saggio 4A - Liceo Classico Scientifico XXV Aprile

Argomento
I limiti della ragione illuministica.
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1. L’illuminismo è l’età della ragione. A questo punto dobbiamo accordarci sul significato di “ragione”. Come
Aristotele – che chiama il suo libro di logica Organon, cioè “strumento” – dobbiamo riferirci anche noi al suo
senso più umile, strumentale: la ragione è un insieme di regole per poter convivere. Ed è questo il modo in
cui anche l’illuminismo considera la ragione. Kant, infatti, intraprende una critica della ragione, non la sua
apologia; va alla ricerca dei suoi limiti, non della sua espansione universale. […]
Il più grande illuminista, Kant, scrivendo una critica della ragion pura, è come se dichiarasse: non
esageriamo con la ragione, vediamo che cosa può dire, con correttezza ed esattezza, e che cosa invece non
può dire. Può trattare questioni matematiche e fisiche, ma non problemi metafisici, perché questi sorpassano
i limiti dell’esperienza. I custodi della ragione sono custodi che limitano l’apparato razionale: sanno che
l’apparato razionale è forte solo se conosce i suoi limiti, se è consapevole della sua valenza strumentale e
non, invece, totalizzante. Sotto questo profilo, quindi, la ragione è l’antitotalitarismo per eccellenza, perché
conosce il suo limite. Ed è lo stesso limite che vige nella pratica scientifica. Gli scienziati sono assolutamente
persuasi di non dire cose vere, ma di dire semplicemente cose esatte.
U. Galimberti, I lumi, la ragione e i dittatori, in “la Repubblica”, 25-11-2003
2. Sono un animale debole: non possiedo, nascendo, né forza né conoscenza né istinto; nemmeno riesco a
trascinarmi, come fanno tutti i quadrupedi, fino alla mammella di mia madre; acquisto alcune idee, come
acquisto una certa forza, quando i miei organi cominciano a svilupparsi. Questa forza aumenta in me fino al
momento in cui, non potendo più accrescersi, diminuisce giorno dopo giorno. Questo potere di concepire
idee aumenta nello stesso modo fino al suo limite per poi diminuire insensibilmente per gradi.
Qual è il meccanismo che accresce continuamente le forze delle mie membra fino al termine prescritto? Lo
ignoro: e coloro che hanno trascorso la loro vita a cercare questa causa non ne sanno più di me. Qual è
quell’altro potere che fa entrare immagini nel mio cervello e le conserva nella mia memoria? Coloro che sono
pagati per saperlo l’hanno cercato inutilmente: noi tutti, riguardo ai primi princìpi, siamo nello stesso stato di
ignoranza in cui eravamo dentro la culla.
Quel che è impossibile alla mia natura così debole, così limitata, e destinata a una vita così breve, è
impossibile anche in altri mondi, in altre specie di esseri?
Ci sono intelligenze superiori, padrone di tutte le loro idee, che pensano e sentono ciò che vogliono? Non ne
so nulla: conosco solo la mia debolezza, non ho alcuna nozione della forza degli altri.
[…] Se mi dite che non vi ho insegnato nulla, ricordatevi che mi sono presentato come ignorante.
Voltaire, Il filosofo ignorante, a cura di L. Orlandini, Pagus, Treviso 1993
3. Approvo una cosa e ne disapprovo un’altra. Chiamo una cosa bella e l’altra brutta. Giudico del vero e del
falso. Distinguo tra ragione e follia. E ignoro i principi sui quali mi fondo nel far questo. Come in un teatro, i
contenuti della mia mente compaiono, passano e ripassano, scivolano via e si rimescolano in una varietà
infinita. Quando guardo fuori di me, trovo dispute, opposizioni, ire, calunnie, ignoranza. Quando guardo
dentro di me, trovo solo dubbio e non sapere. Non è neppure vero che io sia in ogni istante cosciente di ciò
che chiamo il mio io. Quella ragione che non riesce a fondare e a giustificare nessuna mia credenza, non
riesce nemmeno a giustificare nessuna mia azione. E tuttavia giudico ed esercito la ragione e non posso
fare a meno di ragionare, così come non posso fare a meno di respirare e di sentire. Nell’uomo c’è un
indubbio desiderio di conoscere le cause. Molti filosofi e molte persone affermano, o meglio declamano, che
la ragione è eterna, invariabile, di origine divina, mentre le passioni sono cieche, incostanti, ingannevoli. Ma
questa della ragione è solo una superiorità presunta. La ragione non può mai contrapporsi alle passioni e
non è mai il motivo di una qualche azione della volontà. Avvolti nelle tenebre, sembra che non abbiamo altra
scelta se non fra una ragione falsa e la mancanza di ogni ragione. Per questo, nell’esercizio della filosofia,
sembra di essere come un marinaio che ha evitato molti scogli, ha scansato a stento il naufragio e tuttavia
ha ancora la temerità di mettersi in mare sulla stessa nave sconquassata e osa ancora proporsi di fare il giro
del mondo.
Queste sono alcune delle risposte, fornite da David Hume, negli anni 1739-1740, alla immaginaria domanda
«Che cosa è la ragione?». Questo tipo di risposta non è solo di Hume. Se si aprono i testi del più speculativo
e battagliero fra i philosophes capita di leggere: «L’intelletto ha i suoi pregiudizi, il senso le sue incertezze, la
memoria i suoi limiti, l’immaginazione le sue oscurità, gli strumenti la loro imperfezione. I fenomeni sono
infiniti, le cause nascoste, le forme transitorie. Contro tanti ostacoli che troviamo in noi stessi e che la natura
ci oppone, disponiamo solo di un’esperienza lenta e di una riflessione limitata. Queste sono le leve mediante
le quali la filosofia si è proposta di sollevare il mondo». Denis Diderot, che è l’autore di questo passo,
credeva che mediante l’opera dell’intelletto si potessero raggiungere solo alcuni staccati frammenti della
totalità, credeva che si potessero accendere dei piccoli lumi all’interno di una grande e oscura foresta.
Sperava che quei lumi si potessero moltiplicare fino a illuminare un terreno sempre più ampio. Lottava per
questo, combattendo, a volte con ferocia, quanti pensavano che ci fossero terreni sottratti, di principio, alla
critica della ragione. Ma sapeva bene, proprio come Hume, che non c’è alcuna facoltà umana capace di
cogliere le essenze, che non si dà alcuna coincidenza tra Ragione e Storia, che il mondo è simile a una
foresta entro la quale si può solo tentare di aprirsi una strada. L’immagine manualistica dell’Illuminismo come
epoca della ragione forte, dell’ottimismo, della povertà speculativa è stata spazzata via da più di mezzo
secolo di studi.
supplemento di “Il
21-01-2001
P. Rossi, Un lumicino nella foresta, in “Domenica”,
Sole 24 ore”,