Società, tempo e diritto in Hume

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Società, tempo e diritto in Hume
Sommario: 1. La ragione infondata – 2. Critica del contrattualismo - 3. Tra psicologia ed economia - 4.
Lavoro e proprietà - 5. Proprietà e governo politico - 6. Conclusioni
1. La ragione infondata
Nel suo concentrico attacco portato al cuore della metafisica, vista come pretesa di fondare i principi
primi al di là di ogni esperienza, impressione sensibile e osservazione, Hume definisce un percorso critico
entro cui cogliere con nuova luce anche i nodi della questione dell'agire sociale. Rigettando la ricerca di
un fondamento metafisico, depositato in un soggetto assoluto assunto come inizio della serie temporale,
egli inquadra le forme regolative della convivenza come un empirico istituto espresso dalla società per
risolvere questioni esistenziali contingenti1. Alle ingannevoli costruzioni del razionalismo astratto o della
metafisica che inquadra il tempo a partire da un essere immutabile, che postula una verità data al di là di
ogni esperienza e un io senza altri, si viene così nelle pagine di Hume a contrapporre una ricognizione
attenta al fenomeno storico. L’approccio di Hume si caratterizza per una acuta rassegna dei punti di
sofferenza della fondazione metafisica del tempo sganciato dall'idea di mutamento, di successione e
attardata ad una idea della società come compagine razionale retta da un diritto naturale esistente ab
aeterno. Ogni diritto per Hume sorge nel tempo per rispondere a contingenti preoccupazioni che mutano
nel tempo e non è in alcun modo legato a degli immutabili. Da una natura immutabile è contraddittorio
che possano scaturire diritti chiamati a regolare una vita che scorre nel tempo ed è ancorata
nell’esperienza. Solo ciò che muta e quindi non è eterno, immobile, Vero produce forme che rispondono a
esperienze contingenti ed è arduo incanalare entro un percorso lineare segnato da una accumulazione
teleologica verso il meglio. Una natura immutabile non ha tempo e non esprime diritti che regolano la
durata degli enti sensibili. E una società mutevole con una rete di rapporti che si svolge nel tempo non
può essere rinchiusa entro una prospettiva semplice di progresso verso una meta. Gli assoluti o
immutabili sono sprovvisti di tempo e tutto ciò che è tempo non può essere innalzato a Valore
metaempirico.
La decostruzione del concetto di ragione come fondamento degli istituti sociali, del possesso empirico dei
beni procede con rigore estremo. La ragione è nient'altro che una produzione di idee che scaturisce da una
relazione tra gli oggetti e non può presupporre alcuna idea metafisica di causa come qualcosa che sta
dietro i processi e li determina. Dalla ragione non si ricava alcun indizio solido per spiegare il
funzionamento della società o della proprietà che per Hume è anzitutto una relazione, un rapporto, una
istituzione sociale. La ragione in quanto tale non può essere la causa di un evento empirico che vede i
soggetti fare proprie le cose esteriori. In questo modo Hume nega che la proprietà sia provvista di un
fondamento assoluto, necessario e reputa che tutto ciò che la metafisica spaccia come indubitabile
fondamento altro non sia che il frutto di una abitudine ricorrente e nondimeno refrattaria ad essere
assolutizzata come necessaria. La proprietà viene sconnessa dalla ragione e ricercata nei rapporti reali in
quanto tali mutevoli e non legati a un qualcosa di necessario e assoluto. L’inferenza di Hume è che la
proprietà non esista perché non possa essere altrimenti, ma perché per motivi del tutto empirici è stata
adottata come misura dei rapporti sociali. Nulla collega la proprietà con la razionalità e l’etica. Anche la
proprietà appartiene al novero delle abitudini, delle istituzioni sociali che compaiono per artificio dinanzi
a un disagio reale e poi sembrano assumere i tratti della naturalità.
1
La filosofia di Hume “rifiuta la fondazione metafisica della proprietà” e rintraccia una legittimazione “solo di
carattere pragmatico della proprietà” (J. Rohls, Storia dell’etica, Bologna, 1995, p. 300).
1
Estranea alla proprietà è la nozione di ragione e di bene2. Non è in vista di una astratta idea di bene che
viene introdotto il possesso esclusivo. Hume suppone moventi psicologici, disagi, contrasti quali trama
reale delle istituzioni giuridiche. E’ dal sensibile, dal mondo reale che scaturisce la proprietà come un
principio organizzatore della vita. La proprietà diventa una forma non perché sia escogitata dalla ragione
ma perché il mondo reale esprime anche regole, norme. Il mondo sensibile produce regole per soddisfare
bisogni sociali. Occorre comprendere i rapporti sociali per descrivere la proprietà. A nulla vale
giustificare la proprietà alla luce di argomenti razionali. E’ l’interesse, non la ragione il movente delle
azioni e del diritto come sistema di regole pratiche. L’interesse, il legame sociale, e non un mitico
contratto originario ispirato dalla ragione, è la molla che spinge alla sistemazione di un diritto di
proprietà. E’ nel mondo dei bisogni che occorre rintracciare la genesi delle istituzioni sociali e quindi
della proprietà, non nelle costruzioni razionali. Hume scorge nelle istituzioni lo strumento con il quale gli
interessi si riproducono. Le istituzioni sono mutevoli come gli interessi economici che le esprimono.
Attraverso le istituzioni si raggiunge un qualche equilibrio degli interessi sociali. Non è sufficiente la
supposizione di una autoregolazione degli interessi tramite contratti e scambi di volontà. Occorre che i
casi devianti vengano puntualmente sanzionati da un organo estraneo alle parti contraenti. Le istituzioni
sorgono dalla concretezza delle contese sociali. Esse contengono storia, oggettivano tempo e pur essendo
legate a un interesse esse diventano cose comuni. Il tempo fa delle istituzioni sorte da congiunture
particolari un deposito di interessi comuni e di regole obbliganti. Conviene ai soggetti accettare i modi
dell’obbligo politico anche verso istituzioni sorte dall’usurpazione poiché in tal modo si assicurano una
sicurezza dei possessi altrimenti minata.
Secondo Hume la giustificazione della proprietà non può essere rinvenuta in ragioni metafisiche ma in
argomenti del tutto pragmatici relativi ai reali rapporti sociali. “I problemi concernenti la proprietà privata
hanno riempito infiniti volumi di giurisprudenza e di filosofia, se per entrambe aggiungiamo i commenti
al testo originale, e alla fine possiamo sicuramente affermare che molte delle regole ivi stabilite sono
incerte e ambigue, arbitrarie” 3. Il proposito di Hume è di confutare tutti i sistemi speculativi costruiti a
ridosso della questione proprietaria come prolungamento di un soggetto isolato. La proprietà è una
istituzione sociale che conferisce stabilità alla vita di relazione e facilita la crescita di livelli accettabili di
sussistenza. Solo se spostato in questo solido ancoraggio fenomenologico, il tema della proprietà ha un
senso. Gli interrogativi sull’inizio metafisico, sulle origini rientrano solo tra preoccupazioni mitiche
scarsamente significative. La proprietà è una relazione, nulla ha a che fare dunque con le finzioni di un
contratto stipulato da individui isolati.
2. Critica del contrattualismo
Per Hume una scienza che ricerca l’inizio metafisico delle cose è una scienza inutile: “vi è una grande
differenza tra i fatti storici e le opinioni speculative”4. La nozione di sostanza, di fondamento è un
2
Nell'ottica di Hume la ragione in quanto dimostrativa non è causa, movente o volontà ma può tuttavia
influenzare l'azione sociale quando suggerisce mezzi necessari per un certo fine. Dal conoscere il problema si sposta sul
piano della volontà e della sua genesi psicologica. Hume, con il suo rigore logico penetrante, occupa una “posizione
cruciale” nel processo di superamento del giusnaturalismo (G. Sabine, Storia delle dottrine politiche, Milano, 1978, p.
459). Nella “demolizione di varie branche del sistema giusnaturalistico” Hume si avvale dell’argomento secondo cui
“siccome i valori dipendono dalle propensioni degli uomini all’azione, è impossibile che la ragione in sé possa creare un
obbligo qualsiasi” (Sabine, op cit., p. 461).
3
D. Hume, Saggi e trattati morali letterari politici e economici, Torino, 1974, p. 670. Per Hume il problema si
sposta sul piano della effettività storica: “tutte le istituzioni umane sono in continua evoluzione” (ivi, p. 679).
4
Hume, Saggi e trattati, cit., p, 152. Con la sua critica del contratto e dell’idea di una legge di natura invariabile
fondata sulla ratio, Hume assicura “l’ingresso della mentalità scientifica nella riflessione sul diritto” (J. M. Kelly, Storia
del pensiero giuridico occidentale, Bologna, 1996, p. 340). Lo stesso criterio antimetafisico Hume lo applica alla
tematica religiosa. Egli esclude che la religione possa aver avuto origine da una contemplazione metafisica sui misteri
dell’universo. “Le prime idee sulla religione non ebbero origine dalla contemplazione delle opere della natura, ma da
2
ostacolo al sapere critico che si indirizza solo sulla discretezza empirica, sulle esperienze probabili.
Inverosimile è per Hume l’idea di un contratto originario che fonda la società e obbliga le generazioni
future presentandosi nelle vesti contraddittorie di un contratto che non è possibile rescindere. Il problema
della società non rinvia alla sterile disputa circa la bontà o cattiveria originaria. La società non è un
dilemma metafisico ma un concreto tema storico ed empirico. La società è la vita collettiva che si
riproduce nel tempo assumendo forme variegate in risposta agli imperativi concreti del vivere. La realtà
svela il ruolo decisivo svolto dall’usurpazione, dalla violenza nell’allestimento di forme di regolazione.
“E’ probabile che l’ascendente di un uomo sopra una massa abbia inizio la prima volta durante uno stato
di guerra, quando la superiorità del coraggio e dell’ingegno si manifesta più visibilmente, quando
l’unanimità e l’accordo sono più necessari, e quando gli effetti dannosi del disordine sono avvertiti con
maggiore immediatezza"5. C’è poco di edificante nella genesi temporale delle istituzioni giuridiche. E’
dalla guerra innescata dalle tribù che scaturisce l’immagine di un capo cui affidare comando. Il capo si
istituzionalizza con il tempo e diventa governo regolare. Originata dalla violenza, la politica sublima e
rende invisibile la sua genesi costruendo simboli, parametri di legittimità. La società non è un problema
da giustificare, è un dato da spiegare nelle sue regolarità. Forme di vita più complesse esigono la
definizione di strutture amministrative e dall’interesse reale degli attori scaturisce la macchina del
governo politico. Senza una arena pubblica, l’interesse è incerto e precario. Gli interessi hanno bisogno di
un quadro di stabilità e reciprocità entro cui proliferano con regolarità gli scambi, le transazioni sono
regolari, le obbligazioni garantite.
Lo Stato non sorge tutto di un colpo dopo una illuminazione mentale, ma è un artificio che viene
escogitato dai soggetti nel tempo per la empirica necessità di stabilizzare interessi particolari altrimenti
fluttuanti. Spiega Hume: "la regola della stabilità del possesso non solo deriva dalle convenzioni umane,
ma sorge inoltre gradualmente e acquista forza attraverso un lento progresso, e in virtù di una reiterata
una preoccupazione relativa alle vicende della vita e dalle continue speranze e paure che regolano la mente umana” (ivi,
p. 1055). Il segreto del mistico non affatto una “curiosità speculativa o puro amore della verità” (“questo motivo è
troppo raffinato per delle intelligenze così grossolane”) ma una paura esistenziale paralizzante, un timore ossessivo, un
oscuro bisogno di rassicurazione, “una ansiosa aspettativa degli eventi” che produce nella mente debole una idea di una
potenza invisibile (ivi, p. 1057). Per Hume “è notevole che i principi della religione subiscano una specie di flusso e di
riflusso nella mente umana” (ivi, p. 1080). Hume (Trattato sulla natura umana, in Opere filosofiche,1, Bari-Roma,
2004, p. 129) avverte che "quando ci sentiamo penetrati dalla solidità delle cose, nulla ci è più spiacevole della paura".
Sulle accuse rivolte a Hume di ateismo perché "sul letto di morte si divertiva col whist" cfr. K. Marx, Il capitale, Roma,
1980, I, p. 677.
5
D. Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 217. L’abitudine alla sottomissione non può essere il frutto di una
ragione calma ma di una abitudine indotta dalla guerra, dalla emergenza. Proprio il pericolo legittima immediatamente
la punizione, il castigo per i disobbedienti. Per Hume il consenso svolge un ruolo del tutto residuale e occorre postulare
una obbedienza “senza una indagine sulla origine” dell’obbligo (ivi, p. 657). Il consenso è certo “un giusto fondamento
del governo quando ha luogo” anzi il fondamento “migliore e il più sacro di tutti” (p. 661). Ma nella vicenda storica
esso quasi mai si esplica nella sua piena estensione per questo “occorre cercare qualche altro fondamento del governo”
poiché “ragione, storia ed esperienza ci mostrano che tutte le società politiche hanno avuto un’origine molto meno pura
e regolare” (p. 662). Non l’obbligo morale ma quello per paura e necessità si rintraccia nella storia. Per le necessità del
vivere è meglio non indagare sulla genesi.
3
esperienza degli inconvenienti che sorgono dal trasgredirla"6. L'evoluzione reale degli istituti non
consente di postulare alcuna ragione che tutto d'un tratto progetta le regole sulla base di un piano
razionale. Solo tentativi ed errori, il succedersi caotico di vantaggi e svantaggi, consolidano gli istituti
giuridici. Le regole si consolidano perché funzionano e mostrano una capacità di soddisfare interessi
fondamentali. Quando la funzionalità agli interessi reali sfuma, declinano anche le regole che sono nel
tempo proprio come gli interessi che organizzano. Il governo è necessario per una maggiore protezione
dell’interesse anche se non ogni società ha espresso governi politici. Nelle fasi primordiali si riscontrano
società senza potere organizzato7. La svolta verso la creazione di un governo coercitivo è provocata dalla
percezione che l’autolimitazione di un particolare interesse a proteggersi da solo coincide con la
maturazione di un interesse maggiore degno di considerazione.
La proprietà trae origine dalla interazione sociale che si manifesta entro condizioni di scarsità dei beni. In
una situazione di abbondanza non matura la richiesta di un uso privatistico dei beni. La proprietà è un
diritto che esclude gli altri dal godimento di un bene esclusivo disponibile in maniera solo limitata8. Essa
nasce da un anonimo processo di interrelazioni che vede individui competere tra loro non perché lupi per
natura ma per accaparrarsi una porzione maggiore di beni necessari ad una più agevole riproduzione. Gli
individui sono tra loro simili solo perché tutti desiderano beni scambiabili. La diversa ripartizione dei beni
6
Hume, Trattato sulla natura umana, in Opere filosofiche, cit., p. 518. Le istituzioni giuridiche scaturiscono da
esperienze sociali concrete che mostrano svantaggi e vantaggi delle regole adottate e determinano momenti di
apprendimento collettivo in grado di fissare una qualche "fiducia sulla futura regolarità della condotta". Non sulla pura
ragione (la benevolenza verso gli altri si rivela un debole movente dell'agire) o sulla mera forza (sulla paura fisica non è
pensabile fondare un sistema sociale normalizzato) ma "su questa aspettativa si fondano la nostra moderazione e la
nostra astensione dai beni altrui" (ivi). Postulato il carattere originario, fondante della passione (amore del guadagno,
desiderio di potere) e la congenita debolezza della affezione della mente nel determinare l'agire, solo una passione di
segno diverso può ridimensionare l'egocentrismo paralizzante e istituire ordine sociale. Per Hume oltre alla passione,
all'interesse esiste anche "un minimo di riflessione" che fa comprendere ai soggetti che un qualche elemento di freno
all'interesse sregolato è conveniente e in grado di fondare una utilità persino superiore rispetto alla ricerca
individualistica dei vantaggi immediati e incerti. Per Hume le regole sono adottate solo perché "un minimo di
riflessione" mostra che avere un apparato di norme rende più conveniente la convivenza e garantisce maggiori
progressi. In tal senso la genesi della società non ha nulla a che fare con il problema ozioso "relativo alla malvagità o
alla bontà della natura umana" (p. 520). Se non nasce un interesse alle regole, nessuna norma è in grado di imporsi.
7
Osserva Hume (Trattato sulla natura umana, cit., p. 571): "benché il governo sia un'invenzione estremamente
vantaggiosa e, addirittura, in certe circostanze, assolutamente necessaria all'umanità, non è tuttavia sempre necessaria,
né è impossibile che gli uomini riescano a tenere per un certo tempo in vita la società senza ricorrere a tale invenzione".
Egli conclude: "sono ben lontano dal pensare, come fanno invece alcuni filosofi, che gli uomini siano totalmente
incapaci di vivere in società senza un governo; anzi, sostengo che i primi rudimenti di governo sorgono da contese fra
uomini di diverse società, e non fra uomini della stessa società" (p. 572). Nelle società senza Stato esistono tuttavia "tre
leggi fondamentali sulla stabilità del possesso" che preesistono al potere che viene istituito quando i beni sono
accumulati con una certa ampiezza e il governo rappresenta un concreto vantaggio per i consociati.
8
Hume rimarca il nesso tra proprietà e diritto e reputa del tutto assurdo che possa maturare una idea della
proprietà senza l'istituzione delle norme della giustizia. "L'origine della giustizia spiega quella della proprietà; è lo
stesso artificio che dà vita a entrambe" (Trattato sulla natura umana, cit., p. 519). La derivazione del diritto
dall'economico non viene intesa da Hume nel senso di un prima e di un dopo cronologico ma in un senso precipuo di
codeterminazione logica. Un ruolo essenziale è poi svolto dai momenti di socializzazione politica che nascono con "la
reciproca comunicazione dei sentimenti nella società e nella conversazione" (p. 637).
4
provoca differenze tra i soggetti che solo un ambito coercitivo riesce a prolungare. Non è intervenuto
alcun patto razionale tra individui consapevoli, ma è nata una anonima interazione sociale dalla quale
emerge la proprietà come principio regolatore degli scambi. La proprietà è una istituzione che sorge nel
tempo e alla sua base non c’è un fondamento racchiuso nella ragione ma la pratica sociale protesa alla
soddisfazione del bisogno. La proprietà è un profilo giuridico che permette un soddisfacente godimento
del bene. Prima della comparsa di un organismo pubblico è contraddittorio postulare un diritto di
proprietà, ossia ricorrere all’ipotesi gratuita di un diritto prima del diritto. La proprietà non coincide con
un fatto, con il possesso empirico, ma con una legge garantita da un pubblico potere. Ciò che caratterizza
la proprietà è una relazione bilaterale mediata da un potere coercitivo. In quanto istituzione sociale, la
proprietà possiede solo fondamenti pratici transeunti, non certo connotazioni assolute di carattere eticometafisiche.
La società è per Hume una commistione di azione per un bisogno e di comunicazione linguistica e
simbolica. La società indica un rapporto con l’altro orientato al bisogno e alla comunicazione, allo
scambio. Non è ipotizzabile un soggetto isolato che confida in una ragione solitaria che progetta le forme
della convivenza. L’io senza comunicazione con gli altri è un postulato inconsistente. "La mutua
dipendenza degli uomini è così grande in tutte le società che difficilmente qualche azione umana è del
tutto completa in se stessa o viene compiuta senza qualche riferimento alle azioni degli altri"9La società
non si configura in alcun modo come la costruzione di un soggetto isolato che decide di entrare in
comunicazione supponendo che il linguaggio sia una sua istantanea produzione e non un sistema di codici
ricevuto10. La società è la stratificazione di una serie innumerevole di contratti che nel tempo intercorrono
tra soggetti. Non è pensabile alcun inizio reale che vede il passaggio definitivo da un fittizio stato di
natura imbevuto di violenza e guerra a un completo stato civile coperto da regole e giustizia. Non esiste
una condizione solo di natura sprovvista di connotazioni anche sociali da cui si passa a una società che
d'un tratto comincia a funzionare come realtà organizzata e retta da regole generali di giustizia.
L’origine reale e non metaforica della società può essere rinvenuta non già in una esatta individuazione di
ciò che è giusto e ingiusto ma nella trama dell’interesse. E’ l’interesse che spinge alla comunicazione ed
esige la stabilità. Non conviene rimanere al di fuori di una cornice sociale perché tutti gli averi
risulterebbero precari e sottoposti alla estrema incertezza. La società fornisce organizzazioni pubbliche
che meglio assicurano gli averi. La proprietà in tale ottica non si presenta come qualcosa di presociale. La
proprietà è inconcepibile senza la società e senza le forme giuridiche. Lo stimolo all’aggregazione non
viene, come in Hobbes da un calcolo, ma dall’interesse ad avere una organizzazione che stabilizza le
condizioni di vita. Anche senza il governo è possibile società poiché esistono forme di convivenza
sprovviste delle strutture statali. In determinati fasi evolutive soltanto si presentano le condizioni per
esprimere rapporti di potere formalizzati. E’ l’interesse che suggerisce ai soggetti di autolimitare talune
manifestazioni aggressive. La formazione sociale scaturisce dall’autolimitazione stessa dell’interesse,
ossia è collegata in maniera profonda al momento dell’economico. Alla base dell’istituzione sociale del
diritto Hume pone il legame che nel tempo si stabilisce tra individui interessati. Per la convivenza di più
interessi, occorre una forma, uno schema normativo. La valutazione del rendimento delle istituzioni è da
Hume ricondotta alla capacità effettiva di soddisfare interessi sociali. Il dispotismo ha un minore
rendimento istituzionale perché non riesce a tutelare adeguatamente ampi interessi collettivi. La centralità
dell’interesse spinge il moderato Hume, negatore di ogni “diritto di fare violente innovazioni”, fino alla
teorizzazione della liceità del diritto di resistenza11.
3. Tra psicologia ed economia
9
Hume, Ricerca sull'intelletto umano, in Opere filosofiche, 2, Bari-Roma, 2004, p. 94).
10
In Hume “la convenzione giuridica non avviene con un atto determinato: la sua realizzazione è immanente alla
storia” (G. Fassò, Storia della filosofia del diritto, Bari-Roma, 2001, II, p. 255).
11
Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 669. Per Hume l’obbedienza è dovuta “non perché dobbiamo mantenere
la parola” ma perché “la società altrimenti non potrebbe sussistere” (Fassò, op. cit., p. 256). Non generiche promesse
ma concrete necessità reggono l’esistenza collettiva. Con queste formulazioni Hume scavalca gli orizzonti del
giusnaturalismo. “Come non aveva accolto l’idea del pactum unionis, così Hume respinse quella del pactum
subiectionis” (Fassò, ivi).
5
Il soggetto di Hume non è l’io penso sprovvisto di corpo e non è dotato del catalogo cartesiano di idee
astratte che alcun rapporto hanno con il mondo esterno. E’ piuttosto una struttura complessa con un corpo
invaso da elementi eterogenei e non sempre riconducibile a forma secondo i tratti apodittici delle relazioni
di idee cui estraneo è il criterio della rappresentabilità del contrario12. Il soggetto non è immerso nel regno
delle idee e della conoscenza analitica ma vive nell’esperienza, si organizza nelle cose di fatto e
presuppone una natura come realtà “indipendente dal nostro pensiero e dal nostro ragionamento” 13. La
mente non è libera nelle sue costruzioni poiché dipende dalla discretezza empirica, dai flussi percettivi
che provengono dal mondo esterno e dunque deve vedersela con i canoni della probabilità e della
pensabilità del contrario che è tipica delle cose di fatto14. La mente può solo organizzare il materiale
sensibile, dare unità a impressioni sconnesse, conferire sistematicità alla discretezza empirica esterna alle
idee15. L’idea di anima non è che una maschera inventata per risolvere il problema dell’identità, per dare
unità alle diverse percezioni, per conferire durata e unificazione alle esperienze del soggetto. Queste
esercitazioni che cercano di sottrarsi alle conseguenze della passività dell’idea rispetto ai dati sensibili
non riescono per Hume a eliminare il sostrato naturalistico del soggetto. La logica non può trascurare la
dimensione affettiva, il dato della passione come altra rispetto alla ratio per risolversi in astratte
12
Osserva Hume (Trattato sulla natura umana, cit., p. 203) che "non c'è problema in filosofia più astruso di
quello riguardante l'identità e la natura del principio unificatore che costituisce la persona". Il problema dell'io
sprofonda in una questione metafisica che con le finzioni dell'anima, della sostanza trascura la dura realtà della
percezione che affolla la mente. In Hume “viene rifiutato l’io, giacché non è reperibile come particolare contenuto di
rappresentazione mentale. L’io, ovvero la personalità, non è nemmeno una impressione, poiché dovrebbe essere
piuttosto ciò a cui si riferiscono le nostre varie impressioni e rappresentazioni. Quel che denominiamo ‘io’ non è dunque
nient’altro che il mosaico delle rappresentazioni stesse, che si scacciano l’una l’altra incessantemente” (E. Cassirer,
Storia della filosofia moderna, Roma, 1977, IV, p. 127). Nella filosofia di Hume appare un “io come simulacro d’una
realtà costante e autonoma”, un “io quale mero palcoscenico delle rappresentazioni” (Cassirer, ivi).
13
D. Hume, Trattato sulla natura umana, in Opere filosofiche, Bari-Roma, 2004, p. 183. Nella sua indagine
genetica delle idee dalle impressioni Hume imposta “uno studio fenomenologico della mente” dal sapore antimetafisico
e antiteologico (G. Della Volpe, La filosofia dell’esperienza di Davide Hume, in Opere, Roma, 1972, II, p. 20).
All’ontologia metafisica Hume contrappone una “psicologia della conoscenza” per la quale l’esperienza si risolve in
una determinazione di ordine psicologico. Ne deriva “l’esclusione di ogni questione metafisica”.
14
Con la sua attenzione alle emozioni, ai desideri, alle inclinazioni, ai meccanismi naturali della psiche Hume
definisce “una specie di meccanica della sfera emotiva” (Della Volpe, op. cit., p. 229). Con la sua “visione psicologica
più comprensiva e concreta del desiderio”, Hume esplora i moventi passionali e non ontologici delle azioni (ivi, p. 237).
15
Il nesso tra impressione e idea “non è soltanto un puro rapporto genetico, di priorità temporale, della prima
rispetto alla seconda, un puro rapporto di fatto, insomma, ma è anche un rapporto normativo, un criterio di verità”
(Della Volpe, op. cit., p. 22).
6
sostanze16. L’io è anche un veicolo emozionale, un fascio di percezioni e di appetiti corporei che non è
mosso da una astratta idea di bene. Il sentimento, la passione agitano un soggetto che non è un tranquillo
abitatore del regno delle pure relazioni di idee ma che vive immerso nel bisogno. Il soggetto nella sua vita
di relazione non è ragione pura ma sentimento, simpatia, inclinazione, corpo. Il pensiero non è il padrone
del corpo e l’azione non è mai descrivibile come un egoismo consapevole. La ragione non è il movente
originario, essa può intervenire solo dopo nella valutazione della adeguatezza dei mezzi prescelti in vista
di un fine adottato secondo le inclinazioni, i desideri, i bisogni. Per Hume il conflitto tra i soggetti nasce
dalla tensione tra possibilità illimitate di godimento e effettualità delle risorse scarse disponibili. Il
desiderio è capace di proiettarsi in ogni cosa piacevole che allevia il disagio reale. Ma ciò che è in astratto
possibile oggetto di desiderio si scontra con i reali differenziali di potere sociale. Da questo scarto tra
possibile e reale scaturisce l’egoismo, la ricerca di un possesso esclusivo di beni scarsi per soddisfare
concretamente un desiderio17. Il soggetto fuoriesce dal legame comunitario per esigere forme pubbliche
che garantiscano i poteri privati sulle cose. E’ in grado tuttavia di avvertire in maniera concreta una
condivisione del disagio degli altri. La simpatia o comunicazione delle passioni è ciò che nella vivente
esperienza del singolo lo sospinge verso un’apertura nei confronti della vita intersoggettiva. Il sentimento
concreto di una comunione con gli altri è per Hume diversa cosa dal postulato di una comunità e di un
solido legame morale. La simpatia supera l’indifferenza di un soggetto egocentrico ma non suppone una
comunità. La soddisfazione di un desiderio è legato alla esclusione di altri soggetti che riversano istanze
di godimento sul medesimo bene. La scarsità dei beni fonda i dispositivi di una istituzione esclusiva come
16
Per Hume (Trattato sulla natura umana, cit., p. 357) non esiste un io senza mondo e "il nostro io, separato
dalla percezione di tutti gli altri oggetti, in realtà non è nulla". La critica dell’unità o sostanza “rappresenta nella storia
del pensiero la prima dissoluzione esplicita e totale dell’ontologismo antico, e moderno, attraverso la negazione
completa della sua categoria basilare” (Della Volpe, op. cit., p. 52). La stessa sorte subisce un’altra finzione
dell’immaginazione la nozione di tempo assoluto: “la classificazione del tempo entro la relazione naturale di contiguità
porta di conseguenza a una spazializzazione di esso, ch’è concepito, infatti, come una serie di momenti o istanti,
svolgentesi dal passato al futuro” (Della Volpe, ivi, p. 84). Hume perviene a una “concezione fenomenistica del tempo,
come ordine, relazione” (Della Volpe, ivi, p. 86).
17
Hume “rifiuta l’appiattimento della vita affettiva e istintuale al puro e semplice egoismo” (E. Ronchetti, Gli
utilitaristi, in L. Firpo, a cura di, Storia delle idee politiche economiche e sociali, Torino, 1975, IV, p. 549). La
ricchezza che influenza le passioni è "il potere di ottenere la proprietà di qualsiasi cosa ci piaccia" (Hume, Trattato sulla
natura umana, cit., p. 326). Il denaro è un potere sugli altri. L'egoismo più che un dato psicologico originario e fisso
appare collegato al fatto reale della sproporzione tra beni e bisogni che determina la separazione dalla comunità e la
distinzione tra il mio e il tuo. Su beni non appropriabili (acqua, aria) non nasce il sentimento di esclusione e su di essi
non nasce il diritto la cui genesi è legata alla privazione, alla scarsità. Il diritto che non è una relazione di idee ma una
istituzione solida non ha nulla a che vedere con la ragione e con la benevolenza, esso è invece il portato di un senso di
precarietà, di inquietudine "per il nostro interesse" visto sempre come minacciato e insicuro. Il diritto nasce da società
con "interessi differenti" che hanno la necessità di porre vincoli, limiti, regole. Il senso dell'interesse pubblico non è
originario ma sorge nel tempo come qualcosa di "interessante" che scongiura la ricaduta nell'incerto, nelle azioni
sregolate. Solo da una considerazione dell'interesse (di un interesse maggiore rispetto a un interesse minore che non
guarda oltre se stesso e l'immediata soddisfazione) scaturisce un sentimento del pubblico (o di un interesse maggiore
affidato a regole, stabilità). Hume parla di "una simpatia con l'interesse pubblico" che sorge geneticamente dalle
passioni e senza la quale nessuna convivenza raggiunge traguardi di benessere. Un "artificio dei politici" serve per
produrre nei soggetti un senso del pubblico come interesse ragionevole. Sebbene l'interesse pubblico in quanto tale
evochi un qualcosa di "unico e identico", esso crea dissensi e conflitti poiché esistono "diverse opinioni che ognuno ne
ha" (p. 588).
7
la proprietà. La proprietà suppone estraniazione dalla comunità e competizione per accaparrasi beni
scarsi. In una condizione di beni abbondanti non sorge l’istanza di una regola che comporta obblighi ed
esclusioni. Il diritto è superfluo sia in una condizione di abbondanza estrema di risorse sia in una
situazione di endemica carenza che sprigiona istanze naturalistiche sottratte ad ogni regola. Il diritto può
fiorire solo in una condizione intermedia, nella quale non esista abbondanza di beni e neanche una cronica
mancanza di qualsiasi bene. La società esprime regole giuridiche perché non esiste una comunità e
neanche un naturalismo estremo.
Esiste uno strato psicologico indistruttibile che esprime un istinto di possesso ed esclude la comunione dei
beni e orienta il soggetto a conquistare potere privato sulle cose. La proprietà è un fatto psicologico
collegato alla scarsità dei beni, non etico ossia congiunto a una idea di bene. Essa scaturisce da una
struttura mentale in cui agiscono impulsi contrastanti e non univoci e rinvia al sensibile, al gioco dei
desideri, non già alla costruzione razionale, al conoscere. Il mondo delle azioni reali è il teatro di uno
scontro incessante di impulsi, passioni, sentimenti. Solo il sentimento determina il volere reale non una
astratta demarcazione tra principi giusti e ingiusti, veri e falsi. La ragione è solo una tecnica che non
riesce ad orientare i fini che hanno altri moventi genetici come la simpatia che sia pur debole orienta la
formazione di giudizi morali18. Ogni desiderio va formulato avendo precisa l’idea di un assetto sociale
dato. Il desiderio è sempre un desiderio che nasce in un soggetto che convive con altri soggetti. L’essere
del soggetto è il convivere con altri. In questo quadro il compito del diritto è di proteggere
l’appropriazione individualistica dei beni. La norma giuridica è una funzione del particolare. La norma
scaturisce dalla sfera economica19. La genesi del diritto dall’economia comporta che il diritto sia la forma
per la durata di particolari assetti economici. Il diritto garantisce il regime proprietario imponendo sistemi
di divieti e di esclusioni. Per godere di un bene, occorre che il diritto offra gli strumenti per estromettere
gli altri da un particolare campo d’azione. Il diritto privato costruisce un sistema di pretese e di doveri
attraverso il quale alcuni interessi rispetto al godimento di un bene sono protetti ed altri vengono
affievoliti.
La proprietà si accompagna, produce e suppone al tempo stesso, ad una peculiare psicologia. Certo, “la
cupidigia o desiderio di guadagno è una passione universale che agisce in tutti i tempi”20. Ma questa
passione che scandisce la vita del soggetto non è indifferente alle forme che legano i rapporti tra gli
individui. Esiste una determinazione naturalistica del soggetto che lo lega a passioni, a inclinazioni: “la
18
Un’etica che poggia sulla simpatia appare ad un critico di Hume come Hegel (Lezioni sulla storia della
filosofia, Firenze, 1981, p. 231) un autentico sconcio teorico in cui “i concetti giuridici e morali poggiano sopra un
istinto, un sentimento morale soggettivo”. Lo sforzo di Hume è appunto quello di pervenire a un punto in comune
muovendo dal sentimento, dal particolare. “Per quanto debole possa essere, la simpatia costituisce nondimeno il terreno
comune su cui è possibile mettere d’accordo le nostre opinioni morali” e pervenire ad “un accordo su una comune
concezione della giustizia” (J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, 1984, p. 163).
19
Con la sua morale del sentimento Hume perviene al “profondo concetto del fondamento passionale,
individuale, economico, dell’azione morale” (Della Volpe, op. cit., p. 222). Hume definisce “il primo sistema di ethica
mundana -immanentistica- dell’età moderna, dopo quello –così diverso, anzi antitetico- di Spinoza” (Della Volpe, ivi,
p. 324).
20
Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 299. "Il principio dell'utile non è stato un'invenzione del Bentham il
quale non ha fatto che riprodurre senza nessuno spirito quello che Helvétius ed altri francesi del secolo XVIII avevano
detto con spirito. Applicato all'uomo, se si vuole giudicare ogni atto, movimento, rapporto ecc. dell'uomo secondo il
principio dell'utile, si tratta in primo luogo della natura umana in generale e poi della natura umana storicamente
modificata, epoca per epoca. Bentham non ci perde molto tempo. Egli suppone, con la più ingenua banalità, che l'uomo
normale sia il filisteo moderno e in specie il filisteo inglese. Quel che è utile a questo curioso uomo normale e al suo
mondo è utile in sé e per sé. Su questa norma egli giudica poi passato, presente e futuro. Per esempio la religione
cristiana è utile perché riprova religiosamente quegli stessi misfatti che il codice penale condanna giuridicamente" (K.
Marx, Il capitale, Roma, 1980, I, p. 667).
8
struttura e la costituzione della nostra mente non dipendono dalla nostra scelta”21. E opera anche una
determinazione sociale in virtù della quale “la vita umana è più influenzata dagli umori del momento che
da principi generali, più dalla fortuna che dalla ragione”22. In Hume non compare la celebrazione lockiana
della libertà come autonomia del soggetto che nella sua azioni fa valere il principio della autoregolazione.
Alla libertà come condizione della suprema indifferenza rispetto all’alterità, Hume contrappone la
descrizione di un soggetto che nei suoi atti è limitato dal mondo e dagli altri. Non una astratta ragione
capace di calcolo ponderato spinge il soggetto ad agire ma un sentimento che determina la volontà in
maniera stringente. L’agire rimanda alla passione come sostrato fondamentale e irriducibile di impulsi
amorali e irrazionali. Ogni morale astratta che suppone un soggetto che calcola e non sente è accantonata
per esplorare i moventi psicologici concreti dell’agire. Non un astratto ragionamento attorno all’idea di
bene ma un agire in vista della rimozione di un disagio spinge la volontà dei soggetti. Per questo è più
fertile un’influenza che parla alla passione che non una raccomandazione che si proietta verso la ratio.
Solo passioni calme possono scacciare passioni violente. Il soggetto che vede sua la cosa lavorata la
coltiva con maggiore partecipazione. Questo argomento è valido per il lavoro che un singolo produttore
esercita sulla cosa. Meno persuasivo è nei confronti di una pluralità di soggetti che, tramite un lavoro
collettivo coordinato, producono cose o merci di cui però non sono proprietari. Chi riceve solo un salario
che copre soltanto una parte modesta del lavoro prodotto perché dovrebbe accettare la proprietà come
conveniente? Per Hume ogni tentativo di organizzare l’esistenza secondo un principio comunitario è
destinato al fallimento. La comunità è un’istanza che mai riuscirà a istituzionalizzarsi perché gli interessi
particolari sono ineludibili. Per scacciare lo spettro del fanatismo egalitario che rivendica ripartizione
comunitaria dei beni sociali Hume ricorre di fatto all’ipotesi metafisica dell’egoismo come inestirpabile.
Pur di schivare i colpi del comunitarismo egli non esita a delle incoerenti riesumazioni di metafisica. Non
esiste una psicologia immutabile che orienta i soggetti verso il privatistico sistema di appropriazione. La
psicologia dell’individualismo possessivo non è originaria ma legata a una condizione di scarsità dei beni.
Questa empirica connotazione determina una psicologia acquisitiva, non il contrario. Non è ipotizzabile
quindi un sostrato psicologico inalterabile che orienta il soggetto verso il meccanismo proprietario. In una
situazione di abbondanza dei beni non esisterebbe alcun impedimento psicologico alla condivisione delle
cose prodotte e alla distribuzione comunitaria delle risorse. Il rischio dell’approccio di Hume è di
risolvere le cose nella credenza, i rapporti nella rappresentazione mentale23.
Le credenze etico-religiose del soggetto economico per Hume sono di scarsissimo rilievo nella
spiegazione dei fenomeni sociali che si svolgono secondo parametri legati ai tangibili interessi. Capita che
un soggetto economico razionale nella sua condotta professionale poi abbia credenze e superstizioni
arcaiche. Non c'è nulla di più immaginifico che la passione. Ma il principio di realtà riconduce
21
Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 357. La mente non può alterare moventi e inclinazioni: “l’aria della
filosofia è troppo fine per poterci respirare, giacché è sopra i venti e le nubi dell’atmosfera” (ivi, p. 361). Il tema, poi
squisitamente kantiano, dell'obbligo di restituire un deposito o prestito di una somma di denaro viene risolto da Hume
negando che esista una ragione (onestà o senso del dovere e dell'obbligo) perché questo senso del giusto è esso stesso
un risultato dei processi di civilizzazione, e non un movente originario. "In una condizione umana primitiva e più
naturale, questa risposta verrebbe rifiutata in quanto del tutto incomprensibile e sofistica"(Trattato sulla natura umana,
cit., p. 507) . Il preteso senso del dovere che suggerisce dall'astenersi dalla proprietà altrui si risolve in una tautologia
che naturalizza valori propri del moderni spacciandoli per idee senza tempo. "La regola morale che ingiunge di
mantenere le promesse non è naturale. Una promessa non è concepibile al di fuori delle convenzioni umane che la
istituiscono" (p. 547). A fondare l'obbligo cooperano l'interesse e il sentimento morale successivo.
22
Hume, Saggi e trattati morali, cit., p.369.
23
Cassirer (op. cit., p. 113) rileva i rischi di una teoria della verità ridotta a parvenza psicologia, a immagine.
Inoltre una teoria basata sulla generalizzazione di osservazioni psicologiche approda a un punto di non ritorno: “la
teoria dell’abitudine non può basarsi, almeno essa non lo può certo, sull’abitudine”. Dalla mancanza di un criterio
oggettivo di verità diverso dalla impressione singolo, Cassirer ricava il “fallimento di Hume” del suo giudizio empirico
logicamente impossibile e incapace di trascendere i singoli casi osservati.
9
l'immaginazione entro i rapporti sociali e le specifiche determinazioni legate ad interessi precisi. Il
mercante ha gusto per la frugalità, passione per l’agire incessante e interiorizza un’abilità per il guadagno
che “in breve lo appassiona e allontana ogni gusto per il piacere e lo sperpero. E’ infallibile conseguenza
di tutte le professioni attive produrre frugalità e far prevalere l’amore del guadagno sull’amore del
piacere”24. Quella del mercante è una condotta intramondana che nel suo concreto agire economico è
indifferente all’etica prescrittiva e ai giudizi morali. Da asserzioni metafisiche relative alla struttura
dell’essere e all’origine, all’inizio non è possibile derivare alcuna sensata proposizione di etica mondana
collegata invece a concrete inclinazioni e manifestazioni di simpatia.
4. Lavoro e proprietà
La proprietà è legata a un interesse che scandisce i ritmi della vita attiva e della produzione delle cose
utili. Il lavoro appartiene alle manifestazioni esteriori che assicurano crescita, affinamento delle tecniche.
L’ozio inoperoso viene bandito come una mancanza di vita. Le tecniche produttive migliorano le
condizioni generali dell’esistenza. Il lusso, la produzione di beni in eccedenza rientrano tra le
manifestazioni positive della vita. Il lusso stimola la produzione incessante di cose nuove che si faranno
spazio nel mercato e per questo occorre scacciare tutte “le assurde opinioni sul lusso” 25. Il lusso nocivo è
solo quello sfrenato, irregolare che non può pretendere di tramutarsi magicamente in una pubblica virtù.
Per Hume merita considerazione solo il lusso produttivo che aiuta la crescita. Egli introduce il concetto di
eccedenza quale connotato di società che non si arrestano al livello elementare di sussistenza ma oltre la
soglia del necessario inseguono beni superflui. La produzione non è orientata in vista del consumo
immediato legato a primarie necessità vitali ma alla continua creazione di ricchezza, alla produzione da
immettere negli scambi incessanti di beni. Il traffico continuo è il contrassegno del moderno sistema
sociale. Il contributo civilizzatore del mercato è collegato proprio alla creazione di eccedenza e di beni
destinati allo scambio. Attraverso lo scambio si accresce anche la conversazione, la cultura. Proprio
perché le merci sono prodotte con il lavoro esse sono scambiabili attraverso una proficua convenzione
espressa dal denaro: “il denaro non è altro che il simbolo del lavoro e delle merci e serve soltanto come
mezzo per valutarle e stimolarle”26. Il lusso aiuta la concorrenza, la innovazione dei prodotti. Non si
produce per soddisfare bisogni del vivere ma si produce per produrre beni indefiniti. Il lusso comporta
una “grande raffinatezza nell’appagamento dei sensi”27. Tutto diventa scambiabile perché ogni bene
24
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 493.
25
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 458. Per Hume “nessuna soddisfazione per quanto legata ai sensi può di per sé
essere considerata viziosa. Una soddisfazione è viziosa soltanto se assorbe tutte le spese di un uomo e non lascia
possibilità per gli atti doverosi e generosi che sono richiesti dalla sua condizione e dalla sua ricchezza” (ivi, p. 469).
Hume “recupera, contro la tradizione teologica, la piena positività della natura umana, sostenendo che la gratificazione
delle varie passioni e delle varie inclinazioni di per sé non può essere un male” (Ronchetti, op. cit., p. 558).
26
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 478. A giudizio di Hume “la moneta non è uno degli oggetti del commercio ma
soltanto lo strumento su cui gli uomini si sono accordati per facilitare lo scambio di una merce con l’altra” (ivi, p. 472).
Il prezzo delle merci è in relazione con l’abbondanza della moneta. Grazie alla convenzione della moneta “il lavoro e
l’attività acquistano vigore; il mercante diventa più intraprendente, il produttore più diligente e più abile e anche
l’agricoltore segue il suo aratro con maggiore alacrità e attenzione” (ivi, p. 477). Il denaro come misura degli scambi
svolge funzioni essenziali per la competitività. Senza la mediazione della forma del denaro diminuiscono i parametri del
rendimento economico. La moneta “stimola necessariamente l’operosità di tutti prima di aumentare il prezzo del
lavoro” (ivi, p. 478).
27
Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 458. A giudizio di Hume “l’idea che sia di per sé stesso un vizio
soddisfare un qualsiasi senso o indulgere a raffinatezze nel mangiare, nel bere o nel vestire non potrà mai venire in
mente a chi non sia sconvolto dalla follia del fanatismo” (ivi, p. 458). Questa positività del lusso, della raffinatezza non
10
prodotto viene misurato sulla base della quantità di tempo e tutto è scambiabile attraverso la forma del
denaro. La moderna società del lusso e della moda raffinata che vede “abili tessitori e carpentieri navali“
contiene nel suo seno pratiche di vita eccentriche (“amore libertino e infedeltà al letto”), una attitudine
alla comunicazione (“gli uomini si raggruppano nelle città, desiderano ricevere e comunicare conoscenza,
mostrare ingegno e educazione, gusto nella conversazione e nel modo di vivere, negli abiti e
nell’arredamento”)28. Hume esalta il carattere produttivo del lusso, del consumo poiché “in una nazione
dove non vi sia richiesta di beni superflui gli uomini sprofondano nella pigrizia, perdono ogni piacere di
vivere e sono inutili alla comunità”29.
La proprietà merita di essere difesa o assaltata non sulla base di ragioni etiche ma in rapporto all’essere o
meno fonte di un benessere collettivo30. Anche la proprietà si avvale del tempo e non dell’etica quale
principio di legittimazione. “Non vi è proprietà negli oggetti durevoli, come terre e case, che quando sia
accuratamente esaminata nei passaggi di mano in mano, non sia stata in qualche periodo fondata sulla
frode o sull’ingiustizia. Le necessità della società umana non permetteranno mai, né nella vita privata né
in quella pubblica, una simile accurata indagine”31. Il regime proprietario merita tutela solo se è
conveniente e soddisfa non le mere istanze distruttive di un egoismo irrelato ma le condizioni sociale nel
loro senso più ampio. Dal piano degli eterni principi la riflessione scivola sul metro delle empiriche
utilità. La proprietà divenendo stabile e certa ha un ruolo per così dire correttivo rispetto al mero
parametro dell’egoismo ristretto. Il diritto è la protezione di un interesse che merita tutela. La
convenienza a proteggere un determinato interesse tramite una sfera politica generale è la sola
giustificazione invocata da Hume per spiegare il nesso moderno tra pubblico e privato. Esiste un interesse
a esprimere regole che spiega la produzione di norme necessarie alle pratiche sociali quotidiane. Esiste un
interesse a tutelare i propri interessi avvalendosi di regole pubbliche impersonali. Ogni richiamo astratto
al bene comune e ogni evocazione sterile di un aleatorio interesse pubblico o amore universale rischiano
di cadere nel vuoto, troppo distanti essi appaiono rispetto al sentire reale dei soggetti. Solo un aggancio
con l'interesse percepito dagli attori sociali è in grado di assicurare una porzione di pubblico
indispensabile per non perdere ogni senso della città. Il pubblico è un artificio che scaturisce dal bisogno,
dal sentire concreto.
Non esiste per Hume la proprietà, esistono invece le proprietà, tante forme quante sono le relazioni
sociali. Una pluralizzazione della nozione di proprietà si rende inevitabile una volta che si smaschera la
pretesa del fondamento assoluto e si presceglie la via della descrizione degli istituti mutevoli. Esistono
diverse tipologie della proprietà a seconda della forma storicamente assunta dall’interesse sociale.
L’istituto giuridico della proprietà evolve nel tempo ed è possibile circoscrivere diverse tipologie di
proprietà che si definiscono in relazione ai mutamenti sociali. Le forme giuridiche della proprietà sono
raccordate con gli interessi sociali da tutelare e con le dinamiche del sistema economico. La proprietà non
è un’idea originaria32. Essa è una categoria giuridica che evolve nel tempo sulla base del rapporto di forza
degli interessi reali. In condizioni di abbondanza non sorgono questioni di proprietà perché solo dove il
mio e il tuo sono beni contesi esiste la necessità di una organizzazione coercitiva che attribuisce
specifiche competenze. La proprietà è una forma giuridica che si sviluppa quando nella società affiora un
conflitto sulla destinazione dei beni. La regola diventa necessaria solo in un regime di scarsità relativa. Il
autorizza a concludere che proprio dal lusso vizioso venga lo stimolo all’operosità. Hume asserisce “non affermiamo
mai che il vizio in sé è vantaggioso” (ivi, p. 470).
28
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 461. Quella moderna è la società della conversazione, della operosità, del sapere,
del vincolo comunitario e “dell’arricchimento di umanità”.
29
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 462.
30
Il problema di Hume è quello dello “adeguamento pacifico della distribuzione della proprietà alle esigenze
individuali, e con esso la tranquillità e la sicurezza della società” (Ronchetti, op. cit., p. 552).
31
Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 670.
32
In Hume affiora una “analisi delle istituzioni giuridiche e politiche come conseguenze, artifici, elaborati a
posteriori, per risolvere secondo l’interesse comune i problemi posti dalle condizioni in cui l’uomo si trova ad agire”
(Ronchetti, op. cit., p. 552).
11
carattere fondativi del bisogno suppone che ove manchino conflitti sui beni inutili sono le regole della
distribuzione delle cose.
Nelle società più evolute, che si fondano su una operosità allargata e sull’affinamento delle capacità
produttive e dei supporti tecnici, i beni sono in gran parte artificiali, assicurati dalla capacità produttiva
del lavoro. Spiega Hume: “nel mondo ogni cosa si acquista con il lavoro; e le passioni sono le sole cause
del lavoro”33. Il lavoro agisce sulla natura la trasforma e accresce la quantità di beni immessi nel mercato.
“L’eccedenza che viene prodotta dal lavoro non va perduta, ma viene scambiata con le manifatture
destinate a quegli usi che il lusso degli uomini rende ora ardentemente desiderabili”34. Il lavoro è una
attività coordinata di soggetti che si rapportano alla natura per uscire dalla scarsità e incrementare i beni
disponibili al consumo allargato. Il moderno conosce la produttività del libero scambio delle prestazioni
lavorative poiché “è un metodo violento, e in molti casi irrealizzabile, quello di obbligare il lavoratore a
faticare” 35. Dietro la proprietà collegata al libero lavoro si rintraccia uno scambio libero e l’abbandono di
ormai improduttivi strumenti coercitivi impiegati sopra il corpo del lavoratore. Solo il lavoro spontaneo
incrementa l’eccedenza di una produzione illimitata. Il segreto della moderna struttura proprietaria non
risiede nella violenza esplicita ma nell’esercizio di strumenti più raffinati ossia nel rivolgersi ai lavoratori
e “renderli attivi sollecitando lo spirito d’avidità e d’operosità, l’attività artigianale e il lusso”36. In questi
strumenti di volontà libera affrancati dai ritrovati coercitivi per Hume riposa “l’equilibrio di tutto il
sistema” che funziona e si riproduce solo mediante libere transazioni. Il denaro è il mediatore universale
che in tempi moderni non si limita a presidiare agli scambi tra le merci ma coinvolge anche i meccanismi
della produzione delle cose attraverso il lavoro libero. “Il denaro interviene in tutti i contratti e in tutte le
vendite e rappresenta ovunque la misura di scambio” 37. Nelle forme di un astratto diritto eguale è
possibile instaurare un rapporto che svela la presenza di ben diverse capacità di potere. Da una parte si
rintracciano gli imprenditori che per Hume “devono ricavare profitti proporzionali alle spese e al
rischio” 38. Dall’altra si rinviene la figura del lavoratore che riceve un salario in cambio di una prestazione
a tempo determinato. La giustificazione del profitto è rintracciata nella remunerazione legata al capitale
iniziale investito e alla ricompensa spettante all’elemento del rischio d’impresa. Hume ritiene che il
rapporto tra capitale e lavoro non dia luogo a soverchi problemi di legittimità ma solo a contingenti
dispute relative all’adeguatezza del salario. “Dove i lavoratori e gli artigiani sono abituati a lavorare per
bassi salari e a conservare solo una piccola parte del frutto del loro lavoro, è loro difficile, anche sotto un
governo libero, migliorare le proprie condizioni oppure cospirare per elevare i propri salari”39. Hume va
33
Hume anticipa la teoria del valore lavoro e “suggerisce una sorta di equazione tra quantità di lavoro messo in
opera in un sistema economico, quantità dei beni prodotti (valori economici) e potenza e prosperità di uno Stato”
(Ronchetti, op. cit., p. 558).
34
Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 450.
35
Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 451.
36
Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 451.
37
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 483. In età moderna “tutte le merci sono sul mercato, la sfera di circolazione è
allargata” (ivi) e coinvolge anche il lavoro che è possibile comprare sulla base di contratti liberi. Il contratto non è solo
uno strumento della circolazione, è operante anche nella sfera della produzione delle merci. Hume non può assumere la
terra come principale fattore produttivo. Certo “tutte le cose utili alla vita nascono dalla terra; ma poche cose nascono
nella condizione richiesta per utilizzarle” (ivi, p. 492). La produzione di cose, non il rapporto con la terra è il connotato
principale della moderna proprietà.
38
Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 456. Nel rapporto economico non tutti i soggetti partecipano con lo
stesso grado di coinvolgimento. “Il lavoratore non è impiegato nella medesima misura del fabbricante o del mercante
benché paghi il medesimo prezzo per qualunque cosa sul mercato” (ivi, p. 480). Come consumatori i soggetti sono
parificati, non in quanto produttori.
39
Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 455. Il ruolo del lavoro non è rilevante nella trasformazione del valore
della merce in prezzo di mercato. Per Hume “i prezzi di ogni cosa dipendono dalla proporzione fra merce e denaro” (ivi,
12
oltre il mero criterio legale (ossia la rispondenza del contratto che produce merci alle regole dei liberi
scambi di volontà) e si interroga sul tema della effettiva misura del salario. La proprietà rimanda così ad
un rapporto mutevole tra salario e profitto. Il lavoratore deve dare per scontato che a lui tocca sua una
parte ridotta del bene prodotto, ma non è affatto pacifico che questa porzione spettante al dipendente del
capitale sia estremamente limitata ai minimi vitali. Oltre alla forma di un diritto eguale rispettato nel
contratto c’è spazio per un problema che va oltre il connotato normativo e concerne l’entità del salario
sottoposta ad un conflitto tra i diversi soggetti sociali.
Il conflitto tra le parti sociali per la ripartizione di un profitto tra salario e capitale non vede estraneo il
governo. La capacità d’acquisto del salario non è un tema che sfugge alla sfera pubblica poiché “una
eccessiva disuguaglianza fra i cittadini indebolisce qualsiasi Stato. Ogni persona, se possibile, deve
godere i frutti del proprio lavoro, disponendo pienamente di tutto il necessario per vivere e di molte
comodità”40. La rivendicazione dell’eguaglianza non passa attraverso gli schemi dell’umanitarismo ma fa
ricorso a considerazioni esclusivamente politiche ed economiche. Un certo grado di eguaglianza favorisce
la stabilità politica e lo stesso rendimento economico. D’altra parte la produttività, il saper fare sono le
precondizioni di un buon governo. “Possiamo forse aspettarci che un popolo che non sa come costruire un
filatoio o di utilizzare vantaggiosamente un telaio sia in grado di costituire un buon governo?”41.
In tutte le forme di vita associata si rintracciano tipi di proprietà ossia regole che stabiliscono i criteri dei
rapporti tra gli uomini tra loro e con la natura esterna. L’economia (rapporto uomo cosa) e il diritto
(relazione uomo-uomo) sono in Hume intrecciati. Egli reputa assurda l’ipotesi un io senza altri che entra
in un rapporto con la cosa che rende sua42. Non si dà diritto se non nella interazione tra una molteplicità di
soggetti. La proprietà è una molla indispensabile per non ricadere in condizioni di arretratezza nelle quali
si indeboliscono le prestazioni economiche e una assoluta indifferenza accompagna le attività. Senza la
spinta della proprietà si ricade in una decadenza produttiva e la irresponsabilità domina nella vita
economica. La proprietà dunque merita di essere protetta non per considerazioni etiche ma per la
convenienza di un regime che incrementa produttività e benessere collettivo.
5. Proprietà e governo politico
Il carattere costruttivo che le forme politiche e giuridiche assumono nella definizione della proprietà non
spinge Hume nei lidi dell’artificialismo di Hobbes per il quale la proprietà altro non è che una invenzione
dello Stato. Per Hume lo Stato non crea la proprietà, la tutela e la riveste giuridicamente tramite le leggi
civili43. Lo Stato crea norme funzionali all’economia (per Hume è necessario anche istituire una banca
p. 481). La determinazione del prezzo avviene nell’ambito della circolazione e non ha rilevanti connessioni con i
problemi del valore del lavoro. Hume spiega il meccanismo della formazione del prezzo in questo modo: “aumentate le
merci, esse diventano più a buon mercato; aumentate il denaro, esse aumentano il loro valore” (ivi, p. 481).
40
Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 454.
41
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 463. La concorrenza che si sprigiona tra i diversi paesi non deve spaventare
quelli più civili che dalla loro hanno la qualità e il sapere. “Non possiamo ragionevolmente aspettarci che una pezza di
tessuto di lana venga lavorata a perfezione in una nazione che sia ignorante d’astronomia o dove gli studi etici siano
trascurati. Lo spirito del tempo dà un’impronta a tutte le arti”(ivi, p. 461).
42
In Hume la proprietà non è un rapporto sensibile con la cosa ("la proprietà non consiste in una delle qualità
sensibili dell'oggetto") ma una relazione più astratta e non meramente fisica tra soggetto e cose. Il rapporto individuocosa “viene declassato a mero espediente metaforico o ricondotto a uno dei modi di acquisizione della proprietà” (P.
Cosa, Civitas, Bari-Roma, 1999, p. 341). La proprietà discende da regole giuridiche istituite e “non è il lavoro del
soggetto che fonda la proprietà, non è il contratto, la promessa dei singoli, che fonda l’ordine” (Costa, ivi, p. 342).
43
In Hume non si parte da uno stato di natura ma dalla società. “L’origine della società è dovuta a un mutamento
di direzione della passione di self-interest operata da questa stessa” (Della Volpe, op. cit., p. 302). Nell'approccio
humiano è destituito di senso l'assillo dell'inizio intesa sio come fondamento metafisico che come origine cronologica:
13
centrale), non inventa il rapporto economico. La proprietà non è pensabile senza norma giuridica, ma ciò
non significa che sia la tecnica giuridica a istituire il rapporto reale che produce cose appropriabili. Non
esiste diritto di proprietà prima della strutturazione di un ordinamento giuridico. Ma la forma è ciò che
rende giuridico una relazione, ma non la crea come rapporto di fatto. Il dato di fatto ha bisogno di un
rivestimento formale che non è il punto di partenza, ma il risultato di un processo complesso di
formalizzazione. La forma non istituisce il rapporto empirico, lo copre con tecniche e così lo riproduce
con regolarità. La forma è indispensabile poiché il particolare non può riprodursi da sé, ma ciò non
comporta che sia la norma a determinare il rapporto reale. Per Hume non esiste un prima e un dopo.
Forma e rapporto sociale sono coessenziali. Il particolare non è in grado di autotrascendersi senza
ricorrere al momento normativo. Dalla ragione come fondamento ultimo e assoluto l’ottica di Hume si
sposta verso l’individuazione delle pratiche convenzioni che i soggetti stipulano in risposta a
sollecitazioni storiche contingenti tramutando passioni, interessi in calcoli sorretti dalla riflessione44. Per
questo alla narrazione delle origini lontane egli preferisce un tragitto invertito che muovendo dalle forme
più complesse e articolate si prefigge di gettare luce sulle più semplici strutture societarie45.
Anche se nella sua genesi storica la proprietà rimanda a usurpazione, conquista, calcolo, forza e non
disponga affatto di un criterio di legittimazione come il contratto ciò non toglie che la proprietà debba
ugualmente essere rispettata. La sua giustificazione è infatti passata dall’astratto piano dei principi etici a
quello concreto delle utilità sociali46. Le forme giuridiche e politiche hanno dalla loro il tempo,
formidabile elemento che dà legittimazione ex post anche a ciò che nella sua genesi sfuggiva ad ogni
norma. Per Hume costituisce autentica follia la pretesa di atteggiarsi verso tutte la proprietà e le altre
istituzioni giuridiche con il metro astratto della legittimità dell’origine. Il tempo consuma gli interrogativi
sugli inizi e ogni istituto va giudicato solo sulla base della sua utilità nei tempi attuali. In tal modo non la
giustificazione, ma la utilità sociale conta. Altrimenti la società non avrebbe scampo: tutto andrebbe a
pezzi dinanzi alla certificazione, tramite la luce della ragione, delle assai tristi vicende contenute nel
romanzo delle origini. Le norme giuridiche che pongono un limite agli interessi particolari non sono un
costrutto razionale ma un prodotto della stessa dinamica degli interessi. Esiste per Hume un interesse al
"non sempre possiamo risalire all'origine prima delle cose per determinare la loro condizione attuale" (Hume, Trattato
sulla natura umana, cit., p. 538).
44
Sabine (op. cit., p. 464) nota che il peculiare convenzionalismo di Hume “è una specie di positivismo empirico,
senza metafisica e religione e senza un’etica che pretenda validità oltre le circostanze della società in un dato momento
e la soddisfazione dei bisogni umani”. Il concetto di convenzione in Hume non rinvia a un contratto, a una promessa ma
a “una consapevolezza generale per l’interesse comune” (Costa, op. cit., p. 340).
45
“La storia dell’Inghilterra gli si è proposta a rovescio, da quella contemporanea ai Tudor, al medioevo, in una
ricerca sempre più complessa dei meccanismi sociali che agivano ancora nel proprio tempo” (G. Ricuperati, Il pensiero
politico degli illuministi, in L. Firpo (a cura di), Storia delle idee politiche economiche e sociali, Torino, 1975, IV, p.
357).
46
"Non c'è dubbio che, se risaliamo alle prime origini di ogni nazione, troveremo che non c'è quasi stirpe di re, o
forma di repubblica, che non si sia in principio fondata sull'usurpazione e sulla ribellione, e il sui titolo non sia all'inizio
peggio che dubbio e incerto. Solo il tempo dà solidità al loro diritto e, con la graduale azione sulla mente degli uomini,
li riconcilia con qualsiasi autorità facendola sembrare giusta e ragionevole" (Hume, Trattato sulla natura umana, cit.,
p. 589). Come nota G. Solari (Individualismo e diritto privato, Torino, 1912, p. 296) “l’origine impura sia dei governi,
sia della proprietà, anche se potesse a distanza di tempo provarsi, non è motivo che giustifichi la resistenza allo Stato o
la violenza della proprietà, quando sia dimostrata attualmente la loro utilità”. Per Hume tuttavia, benché non sia
possibile per legge "stabilire delle regole particolari in base alle quali poter decidere quando la resistenza è legittima", è
comunque appurato che "nonostante questo silenzio delle leggi nelle monarchie costituzionali, non c'è dubbio che il
popolo conserva pur sempre il suo diritto alla resistenza; è infatti impossibile privarlo di questo diritto" (Hume, Trattato
sulla natura umana, cit., p. 596).
14
pubblico che suggerisce agli stessi soggetti portatori di interessi di dotarsi di un apparato pubblico in
nome di un interesse più ampio. La disputa non è tra economia (particolare) e diritto (pubblico) ma tra un
interesse più ristretto incapace di una visione panoramica e un interesse più consapevole di sé e quindi
disponibile a un artificio creativo che istituisce norme per la stabilità del possesso e per una condotta
regolare di vita. Il mondo dell’esperienza giuridica e dell’obbligazione non è coperto da ragioni naturali e
astratte convenzioni metatemporali ma da convenzioni particolari che maturano nelle circostanze storiche
mutevoli tra diversi titolari di beni47. Hume perviene a un rigoroso inquadramento storico del diritto e del
sistema delle obbligazioni come istituzioni sociali e non frutto di tendenze originarie48.
Le istituzioni non rimandano a eterni principi scritti nella natura o a un astratto appetitus societatis ma
sono delle legature che consentono agli interessi di riprodursi con regolarità. Lo Stato non è un edificio
casuale ma “un sistema di leggi per regolare l’amministrazione”49. Rispetto agli interessi dei proprietari,
le istituzioni servono per determinare regole certe e soddisfare aspettative di reciprocità tra i soggetti delle
transazioni. Entro una società organizzata esiste “un interesse visibile nell’imparziale amministrazione
della giustizia”50. Riguardo agli interessi dei non proprietari, le istituzioni comunque provvedono ad
assicurare stabilità e sicurezza interna ed esterna. Comune è l’interesse a vivere in pace e ad essere trattati
secondo procedure certe e forme generali. Per Hume la proprietà esercita un influsso significativo nello
svolgimento della politica ma “è eccessivo fare della proprietà il fondamento di tutto il governo”51. Il
potere politico non può essere inquadrato come semplice dispositivo funzionale alla proprietà in quanto
esso oltre ai diritti di proprietà coltiva un pubblico interesse e un esercizio del potere. Secondo Hume “un
governo può durare per parecchi secoli, sebbene la distribuzione del potere e quella della proprietà non
47
Chiarisce Della Volpe (op. cit., p. 302) che le norme sul possesso “non sono derivate da effettive convenzioni
per il fatto che esse sorgono gradualmente e acquistano forza attraverso una lenta progressione”. Quella di Hume è una
“filosofia sperimentale del diritto” basata sulla originalità della passione e sulla diversità tra esteriorità giuridica e
interiorità etica (Della Volpe, ivi, p. 314). L'attenzione all'elemento fattuale non cancella la rilevanza della componente
normativa. Spiega Hume che "il possesso protratto per lungo tempo conferisce un diritto su un oggetto. Ma poiché è
certo che sebbene ogni cosa sia prodotta nel tempo, non c'è nulla di reale che sia prodotta dal tempo: ne consegue che la
proprietà, essendo prodotta dal tempo, non è un qualcosa di reale negli oggetti, ma è frutto dei sentimenti".
48
Mentre in Hobbes “l’osservanza reciproca è solo un limite alle tendenze egoistiche o nocive”, in Hume è “un
limite altresì alle tendenze altruistiche, a tutte le tendenze”. In tal modo Hume lambisce la cruciale nozione della
“bilateralità e coercibilità” del diritto. Per questo “Hume e non Hobbes ha veramente visto la natura intima del dovere e
della norma giuridica” (Della Volpe, op. cit., p. 306).
49
D. Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 200. Il nesso tra interesse e diritto non va inteso come rapporto tra
norma e un singolo interesse ma tra ordinamento e sistema sociale inteso nella sua complessità e distinto dalla semplice
azione privata: “è direttamente la società il luogo nel quale il diritto e i doveri, la disciplina e la cooperazione, il
controllo e l’appagamento si rendono possibili” (Costa, op. cit., p. 348).
50
Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 216. Per Hume l'agire sociale è legato all'interesse e solo se si adotta un
tempo di riferimento molto ampio, che scavalca il presente nel quale i soggetti operano con interessi diversi, è possibile
pervenire insospettabili momenti di intesa. "Quando consideriamo degli oggetti lontani, tutte le sottili distinzioni
svaniscono, e diamo sempre la preferenza a tutto ciò che è preferibile in sé e per sé (Hume, Trattato sulla natura
umana, cit., p. 568). Solo perché non tocca più interessi percepibili qui e ora, è possibile ottenere una idea condivisa di
giustizia, che essendo sganciata dalla contesa reale o dalla inclinazione verso l'utile che caratterizza gli attori è del tutto
evanescente.
51
Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 209. Quello che Hume chiama “il miracolo della sottomissione” della
maggioranza a una minoranza che governa è fondato sul miscuglio di interessi e “opinioni”. “Sebbene gli uomini si
lascino molto guidare dall’interesse, tuttavia l’interesse stesso e tutte le faccende umane sono guidate dall’opinione”
(ivi, p. 230).
15
coincidano”52. Le istituzioni non sono progetti razionali, sono degli equilibratori nati dal conflitto sociale
e quindi mutevoli ordinamenti destinati a evolvere con il ritmo delle dinamiche societarie. Quando gli
interessi collettivi prevalenti mutano con una certa ampiezza intervengono anche adeguamenti
istituzionali che nulla hanno del diritto naturale immutabile e senza tempo. Il modo pratico con cui gli
interessi vengono soddisfatti determina le forme giuridiche adeguate. Il segreto del diritto non si rintraccia
nella ragione o nella natura ma nell’economia, nell’esperienza materiale e nella “abitudine
all’obbedienza” che con il tempo l’autorità consolidata produce53. Gli interessi espressi dai rapporti
economici sono la trama materiale delle forme giuridiche chiamate a formalizzare i modi con i quali gli
uomini associati soddisfano bisogni vitali. Il mercante, il commerciante svolge per Hume una funzione
essenziale nella crescita economica.
La produzione delle cose deve essere finalizzata allo scambio illimitato. Il piacere che provoca la
comodità, l’agio che deriva dal benessere, l’appagamento che sviluppa il lusso per Hume sono il tratto più
affascinante del moderno. Il lusso, il denaro sono incentivi al fare, al produrre sempre nuovi beni
scambiabili con denaro. Il mercato deve produrre sempre nuovi beni che il mercato dovrà consumare. La
politica non deve lenire le disuguaglianze che l’economia di mercato introduce. Lo Stato deve solo
preoccuparsi di garantire la concorrenza che diffonde operosità, consumo, azione. Contrario alle politiche
protezionistiche, Hume confida sulle dinamiche della liberalizzazione dei mercati e nella innovazione
poiché “se gli stranieri non ci comperano una particolare merce noi dovremo smettere di produrla”54. La
libertà del commercio, della comunicazione, dei mercati garantisce forme di omogeneizzazione sempre
più ampie. Il commercio che si avvale di scambi, formule, segni, simboli è lo strumento per una
civilizzazione mondiale per questo occorre favorire “la aperta comunicazione tra le nazioni”55. Come
entro i confini dello Stato il mercato comporta pacifiche relazioni tra i soggetti dello scambio, così il
libero mercato internazionale produce cooperazione e relazioni pacifiche. “La nostra economia nazionale
languirebbe per mancanza di concorrenza, di esempi e di informazioni”56. Il segreto del successo inglese è
nel mare, nel commercio, nei “carpentieri navali”. Su scala mondiale la posta in gioco è la conquista di
sempre nuovi mercati e il coinvolgimento nel regime degli scambi di nuove aree dove si rintraccia
all’inizio anche un più basso costo del lavoro. Le industrie “abbandonano quelle regioni e quelle province
che hanno già arricchito, trasferendosi verso altre dove siano attratte dalla convenienza del prezzo delle
materie prime e del lavoro, fino a che non abbiano arricchito anche queste e siano di nuovo costrette ad
allontanarsene per le medesime cause”57. A parte una naturale espansività del meccanismo economico che
abbraccia con il suo ritmo inesorabile sempre nuovi territori, esiste anche una altrettanto inevitabile
tendenza alla crisi dovuta alla realizzazione degli obiettivi della crescita. Nella crescita si nasconde la
spirale della crisi. La crisi ha un carattere produttivo nel senso che è il motore della costruzione di nuovi
mercati. “Quando il commercio è diventato esteso e impiega grandi capitali, necessariamente sorgono fra
i mercanti rivalità che diminuiscono i profitti del commercio e nello stesso aumentano i traffici”58. Alla
52
Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 210.
53
Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 216. “Con questo concetto concreto del fondamento economico della
società è fugato, per la prima volta, il mitico homo oeconomicus di marca hobbesiana, l’egoista assoluto, sui cui calcoli
sapienti lo stesso suo inventore non riuscì a giustificarsi il cementarsi della società politica, onde dovette ricorrere
all’espediente estrinseco empirico di un potere assoluto” (Della Volpe, op. cit., p. 313).
54
Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 453.
55
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 520. La libertà dei commerci è un punto fermo anche se “non tutte le tasse sulle
merci straniere vanno considerate dannose o inutili, ma soltanto quelle che sono fondate sulla gelosia” (ivi, p. 518).
56
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 524.
57
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 474. Hume rimarca problemi non solo congiunturali dovuti alla eccessiva
circolazione della moneta (che “può persino essere dannosa per una nazione nel commercio con gli stranieri”). La sua
opinione è che “l’alto prezzo di ogni merce, causato dall’abbondanza di moneta, è uno svantaggio che accompagna un
commercio già avviato e gli impone dei limiti” (ivi, p. 474).
58
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 495.
16
crescita della concorrenza assicurata dal commercio fa riscontro una tendenziale caduta dei saggi del
profitto: “i bassi profitti sono prodotti dall’aumento del commercio e dell’attività”59. Per Hume la
concorrenza stimola la creazione di nuova ricchezza e la competitività incrementa i ritmi della
produzione. Tuttavia proprio la concorrenza genera un calo effettivo dei profitti. E’ l’insanabile
contraddizione del moderno su cui rifletterà la critica dell’economia politica.
La proprietà è il migliore criterio per ripartire i compiti degli individui all’interno della società. Solo sulla
base di considerazioni pratiche è possibile difendere o attaccare un istituto sociale come quello della
proprietà. Ricorrere a finzioni metafisiche come quello di un preteso stato di natura originario significa
soltanto aprire strategie di fuga ingannevoli. Occorre attenersi con scrupolo a una ricognizione di carattere
storico-concreto in grado di cogliere le modulazioni storiche delle forme giuridiche. Il moderno ha nella
crescita il suo tratto specifico. Il libero commercio è la base che il potere politico deve tutelare con forme
adeguate. La politica non può promuovere virtù, essa è funzione di interessi. Libertà e benessere sono
intrecciati. Ciò comporta un ruolo attivo del pubblico e del sistema fiscale. Per Hume esistono tasse
personali arbitrarie che sembrano “punizioni per l’attività economica”60. Queste forme di vessazione
andrebbero evitate, mentre non sono da aborrire le “tasse imposte sui consumi, specialmente quelli di
lusso, che sono le migliori, poiché tali tasse sono le meno sentite dal popolo” 61. Hume ritiene che “le
imposte sui consumi sono più eque e comode di quelle sulla proprietà”62. Le tasse per pagare i titoli del
debito pubblico sono oppressioni per i ceti popolari. I titoli pubblici assicurano potenza a “persone oziose,
che vivono di rendita” e incoraggiano “un tipo di vita inutile e inattiva”63. I possessori di titoli e di rendita
parassitaria si dedicano a “un lusso smidollato” e privo di qualsiasi controllo perché si tratta di “persone
che non hanno legami con lo Stato, che possono godere le loro rendite in qualsiasi posto del globo
decidano di risiedere”64. La rendita può fuggire dallo Stato e dal diritto pubblico e trovare dimora in spazi
giuridici più convenienti. La tensione tra interesse pubblico e tornaconti privati si manifesta entro svariati
ambiti e non sembra essere suscettibile di una soluzione definitiva. Il privato movimenta le vecchie
regolazioni con una dissolutrice forza che procede inesauribile e l'interesse pubblico deve faticare a
rivedere la mappa dei diritti e degli obblighi mantenendola come un cantiere aperto proteso alla continua
ridefinizione di un nesso funzionale tra le forme e gli egoismi particolari. Hume pensa ad un equilibrio
dinamico aperto a diversi sbocchi evolutivi che rende improbabile un ritorno al semplice, alla comunità
che diminuisce la tempesta creatrice delle sfere private.
6. Conclusioni
Nella esclusione della ripartizione comunitaria dei beni Hume sembra uscire dai canoni del probabile e
dai limiti del ragionamento congetturale (che prevede la pensabilità del contrario senza per questo
incorrere in contraddizione) per ripiombare nel campo delle asserzioni metafisiche65. Egli cioè abbandona
il terreno concreto delle esperienze, da cui è impossibile escludere a priori la possibilità del contrario, e si
insedia nell’ambito delle asserzioni assolute che escludono la pensabilità di un ordinamento non
proprietario. Secondo solo Hume in una condizione di strabocchevole abbondanza dei beni sarebbe
superflua la proprietà, la divisione del lavoro e dominerebbe l'ozio creativo. "Non c'è bisogno di lavorare
e di faticare, niente coltivazione dei campi, niente navigazione. Musica, poesia e contemplazione saranno
59
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 495. Questa è anche la radice di una intrinseca tendenza “alla paralisi del
commercio”.
60
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 538.
61
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 537.
62
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 549.
63
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 548.
64
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 551. Per Hume “o la nazione per necessità distrugge il credito pubblico, o il
credito pubblico distruggerà la nazione” (ivi, p. 554).
65
La critica humiana al concetto di ragione svela “il carattere di non-necessità, di irrazionalità, e di sinteticità del
nesso causale” (Della Volpe, op. cit., p. 151).
17
le sole occupazioni"66. Questa condizione comunitaria che esalta le possibilità creatrici dei soggetti
affrancati dagli imperativi funzionali della divisione del lavoro è però del tutto nociva se incautamente
viene assunta come un reale obiettivo politico. Ammonisce Hume con una esibizione di saggezza: "si è
spesso tentato di realizzare la comunità dei beni e solo la esperienza degli inconvenienti che derivano
dall'egoismo umano riaffiorante o mascherato ha fatto sì che i fanatici imprudenti abbiano di nuovo
adottato le idee di giustizia e di una proprietà individuale"67. Gli esperimenti comunistici secondo Hume
sono tentazioni fanatiche portatrici di miseria e quasi contrari alla natura umana che non può espellere le
tendenze egoistiche.
L'assolutezza della proprietà che non è più rinvenibile nella ragione, nei diritti naturali sprofonda nelle
viscere della psicologia. Anche Hume rischia di defluire dall’approccio fenomenologico per riapprovare
nelle secche dell’ontologismo. Lo stesso egoismo, da realtà psicologica legata alla situazione di scarsità
dei beni, è potenziato indebitamente a principio invariante che di per sé opera in ogni contesto e mina
l'integrazione comunitaria. Dalla mera esperienza, dal materiale scaturito dalle osservazioni circoscritte,
non è possibile inferire alcuna impossibilità logica di pensare a una organizzazione sociale che non
assuma più la proprietà come principio organizzativo essenziale. Il salto dalla ricognizione dei fallimenti
empirici del comunitarismo alla proclamazione di una sorta di legalità che esclude in quanto irrazionale il
bene collettivo esplicita il difetto logico di estrapolare dal puro accadimento una assoluta presunzione
circa ciò che riguarderà anche il futuro più lontano. L’inferenza da ciò che ha contraddistinto il passato di
ciò che necessariamente dovrà verificarsi anche nel futuro non è autorizzata proprio dai principi logici di
Hume che sottraggono ciò che è dal puro dominio della ragione che si avvale di preconcetti, di
ideologiche asserzioni inverificabili. Hume non riesce ad affrancarsi da quella deleteria inclinazione a
assolutizzare credenze, ad annullare la eterogeneità di antecedente e conseguente per dare sfogo alle
certezze infondate della ragione metafisica. Il molteplice empirico non può essere sterilizzato nella sua
inesauribile alterità e ridotto a momento della ragione automoventesi quale causa ratio. Hume sembra far
rifluire entro le relazioni di idee ciò che appartiene invece in maniera inequivoca alle relazioni di fatto.
Questo non significa che dall’esperienza storica non sia possibile ricavare delle asserzioni con valore
conoscitivo. Vuol dire che il campo dell’esperienza nella sua eterogeneità non può essere contenuto in un
sapere a priori che espunge una considerazione fenomenistica del reale68.
Hume è consapevole che non può essere estirpata l’abitudine a “inveire contro i tempi moderni” in vista
di un oltre, di un non ancora presente. Ai costruttori di futuro obietta che la loro è soltanto una nostalgia
della comunità antica che dimenticano troppo facilmente che solo nella società moderna è stata superata
la schiavitù personale. Hume ricorda ad “alcuni appassionati estimatori degli antichi e al tempo stesso
zelanti difensori della libertà civile” che la libertà è solo una conquista dei moderni che definisce una
sfera pubblica entro cui molto meno che in qualsiasi altra epoca “le nostre azioni sono sorvegliate e
controllate” 69. Egli avversa “la barbarie degli antichi”, la loro ferocia e il basso grado di commercio. Con
la celebrazione della libertà del commercio e della proprietà e dell’industria, Hume è un filosofo del
moderno di cui esalta le conquiste, le scoperte scientifiche, il disincanto religioso, lo spirito di libertà70.
66
Hume, Ricerca sui principi della morale, in Opere filosofiche, 2, cit. p. 193. Nel regno dell'abbondanza non
nasce proprietà, legge repressiva ma questa ipotesi non ha sviluppo.
67
Hume, Ricerca sui principi della morale, cit., p. 196. Per Hume coloro che invocano una "eguale distribuzione
di proprietà" rientrano tra i temibili "fanatici politici" che diffondono idee impossibili da attuare e pericolose, portatrici
di indigenza (p. 204).
68
Hume ha il merito di affermare la verità dell’empirico, il suo limite risiede però “nella fondazione psicologica
dell’induzione” sorda verso le “basi razionali, deduttive, dell’induzione” (Della Volpe, op. cit., p. 221). La prova della
validità cognitiva del giudizio d’esperienza non può poggiare essa stessa su un’esperienza.
69
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 574.
70
La moderna tolleranza per Hume si configura come una costruzione politica, non religiosa. Tutte le fedi hanno
una inclinazione aggressiva “e se fra i cristiani inglesi e olandesi hanno abbracciato i principi della tolleranza, questa
particolarità è derivata dalla ferma decisione del magistrato civile, in opposizione agli sforzi continui di preti e bigotti”
(Hume, Saggi e trattati, cit., p. 1085).
18
Del moderno ha peraltro una concezione problematica in merito all’effettiva diffusione della libertà civile
e del benessere, e il suo affresco risulta nient’affatto apologetico. Non attribuisce alcun valore a teorie
semplicistiche che confidano “in una miracolosa trasformazione degli uomini” in virtù della quale il
privato vizio si tramuta in pubblica virtù71. Non può consistere in questo argomento grottesco e
miracoloso, per cui il vizio dei privati torna utile allo Stato, la giustificazione del vantaggio del moderno
sulle età antiche.
Un dato di partenza deve essere la consapevolezza che il mercato, l’abilità prevalgono “maggiormente
nella politica moderna che non nell’antica”72. Il mercato riverbera le sue acquisizioni nelle più diverse
ramificazioni dell'esistenza. “La nostra superiore abilità nelle arti meccaniche, la scoperta di nuovi mondi,
per cui il commercio si è così esteso, l’organizzazione delle poste e dei titoli di credito, tutto ciò sembra
estremamente utile allo sviluppo della arti, delle attività e della popolazione”73. Una panoramica
ottimistica, che confida nella esistenza di un qualche occulto meccanismo che stimola un interesse capace
di creare ordine, non è del tutto estraneo a Hume. L'interesse arriva sempre a creare un ordine
soddisfacente. La funzione pubblica si rivela una preziosa invenzione per garantire al meccanismo sociale
una capacità di integrazione e di dinamismo.
Proprio perché non esiste comunità o bene comune, non si dà eterna giustizia ma solo una società intesa
come intreccio di azioni di soggetti con particolari interessi, occorrono regole pubbliche. Il diritto nasce
dalla impossibilità di una autoregolazione comunitaria. Secondo Hume in ogni governo “c’è una continua
lotta intestina, aperta o nascosta, fra autorità e libertà; e nel contrasto nessuna delle due può mai avere la
prevalenza assoluta”74. La mancanza di una spontanea benevolenza capace di proiettarsi al di là della
cornice affettiva ristretta, provoca la necessità di offrire sponde pubbliche o generali a particolari
interessi. Una tensione produttiva tra interesse e regola, libertà e autorità è alla base del sistema sociale
moderno. “In ogni governo si deve necessariamente sacrificare in quantità notevole la libertà; tuttavia
anche l’autorità che disciplina e limita la libertà non può e forse non deve mai, in una costituzione
qualunque, venire esercitata in modo completo e senza controllo” 75. Malgrado il fatto che un qualche
sacrificio di libertà e una significativa economia di consenso siano connotati di qualsiasi potere, secondo
Hume esistono dei vantaggi collettivi associabili alla presenza di governi liberi. In un governo libero
esiste tolleranza religiosa, autonomia soggettiva, produzione artistica e anche una maggiore propensione
al commercio.
Il vantaggio del governo libero su quello dispotico nel favorire la crescita economica soprattutto dopo il
‘600 mostra “ulteriori nuovi mutamenti”76. Il commercio trova eccessivi intralci da forme politiche rigide
come quelle assolutiste. Anche in condizioni di tirannia è possibile incontrare traffici ma certo “vi è
qualcosa di nocivo al commercio che appartiene proprio alla natura del governo assoluto ed è da esso
inseparabile”77. Non è la sicurezza del regime proprietario a mancare nel dispotismo ma non si avverte
uno stimolo alla laboriosità, un incentivo alla libera intrapresa. “Il commercio tende a decadere nei
governi assoluti, non perché in questo si trovi ad essere meno sicuro, ma perché è considerato meno
onorevole”78. La sicurezza del possesso non manca entro gli assolutismi e i loro rigidi meccanismi
decisionali, a inibire le potenzialità del commercio è però una gerarchia dei valori che affida alle
raffinatezze del rango e dell’onore una collocazione centrale negli stili di vita. Contro questi anacronistici
retaggi, Hume esalta il ruolo prometeico del borghese. Il mercante è un funzionario della modernità e
appartiene a “una delle più utili classi di uomini, che serve da agente fra le parti dello Stato che sono
71
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 470.
72
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 620.
73
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 611.
74
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 217.
75
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 217. Limiti e controlli sono indispensabili perché “la monarchia assoluta è la
migliore morte, la vera eutanasia della costituzione inglese” (ivi, p. 232).
76
Hume, Saggi e trattati morali, cit., p. 274. La forma di governo è indifferente poiché “la proprietà privata è
tanto sicura in una monarchia civile d’Europa, quanto lo è in una repubblica” (ivi, p. 277).
77
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 277.
78
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 278.
19
completamente separate e ignorano i reciproci bisogni”79. Quella borghese mercantile è una autentica
classe generale che scavalca i tradizionali particolarismi corporativi e inneggia all’intraprendenza e alla
dinamicità.
Dal momento che lo Stato è un regolatore di interessi, la scienza che consente di comprendere le radici
della politica è ormai divenuta l’economia, non certo la teologia o la metafisica. Si tratta pertanto di
“migliorare il metodo di ragionare su questi argomenti che sono i più importanti fra tutto” 80. Per Hume la
società, nel suo profilo genetico, è pensabile anche senza postulare la vigenza delle forme e degli schemi
giuridici. Questo lo distanzia da Hobbes e da Locke che non conferiscono alcuna autonomia alla società
come sfera del particolare e la riconducono entro le braccia dell’ordinamento politico. La società di
Hume, anche se è pensabile al di fuori della cornice istituzionale dello Stato e del diritto, non indica un
luogo depositario del valore da sottrarre alle interferenze del politico. Anche sotto il profilo funzionale, è
a livello societario che avviene l’integrazione dei soggetti, la politica non occupa una posizione centrale
nella definizione delle strategie di incorporazione dei singoli nel tessuto collettivo. L’inclusione dei
soggetti, più che alla costruzione inclusiva di una cittadinanza politicamente definita, rinvia ai sotterranei
meccanismi dell’interazione sociale che vede attori cooperare e competere in vista dei beni necessari alla
soddisfazione dei bisogni81.
Il problema della proprietà è risolto nella nozione mediana di società che per Hume è appunto qualcosa di
intermedio tra l'abbondanza, che non avrebbe bisogno di Stato e di apparati di repressione, e la scarsità
assoluta, che non consentirebbe alcun elemento di cooperazione tra i soggetti al di là di una naturalistica
contesa per la sopravvivenza. Solo in questa condizione mediana è possibile trovare uno spazio non
assoluto alla proprietà e una funzione non totalizzante alla sfera pubblica. Il compito che una tale
raffigurazione prospetta è una continua lotta per il diritto e per l'innovazione degli interessi. La proprietà
rimanda a una trattazione dinamica. Al di fuori di questo continuo dissidio tra l'interesse e il vecchio
diritto, che si risolve in nuove regole anch'esse destinate a deperire, non esiste alcun altro solido terreno
metafisico su cui ritenere fondabile la proprietà. "Bisogna confessare che tutti i riguardi che si hanno per
il diritto e per la proprietà sembrano completamente privi di fondamento, al pari delle superstizioni più
grossolani e volgari"82. Hume non intende indebolire, con questo pronunciamento disincantato, "il più
sacro rispetto per la proprietà" ma il suo soccorso in favore della ricchezza privata non può che approdare
a un diritto che egli stesso reputa infondato. Non un istinto, non un cosa "naturale"83, non un principio
metafisico, ma una "istituzione" sociale mutevole: questa è la proprietà dopo la decostruzione humana. La
proprietà compare come ormai sguarnita di qualsiasi altra giustificazione che non sia l'interesse, o una
79
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 492. Il mercante che apre un negozio è un inno alla vita, all’azione: “non vi è
alcuna ispirazione o richiesta della mente umana più costante e insaziabile di quella per l’azione e l’occupazione” (ivi,
p. 493). Questo eroe dell’azione che è il mercante diffonde il gusto per il piacere e il godimento ed è “un canale” per la
crescita dei capitali e dell’intraprendenza in ogni angolo del mondo.
80
Hume, Saggi e trattati, cit., p. 497. “I calcoli relativi alla bilancia commerciale sono fondati su fatti molto
incerti e su supposizioni” (ivi, p. 502). Rileva inoltre Hume che “nell’aritmetica delle dogane 2 e 2 non fanno 4, ma
spesso fanno soltanto 1” (ivi, p. 518).
81
Come osserva Costa (op. cit., p. 348) in Hume “la politica cessa di essere il momento dell’unificazione dei
soggetti, della loro incorporazione, della loro inclusione nella città: l’unità è data dal disciplinato intreccio delle passioni
e degli interessi nel gioco dell’interazione sociale”. Dall’ordine politico inteso come vertice si passa all’ordine sociale
visto come luogo di interconnessione basata sugli interessi. “E’ direttamente la società il luogo nel quale i diritti e i
doveri, la disciplina e la cooperazione, il controllo e l’appagamento si rendono possibili” (Costa, op. cit., p. 348). Hume
definisce una ardita “immagine sociocentrica dell’ordine” entro cui gli interessi reali e non leggi di natura presiedono
alla vita di relazione e il governo politico si configura come un sottosistema del sistema sociale complessivo (ivi).
82
Hume, Ricerca sui principi della morale, cit., p. 210.
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"La parola naturale si prende comunemente in tanti sensi ed è di significato così poco compatto che sembra
inutile discutere se la giustizia sia o non sia naturale" (Hume, Ricerca sui principi della morale, cit., p. 324).
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sorta di moralità minore che è il pubblico interesse avvertito come tale in un dato tempo. Come potrà
mantenersi "il sacro" rispetto di un diritto che è nel tempo?
Michele Prospero
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