Affettività e cognizione nelle psicosi schizoaffettive

annuncio pubblicitario
Affettività e Cognizione nelle Psicosi Schizoaffettive [diapositive 2.doc]
G. Peana
Corso di Aggiornamento E.C.M. “Affettività e cognizione nelle psicosi schizoaffettive.Transizioni
e/o confini nell’area delle psicosi di mezzo. Roma, 13 Ottobre 2004 Casa di Cura Neuropsichiatrica
“San Valentino” – Roma
Affettività e cognizione nelle psicosi schizoaffettive: alcune considerazioni.
Disturbo schizoaffettivo e realismo nosografico
I disturbi schizoaffettivi confondono inesorabilmente coloro che credono ciecamente al “realismo”
della nosografia, ovvero all’esistenza in natura di entità definite – da familiarità, eziopatogenesi,
sintomatologia, decorso, risposta al trattamento ed esiti – che corrispondono alle varie malattie
mentali. Gli studi genetici e biologici mostrano delle sovrapposizioni tra schizofrenia, mania,
depressione e disturbi schizoaffettivi e suggeriscono di considerare un modello unitario di psicosi.
La possibilità che l’interazione tra vulnerabilità biologica, traumi ambientali e susseguenti reazioni
psicologiche produca lo spettro di stati clinici misti tra schizofrenia pura e psicosi affettiva pura
necessita di ulteriore approfondimento. D’altra parte, la vexata quaestio dei disturbi schizoaffettivi e
la loro eterogeneità, ci ricordano che le classificazioni diagnostiche, in psichiatria, non indicano
necessariamente delle entità naturali, ma costituiscono una convenzione linguistica applicata a una
descrizione della realtà. Non si tratta infatti necessariamente di entità naturali, cioè di ciò che in una
classificazione biologica corrisponde ad una specie animale o ad una pianta, ma soltanto di una
provvisoria aggregazione di fenomeni intorno a un nome.
Kasanin (1933), nell’introdurre le sindromi schizoaffettive, usò il termine in senso eminentemente
descrittivo, per delimitare un sottogruppo omogeneo di pazienti psicotici e in particolare per
differenziare i casi di “psicosi atipica” dal gruppo omogeneo di “schizofrenici costituzionali”. In un
primo momento il termine non indicava quindi una relazione particolare di questo gruppo di
pazienti coi disturbi affettivi, ed ancora oggi il disturbo schizoaffettivo viene incluso, nelle
classificazioni DSM-IV e ICD-10, nelle sezioni dedicate alla schizofrenia.
Tuttavia, la relazione con i disturbi affettivi è stata evidenziata dagli studi di genetica, che hanno
mostrato che i familiari di pazienti affetti da disturbi schizoaffettivi hanno più probabilità di essere
affetti da disturbi affettivi che non da schizofrenia, e quindi hanno delineato la sindrome
schizoaffettiva come un’entità diagnostica similare ai disturbi affettivi.
In realtà, l’appartenenza dei disturbi schizoaffettivi allo spettro della schizofrenia o dei disturbi
affettivi dipende dai criteri diagnostici usati. L’adozione di criteri inclusivi per i sintomi
schizofrenici e restrittivi per quelli affettivi comporta che il disturbo schizoaffettivo venga visto
come una varietà atipica della schizofrenia; al contrario, la tendenza oggi prevalente ad ampliare i
confini dei disturbi affettivi fa sì che esso venga visto come condizione marginale di questi ultimi.
La remissione completa della sintomatologia, assieme alla normale personalità premorbosa, al
rapido inizio, alla presenza di eventi scatenanti, al tumulto affettivo e alla brevità del decorso
(settimane o al più mesi) è stata indicata fin dall’inizio da Kasanin come uno dei capisaldi della
sintomatologia.
Le psicosi cicloidi descritte da Leonhard venivano presentate ugualmente come disturbi ad esordio
acuto, forte componente affettiva, ricorrenza periodica e remissione completa.
I disturbi schizofreniformi di Langfeld sono analogamente caratterizzati da personalità premorbosa
con buon livello di adattamento, presenza di fattori precipitanti dimostrabili, esordio acuto, prognosi
favorevole.
L’esistenza stessa del disturbo schizoaffettivo esprime la difficoltà di inserire tutti i pazienti o da
una parte o dall’altra del confine, ma pone a sua volta il problema se esso sia un’entità distinta o si
debba semplicemente ammettere un continuum.
La necessità di postulare un disturbo schizoaffettivo nasce dalla difficoltà di delimitare la
schizofrenia rispetto ai disturbi dell’umore. Difficoltà che trae origine da due motivazioni principali.
Da un lato, perché i segni schneideriani di primo rango sono stati rilevati anche nella psicosi
maniaco-depressiva, col conseguente crollo decisivo della loro presunta specificità; dall’altro
perché la variazione quantitativa, per gradi e sfumature, del segno “umore”, rende notoriamente del
tutto arbitrario il cut-off, il punto cioè in cui codesto segno, da referenza nosologica maggiore, passa
nella posizione subalterna di semplice attributo di una schizofrenia. Infine, la questione disturbi
dell’umore/schizofrenia, è mal riducibile a semplificazioni nette. La difficoltà di definire e
standardizzare la nozione di schizofrenia ha come conseguenza la comparsa di diagnosi ibride, quali
schizoaffettivo, schizoide, schizofreniforme.
Il disturbo schizoaffettivo, in particolare, costituisce una autentica smagliatura dell’assunto
categoriale di individuare malattie precise, e sotto le sue sembianze riappare il concetto di psicosi
unica, della quale sarebbe il punto centrale in continuità, da un lato, con i disturbi dell’umore più
puri, senza deliri e senza evoluzione, con restitutio ad integrum, dall’altro con le schizofrenie più
severamente processuali. Il concetto di psicosi unica si pone come superamento dell’opposizione
turbe dell’umore / turbe cognitive, e considera le varie malattie mentali come varianti di un unico
fenomeno che sfuma dalla psicosi maniaco-depressiva alle differenti forme di schizofrenia.
Il principio gerarchico di Jaspers (1913):
… i sintomi morbosi sono sovrapposti come piani, l’uno sopra l’altro: sopra stanno i sintomi
neurotici … poi i sintomi maniaco-depressivi, poi i sintomi processuali (lo schizofrenico), infine i
sintomi organici (psichici e corporei). Lo strato più profondo che si raggiunge con l’esame del
singolo caso è decisivo per la diagnosi.
Questo principio ha negli anni subito un ribaltamento tra il secondo e il terzo livello, con la priorità
diagnostica assunta nella prassi dal disturbo dell’umore a seguito di constatazioni essenzialmente
farmacoterapiche e in primis dall’uso dei Sali di litio
Una aderenza eccessivamente stretta al “principio gerarchico” jaspersiano, secondo cui quando sono
presenti diversi sintomi che appartengono a diversi livelli, la diagnosi è determinata in base al
livello più profondo raggiunto, rischia di favorire la diagnosi di schizofrenia a scapito della diagnosi
di psicosi maniaco-depressiva, ed esclude la diagnosi di psicosi endogene che non appartengono né
alla schizofrenia, né alla malattia maniaco-depressiva.
Già Kraepelin suggeriva di non porre diagnosi di dementia precox laddove poteva essere intravisto
un fondo affettivo, e a questo proposito può essere utile ricordare che “posticipare una diagnosi di
schizofrenia non implica rischio di prognosi o di decorso, mentre somministrare a dosi generose
neurolettici a pazienti affettivi può comportare danni iatrogeni che sollevano problemi deontologici
di grande portata” (Sussman, Cancro, 1988).
Il fatto che si rintraccino forme cliniche nelle quali i sintomi schizofrenici di Bleuler o di Schneider
si mescolano con sintomi maniaco-depressivi ha suscitato forti dubbi sulla validità del principio
gerarchico di Jaspers. In questa prospettiva Kasanin (1933) ha proposto di abbandonare l’idea di
una relazione gerarchica fra sintomi schizofrenici e sintomi affettivi e di considerare le psicosi
schizoaffettive come una entità separata. Si è ipotizzato che i sintomi schizofrenici (e non quelli
affettivi) non abbiano alcun valore diagnostico differenziale per distinguere la schizofrenia dai
disturbi affettivi ( Pope, Lipinski, 1978; Pope, Lipinski, Cohen et al. 1980; Koehler, 1979). Sulla
base di questo rovesciamento del principio gerarchico jaspersiano alcuni autori hanno usato sintomi
maniaco-depressivi (non solo se presenti nell’episodio in corso ma anche quando siano rinvenibili
in episodi precedenti) come criteri di esclusione per la diagnosi di schizofrenia.
Anche le più recenti classificazioni dei disturbi mentali (APA, 1994; WHO, 1992) si sono orientate
verso l’abolizione di una relazione gerarchica fra sintomi schizofrenici e sintomi maniacodepressivi e hanno basato la distinzione fra disturbi affettivi, schizoaffettivi e schizofrenici su criteri
che prendono in considerazione la successione di sintomi schizofrenici e affettivi, la durata di
queste evenienze cliniche, la loro gravità e la presenza di un certo numero di criteri sintomatologici
per la schizofrenia.
Le espressioni sindrome schizoaffettiva (ICD 10) e disturbo schizoaffettivo (DSM IV) identificano
le seguenti situazioni cliniche:
1. la comparsa successiva e indipendente di una sindrome affettiva e di una schizofrenica
(disturbo schizoaffettivo tipo I secondo Maj e Perris – meno frequente);
2. la comparsa contemporanea, nel medesimo episodio, di una sintomatologia di tipo affettivo
e di una sintomatologia di tipo schizofrenico (disturbo schizoaffettivo tipo II – più
frequente).
Forme cliniche che possono essere incluse nel concetto di psicosi schizoaffettiva:
“psicosi miste“ - “mischpsychosen” (Kretschmer);
“bouffée delirante” di Magnan (1983), Ey (1954), Pichot (1986);
“sindrome catatonica remittente” di Kirby (1913);
“stupore benigno” di Hoch (1921);
“psicosi cicloide” di Kleist (1928), Leonhard (1957);
“psicosi schizoaffettiva acuta” di Kasanin (1933);
“psicosi schizofreniformi” di Langfeldt (1939)
“psicosi schizoaffettive” DSM-I (1952);
“psicosi schizoaffettive” DSM-II (1968);
“stato misto psicotico” di Cassano (1990);
“disturbo schizoaffettivo” DSM-IV (1994);
“psicosi atipica” di Mitsuda (1965);
Aspetti clinici comuni alle psicosi miste:
coesistenza di una sintomatologia “affettiva” e di una “schizofrenica”
disorientamento
instabilità emotiva
compresenza nel medesimo episodio di aspetti propri della depressione e della mania
episodi ricorrenti con esordio acuto, breve durata e rapido ritorno al livello di funzionamento
premorboso
sintomatologia polimorfa e rapidamente cangiante (molteplici temi deliranti, illusioni e/o
allucinazioni non sintonici con l’umore prevalente)
perplessità
oscillazioni del tono dell’umore non di entità tale da giustificare una diagnosi di disturbo affettivo
maggiore
Sintomatologia e criteri diagnostici
Secondo i Research Diagnostic Criteria (Spitzer et al., 1975, ICD9) vengono distinti un disturbo
schizomaniacale e uno schizodepressivo, a seconda che la componente affettiva sia rappresentata da
una sindrome maniacale o da una depressiva.
La diagnosi di disturbo schizomaniacale richiede la soddisfazione dei seguenti criteri:
a) umore elevato o irritabile;
b) almeno tre dei sintomi seguenti: iperattività, logorrea, fuga delle idee, grandiosità, diminuito
bisogno di sonno, distraibilità, coinvolgimento in attività comportanti un rischio elevato di
conseguenze spiacevoli (ad es., eccessi nel comprare, comportamento sessuale sconveniente,
investimenti in affari avventati, guida spericolata);
c) almeno uno dei seguenti sintomi indicativi di una condizione schizofrenosimile: deliri di
influenzamento oppure esperienze di diffusione, inserzione o furto del pensiero; allucinazioni di
qualunque tipo durante l’intera giornata per più giorni o a intermittenza per una settimana, il cui
contenuto non sia chiaramente riconducibile all’alterazione del tono dell’umore; allucinazioni
uditive consistenti in voci che commentano le azioni o i pensieri del paziente oppure in due o più
voci che conversano tra loro, presenza di deliri o allucinazioni per più di una settimana in assenza di
sintomi affettivi;
d) durata dell’episodio di almeno una settimana;
e) sovrapposizione temporale tra i sintomi affettivi e quelli schizofrenosimili.
La diagnosi di disturbo schizodepressivo richiede la soddisfazione dei seguenti criteri:
a) depressione del tono dell’umore preminente e relativamente persistente;
b) almeno cinque dei sintomi seguenti: diminuzione o aumento dell’appetito o del peso, insonnia o
ipersonnia, perdita di energia o affaticabilità, rallentamento o agitazione psicomotoria, perdita di
interesse o di piacere per le attività abituali, sentimenti di autodenigrazione o colpa eccessiva,
lamentele o segni di una diminuita capacità di riflettere o concentrarsi, pensieri ricorrenti di morte o
suicidio.
E’ richiesta, inoltre, la presenza degli aspetti elencati in c, d, ed e per il disturbo schizomaniacale.
Sia per il disturbo schizomaniacale che per quello schizodepressivo, i RDC introducono una
suddivisione in tre sottotipi:
a) prevalentemente schizofrenico (caratterizzato dalla presenza dei sintomi elencati sopra in c per
almeno una settimana in assenza di sintomi affettivi, oppure dalla presenza, prima dell’esordio dei
sintomi affettivi, di aspetti quali ritiro sociale, compromissione del funzionamento lavorativo,
comportamento eccentrico e pensieri o esperienze percettive inusuali);
b) prevalentemente affettivo (caratterizzato dalla comparsa dei sintomi affettivi prima di quelli
schizofreno-simili e da un buon adattamento sociale e lavorativo premorboso;
c) altro (sottotipo comprendente i casi che non rientrano né in a né in b).
Nel DSM-IV, il “Disturbo Schizoaffettivo” è definito:
a) dalla presenza contemporanea di una sindrome affettiva (maniacale, depressiva maggiore o
mista) e di sintomi psicotici quali quelli per la diagnosi di schizofrenia;
b) dalla comparsa durante lo stesso episodio, per almeno due settimane, di deliri o allucinazioni in
assenza di rilevanti alterazioni dell’umore.
Il DSM-IV specifica due tipi di disturbo schizoaffettivo:
1) tipo bipolare: se il disturbo include un Episodio Maniacale o Misto (o un Episodio Maniacale o
un Episodio Misto ed Episodi Depressivi Maggiori)
2) tipo depressivo: se il disturbo include soltanto Episodi Depressivi Maggiori.
Relazione tra criteri diagnostici DSM-IV e criteri diagnostici per la ricerca (RDC) dell’ICD-10
Nel DSM-IV, viene posta diagnosi di Disturbo dell’Umore con Manifestazioni Psicotiche tutte le
volte che i sintomi psicotici ricorrono durante un episodio di alterazione dell’umore, senza riguardo
per le caratteristiche dei sintomi psicotici.
Il Disturbo Schizoaffettivo, inoltre, viene trattato nella sezione “Schizofrenia e altri Disturbi
Psicotici”
La definizione di Disturbo Schizoaffettivo dell’ICD-10 è molto più ampia. Essa include situazioni
nelle quali si manifestano certi sintomi psicotici specifici (cioè: eco, inserzione, furto o trasmissione
del pensiero; deliri di controllo o di influenzamento; voci che commentano in continuazione;
eloquio disorganizzato; comportamento catatonico), anche se essi sono confinati a un episodio di
alterazione dell’umore.
Il Disturbo Schizoaffettivo, nell’ICD-10, viene trattato nella sezione “F20-F29 Schizofrenia,
sindrome schizotipica e sindromi deliranti”.
Pertanto, molti casi di Disturbo dell’Umore con Manifestazioni Psicotiche Incongruenti con
l’Umore dovrebbero essere considerati come Disturbo Schizoaffettivo secondo i criteri dell’ICD-10
Il problema della natura dei disturbi schizoaffettivi e dei loro rapporti con la schizofrenia e con i
disturbi affettivi maggiori è tuttora assai controverso.
Principali modelli interpretativi dei disturbi schizoaffettivi
Modello “binario” o “dicotomico” I disturbi schizoaffettivi sono sempre varietà atipiche
neokraepeliniano
della schizofrenia o dei disturbi affettivi maggiori
Modello della “terza psicosi”
Modello
psicotico
del
Almeno una parte dei disturbi schizoaffettivi costituisce
un’entità nosografia distinta dalla schizofrenia e dai
disturbi affettivi maggiori
“continuum” I disturbi schizoaffettivi occupano la parte intermedia di
uno spettro ai cui estremi si pongono le forme tipiche di
schizofrenia e di disturbo affettivo maggiore
Sono state formulate a questo proposito diverse ipotesi:
1. tali disturbi rappresentano sempre delle varietà atipiche della schizofrenia;
2. essi rappresentano sempre delle varietà atipiche dei disturbi affettivi maggiori;
3. essi costituiscono una “terza psicosi” distinta dalle due maggiori;
4. essi si inseriscono nella posizione intermedia di un “continuum” psicotico, i cui estremi sono
rappresentati dalle forme tipiche di schizofrenia e di disturbo affettivo maggiore;
5. essi risultano dal manifestarsi contemporaneo di una vera schizofrenia e di un vero disturbo
affettivo maggiore;
6. un gruppo di fattori interagenti, la vulnerabilità biologica, i traumi ambientali e le reazioni
psicologiche susseguenti producono lo spettro di stati clinici dalla schizofrenia “pura” alla
psicosi affettiva “pura”.
•
Le prime due ipotesi sono compatibili con l’impostazione “dicotomica” kraepeliniana,
secondo cui esistono soltanto due psicosi “funzionali”, e le psicosi “miste” non possono
essere che varianti dell’una o dell’altra;
•
la terza ipotesi postula l’esistenza di una terza psicosi;
•
la quarta ipotesi pone in discussione l’esistenza di una “discontinuità” tra le due “psicosi
maggiori”, e ripropone il concetto di una “psicosi unitaria” (Griesinger 1861);
•
la quinta ipotesi suppone un’associazione casuale di schizofrenia e disturbo affettivo, o
l’attivazione simultanea di meccanismi biologici e/o psicodinamici responsabili delle due
condizioni;
•
l’ultima ipotesi sostiene che un gruppo di fattori sovrapposti (vulnerabilità biologica, stress
ambientali e reattività psicologica) possa condizionare l’insorgenza dei disturbi dell’intero
spettro psicotico. Questa ipotesi indirizzerebbe la ricerca a identificare l’intera gradazione
di disturbi biologici e psicosociali nei pazienti psicotici e nei loro parenti di primo e secondo
grado per integrarli in un modello comprensivo, richiamando in questo modo il concetto di
psicosi unica.
Il concetto di psicosi unica e le impostazioni transnosografiche
Il concetto di psicosi unica – Einheitpsychose – si identifica con Griesinger, che definisce la follia
“un complesso sintomatico di diversi stati anomali del cervello”, i quali hanno gravità crescente e
sono riconducibili a modalità d’azione sul cervello da parte di diversi fattori patogeni. Le malattie,
al di là delle differenze, rappresentano dei livelli di gravità crescente di uno stesso disturbo di base,
di cui rappresentano tappe o fasi.
L’ipotesi di un meccanismo comune
Secondo Braden (1984), la coesistenza di sintomi affettivi (maniaco-depressivi) e cognitivi
(schizofrenici) può essere spiegata da uno stesso processo eziopatogenetico. Sia i sintomi di
attivazione o di eccitamento, sia i sintomi cognitivi, sarebbero correlati alla diversa gravità di un
medesimo processo, quale per esempio un ipertono dopaminergico: forme più lievi sarebbero
associate ad alterazioni dell’umore e della psicomotricità, forme più gravi a pensiero disorganizzato,
deliri e allucinazioni, forme di estrema severità a confusione e delirium fino all’amenza.
La teoria dei sintomi-base della Scuola di Bonn
I sintomi base individuano, quale fondazione somatica della malattia e dell’impairment sociorelazionale, non il delirio e la produttività psico-sensoriale, bensì quegli elementi semiologici
relativamente aspecifici, non strettamente psicotici, sovente protratti e di cui il malato stesso si
lamenta.
I sintomi-base sono una molteplicità di disestesie e cenestopatie, di disturbi dello schema corporeo e
dolori circoscritti, connessi con disturbi affettivi, sintomi vegetativi, inibizione pragmatica.
I sintomi-base sono esperienze primarie che costituiscono la base di sintomi psicotici complessi di
primo e secondo rango.
Il passaggio dai sintomi-base ai sintomi di primo rango può avvenire attraverso “sequenze di
transizione” (Klosterkotter, 1992), il cui fine è rendere un’esperienza complessa e allarmante per il
soggetto (inadeguato a fronteggiarla per via del difetto neurointegrativo che è il fondamento
biologico della vulnerabilità schizofrenica), comprensibile e gestibile attraverso una donazione di
senso ( per quanto incongruo e delirante questo ci possa apparire).
La malattia mentale è, in tale situazione, l’unico tentativo di adattamento e compenso.
Ebel et al., comparando i sintomi-base dei disturbi schizofrenici e affettivi, dopo aver ricordato che
questi sintomi non sono esclusivi della schizofrenia, ne riscontrano la presenza nelle tipiche
depressioni endogene, con la differenza che qui compaiono più frequentemente sintomi-base
dinamici e vegetativi, mentre quelli cognitivi e cenestesici sono più significativamente
rappresentati nel gruppo della schizofrenia.
Così, i sintomi-base si riscontrano in tutte le psicosi idiopatiche, ma con diversa frequenza, e nei
disturbi affettivi senza i deficit cognitivi rilevanti per le sequenze di transizione.
Il concetto di sintomi base è transnosografico, e vale per le tre psicosi idiopatiche schizofreniche,
maniaco-depressive, schizoaffettive (Huber et al. 1992).
Il concetto di vulnerabilità
La vulnerabilità è vista come un tratto relativamente persistente che predispone alla psicosi,
risultante da condizioni eredo-costituzionali e da componenti acquisite (sia di tipo organico - come
minimal brain damage, per esempio -, sia di tipo psicologico - come disturbo nelle relazioni
affettive precoci di dipendenza). I fattori stressanti provocano episodi di malattia, anziché l’intera
malattia. Il concetto di vulnerabilità si pone in maniera transnosografica come un meccanismo
unitario nelle tre psicosi schizofrenica, maniaco-depressiva e schizoaffettiva. Il concetto di
vulnerabilità psicotica consente una visione integrata della malattia la cui espressione clinica
verrebbe determinata dalla interazione tra deficit primario (primary illness), processi psicoreattivi di
compensazione e coping, “matrice antropologica” e “amalgama personologico”. Tale dimensione
rimanda al rapporto della psicosi col carattere, o in termini nosografici coi disturbi di personalità.
Questi possono interessare il decorso della psicosi sia come sindromi prepsicotiche, che come
residui postpsicotici.
Schizofrenia, ciclotimia e psicosi intermedie nella “Psicopatologia Clinica” di Kurt Schneider
I concetti di schizofrenia e di ciclotimia non sono altro che convenzioni provvisorie: se sono
soddisfatti determinati criteri, ad esempio se ricorrono sintomi di primo rango, e non è dimostrabile
alcuna patologia di fondo organica, il quadro viene chiamato schizofrenia. Poiché ciclotimia e
schizofrenia sono solo manifestazioni psicopatologiche di una malattia sconosciuta, non si dà tra di
loro alcuna diagnosi-differenziale in senso stretto, ma solo una tipologia-differenziale. Tra le due
forme esistono transizioni, “casi intermedi” (Zwischen-Falle), psicosi che si avvicinano in maggior
misura al polo schizofrenico o a quello ciclotimico, psicosi dell’“ambito di passaggio
schizoaffettivo” caratterizzate da segni diversi e che possono essere trattate, in parte , come unità di
malattia a sé stanti.
Queste forme, per la scuola di Bonn (Huber e Gross), sono psicosi schizofreniche nel senso
psicopatologico di K.S., contrassegnate da alcuni indici predittivi favorevoli, quali personalità di
base sintonica, esordio acuto della prima manifestazione psicotica, scatenamento psicoreattivo e
compresenza di sintomi o sindromi endogeno-depressive.
In molti malati non è possibile un rigido aut-aut, una classificazione nel circolo formale
schizofrenico o ciclotimico perché si collocano piuttosto in una posizione intermedia. Sono i casi di
mezzo ((Zwischen-Falle).
L’impostazione di K.S. corrisponde a quella di Karl Jaspers:
il significato della diagnosi diminuisce dalle psicosi fondabili su base somatica a quelle endogene,
sino alle varianti abnormi dell’essere psichico.
Da questo discende la regola Jaspersiana dei livelli:
se in un paziente si manifestano in concomitanza o in successione psicosindromi dall’aspetto
organico, schizofrenico, maniaco-depressivo, nevrotico o psicopatico, vale a dire sintomi o
sindromi di diversi quadri clinici, la diagnosi si fonda sul “livello” più profondo della sequenza
nevrotico-psicopatico, maniaco-depressivo, schizofrenico, psicoorganico.
Gli studi sulle psicosi denominate casi intermedi dell’ambito di transizione schizoaffettivo hanno
indotto a rivalutare una concezione unicista delle psicosi, ed anche della regola dei livelli di Jaspers,
pressoché dimenticata nella psichiatria attuale, e invece irrinunciabile nella diagnostica
psicopatologica di Schneider. Per K.S., infatti, sintomi o sindromi depressive non sono un criterio di
esclusione in presenza di sintomi schizofrenici, soprattutto quelli di 1° rango.
Al contrario, l’importanza dei sintomi di 1° rango per la diagnosi di schizofrenia e delle psicosi
schizoaffettive e affettive è stata invece vivacemente dibattuta in particolare nella psichiatria di
lingua inglese.
Affetti e delirio, disturbi dell’umore e disturbi del pensiero
Fra le varie dicotomie nella nosografia psichiatrica fondamentale è stata quella fra campo del
delirio, del giudizio, del pensiero, della cognizione da una parte, e campo dei disturbi dell’umore,
dell’affettività, dall’altra. Delirio e depressione, o disturbi dell’umore, sono apparsi i due principi
organizzatori della clinica psichiatrica come naturalmente antitetici.
La psicopatologia di Jaspers, stabilendo il noto “principio gerarchico”, stabiliva come fondamentale
per la definizione del singolo paziente prendere in esame con valenza radicalmente prioritaria ciò
che veniva considerato il livello più grave raggiunto dal disturbo. In questa gerarchia si considera la
distorsione del reale espressa dal delirio come il disturbo più profondo, e pertanto definitorio per la
diagnosi, rispetto a qualsiasi alterazione patologica dell’umore. Una sorta, quindi, di priorità del
pensiero e delle sue distorsioni rispetto a qualsiasi affetto, in armonia con una visione classicarazionalistica-illuministica che considera il pensiero l’espressione più rappresentativa dell’uomo e
della sua individualità.
L’impatto del principio diagnostico gerarchico di Jaspers nella teoresi e nella prassi psichiatrica è
stato enorme: tutti gli psichiatri ne hanno fatto un uso definitorio e discriminante fondamentale,
consapevolmente o inconsapevolmente, e nel rapporto con il paziente il cogliere il delirare equivale
spesso al passaggio ad una dimensione diversa. In effetti ci si può illudere di comprendere e
condividere il dolore melanconico, sottovalutando la grave distorsione del mondo ed in definitiva la
chiusura idiosincrasica dell’essere nella melanconia, mentre il delirio sembra passare direttamente
ad un’altra forma di pensiero dichiarando la sua alienità. La posizione del “comprendere” è più
facilmente mantenibile verso la patologia affettiva anche perché può non essere facile percepire la
differenza, ad esempio, fra la tristezza reattiva ad un evento od anche quella esistenziale, legata alle
angosce fondamentali dell’esistere, come tutti possiamo sperimentarle, e la depressione endogenovitale, cogliendo “lo scacco nella donazione di senso nella psicosi melanconica” (Callieri, 1995).
Un simile movimento empatico identificatorio è operazione difficile nei confronti dei modi e delle
forme di un vero delirio. Ciononostante ideazione delirante e disturbo dell’umore non solo mostrano
chiari passaggi nella clinica, per chi non voglia assumere le dicotomie nosologiche come
reificazioni definitive, ma la stessa storia della melanconia ha visto alternativamente prevalere
interpretazioni incentrate sull’umore ed altre incentrate sull’ideazione. In effetti le sindromi
depressive di entità maggiore comportano sempre una distorsione della concezione di sé e del
mondo, con una relativa difficoltà ad individuare modi formali nella distorsione cognitiva che
separino il campo dei disturbi dell’umore dal campo del delirio. Severi disturbi affettivi possono
comportare anche esperienze deliranti francamente persecutorie, incongrue con l’umore, ed è talora
sottile il confine fra vissuti di colpa e vissuti di persecuzione nella melanconia.
L’esperienza clinica ad esempio mostra che allorquando un deliroide di colpa ed indegnità si
trasforma o sfocia in un delirio persecutorio possono emergere figure formali, quali la percezione
delirante o anche particolari esperienze allucinatorie, del tutto assenti nel deliroide dei disturbi
affettivi, e con esso categorialmente incompatibili secondo la psicopatologia classica. In questa
linea di osservazione, gli sviluppi degli ultimi anni del pensiero psicopatologico sono andati più
nella direzione di una visione prototipico-dimensionale che qualitativo-categoriale, sottolineando i
passaggi e le transizioni fra esperienze psicopatologiche diverse piuttosto che una loro rigida
separazione, evitando di stabilire le diverse malattie psichiatriche come enti di natura.
Un esempio di coniugazione clinica fra campo delle emozioni e degli affetti e campo del delirio è
rappresentato dal contributo di E. Kretschmer.
Kretschmer ha individuato un percorso clinico all’interno del quale un delirio persecutorio è lo
sbocco di profonde emozioni di angoscia-vergogna-rabbia che si articolano nel contesto di
personalità che definì “sensitive”.
L’insegnamento di Kretschmer, la sua continua donazione di senso alle esperienze deliranti, si
incentra su una valutazione massima della sequenza affetti-delirio (attraverso la biografia e la
personalità), che va al di là della categoria “delirio in personalità sensitive” o “delirio di rapporto
sensitivo”, indicando un modello delle sindromi deliranti che valorizza tutti i collegamenti e le
relazioni coglibili fra area dei disturbi affettivi e area del delirio, fra storia emozionale del soggetto
e la distorsione del reale espressa nel delirio.
In questa prospettiva, anche il disturbo schizoaffettivo può quindi essere considerato, piuttosto che
come una collezione di entità nosografiche intermedie tra le due psicosi maggiori, alla stregua di
una posizione di mezzo, di una tappa psicopatologica che può estinguersi o perdurare, evolvere o
regredire, una specie di crocevia patogenetico che nella sua indeterminatezza e potenzialità può
offrire alternative nosodromiche e modulare il percorso psicotico. In questo suo collocarsi a monte
delle più definite e cristallizzate psicosi classiche risiede forse la relativa benignità prognostica del
disturbo, nonché la sua eterogeneità: centrato su vissuti di vergogna e indegnità, esso può
successivamente rinforzare gli aspetti di colpa e depressione, orientandosi sul versante affettivo,
oppure enfatizzare le esperienze sensitive ad essi connesse, evolvendo verso il riferimento e la
persecutorietà dell’esperienza.
Per la psichiatria dinamica (Janzarik, Resnik) il rilievo che hanno assunto i disturbi affettivi nella
genesi del delirio all’interno di una ipotesi di psicosi unica capovolge la scala gerarchica dei sintomi
di Jaspers, e sottolinea gli stretti rapporti tra le due tipologie di fenomeni psicopatologici. Il delirio
può essere considerato un tentativo di risolvere una depressione originaria, una incapacità di
elaborazione della depressione che, non potendo venire assunta, viene rigettata, proiettata nella
realtà (“avevo solo due possibilità, cadere in depressione, suicidarmi, oppure impazzire, ma sono
riuscito ad evitare sia l’una che l’altra” – dice un paziente, producendo un articolato delirio relativo
ad una macchina controllante -).
Affettività e cognizione nelle neuroscienze
La coscienza e l’emozione non sono separabili. Se una delle due è menomata, lo è anche l’altra.
La coscienza inizia come un sentimento, e viene percepita come un sentimento(A. Damasio).
Il presunto contrasto tra cognizione e affettività, tra ragione ed emozione, non viene più accettato
senza obiezioni.
L’emozione è parte integrante dei processi del ragionamento e della decisione.
Individui che hanno condotto la propria vita in modo del tutto razionale possono, per effetto di un
danno neurologico in alcuni siti cerebrali specifici (particolari aree della regione prefrontale, specie
nel settore ventrale e mediale, e nella regione parietale destra), perdere una certa classe di emozioni
e, contemporaneamente, la capacità di prendere decisioni razionali, pur essendo in grado di
affrontare la logica di un problema e di richiamare alla memoria la conoscenza del mondo che li
circonda.
La riduzione selettiva dell’emozione nuoce alla razionalità non meno che l’eccesso di emozione.
Non vi è stato mai alcun dubbio sul fatto che, in determinate circostanze, l’emozione distrugga il
ragionamento (è ovvio che uno sconvolgimento emotivo può portare a decisioni irrazionali), ma una
riduzione dell’emozione può costituire una fonte ugualmente significativa di comportamento
irrazionale.
L’emozione sostiene e appoggia il ragionamento, specie quando si tratta di questioni personali e
sociali che implicano rischi e conflitti.
La ragione umana dipende da diversi sistemi cerebrali, operanti di concerto attraverso molti livelli
interagenti di organizzazione neurale. Nel farsi della ragione cooperano sia le regioni cerebrali di
livello “alto”, sia quelle di livello “basso”, dalle cortecce prefrontali all’ipotalamo e al midollo
allungato.
Nell’edificio neurale della ragione, i livelli più bassi sono gli stessi che regolano l’elaborazione
delle emozioni e dei sentimenti, insieme con le funzioni somatiche necessarie per la sopravvivenza
dell’organismo. A loro volta, questi livelli mantengono relazioni dirette e mutue con pressoché tutti
gli organi del corpo; questo viene così posto direttamente all’interno della catena di operazioni che
generano le conquiste più alte del ragionamento, della decisione e, per estensione, del
comportamento sociale e della creatività.
Emozione, sentimento, regolazione biologica hanno tutti un ruolo nella ragione umana. I livelli più
modesti dell’organismo fanno parte del ciclo della ragione superiore.
Sembra che l’apparato della razionalità, tradizionalmente ritenuto neocorticale, non operi senza
quello della regolazione biologica, tradizionalmente ritenuto sottocorticale; sembra, cioè, che la
natura abbia edificato il primo non semplicemente alla sommità del secondo, ma anche con questo e
a partire da questo. I meccanismi del comportamento che vanno oltre pulsioni e istinti fanno uso sia
dei piani alti sia dei piani bassi: la neocorteccia risulta impegnata insieme con il più antico nucleo
cerebrale, e la razionalità è l’effetto della loro attività di concerto.
Le strutture corticali prefrontali si connettono con quasi tutte le altre arre corticali, con il talamo,
con il sistema libico e con l’ipotalamo. La loro funzione principale è quella di associare le
esperienze somestesiche, visive e uditive con l’input emozionale proveniente dal sistema libico e
dall’ipotalamo. Le lesioni delle strutture prefrontali causano deficit funzionali nella sfera affettiva e
motivazionale, producendo mutamenti del carattere sfavorevoli e instabili.
La corteccia prefrontale svolge un ruolo di mediazione tra l’impulsività delle emozioni e la rigidità
e la prevedibilità del ragionamento.
Il sistema limbico è in stretta correlazione con la corteccia prefrontale, soprattutto attraverso le vie
che hanno come centro di passaggio il talamo dorsomediale, anche se recentemente sono state
individuate vie dirette dall’ippocampo e dall’amigdala. La corteccia prefrontale può essere
considerata il vero centro di modulazione e di controllo del sistema limbico. Per mezzo della
corteccia prefrontale il soggetto può esercitare un controllo sulle emozioni generate dal sistema
limbico. Si può pensare alla corteccia prefrontale coma ad un’area in cui ogni informazione emotiva
viene sintetizzata con l’informazione somestesica, visiva ed uditiva, per dare esperienze coscienti al
soggetto e indicazioni per un comportamento adeguato (Eccles, 1981).
Si potrebbe anche immaginare che la funzione prefrontale si strutturi come trait d’uniòn tra
corporale e mentale, come se la dimensione “affettiva” del funzionamento mentale si presentasse
come relazione evolutiva tra tensione emotiva ed un vissuto che risulta rappresentato come storico
(la parte esperienziale), pensato (la parte razionale) e raccontato (la parte dialogico-simbolica).
L’affettività attinge dall’esperienza emotiva, istintiva, immediata e impulsiva (mentre esercita una
funzione di controllo e di mediazione), e la ragione attinge dall’affettività una forza creatrice ed
integratrice (mentre a sua volta funge da sistema di regolazione).
Nell’analisi delle facoltà psichiche dobbiamo quindi riconoscere tre elementi fondamentali:
l’emotività, l’affettività e la capacità cognitiva.
Nelle società dei paesi più sviluppati si tende a privilegiare le facoltà intellettivo-razionali, mentre
alle emozioni si attribuisce una realtà di secondo ordine e di secondaria importanza, nonostante le
più recenti acquisizioni della psicologia. Questo atteggiamento può essere considerato un retaggio
della cultura classica greca, per la quale il razionale, l’estetico ed il vero si coniugavano anche nel
giusto. Nel mondo antico l’emotivo era coniugato come “passione” che, con un significato
intrinseco di istintivo, incontenibile, infrenabile e cieco, era da rifiutare.
Tuttavia, nella storia del pensiero, si possono rintracciare anche esempi di un’altra linea di
tendenza:
Cartesio (1595-1650) rivaluta i sentimenti come espressioni autonome dell’Io, considera il
sentimento come fonte della morale e dell’etica, ed anche mezzo di conoscenza che incrina la
supremazia dell’oggettività e, quindi, del razionale.
Pascal (1623-1662) riconosce che il “cuore” ha una capacità conoscitiva diversa dall’intelletto, ma
assolutamente valida ed efficace: se il pensiero razionale è capace di acquisire conoscenza, non è
tuttavia in grado di afferrare l’oggetto nella sua completezza, perché è del cuore la capacità di
captare intuitivamente e rapidamente la situazione dell’oggetto.
Kant (1724-1804) evidenzia, accanto alla ragione, il sentimento e la volontà, che diventano le
funzioni mentali principali dell’uomo e che, anzi, lo elevano sopra ogni altro essere vivente.
In passato le emozioni sono state viste come uno sfogo di passioni molto intense, come reazioni
fisiologiche, stati d’animo soggettivi o segnali interpersonali, ma dagli studi sull’età evolutiva
emerge che il loro scopo principale è quello di creare, organizzare e orchestrare molte delle funzioni
fondamentali della mente. Intelletto, capacità scolastiche, senso di sé, coscienza e moralità hanno
tutti radici comuni nelle primissime esperienze emotive. Per quanto possa sembrare strano, le
emozioni sono artefici di una vasta gamma di operazioni cognitive nel corso di tutta la vita e
rendono possibile il pensiero creativo in ogni sua forma (Greenspan,1997).
.
In una visione olistica del funzionamento della mente, l’identificazione di una intelligenza divisa in
emotiva, affettiva e razionale non deve essere intesa come categorizzazione o come organizzazione
di “centri” specifici. Le osservazioni cliniche che hanno permesso di accertare come non possa
svilupparsi la “cognizione” se prima non si sviluppa la dimensione affettiva, non significano che la
Intelligenza Razionale sia subordinata alla Intelligenza Affettiva, ma solamente che la prima
necessita di un funzionamento mentale sviluppato e strutturato per poter raggiungere quella
complessità funzionale che le è caratteristica.
Solo l’integrazione tra aspetti emotivi e aspetti cognitivi appare in grado di assicurare un
comportamento adeguato. L’emozione e il sentimento sono indispensabili alla razionalità, alla
programmazione, alla pianificazione (Damasio, 1994-1999).
Scarica