3. Il “sentimento”
Circa duecentocinquanta anni fa, Adam Smith scrisse: “Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo,
sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune
altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che
il piacere di contemplarla. Di questo genere è la pietà o compassione, l’emozione che proviamo per la
miseria altrui, quando la vediamo, oppure siamo portati a immaginarla in maniera molto vivace.Il
fatto che spesso ci derivi sofferenza dalla sofferenza degli altri è troppo ovvio da richiedere esempi
per essere provato; infatti tale sentimento, come tutte le altre passioni originarie della natura umana,
non è affatto prerogativa del virtuoso o del compassionevole, sebbene forse essi lo provino con più
spiccata sensibilità. Nemmeno il più gran furfante, il più incallito trasgressore delle leggi della
società ne è del tutto privo”1.
Smith si inseriva in una strada già tracciata da Hutcheson e da Hume, anche se va precisato che mentre
per il primo si trattava di fondare sul (presunto) dato empirico una morale valida per tutti gli uomini in
nome della bontà divina, per il secondo la “simpatia” poteva “accompagnarsi con la più completa
indifferenza e anzi con l’ostilità verso le passioni altrui trasmesse dall’io”2.
La “simpatia”, e in generale l’approccio “sentimentale”, sono stati di recente riproposti da Richard
Rorty quale fondamento debole, o come unica strada di salvezza, proprio con riferimento ai diritti
umani. L’Autore muove dalla descrizione degli orrori della guerra bosniaca, per concludere che
“l’affiorare di una cultura dei diritti umani non deve niente a un’accresciuta conoscenza morale, e
tutto all’ascolto di racconti tristi, che toccano i nostri sentimenti”3. Non la ragione, quindi non Kant,
ma il sentimento, quindi Hume (“consigliere migliore” dell’altro4), può costituire il riferimento di una
politica contemporanea a favore dei diritti umani.
Ma c’è un problema: per Hume, infatti, la sola simpatia non basta, dato che “noi simpatizziamo più
con chi ci è vicino che non con chi ci è lontano, con chi conosciamo più che con gli estranei, con i
nostri concittadini più che con gli stranieri”5, mentre per passare a una morale universalmente valida
occorre un procedimento che appare non dissimile da quello di una “razionalizzazione”6, che astragga
dall’interesse e dal sentire immediato.
D’altra parte, è tutto da verificare che certi sentimenti siano davvero diffusi universalmente e che, con
Rousseau, la “pietà”, sia, almeno in origine, un carattere generale dell’essere umano 7. La nostra
esperienza quotidiana conosce, se non occasionalmente, più sentimenti di indifferenza, rispetto al
1
A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. Lecaldano, Rizzoli, Milano, 1995 (1759-1790), 81.
E. Lecaldano, Dal “senso pubblico” in Hutcheson alla “simpatia” in Hume, in AA.VV., Scienza e filosofia scozzese
nell’età di Hume, a cura di A. Cantucci, Il Mulino, Bologna, 1976, 37 ss., 70.
3
R. Rorty, Diritti umani, razionalità e sentimento, in AA.VV., I diritti umani, Oxford Amnesty Lectures, a cura di S.
Shute e S. Hurley, Garzanti, 1994 (1993), 128 ss., 135.
4
Ibidem, 145.
5
D. Hume, Trattato sulla natura umana (1739-1740), in Opere filosofiche, 1, Bari, Laterza, 1987, 614.
6
T. Magri, Contratto e convenzione, Feltrinelli, Milano, 1994, 227 ss.
7
J.-J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini (1754), trad. it., R. Mondolfo,
in J.-J. Rousseau, Opere, Sansoni, Milano, 1993, 31 ss., 55-56.
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malessere altrui, specie se “lontano”, che non di solidarietà nell’ingiustizia o di “pietà” (se non solo
dichiarata, in forma generica e a costo zero). Del resto, è addirittura possibile, come si accennerà, che
l’indifferenza, quante volte è substrato del nostro assenso alle azioni altrui, sia un viatico libertario più
proficuo rispetto alla solidarietà, se questa è intesa anche come fonte di attivismo intrusivo nei
confronti delle preferenze del prossimo.
In ogni caso, il “sentimento” non è fondamento universalizzabile per i diritti altrui, essendo nell’essere
umano carattere debole, eventuale ed eccessivamente instabile.