancorata nel porto di
Mudros i plenipotenziari turchi firmarono l’armistizio con gli Alleati. Ma per i
Paesi arabi il peggio doveva ancora incominciare.
4.Il Mediterraneo fra le due guerre mondiali
La scomparsa degli antichi imperi

La prima guerra mondiale cambiò profondamente l’assetto geopolitico del Mediterraneo.
Scomparvero per sempre antichi imperi. Quello zarista fu travolto dalla rivoluzione bolscevica del
1917. Gli imperi germanico, austriaco e turco furono sconfitti sul campo dalle Grandi potenze
occidentali che, con cupidigia, si spartirono il ricco bottino di guerra.

Fu però una spartizione ineguale a vantaggio di Gran Bretagna e Francia. Di conseguenza in
alcuni Paesi (fra cui anche l’Italia), che durante il conflitto avevano contribuito alla vittoria finale,
cominciò gradualmente a diffondersi un certo malessere e, soprattutto, una profonda sfiducia per il
nuovo ordine internazionale generato dalla guerra.

All’indomani dalla vittoria, le diplomazie dell’Alleanza occidentale predisposero i vari Trattati di
pace, di fatto poi imposti con la forza ai Paesi vinti, ove furono subito percepiti come
eccessivamente severi e punitivi. Sembrò quindi giusto opporsi con tutti i mezzi a quegli iniqui
trattati per cercare di modificarli. Ma, tenuto conto dei rilevanti interessi dei Paesi vincitori e delle
accese spinte revisioniste dei Paesi vinti, non era né semplice né facile mettere in cantiere
modifiche condivise.
Il trattato di Sèvres (1920)
L’assetto del mediterraneo orientale fu stabilito con il Trattato di Sèvres
(1920) imposto dai vincitori al rassegnato ed acquiescente Governo
dell’ultimo sultano di Istanbul, disposto a tutto pur di salvare la dinastia. Il
Trattato di Sèvres prevedeva, tra l’altro, la perdita di tutti i territori arabi
dell’Impero ottomano, la temporanea cessione della provincia di Smirne
alla Grecia (che l’aveva già occupata), nonché la spartizione dell’Anatolia
in zone di influenza economica riservate ai Paesi europei.
Kemal Ataturk

Contro questo umiliante ed iniquo Trattato, si levò la violenta protesta
del più prestigioso capo militare turco, Mustapha Kemal (nella foto a sinsitra),
deciso a difendere con la forza l’orgoglio e la dignità della sua Patria offesa dal
sultano e umiliata dagli stranieri.

Armi in pugno Kemal, dopo avere sconfitto i greci e deposto l’ultimo
sultano, ottenne un nuovo Trattato di pace ( firmato poi a Losanna il 24 luglio
1923) che, pur confermando la perdita delle province arabe, restituiva la piena
integrità territoriale alla nuova Turchia repubblicana.

Sotto la guida illuminata di Kemal detto Ataturk ( padre dei turchi) la
Repubblica turca conobbe un lungo periodo di stabilità, durante il quel ebbe
altresì inizio un graduale e condiviso processo di modernizzazione.
La sistemazione del Medio oriente

Più complessa fu la sistemazione delle ex province ottomane del
Medio Oriente che, in base alle fraudolenti promesse inglesi avrebbero
dovuto costituire il grande Regno Arabo destinato alla nobile famiglia
degli Hascemiti, che si era ribellata al sultano ed aveva combattuto al
fianco degli Alleati, contribuendo alla vittoria finale.

Invece, Inghilterra e Francia onorarono soltanto gli accordi
segreti Sykes-Picot (vedi lezione n.3) e, pertanto, si spartirono il Medio
Oriente con la “complicità” della Società delle Nazioni ( la più
importante organizzazione internazionale del tempo). Dopo vari
negoziati fu infatti stabilito che la Francia ottenesse il mandato ( un
raffinato istituto concepito dai giuristi per permettere di affidare alcuni Stati ritenuti non ancora
maturi per l’indipendenza alla interessata tutela di alcune Potenze vincitrici della guerra) sulla
Siria e sul Libano e l’Inghilterra sulla Palestina e sulla antica Mesopotamia che raggruppava le tre
Province di Mosul, Baghdad e Bassora, cui fu dato il nome di Iraq.
Il Mediterraneo orientale nel 1923
I mandati francese ed inglese in Medio oriente

I francesi decisero di governare direttamente e separatamente i loro mandati di Siria e Libano.
L’atteggiamento colonialista assunto dalla Francia nell’amministrazione di questi territori, creò
non pochi problemi con le forze politiche locali, soprattutto con quelle di più marcato
orientamento nazionalista, che lottavano per l’indipendenza e per la libertà.

Nei territori sottoposti al loro mandato, gli inglesi, per recuperare il rapporto con gli Hascemiti,
cui erano state fatte tante vane promesse, offrirono a Faysal la corona dell’Iraq e a suo fratello
Abdallah quella della Transgiordania: un “nuovo” Stato ottenuto staccando un’ampia porzione dal
Mandato palestinese.

Il Mandato palestinese fu amministrato direttamente dalle Autorità britanniche, che consentirono
l’immigrazione ebraica. Un’ immigrazione inizialmente limitata che, però, negli Anni Trenta, con
l’inizio delle persecuzioni razziali in Europa, si fece via via più consistente.
I sovrani Hascemiti
A sinistra Faysal, re dell’Iraq. A destra suo fratello Abdallah, emiro della Transgiordania.
5.Il Mediterraneo nel secondo dopoguerra
Il Mediterraneo nel secondo dopoguerra

Durante la seconda guerra mondiale, il Mediterraneo fu teatro di accesi scontri fra i belligeranti.
Tutti i Paesi della sponda Sud furono ripetutamente attraversati da eserciti contrapposti in un
groviglio di alleanze. Da un lato gli Alleati anglo-americani e le truppe di France libre del
generale De Gaulle; dall’altro le forze armate di Germania e Italia sconfitte su tutti i fronti.

Al termine del conflitto lo scenario politico del Mediterraneo era completamente mutato, mentre
già si sentivano i primi venti di guerra fredda originati dalla nascente contrapposizione fra i due
Blocchi: occidentale a guida americana e orientale a guida sovietica. Nonostante le resistenze di
Francia ed Inghilterra, gelose custodi di quel che restava dei loro imperi coloniali, le spinte
all’indipendenza dei popoli arabi si facevano sempre più forti. Per alcuni Paesi il cammino verso
la libertà fu relativamente semplice; per altri, come Marocco, Tunisia e soprattutto Algeria (come
vedremo nella prossima lezione) fu molto difficile e complesso.

La Libia, già colonia italiana, dopo un breve periodo di occupazione militare inglese, il 24
dicembre 1951 diventava un regno indipendente. L’Egitto (come si è visto nella lezione n.2) era
già indipendente dal 1922. Ma si trattava di una finta indipendenza, perché la Gran Bretagna
controllava il Canale di Suez e continuava ad esercitare sulla politica egiziana, un forte ed
invasivo condizionamento sempre più mal sopportato dal re, dal Parlamento e, soprattutto, dai
giovani ufficiali egiziani.
La fine dei mandati
Libano e Siria, nonostante un certo atteggiamento dilatorio della Francia, con
modalità diverse, nel 1946 riuscirono finalmente ad ottenere la piena indipendenza
e l’evacuazione di tutte le truppe straniere, segnatamente francesi ed inglesi. Più
complessa fu la fine del mandato britannico sulla Palestina, dove, al termine della
Guerra Mondiale, nonostante i controlli e i divieti delle autorità inglesi,
continuavano ad affluire nuove consistenti ondate di disperati immigrati
clandestini ebrei (drammaticamente memorabile fu la vicenda della nave Exodus,
che ispirò il noto film di Otto Preminger -nella foto a sinistra la locandina del film-) molti dei quali
sopravvissuti alle spietate persecuzioni e ad i campi di concentramento nazisti.
Il piano dell’ONU per la Palestina

La forzata coabitazione fra arabo-palestinesi ed
immigrati ebrei diventò sempre più difficile, dando luogo
a continui drammatici episodi di reciproche intolleranza
ed ostilità, ben presto degenerati in aperti scontri armati
con gravissime conseguenze per l’ordine pubblico, che le
Autorità inglesi non riuscivano più a gestire, diventando
Esse stesse bersaglio di ripetuti attacchi ed attentati
compiuti da entrambe le controparti in lotta.

Dopo un lungo lavoro istruttorio, non privo di contrasti e polemiche, il 29 novembre 1947,
l’Assemblea dell’ONU approvava una risoluzione che prevedeva la spartizione della Palestina e la
creazione di uno Stato ebraico e di uno Stato palestinese. Il piano di spartizione fu accolto con
ostilità da entrambe le controparti e la guerra civile strisciante fra le due comunità ebraica ed
arabo-palestinese esplose con rinnovato vigore e particolare violenza, mettendo a dura prova le
Autorità britanniche che ancora occupavano la regione.
La prima guerra arabo-israeliana
Nel pomeriggio del 14 maggio 1948 (poche ore dopo l’improvvisa e precipitosa
partenza del contingente militare inglese che poneva fine all’ormai ingestibile
Mandato sulla Palestina), nel Museo di Tel Aviv, i dirigenti dei movimenti
ebraici proclamavano, unilateralmente, la nascita della Stato di Israele (nella
foto: David Ben Gurion Primo Ministro alla nascita dello Stato d’Israele) su
tutto il territorio dell’ormai ex Mandato. Il giorno seguente gli eserciti di Egitto,
Siria, Libano, Giordania e Iraq passavano all’attacco, dando origine alla prima
guerra arabo-israeliana, la prima di una lunga serie destinata ad aprire una
profonda e dolorosa ferita nel cuore del Medio Oriente che, ancora oggi, dopo sessanta anni, stenta a
rimarginarsi e continua a provocare intensa sofferenza.
La prima guerra arabo-israeliana, pur se temporaneamente sospesa dalle ripetute tregue d’armi imposte
dall’ONU, durò dal maggio 1948 al gennaio 1949. I colloqui per l’armistizio fra Israele ed Egitto si
conclusero il 24 febbraio 1949 con la firma del relativo atto ufficiale, il cui schema fu poi ripreso anche
negli altri negoziati armistiziali fra Israele e i Paesi arabi che avevano preso parte alla guerra.
Al Nakba, la catastrofe del popolo palestinese
Israele, armi in pugno, si era conquistato con la forza
il diritto ad esistere entro i confini di quasi tutto
(comprendendo così anche la parte che avrebbe
dovuto costituire lo Stato palestinese invano
proposto dall’ONU) il territorio dell’ex Mandato
inglese. Ad eccezione:
- di Gerusalemme Est e della Cisgiordania (la
regione sulla riva destra del fiume Giordano) occupate durante la guerra dall’emiro Abdallah che, contro
il volere degli altri Stati arabi, decise, unilateralmente, di annetterle alla Transgiordania, dando così vita al
Regno
Hascemita
di
Giordania
(ancora
oggi
sotto
la
stessa
dinastia);
- della Striscia di Gaza, occupata dall’Egitto, ove si riversarono oltre duecentomila profughi palestinesi
ormai senza più una patria. Altre migliaia di disperati profughi palestinesi si rifugiarono in Libano e negli
altri
Paesi
arabi.
“Per i Palestinesi - come ha scritto lo storico Thomas Fraser - gli eventi del 1948-49 rappresentarono al
Nakba, la catastrofe, della cui gravità stavano appena cominciando a rendersi conto…”
6.La “Liberazione” del Mediterraneo
"Rialza la testa fratello…"
"Rialza la testa fratello, i giorni dell'umiliazione sono passati". Queste parole
ritmicamente ripetute nella notte come un gioioso canto di guerra
riecheggiavano per le strade del Cairo svegliata alle prime luci dell'alba del 23
luglio 1952 dai soldati del generale Neguib (nella foto al centro) che, nelle
prime ore del mattino, occupavano tutti gli edifici pubblici e la sede della
Radio. Era incominciata la "rivoluzione di luglio" concepita dagli Ufficiali
Liberi, un gruppo di giovani militari fra i quali Nasser (nella foto a sinistra) e Sadat destinati ad un ruolo
importante nella storia dell'Egitto. La sera del 25 luglio il Comando rivoluzionario decise di far abdicare
re Faruq, ritenuto il massimo responsabile della grave crisi economica del Paese e, soprattutto, degli
indebiti arricchimenti di spregiudicati funzionari e di corrotti cortigiani spesso asserviti agli interessi
stranieri.
Il successo degli Ufficiali Liberi aveva prodotto in tutto l'Egitto grandi speranze e forti richieste di
cambiamento che le componenti moderate del movimento e lo stesso Neguib non erano in grado di
contenere. Gli Ufficiali più giovani e più estremisti, vicini al trentaquattrenne colonnello Nasser,
puntavano direttamente a trasformare il Paese. E ciò doveva avvenire subito sulla base di semplici e
chiare parole d'ordine: riforme sociali, fratellanza araba, lotta contro tutte le forme di colonialismo.
Dopo un duro braccio di ferro, Nasser, nel novembre 1954, riuscì, alla fine, a liquidare il moderato
Neguib concentrando tutti i poteri su di sé. Superata questa ultima fase di assestamento, l'Egitto ritrovava
uno stabile assetto regolato dal Presidente Nasser, che avviava subito una intensa stagione di riforme,
imboccando, al tempo stesso, la via dello scontro aperto contro tutte le forme di colonialismo ancora
presenti nel Mediterraneo e contro i condizionamenti diretti o indiretti delle Potenze imperialistiche sui
Paesi della Sponda Sud.
La rivoluzione di Nasser si diffonde
La rivoluzione di Nasser (nella foto Nasser in trionfo)sprigionò in gran parte
del mondo arabo una forte carica liberatoria che galvanizzò l’entusiasmo dei
movimenti nazionalisti nei Paesi mediterranei. Si accesero nuove speranze e i
vari movimenti di liberazione "rialzarono la testa" e ripresero la lotta per
l'indipendenza.
L’indipendenza del Marocco
La "liberazione" dei Paesi mediterranei della Sponda Sud si declinò con modalità diverse da Paese a
Paese. In Marocco il principale partito nazionalista l'Istiqlal, che chiedeva la fine del protettorato
francese, era sostenuto dal sultano Mohammed V. Questi però nell'agosto del 1953 fu "esiliato" in
Madagascar dalle Autorità francesi, che insediarono al suo posto lo zio paterno Ben Arafa, ritenuto più
conciliante. Ma dal suo esilio durato due anni, il deposto sultano Mohammed
continuò a lottare per l'indipendenza del Marocco conquistandosi la fiducia
del suo popolo, mentre l'Istiqlal intensificava le attività di resistenza anche
armata. Intanto la situazione in Marocco tendeva a complicarsi e la posizione
di Ben Arafa "il sultano dei francesi“, sostenuto solo dal alcuni notabili
locali, diventava sempre più difficile. Il primo ottobre 1955 Ben Arafa
lasciava il trono e partiva per Tangeri. Il 16 novembre 1955 il legittimo
sovrano Mohammed V (nella foto a sinistra) rientrava a Rabat.
L’indipendenza del Marocco (segue)
Nei mesi seguenti venivano ripresi i colloqui franco marocchini
che, non senza qualche acceso contrasto, si conclusero il 2 marzo
1956 con una dichiarazione comune che stabiliva il riconoscimento
della piena indipendenza del Marocco retto da una monarchia
costituzionale. "Gli ambienti colonialisti della Francia- ha
recentemente scritto il giovane studioso marocchino Misk Hamidnei confronti del problema marocchino sentivano che davanti a loro la via sembrava libera. Grazie alla
linea dura ed alla repressione, gli ambienti colonialisti vinceranno i primi confronti con i movimenti
nazionalisti fino al giorno in cui a loro volta verranno vinti…”
La liberazione della Tunisia
(nella foto a sinistrai il primo presidente tunisino: Burghiba e nella foto a destra la bandiera della Tunisia )
I "colonialisti" francesi furono vinti anche in Tunisia dai nazionalisti del partito Neo-Destur che, nel
1952, guidati dal loro prestigioso capo Habib Burghiba, intensificarono le loro azioni di lotta per
l’indipendenza. Per evitare che la situazione nel Paese si aggravasse ulteriormente, anche per il
moltiplicarsi degli scontri fra guerriglieri tunisini e Forze dell’ordine, le Autorità francesi accettarono di
intavolare negoziati diplomatici con i dirigenti del Neo-Destur. Dopo circa sei mesi di negoziati,
finalmente, il 20 marzo 1956 veniva proclamata l’indipendenza della Tunisia e l’anno seguente veniva
approvata la costituzione della Repubblica con Habib Burghiba presidente. Il presidente Burghiba mise in
cantiere un ampio programma di riforme sociali e di struttura che, nel volgere di pochi anni, avrebbero
trasformato e modernizzato la Tunisia. Menzione particolare va fatta del grandioso piano decennale di
istruzione, lanciato nel 1958, e destinato ad infliggere un duro colpo alla secolare piaga
dell’analfabetismo.
Molto più complessa e dolorosa fu la liberazione dell’Algeria, la prima colonia francese nell’Africa
mediterranea, che il Governo di Parigi aveva deciso di non cedere. In Algeria, come vedremo nella
prossima lezione, la situazione era altresì complicata dall’antica presenza di oltre un milione di cittadini
francesi (i cosiddetti Pied noirs) che si opponevano ad ogni forma di indipendenza o di autonomia della
colonia e volevano nella maniera più assoluta solo il mantenimento di un’Algeria francese.
7.La Battaglia di Algeri e la Crisi di Suez
La guerra di Algeria
All’alba del primo novembre 1954 una nutrita serie di attentati
contro caserme e posti di polizia francesi scuoteva l’Algeria. Gli
attacchi furono rivendicati dal Fronte di Liberazione Nazionale
(FLN) che guidava la lotta per l’indipendenza dalla Francia.
Incominciò così la guerra d’Algeria, la più drammatica e
sanguinosa delle guerre di “liberazione” del Mediterraneo. La
questione era complicata non solo dalla ferma volontà del Governo di Parigi di mantenere, per
motivazioni di ordine politico ed economico, quel vasto territorio d’oltremare, ma anche dalla presenza in
Algeria di quasi un milione di francesi, i cosiddetti pied noirs, che non volevano assolutamente staccarsi
dalla Madrepatria. Nonostante l’immediata reazione delle forze di sicurezza francesi, l’insurrezione
algerina continuò a crescere di intensità, elevando il livello di scontro che toccò il culmine nel 1956-57,
con la crudele “Battaglia di Algeri”. Seguì, con l’intervento dei parà del generale Jacques Massu, una
violenta e brutale repressione che, nei mesi successivi, non mancò di turbare molte coscienze
democratiche francesi, aprendo un vivace dibattito, dentro e fuori le Aule parlamentari, destinato ad
acuire la profonda crisi politica nazionale e accelerando la fine della Quarta Repubblica.
Il ritorno di De Gaulle e gli Accordi di Evian
Solamente con il ritorno al potere di De Gaulle (nella foto a sinistra)
la
situazione in Algeria, nonostante l’opposizione di alcuni settori oltranzisti,
imboccò gradualmente la via (peraltro non senza ostacoli come, ad esempio il
tentato golpe di alcuni generali ribelli) del negoziato diplomatico. Finalmente,
dopo quasi un anno di trattative fra i rappresentanti del Governo francese e quelli
del Governo rivoluzionario algerino, il 18 marzo 1962 furono firmati ad Evian gli
Accordi per l’indipendenza dell’Algeria, sancita poi dal voto del luglio 1962. Primo Presidente della
Repubblica di Algeria fu
Ben Bella (nella foto a
sinistra ed al centro con
Boumedienne), uno dei capi
del FLN, cui fece seguito,
nel
1965,
Houari
Boumedienne (nella foto a
destra ed al centro con Ben
Bella) valoroso combattente della guerra di Liberazione. Destinato a governare a lungo, Boumedienne
guidò una radicale trasformazione dell’Algeria in senso decisamente socialista non disgiunta da una
marcata arabizzazione e islamizzazione delle varie istituzioni repubblicane.
La crisi di Suez
Mentre la guerra di Algeria era in pieno svolgimento, la crisi di Suez( nella
foto a sinistra una cartolina d’epoca del Canale di Suez), si abbatteva sul
Mediterraneo. Le cause della crisi di Suez vanno ricercate nell’aumento della
tensione nell’Oriente mediterraneo provocato anche dall’atteggiamento delle
Potenze europee, segnatamente Inghilterra e Francia, in forte ritardo
nell’elaborazione politica di rinnovati modelli di relazione con i Paesi arabi di
nuova indipendenza che, dal canto loro, rivendicavano la più totale autonomia
nelle scelte di schieramento internazionale. Insieme ad altri leader africani ed
asiatici, Nasser aveva dato vita al movimento dei Paesi “non allineati” (rispetto ai due Blocchi
contrapposti americano e sovietico) caratterizzati da un forte impegno“neutralista”, anticolonialista ed
imperialista. Percepiti (proprio per questa loro forte caratterizzazione) come potenziali “nemici” delle
Potenze europee, i Paesi “non allineati” erano invece guardati con simpatia dall’Unione Sovietica,
all’epoca autoproclamatasi “nume tutelare” di tutti i movimenti che nel mondo lottavano contro
l’imperialismo occidentale. Il timore nutrito da larga parte degli ambienti politici e finanziari occidentali
nei confronti di Nasser, sempre più “neutralista” militante, furono alla base, nel luglio 1956, del “ritiro” di
un piano americano di cospicui aiuti promessi all’Egitto per la costruzione ad Assuan della grande diga
sul Nilo (opera pubblica di vitale importanza per lo sviluppo economico del Paese). Nasser rispose
colpendo al cuore la più emblematica immagina dell’Occidente nel Mediterraneo orientale. E così, il 26
luglio 1956, Nasser nazionalizzava la potente Compagnia anglo-francese che da quasi un secolo gestiva il
Canale di Suez.
Attacco all’Egitto
I Governi inglese e francese, all’insaputa dei loro stessi Alleati della NATO, pianificarono segretamente
una sciagurata operazione militare (concertata con il Governo israeliano) per risolvere la questione con la
forza.
Il
29
ottobre
1956
truppe
israeliane
attaccavano
l’Egitto
occupando
il
Sinai.
Il 31 ottobre inglesi e francesi iniziavano il bombardamento degli aeroporti egiziani, seguito, qualche
giorno
dopo,
da
ripetuti
lanci
di
paracadutisti.
Il 4 novembre Nasser bloccava il Canale di Suez con conseguenze devastanti per i traffici marittimi
dell’Occidente.Stati Uniti ed Unione Sovietica, sia pur con motivazioni e finalità diverse, condannarono
l’unilaterale e velleitario attacco anglo-franco-isrealiano all’Egitto.
La soluzione concertata in ambito ONU
Con fermezza Usa ed Urss imposero l’immediata cessazione delle operazioni
militari ed incanalarono la crisi verso una soluzione diplomatica concertata in
ambito O.N.U.
Il 7 novembre 1956 l’ONU ordinava il ritiro dal territorio egiziano dei
contingenti stranieri di occupazione, pianificando altresì l’invio dei “caschi blu”
in alcune zone di confine sensibili.
All’indomani della Crisi di Suez, il prestigio di Nasser (nella foto in alto a sinistra è raffigurata una delle
tante manifestazioni di Giubilo in onore di Nasser nelle Capitali Arabe), il rais, che aveva
coraggiosamente difeso l’orgoglio e la dignità nazionale resistendo alle arroganti Potenze colonialiste (di
fatto costrette a ritirarsi e a rinunciare al controllo del canale), raggiunse il culmine in tutto il mondo
arabo, fino ad allora diviso e alla ricerca di modelli ispiratori.
8.La politica mediterranea della Repubblica italiana
La diplomazia dell’amicizia
(Foto: Mediterraneo, olio di G.Patriarca, 1951) Nel 1946, con
la nascita della Repubblica, l’Italia, dopo la drammatica
esperienza della seconda guerra mondiale, tornava verso la
“normalità” che, sul piano internazionale, imponeva il
passaggio attraverso la porta stretta del negoziato per il
Trattato di Pace con i Paesi vincitori, firmato poi a Parigi il
10 febbraio del 1947. Un Trattato molto duro che, oltre alla
perdita di tutti i possedimenti coloniali, stabiliva anche dolorose rinunce territoriali sul confine orientale.
Nonostante la sua debole posizione internazionale l’Italia mise subito in cantiere una “nuova” politica
mediterranea finalizzata:

a ritrovare e riannodare i fili dei tanti rapporti non solo politici con i Paesi arabi rivieraschi che la
guerra aveva sommerso se non addirittura reciso;

a ricostruire l’immagine della nostra giovane Repubblica. Un’immagine nuova, posta sotto il
segno della pace, dell’autodeterminazione dei popoli arabi e della cooperazione. Ma, soprattutto,
posta sotto il segno della diplomazia dell’amicizia, ossia quell’originale modello politico,
tipicamente italiano, di relazioni mediterranee progressivamente perfezionato nel corso degli anni.
La ripresa delle relazioni diplomatiche con l’Egitto
Il 30 giugno 1947, con la presentazione delle credenziali del diplomatico Cristoforo
Fracassi a re Faruq, venivano riprese le relazioni fra Italia ed Egitto interrotte dalla
guerra.
Alla fine di settembre dello stesso anno, con l’arrivo del diplomatico Luigi Cortese
a Damasco, venivano stabilite per la prima volta regolari relazioni con la Siria.
Menzione particolare va fatta delle relazioni fra Italia e Libano stabilite il 15 marzo
1947. Come rappresentante diplomatico a Beirut fu designato Adolfo Alessandrini. Il 15 febbraio 1949
veniva
firmato,
dallo
stesso
Alessandrini,
il
Trattato
di
amicizia
fra
Italia
e
Libano.
Il primo di una lunga serie di trattati e di accordi con i vari Paesi mediterranei di nuova indipendenza, che
l’Italia, negli anni successivi, avrebbe via via firmato.
La "vocazione" mediterranea
La spinta al "movimentismo" mediterraneo della nostra diplomazia era
determinata non solo dalla naturale vocazione mediterranea dell’Italia legata alla
sua stessa posizione geografica, ma anche dalla necessità di stabilire intese
politiche con i Paesi arabi produttori di petrolio per tentare di risolvere le
fondamentali esigenze nazionali di approvvigionamento energetico, liberando il
Paese dal condizionamento delle grandi multinazionali. Punta avanzata di questa
strategia fu il gruppo Eni-Agip, presieduto da Enrico Mattei (nella foto a sinistra
con Nasser), uno dei più prestigiosi e lungimiranti manager pubblici italiani.
Mattei riuscì a stabilire rapporti diretti con quei Paesi produttori di nuova indipendenza, che si erano
riappropriati collettivamente delle risorse del proprio sottosuolo e puntavano ad emanciparsi
dall’interessato controllo delle multinazionali.
Per una politica di pace
Convinto sostenitore di un’autonoma politica mediterranea di più largo respiro fu Aldo
Moro (nella foto a sinistra), Presidente del Consiglio negli Anni Sessanta, ai tempi del
primo
Centro-sinistra
e
poi
a
lungo
Ministro
degli
Esteri.
Nonostante i limiti imposti dai rigidi schemi della contrapposizione fra i due Blocchi
(rispettivamente guidati da Stati Uniti e Unione sovietica) Moro profuse, fino alla sua
tragica morte, un costante impegno a sostegno del dialogo e della cooperazione,
considerati come i fondamentali prerequisiti di una vera politica di pace e di stabilità nell’Oriente
mediterraneo.
Pace e stabilità messi a dura prova dalle guerre arabo-isrealiane e da certi rigidi atteggiamenti degli Stati
Uniti e di alcuni Paesi europei talvolta inclini ad allontanarsi dalla faticosa via della mediazione.
Una "costante" della politica estera italiana
Alla stessa stregua del leale e costruttivo impegno europeista anche la diplomazia dell’amicizia (intesa
come modello di relazioni mediterranee finalizzato a promuovere il dialogo bilaterale e multilaterale con i
Paesi rivieraschi) è sempre stata, e lo è diventata ancor di più negli ultimi anni, una costante della politica
estera italiana largamente condivisa, sia pur con sfumature e sensibilità diverse, da ampi settori dello
schieramento parlamentare, indipendentemente dalle maggioranze di Governo e dai vari “inquilini” di
Palazzo
Chigi
e
della
Farnesina
che
si
sono
via
via
succeduti.
Fra i moltissimi casi di studio che si potrebbero citare, nel corso degli anni, a sostegno di questa ipotesi
interpretativa, mi limito soltanto a ricordare, a titolo esemplificativo, due avvenimenti recentissimi:

il decisivo ruolo svolto, a partire dall’estate 2006, dall’Italia (memore della sua antica amicizia
con il Libano) per l’attivazione e l’invio, sotto l’egida dell’ONU, di una missione internazionale di
pace in quel martoriato Paese.

il Trattato di amicizia fra Italia e Libia firmato a Bengasi il 30 agosto 2008, che chiude l’annoso
contenzioso sul passato coloniale e si propone di rilanciare le relazioni bilaterali fra i due Paesi, in
un quadro di ritrovata amicizia e di cooperazione tecnica e culturale.
Foto di gruppo nella scuola di un villaggio del Libano meridionale (2008)
9.Il difficile cammino della pace nell’Oriente mediterraneo
Nella foto un caccia sovietico naviga nel Mediterraneo “curiosamente” affiancato alla portaerei americana Saratoga.
Il nuovo scenario mediterraneo
La crisi di Suez (vedi lezione n.7) ed i suoi successivi sviluppi avevano segnato il definitivo ed
irreversibile tramonto del ruolo dominante svolto, per oltre un secolo, da Inghilterra e Francia sulle
relazioni euromediterranee. Ormai alla fine degli Anni Cinquanta e, soprattutto nei decenni successivi, la
leadership mediterranea passava direttamente nelle mani delle due superpotenze, Stati Uniti ed Unione
Sovietica, all’epoca in permanente ostile coesistenza competitiva. In questo contesto, anche nello
scacchiere
mediterraneo
si
riprodusse
uno
schema
di
contrapposizione
bipolare.
Alla solidarietà politica e alle rilevanti forniture militari stabilmente garantite dall’Unione Sovietica (in
cambio dell’uso di basi navali) all’Egitto, alla Siria e poi anche alla Libia (all’indomani della
‘rivoluzione’ guidata da Gheddafi) si contrappose l’aperto e permanente sostegno diplomatico,
economico e militare assicurato dagli Stati Uniti ad Israele, sin dalla sua nascita sempre circondato da
Paesi arabi nemici ma che, con le forniture sovietiche di armi, stavano diventando di anno in anno sempre
più
pericolosi.
Intanto nel 1964 nasceva l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, OLP, di cui ben presto
Arafat avrebbe assunto la guida.
La stagione dei conflitti
L’irriducibilità del contrasto (sul diritto all’esistenza di Israele e sul problema
della Palestina e dei suoi disperati abitanti) fra la coalizione araba guidata
dall’Egitto (nella foto il Presidente egiziano Sadat (successore di Nasser) e il
leader dell’OLP Arafat nel 1973). e lo Stato di Israele fu alla base delle guerre
arabo-israeliane del giugno 1967 e dell’ottobre 1973. Le due guerre, soprattutto
la prima, segnarono una forte supremazia militare dello Stato d’Israele ed
aggravarono oltre misura la tragedia dei palestinesi scacciati anche dai nuovi territori, che gli israeliani
avevano conquistato (nel 1967) e dove stavano insediando (soprattutto in Cisgiordania) i propri coloni.
La questione della Palestina, la ferita aperta nel cuore del Vicino Oriente, diventò ben presto la ‘madre’ di
tutte le questioni, complicando le relazioni euromediterranee non solo perché si intrecciava alla
preesistente contrapposizione USA-URSS; ma anche per le sue ripercussioni sui rapporti politici tra i
Paesi europei consumatori e i Paesi arabi produttori di petrolio, i cui prezzi (sotto lo sguardo compiaciuto
dell’Urss autosufficiente dal punto di vista energetico) venivano usati come una micidiale arma per
destabilizzare e disarticolare il sistema economico occidentale.
La stagione delle speranze di pace
Dopo un lungo periodo di contrasti, di attentati, di
rivolte, di repressioni, di stragi, (tragicamente nota quella
avvenuta nel 1982 nel campo profughi palestinesi a
Sabra e Chatila in Libano) la questione palestinese nei
primi Anni Novanta, in un quadro internazionale
profondamente mutato (soprattutto per effetto della
dissoluzione dell’Unione Sovietica) cominciò lentamente
ad incanalarsi verso una possibile soluzione diplomatica.
Prima attraverso una serie di accordi fra lo Stato di
Israele
e
l’Egitto
(1979)
e
poi
attraverso
accordi
diretti
con
l’OLP.
Per la prima volta infatti fu segretamente avviato, nel 1993, un negoziato diretto bilaterale fra lo Stato
d’Israele e l’OLP. Il negoziato si svolse ad Oslo, durò circa sei mesi e culminò con un importante trattato
firmato poi a Washington, alla presenza del presidente americano Clinton, il 13 settembre 1993, dal
premier israeliano Rabin e dal leader palestinese Arafat(.nella foto in alto a sinistra la “storica” stretta di
mano
fra
Rabin
ed
1993).
Arafat,
In forza di questo trattato fra Stato d’Israele e OLP, dopo il reciproco riconoscimento fra le due Parti
contraenti, venivano poste le basi per l’avvio del graduale ritiro delle truppe israeliane dai territori
occupati (a partire dalla città di Gerico in Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza) che sarebbero stati
amministrati dai palestinesi. Il 4 giugno 1994 veniva istituita l’Autorità Nazionale Palestinese con
giurisdizione su Gerico e sulla Striscia di Gaza: il primo embrione di quello che sarebbe dovuto diventare
il tanto atteso autonomo Stato palestinese che però, a tutt’oggi, non riesce ancora a nascere.
Un’equazione a troppe incognite
Purtroppo, nel volgere di pochi anni, il costruttivo ‘spirito di Oslo’ ben presto
evaporò e il cammino della pace in Oriente divenne nuovamente impervio ed irto
di ostacoli alternativamente disseminati, con modalità, finalità e tempi diversi,
dagli
opposti
estremisti
di
entrambe
le
Parti
in
causa.
Nel giugno del 2007 le strutture paramilitari del partito islamico Hamas (che l’anno precedente aveva
battuto alle elezioni politiche palestinesi il partito Al Fatah guidato, dopo la morte di Arafat, dal
presidente dell’ANP Abu Mazen –nella foto il presidente palestinese Abu Mazen fra i suoi sostenitori- )
assumevano
il
controllo
totale
della
Striscia
di
Gaza.
Il miliziani di Hamas ribadivano il loro assoluto rifiuto di riconoscere la legittimità dello Stato d’Israele e
quindi
di
negoziare
con
i
suoi
rappresentanti.
Inoltre, dopo un duro scontro, i miliziani espellevano con la forza dalla Striscia di Gaza le organizzazioni
politico-militari di Al Fatah e tutti i funzionari pubblici leali al ‘moderato’ presidente Abu Mazen.
L’ultimo attacco a Gaza
Il governo israeliano mise subito in atto una serie di contromisure di
sicurezza culminata con la definitiva chiusura dei valichi di frontiera e
il blocco totale della Striscia di Gaza. Una vera e propria blindatura
israeliana di Gaza, che impediva persino il transito dei convogli
umanitari
di
soccorso
per
la
sfinita
popolazione
civile.
Nel corso del 2008 i miliziani di Hamas intensificarono i lanci di razzi contro le città più vicine, cui
sistematicamente seguivano le rappresaglie israeliane. Si alimentava così un micidiale meccanismo
‘azione-reazione’ destinato a far salire in maniera incontrollata la tensione. Dopo il mancato rinnovo della
tregua
d’armi,
la
situazione
esplose:
e
i
rimedi
furono
peggiori
del
male.
Il 28 dicembre 2008 l’esercito israeliano scatenava un massiccio violento attacco a Gaza mietendo un
numero altissimo di vittime non soltanto fra i miliziani, ma anche e soprattutto fra l’inerme e stremata
popolazione
civile.
Lo sproporzionato attacco israeliano, severamente condannato dai Paesi arabi e da alcuni Governi
europei, creò intenso allarme e preoccupazione in tutta la comunità internazionale. Ai primi di febbraio
2009, grazie alla paziente diplomazia segreta di alcuni Paesi arabi, Egitto in testa, ha finalmente visto la
luce una nuova tregua d’armi di diciotto mesi. Sarebbe molto auspicabile che, nei prossimi mesi, con la
spinta congiunta della nuova Presidenza americana e dell’Unione Europea, potesse finalmente riprendere
il cammino della pace fra Israele e Palestina: due Popoli, due Stati. Una pace giusta, durevole, presidiata
dal consenso di entrambe le Parti.
10.Dalla Conferenza di Barcellona alla Unione per il Mediterraneo
L’avvio della cooperazione euromediterranea
Le relazioni euromediterranee, con particolare riferimento alle relazioni specifiche tra l’Unione Europea
ed i Paesi della Sponda Sud del Mediterraneo, risalgono ai primi anni Settanta, quando al Vertice europeo
di Parigi (1972) dell’allora Comunità economica europea (all’epoca composta solamente dai Sei Paesi
fondatori: Italia, Francia, Repubblica Federale di Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo) furono
fissate le linee guida di una politica globale mediterranea volta a promuovere una prima serie di accordi di
cooperazione. In seguito, con l’adesione alla Cee di Irlanda, Danimarca e Gran Bretagna (1973) e, in
particolare di Grecia (1981) e poi di Spagna e Portogallo (1986), il “confine” meridionale dell’Europa
comunitaria
si
allungava
nel
Mediterraneo.
“Le sponde meridionali ed orientali del Mediterraneo, come del resto il Medio Oriente – recitava il
documento finale del Consiglio europeo di Lisbona (1992) di quella che era già diventata l’Unione
Europea (a Dodici Stati) – sono aree geografiche nei confronti delle quali l’Unione ha forti interessi in
termini
di
sicurezza
e
di
stabilità
sociale”.
Al Consiglio europeo di Essen (1994) dell’UE (che l’anno seguente sarebbe divenuta Europa a Quindici
con l’adesione di Austria, Svezia e Finlandia) venne ribadita la centralità della cooperazione
mediterranea.
La Conferenza di Barcellona
I tempi erano dunque maturi (in un quadro internazionale completamente mutato, che
stava gradualmente riassorbendo gli effetti dirompenti del crollo dei regimi comunisti
dell’Europa orientale) per lanciare una politica euromediterranea di più ampio respiro,
che coinvolgesse direttamente i Paesi della Sponda Sud. Ebbe quindi luogo a
Barcellona, alla fine del novembre 1995, la prima importante Conferenza
euromediterranea, con la partecipazione dei delegati dei 15 Paesi membri dell’Unione
Europea e di 12 Paesi delle Sponde meridionale e orientale del Mediterraneo:
Marocco, Algeria,Tunisia, Egitto, Israele, Giordania, Autorità Nazionale Palestinese,
Libano, Siria, Turchia, Cipro e Malta. (Nella foto a sinistra la locandine del film di G. Salvatores).
Da Barcellona a Napoli
Fu firmata un’importante Dichiarazione comune, che metteva in cantiere il Processo di Barcellona
finalizzato a stabilizzare una “piattaforma multilaterale di relazioni durature fondate su uno spirito di
partnership,
con
particolare
attenzione
ai
valori
peculiari
di
ciascuno
dei
partecipanti”.
Per l’attuazione di questa nuova “cooperazione globale” diretta a promuovere pace, stabilità e sviluppo
nel Mediterraneo venivano individuate tre linee d’intervento prioritario: ”Partenariato politico e di
sicurezza; economico- finanziario; culturale”. Prendeva dunque il via il “Partenariato euromediterraneo”,
Pem, sviluppatosi lungo un percorso, non sempre lineare e senza ostacoli, tracciato dalle varie Conferenze
euromed,
che
si
sono
susseguite
negli
anni
nelle
più
belle
città
mediterranee.
Menzione particolare, sotto questo profilo, va fatta della Conferenza euromed tenuta a Napoli ai primi di
dicembre 2003.(nella foto a sinistra una dedica alla città
Napoli del poeta polacco Slowacki (1809 – 1849).
Alla Conferenza di Napoli furono, tra l’altro, decise: la
creazione
dell’Assemblea
parlamentare
euromed
composta dai deputati designati dai vari Parlamenti
nazionali ed europeo; la creazione della Fondazione per il
dialogo fra culture, ospitata ad Alessandria d’Egitto; il
rifinanziamento del Fondo d’investimento e partenariato.
I “limiti” del Processo di Barcellona
Ma nonostante l’impegno profuso da molti Paesi, tra i quali l’Italia, il Processo di Barcellona non ha
raggiunto tutti gli obiettivi che, con un misto di ambizioni e di speranze, i Paesi fondatori si erano
prefissati. Il barometro internazionale ha spesso registrato repentini mutamenti del clima politico nello
scacchiere mediterraneo, a causa dell’invasione americana dell’Iraq e, soprattutto, a causa del
peggioramento della “questione palestinese” che hanno messo a dura prova il dialogo euro-arabo. Ma,
come ha giustamente scritto il politologo Roberto Aliboni: “La macchina del Pem non è rimasta
inoperosa. Non riesce a produrre accordi risolutivi o cruciali, ma ne ha prodotti alcuni limitati. Inoltre ha
dato luogo ad un’apprezzabile socializzazione diplomatica, anche se ben lontana da quella
comunitarizzazione e risoluzione comune dei conflitti che si aveva in mente nel 1995”.
Sarkozy e l’Unione per il Mediterraneo
All'indomani dell’elezione a Presidente della Repubblica francese, Sarkozy ha
rilanciato con forza il suo progetto, da tempo coltivato, di un’Unione
mediterranea volta a creare un nuovo "attore" in grado di imprimere una spinta
aggiuntiva alle politiche mediterranee dell'UE. Accolto con un iniziale
scetticismo in alcuni ambienti politici e diplomatici dell'UE, il progetto
francese
(grazie
anche
alla
mediazione
italiana
e
spagnola)
si
è
progressivamente perfezionato. E così, con il consenso di tutte le Parti
interessate, al Vertice di Parigi del luglio 2008, è nata l'Unione per il
Mediterraneo, comprendente ben 43 Paesi (vedi slide seguente) che, recuperando il Processo di
Barcellona, metterà in campo rafforzati strumenti finanziari e adeguate iniziative politiche per contribuire
a costruire un "futuro di pace e prosperità all'intera regione". Con la nascita dell'UpM termina il nostro
Corso di lezioni. Speriamo vivamente che la neonata creatura si rafforzi e possa, al più presto, trasformare
davvero il Mediterraneo in un mare ove abbiano per sempre dimora la pace e la giustizia.
I Paesi dell’Unione per il Mediterraneo
11.Parte seconda: La Primavera araba e il nuovo scenario mediterraneo 2013
In principio fu la Tunisia
‘‘Le società arabe non ne possono più di sentirsi prigioniere in un
vicolo cieco dove ognuno è oppresso o dal despota locale o dal
mullah estremista. Sono società che hanno dimostrato il desiderio di
voler rientrare a far parte della Storia universale, da cui sono state
scansate o dal dittatore di turno o dalla Jihad’’. Così Gilles Kepel,
uno dei più autorevoli studiosi del mondo arabo, in un’intervista apparsa su La Repubblica del 30 gennaio
2011, con efficace sintesi spiegava la ventata rivoluzionaria che, partita dalla Tunisia, si stava in quei
giorni diffondendo nei Paesi della Sponda Sud del Mediterraneo. (nella foto: manifestazione diritti delle
donne in Tunisia. Fonte: Toda).
I media
Era incominciata la primavera araba che, nel corso del 2011,
sostenuta dalle potenti emittenti televisive Al Jazeera, basata a
Doha nel Qatar (ma con redazioni anche a Washington e
Londra ed edizioni in lingua inglese) e Al Arabiya basata a
Dubai negli Emirati Arabi Uniti, avrebbe travolto dittatori e
regimi dispotici. Regimi, peraltro, di diversa matrice e struttura,
in genere poco attenti alle libertà individuali, ai diritti civili e ai
diritti sociali; regimi caratterizzati da una forte vocazione al
dispotismo, talvolta praticato con estremo rigore, e da diffusi fenomeni di corruzione della pubblica
amministrazione. (nella foto: studi della redazione Al Jazeera).
Le tensioni
Le prime tensioni esplosero proprio in Tunisia. Tensioni
legate alla gravissima crisi economica, che colpiva duramente
le classi più deboli e più povere e che, al tempo stesso,
aggravava ulteriormente le difficoltà interne del logoro e
immobile regime di Ben Alì, incapace di fronteggiare le
difficoltà e non più sorretto da un autentico consenso
popolare. Deposto Ben Alì, la Tunisia iniziava non senza
qualche difficoltà la costruzione della sua democrazia. Una democrazia declinata non necessariamente
nelle forme occidentali, quanto piuttosto nelle sue varianti mediterranee, ritagliate sulle storie e sulle
culture delle popolazioni. (nella foto: manifestazione popolare a Tunisi il 14/01/2011 giorno della fuga di
Ben Alì. Fonte: Agenzia stampa quotidiana nazionale).
Le politiche
Alle prime libere elezioni della fine del 2011, si registrava
l’importante vittoria del Partito Ennahda di ispirazione
islamista. Comunque la transizione della Tunisia verso una
democrazia compiuta era destinata a durare ancora a lungo,
creando difficoltà e contrasti tra i movimenti di ispirazione
islamica e i giovani della rete, primi protagonisti della rivolta
contro il deposto regime di Ben Alì.
Da un punto di vista economico non mancavano dubbi e perplessità sulle politiche economiche del
governo a guida Ennahda, specificatamente in ordine alla questione del progressivo oneroso
indebitamento con istituzioni internazionali e banche straniere giudicato (dai partiti di opposizione e dagli
attivisti democratici tunisini), eccessivo e foriero di condizionamenti anche politici.(nella foto: elettori in
fila per votare. Fonte: Palestina Felix).
Tunisia: situazione meno incerta
In Tunisia, attualmente, la situazione sembrerebbe (il condizionale è
sempre d’obbligo in questi casi) meno incerta. Infatti, nonostante le
grandi manifestazioni popolari di protesta contro il partito islamista di
maggioranza Ennahda (seguite ai recenti omicidi politici di deputati di
opposizione) il Governo di coalizione guidato, da marzo 2013, da Ali
Larayed potrebbe essere in grado di reggere. (nella foto: esponenti di
ennahda nell'assemblea costituente. Fonte: Wikipedia).
Relazioni bilaterali italo-tunisine
Per quel che riguarda le relazioni bilaterali italo-tunisine,
imperniate su accordi di cooperazione rafforzata in materia di
sicurezza, immigrazione e pattugliamento delle acque, va detto
che esse sono caratterizzate da una solida amicizia.
Dopo la visita ufficiale del presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano del 17 maggio dello scorso anno, dal 22 al 24 aprile
2013, si è recato in Tunisia il ministro dell’Interno italiano che
ha firmato un accordo di cooperazione bilaterale nel campo della sicurezza con il suo omologo tunisino,
al quale consegnava anche alcuni mezzi navali per il pattugliamento delle acque. (nella foto: Giorgio
Napolitano con il capo di Stato tunisino Moncef Marzouki il 17 maggio 2012. Fonte: Quotidiano Lettera
43).
Materiali di studio
Articoli di Matteo Pizzigallo pubblicati sulla rivista scientifica trimestrale Gnosis, annata 2011-2013 da
cui sono tratte le lezioni dalla 11 alla 15.
12.Primavera in Marocco
Primavera in Marocco
“La democrazia non è una pillola che si scioglie nel caffè del mattino. E’ una
cultura: educarsi ad essa richiede tempo. I marocchini stanno imparando a vivere
insieme. Se saranno democratici o meno dipende solo da loro. Il re non vuole stare
in secondo piano. Ha ragione. E’ un uomo che ama il suo Paese con passione e
che vuole vederlo evolvere verso una modernità reale”. (Tahar Ben Jelloun,
scrittore marocchino. (nella foto: Mohammed IV ritratto sulla copertina della
rivista Time).
Vento di rivolta
Dopo le prime proteste in Tunisia, il vento della rivolta, ha
cominciato a soffiare anche in Marocco dando vita a grandi
manifestazioni popolari, culminate in quella di domenica “20
febbraio 2011”, data da cui prese nome il Movimento di
protesta giovanile promosso e organizzato dal popolo della
rete automobilitatosi.
A differenza del dispotico regime di Ben Alì in Tunisia, il
sistema politico del Marocco si articolava su un ampio e variegato ventaglio (dalla destra
ultraconservatrice alla estrema sinistra) di partiti di diverso peso elettorale, molti dei quali di limitate
dimensioni, con inevitabili conseguenze sotto il profilo della governabilità, anche a causa dell’eccessiva
frammentazione. (nella foto: manifestanti sfilano in corteo in Marocco. Fonte: Radio onda d'urto).
Crisi economica
La crisi economica e i suoi devastanti effetti occupazionali, soprattutto sulla popolazione giovanile, in
larga parte istruita, (popolazione giovanile che costituisce la stragrande maggioranza dell’intera
popolazione del Regno) hanno di gran lunga contribuito ad accrescere il diffuso malessere generazionale
nei confronti delle classi dirigenti marocchine, (accusate di essere
autoreferenziali e chiuse ad ogni ipotesi di ricambio) e nei confronti dei
partiti tradizionali, poco attenti ai nuovi fermenti da tempo in atto nel
vivace e inquieto mondo giovanile arabo, assetato di democrazia e di
libertà. (nella foto: manifestazione per il referendum costituzionale del
1 luglio 2011. Fonte: Sollevazione).
Il sistema politico-istituzionale
La nuova Costituzione del Marocco, approvata con il Referendum del 1 luglio 2011, nel complesso, segna
un passo avanti verso una maggiore parlamentarizzazione del sistema politico- istituzionale del Paese,
mantenendo però in capo al sovrano ancora alcuni poteri militari e prerogative religiose. La persona del re
perde la sua “sacralità”, ma rimane “inviolabile” e conserva la funzione di “Capo dei credenti”. Il potere
legislativo del sovrano, esercitato attraverso i decreti reali, viene circoscritto ad alcune ben definite
materie. Nella nuova Costituzione sono espressamente sancite: l’indipendenza e l’autonomia della
magistratura; la libertà di pensiero e di opinione; la perfetta parità di genere in ambito politico, civile e
sociale. Infine, ma non per ultimo, insieme all’arabo, viene riconosciuta come lingua ufficiale anche il
tamazight, la lingua dei Berberi.
Grafico del sistema politico marocchino. Fonte: Reuters.
La nuova costituzione del Marocco
Questa nuova Costituzione del Marocco, nell’attuale delicato momento
politico internazionale, rappresenta senza dubbio un fatto positivo,
forse il “primo fiore” della primavera araba sbocciato in modo
spontaneo e naturale. Forse non così bello come avrebbero voluto i
giovani radicali del “Movimento 20 Febbraio”, ma comunque di
particolare importanza anche perché portato avanti senza alcun
intervento di interessati “suggeritori” stranieri. (nella foto: giubilo popolare per l'approvazione della
nuova costituzione marocchina).
Lo sviluppo democratico
I n questo percorso sulla via dello sviluppo democratico delle riforme
e della tutela dei diritti umani, Mohammed VI sa di poter sempre
contare, e non solo da ora, sull’aperta collaborazione dell’Unione
Europea e, in particolare, dell’Italia, ove peraltro vive e opera una
consistente comunità marocchina in larga parte ben integrata. Le
relazioni politiche bilaterali fra Italia e Marocco sono da tempo
eccellenti e molto attiva è la cooperazione economica in vari importanti settori. (nella foto: Roma 14
novembre 2012 festa dell'amicizia e della cooperazione Italia-Marocco).
13.Rivoluzioni in Egitto
I giovani di piazza Tahrir
Nel gennaio 2011, l’improvviso potente urlo, a lungo soffocato,
della giovane folla egiziana di Piazza Tahrir, assetata di libertà e
democrazia, coraggiosamente decisa a fronteggiare e sfidare, a
mani nude, gli spietati e sanguinosi tentativi di repressione subito
messa in atto dalle forze di sicurezza, mandava letteralmente in
frantumi Hosni Mubarak e il suo dispotico regime.
I giovani di Piazza Tahrir, appassionati custodi dello spirito originario e delle parole d’ordine della
primavera egiziana (libertà, democrazia e giustizia sociale) utilizzando tutti i possibili mezzi di
comunicazione, dai telefonini a Twitter e a Facebook, hanno rappresentato la preziosa avanguardia
rivoluzionaria egiziana, che ha sprigionato una forte carica liberatoria, riaccendendo tante nuove speranze
e, soprattutto, spingendo l’Egitto “a rialzare la testa” come al tempo della ribellione alla dominazione
coloniale. (nella foto: giovani in piazza Tahrir).
La transizione
Iniziava così una nuova delicata, lunga e tormentata fase di
transizione orientata e guidata (non senza ambiguità e compromessi
con la vecchia nomenklatura, soprattutto sotto il profilo della
mancata discontinuità con le vecchie logiche di potere) dai militari
del Consiglio supremo delle Forze armate (Scaf). Finalmente,
domenica 24 giugno 2012, dopo circa dieci giorni dall’annuncio dei
risultati del secondo turno elettorale fra i due candidati alla presidenza, giorni di attesa snervante, in un
clima politico avvelenato da denunce, sospetti, inquietanti minacce, esibizioni muscolari dei militari,
oscure trattative, la Commissione elettorale egiziana proclamava ufficialmente Mohammed Morsi,
presidente della Repubblica egiziana. (nella foto: proclamazione di Mohammed Morsi a Presidente della
Repubblica egiziana).
Associazione dei Fratelli Musulmani
Mohammed Morsi è il primo presidente egiziano non militare. È
un
autorevole
esponente
dell’Associazione
dei
Fratelli
Musulmani, cui si ispira il Partito Libertà e Giustizia, partito di
maggioranza relativa alle prime libere elezioni. Il consistente
successo elettorale dei partiti vicini alle organizzazioni islamiche
era largamente prevedibile, tenuto conto del radicamento
territoriale di queste organizzazioni che operano, non solo nel campo della formazione religiosa, ma
anche e soprattutto in quello dell’assistenza sociale e sanitaria nei confronti dei ceti meno abbienti e della
vasta popolazione rurale. Fra queste organizzazioni, l’Associazione dei Fratelli musulmani (fondata nel
1928) è la più importante, meglio strutturata e capillarmente diffusa organizzazione islamica, perseguitata
e combattuta dal deposto regime egiziano, ma sempre molto attiva in Egitto e in tutta l’Africa
mediterranea. (nella foto: manifestazione dell'Associazione Fratelli Musulmani).
La fine della transizione
La transizione egiziana era destinata a riservare nuove
sorprese. L’iniziale forte consenso popolare intorno a Morsi
evaporava
rapidamente.
Il
3
luglio,
dopo
massicce
manifestazioni di protesta, il presidente Mohammed Morsi,
esponente di spicco della Fratellanza musulmana, veniva
deposto dai militari guidati dal generale Abdel Al-Sisi fra le
grida di giubilo dei manifestanti antigovernativi, in larga parte giovani rivoluzionari di Piazza Tahrir. Il
presidente Morsi, regolarmente eletto da appena un anno, non sembrava più sorretto dall’iniziale diffuso
consenso popolare e, per di più, era accusato di aver rallentato i processi democratici, di avere esasperato
i rapporti istituzionali e di aver ulteriormente aggravato le condizioni economiche del Paese e anche di
aver istigato alla violenza.
La fine del dialogo
Superata la fase iniziale di incertezza e smarrimento, i Fratelli
musulmani hanno subito rialzato la testa, dando vita ad
imponenti manifestazioni popolari a sostegno del reintegro del
presidente Morsi, denunciando altresì la illegittimità del
governo provvisorio imposto dai generali. E così l’agosto 2013
è stato caratterizzato da ripetute esplosioni di violenza diffusa,
che hanno seriamente preoccupato la comunità internazionale
impegnata a ricercare, affannosamente, una via di uscita. In un clima carico di forte tensione, i ripetuti
tentativi di mediazione e di riattivazione del dialogo fra i sostenitori del presidente Morsi e i sostenitori
del nuovo governo vicino ai generali, a vario titolo esperiti da politici e diplomatici americani ed europei,
non sortivano i positivi effetti sperati. (nella foto: violenza per le strade egiziane).
La repressione
Il 14 agosto 2013, a cominciare dal sanguinoso sgombero di Piazza
Rabaa al Alawiah, una sorta di fortino dei sostenitori del deposto
presidente Morsi, incominciava la dura e violenta repressione di
ogni forma di opposizione imposta dai vertici militari che, in un
crescendo di misure e provvedimenti restrittivi, culminava con
l’arresto della guida spirituale Mohamed Badie, nonché di molti
altri dirigenti e militanti della Fratellanza Musulmana. Incuranti dello sconcerto suscitato nella comunità
internazionale per le modalità della loro azione, i militari egiziani ben consapevoli della centralità
dell’Egitto nel mantenimento della sicurezza delle province di confine (a cominciare dalla penisola del
Sinai), non cambiavano né linea né atteggiamento, imponendo all’Egitto una nuova forzata
normalizzazione tutt’ora in corso e il cui esito finale appare ancora incerto.
14.Il complicato "rebus" Libia
Il Consiglio Nazionale di Transizione
In Libia, dopo la “giornata della collera” del 17 febbraio 2011, la situazione stava inesorabilmente
precipitando verso il tremendo buco nero della guerra civile. Per guidare la lotta di liberazione contro il
regime di Gheddafi, a Bengasi veniva creato il Consiglio Nazionale di
Transizione che, il 5 marzo 2011, si autoproclamava come unico legittimo
rappresentante dello Stato libico. (nella foto: Giornata della collera,
manifestazione delle donne).
Il Consiglio di Sicurezza
Negli stessi giorni, scesi apertamente a fianco degli insorti di
Bengasi, i Governi francese ed inglese (nelle competenti sedi
internazionali) si attivavano energicamente per mobilitare il
Consiglio di Sicurezza dell’Onu. E così, dopo le sanzioni,
l’embargo e il congelamento dei beni di Gheddafi (deciso
dall’UE) e le accuse contro di lui della Corte penale
internazionale per la crudele e violenta repressione della rivolta popolare, entrava in azione anche il
Consiglio di Sicurezza. Il 17 marzo 2011, il Consiglio di Sicurezza adottava la ben nota risoluzione 1973
che autorizzava la comunità internazionale ad istituire la No-Fly Zone sulla Libia e a prendere “tutte le
misure necessarie” a protezione della popolazione civile sotto attacco delle truppe ancora fedeli a
Gheddafi. (nella foto: Toyota Land Cruiser modificate e armate dai ribelli libici).
Operazione Odissea all’alba
(Nella foto: Mappa della strategia d'attacco dell'operazione Odissea all'alba). Nel tardo pomeriggio del 19
marzo 2011, i caccia francesi effettuavano i primi raid aerei contro le forze lealiste in marcia verso
Bengasi. I raid erano seguiti da ripetuti lanci di oltre cento missili Tomahawk da parte di unità navali
americane e inglesi posizionate davanti alle coste libiche. Era dunque incominciata l’operazione “Odissea
all’alba”, inizialmente attivata dalla “coalizione dei volenterosi” anglo-franco-americana. Solo quattro
giorni dopo, anche per l’insistenza della diplomazia italiana, entrava in azione la Nato che, per
l’emergenza libica, attivava l’operazione Unified Protector, assumendone la guida pur in un equilibrato
quadro di comando condiviso e concertato, in parallelo, con i vari comandi militari degli Stati impegnati e
con una sorta di direttorio politico ristretto.
Operazione Unified Protector
(Nella foto: Mappa basi aeree e navali militari). Dal suo canto, il Governo italiano, dopo un iniziale
atteggiamento dilatorio di fronte alla scelta anglo-francese (atteggiamento che da un lato aveva
rinfocolato le polemiche politiche interne e, dall’altro, aveva suscitato qualche perplessità all’estero) si
era ben presto allineato alle posizioni degli Alleati partecipando all’operazione Unified Protector.
Alla fine di agosto, i ribelli riuscivano a “strappare” Tripoli alle forze leali a Gheddafi e questi, a sua
volta, il 20 ottobre 2011, veniva ucciso in circostanze drammatiche. Il 31 ottobre 2011, Unified Protector,
assolto il compito affidato, terminava la sua missione.
La ricostruzione
(Nella foto: Libia's Trybes. Fonte: Stratfor). Crollato in maniera violenta il regime che da oltre quaranta
anni governava il Paese, per la Libia, ancora molto segnata dal rancore e dagli strascichi di una guerra
civile particolarmente brutale, iniziava la fase della ricostruzione.
In primo luogo la ricostruzione della convivenza democratica e la ricerca di nuove forme di coesione
nazionale difficili da trovare in un Paese caratterizzato dalla costante presenza di forti e potenti legami
identitari di appartenenza alle numerose antiche tribù libiche
La ricostruzione economico-sociale
In secondo luogo, la ricostruzione economico-sociale del Paese che passava soprattutto attraverso la
riattivazione degli impianti petroliferi in parte danneggiati dalla guerra civile.
(Nella foto: Libya's population and energy production. Fonte: Stratfor)
I rapporti italo-libici
Per oltre un secolo, per ragioni antiche e per diverse motivazioni (non
tutte di segno positivo), l’Italia, come si è visto nelle precedenti lezioni,
ha avuto con la Libia altalenanti rapporti privilegiati in cui non sono
mancate, anche in tempi più recenti, (mi riferisco in particolare ad alcuni
aspetti specifici del Trattato del 2008) né luci né ombre.
Nei confronti del nuovo Governo libico, l’Italia ha messo in campo un atteggiamento molto flessibile
finalizzato a recuperare, con aperto spirito di collaborazione, quel che di positivo era stato costruito in
precedenza.
Mustafa Abdel Jalil, in Italia in visita ufficiale il 16 dicembre 2011, ha incontrato l’allora presidente del
Consiglio Mario Monti e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Oggetto dell’incontro la
decisione comune di riattivare il Trattato di amicizia firmato nel 2008 a Bengasi e sospeso durante il
conflitto che ha condotto alla fine del regime di Muammar Gheddafi. (nella foto: Muammar Gheddafi, in
Italia in visita ufficiale il 16 dicembre 2011, ha incontrato l'allora presidente del Consiglio Mario Monti e
il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Oggetto dell'incontro la decisione comune di riattivare
il Trattato di amicizia firmato nel 2008 a Bengasi e sospeso durante il conflitto che ha condotto alla fine
del regime di Mu'ammar Gheddafi. Fonte: AgrPress).
La stabilizzazione del sistema politico libico
Nel corso del 2012 proseguiva gradatamente la non semplice
stabilizzazione del sistema politico libico resa ancor più
complicata, come sempre avviene all’indomani delle guerre
civili, dalla ingombrante presenza di vari gruppi di miliziani
armati, di diversa matrice e ben poco disponibili a farsi
disarmare dal rinato Esercito regolare libico. Comunque, il 7
luglio 2012, avevano luogo le elezioni dei deputati al
Congresso Nazionale Generale che doveva sostituire il Consiglio Nazionale di Transizione. L’8 agosto
2012 avveniva il passaggio delle consegne fra il CNT e il Congresso nazionale che, il giorno seguente,
eleggeva a maggioranza come suo presidente Mohamed el Magariaf. (nella foto: HiIlary Clinton con
Mohamed el Magariaf).
Il nuovo governo libico con Ali Zeidan
Dopo un lungo negoziato, in un clima teso (funestato anche
dall’attacco, l’11 settembre 2012 al Consolato americano di
Bengasi, in cui perse la vita il diplomatico Chris Stevens),
finalmente, il 14 novembre 2012, veniva varato il nuovo
governo libico guidato da Ali Zeidan.
Certamente il percorso di definitiva stabilizzazione e
normalizzazione del nuovo Stato libico non è ancora ultimato
(né poteva essere diversamente, se si tiene conto del breve
tempo trascorso dalla fine della guerra civile): sono comunque stati fatti alcuni passi avanti. (nella foto: le
bandiere della nuova Libia sventolano sugli impianti petroliferi).
La collaborazione italo-libica
Nelle prossime tappe da raggiungere, la Libia è ben consapevole di
poter contare sulla rafforzata collaborazione bilaterale con l’Italia
con cui riannodare, gradatamente, i fili di una ritrovata “nuova”
amicizia attenta non più solo all’interesse nazionale, ma anche e
soprattutto ai diritti umani e al consolidamento della democrazia e
della libertà. (nella foto: Letta e Ali Zeidan, conferenza stampa a Palazzo Chigi).
In quest’ottica, il 4 luglio 2013 aveva luogo a Roma il primo incontro del presidente del Consiglio Enrico
Letta con il premier libico Ali Zeidan. Venivano messe in campo varie specifiche iniziative di
cooperazione rafforzata nel comparto energetico, in quello delle grandi infrastrutture. “Da entrambi le
parti – precisava il comunicato diffuso al termine del vertice italo – libico – è stata sottolineata
l’importanza del livello di collaborazione già in atto e la comune volontà di proseguire e rafforzare
ulteriormente i rapporti bilaterali con particolare riferimento ai profili della sicurezza, del contrasto
all’immigrazione clandestina e al traffico di esseri umani”.
15.La guerra civile in Siria
La primavera araba in Siria
All’improvviso, nonostante la sorveglianza e i rigidi controlli dei servizi
di sicurezza, il vento della primavera araba cominciò a soffiare anche in
Siria, mettendo a dura prova il mito della solidità e della stabilità del
regime del presidente Bashar Assad. Ben presto, nei primi mesi del 2011,
le proteste di massa si diffusero da Homs a Damasco, da Banyas ad
Aleppo. (nella foto: Banyas, Venerdì della rabbia, 29 aprile 2011).
La Siria da un punto di vista religioso
A differenza di Tunisia, Egitto e Libia, in Siria la situazione
era ben diversa innanzitutto da un punto di vista religioso.
Infatti, in Siria circa il 10% della popolazione è di religione
cristiana (sia cattolici che ortodossi), mentre il 75% circa è di
religione musulmana di osservanza sunnita; la rimanente
quota minoritaria è sì di religione musulmana, ma di
osservanza alawita, una sorta di ramo siriano della più grande confessione religiosa sciita, ben radicata
prevalentemente in Iran.
Di osservanza alawita sono tutti i componenti della famiglia presidenziale Assad, nonché tutte le alte
cariche del regime e, soprattutto, larga parte dei militari delle ben addestrate unità di élite dell’esercito.
(nella foto: Bashar Assad in preghiera).
La guerra civile
Le notizie della “primavera araba” tunisina ed egiziana sono state subito
accolte dalla stragrande maggioranza della popolazione siriana di osservanza
sunnita (per lungo tempo discriminata dalla vita politica) come la tanto attesa
occasione liberatoria per protestare contro l’oppressivo regime degli Assad.
Ma la risposta del regime nei confronti delle grandi manifestazioni popolari di protesta fu ovunque
violenta, feroce e spietata, lasciando sul campo migliaia e migliaia di vittime civili, provocando inoltre un
gran numero di profughi. Ben presto la Siria precipitò nel buco nero della guerra civile. (nella foto:
giovane armato).
Il veto di Russia e Cina
Questa guerra asimmetrica a tutt’oggi in corso fra il regime siriano e una
parte consistente del suo popolo, ha riempito i notiziari televisivi e le pagine
dei giornali di tutto il mondo, creando indignazione e sconcerto
nell’opinione pubblica e nella comunità internazionale. A differenza di
quanto è avvenuto nel caso della Libia (laddove è stato possibile attuare un
intervento militare legittimato dall’Onu), nel caso della Siria, tutte le varie
proposte di eventuali iniziative multilaterali messe in campo dalla comunità internazionale, si sono
infrante sul veto assoluto posto da Russia e Cina a qualsiasi azione militare esterna comunque concepita,
bloccando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. (nella foto: riunione del Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite).
Incognita russa
(Nella foto: Centro tecnico di manutenzione ospitato
nel porto di Tartus). E così, la già difficile equazione
siriana veniva complicata dall’incognita russa. Infatti,
ben consapevole della cruciale posizione geostrategica
del suo Paese, il presidente siriano Bashar Assad, non
aveva mai smesso di coltivare buoni rapporti, non solo
con l’irrequieto vicino regime sciita iraniano, ma anche
e soprattutto con la Russia. Una Russia sempre più
desiderosa di riprendere, dopo gli anni più bui del
declino, una nuova politica di potenza, a cominciare
proprio dal Mediterraneo orientale. Delle basi nel
Mediterraneo, l’unica e sola, rimasta ininterrottamente
in funzione (sopravvissuta allo smantellamento di tutte
le basi navali russe all’estero) è proprio il Centro
tecnico di manutenzione ospitato nel porto di Tartus
che è, a tutt’oggi, in grado di fornire adeguata assistenza e rifornimenti di ogni genere alle navi russe in
transito nel Mediterraneo. Il perimetro dell’area è presidiato da personale militare della rinata Marina
russa. Insomma, nel Mediterraneo il Centro di Tartus rappresenta l’unica postazione militare in cui ancora
sventola stabilmente, e da quarant’anni, la bandiera della Marina russa.
Gli scenari inqietanti del crollo della Siria di Assad
L’ostinazione del Governo di Mosca nel continuare a
difendere, in tutte le sedi internazionali, quel che resta
dell’indifendibile e dispotico regime siriano da possibili
aggressioni militari esterne, comunque configurate, si spiega
con la preoccupazione per le micidiali ripercussioni che un
crollo non assistito di Assad provocherebbe in tutto il Medio
Oriente. Se quel che resta della Siria di Assad crollasse
all’improvviso per effetto, sia pur indiretto, di una, sia pur limitata e circoscritta, “azione punitiva”
americana, per la Russia si aprirebbe uno scenario inquietante. (nella foto: Bashar al-Assad con Vladimir
Putin).
La transizione concertata
Mercoledì 21 agosto 2013 i media di tutto il mondo diffondevano le
crudeli immagini di oltre mille morti ammazzati a Damasco con il
gas nervino. Orrore e raccapriccio per quelle vittime, molte delle
quali donne e bambini, scuoteva l’opinione pubblica, suscitando un
rabbioso moto di indignazione e di autentica repulsione nei
confronti del regime siriano e che, sul fronte emotivo, ha fatto
spontaneamente salire in tutti una forte richiesta di giustizia e di
intervento diretto da parte delle Nazioni Unite per farla finita con Assad e il suo regime. Ancora una volta
la Russia in nome dei propri interessi geopolitici e geostrategici, si ostina a difendere, nelle varie sedi
internazionali, l’attuale regime siriano, “ammonendo” i vari Attori statuali, a cominciare dagli Stati Uniti,
a non prefigurare per la Siria soluzioni unilaterali, ma a creare, invece, i presupposti per una fase di
transizione concertata, che si faccia carico degli interessi di tutti i soggetti coinvolti a livello
internazionale ed a livello locale. (nella foto: soccorritori con maschere antigas).
Gli appelli di pace
(nella foto: il segretario di Stato americano Kerry e il ministro degli Esteri
russo Lavrov a Ginevra). In questo quadro di forte incertezza si profilano
ipotesi diverse e contrapposte e, soprattutto, non si sono ancora placati i
minacciosi venti di guerra. Al tempo stesso, propiziato dagli appelli di
Papa Francesco e dalle diplomazie europee, prima fra tutte da quella
italiana, è stato avviato, ai primi di settembre 2013, a Ginevra il dialogo tra Kerry e Lavrov per una
soluzione diplomatica della crisi. Una iniziativa che potrebbe spingere la comunità internazionale a farsi
carico della crisi, nella prospettiva di convocare finalmente la tanto attesa conferenza internazionale, la
cosiddetta «Ginevra due», cui dovrebbero partecipare, senza precondizioni e con spirito di pace, tutti gli
Attori statuali e non statuali, globali e regionali, coinvolti.
Auspichiamo che tutto questo avvenga al più presto e che la tragedia del popolo siriano abbia termine.
Corso di STORIA DELLE RELAZIONI EUROMEDITERRANEE A.A. 2014/2015
(Prof. MATTEO PIZZIGALLO)
Tratto da http://www.federica.unina.it/corsi/storia-delle-relazioni-euromediterranee/
Impaginazione a cura di MASSIMO IAQUINANGELO