UTE Anno 2015-16 LA LETTERATURA ITALIANA NELL’OTTOCENTO (secondo anno) 1. Lineamenti storici: il Risorgimento italiano. 2. La letteratura italiana nel periodo romantico: generi e tematiche. 3. La figura di Alessandro Manzoni e la novità dell’opera manzoniana. 4. La corrente realistica e patriottica: Giuseppe Giusti, Carlo Porta, Gioachino Belli. 5. La storiografia politica e letteraria: Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo. 6. L’età del Realismo e la «Scapigliatura». 7. La reazione classicistica di Giosuè Carducci. 8. Il verismo di Giovanni Verga. Verso il decadentismo. LA “RIVOLUZIONE BORGHESE” IN ITALIA: IL RISORGIMENTO 1. Lineamenti storico-sociali Il RISORGIMENTO è senza dubbio uno dei fenomeni più importanti della nostra storia civile, e nel tempo stesso uno dei fatti più interessanti della vita europea del secolo scorso. Esso è veramente una manifestazione di restaurata vita morale, una graduale riconquista di responsabile coscienza del vivere civile da parte delle generose minoranze attive della società italiana (...). I primi moti, i primi atti di ribellione all’ordine della Restaurazione si esprimono in senso costituzionale da parte di quei ceti che, in ognuno dei singoli Stati, tendevano al recupero di quelle posizioni di vantaggio e di civile dignità di cui avevano goduto nel periodo napoleonico; strumenti di tale inquieta insoddisfazione sono anzitutto i residui della struttura militare e burocratica dell’Impero, che la disfatta ha smobilitato e riportato a condizioni di passiva sudditanza. Il metodo delle cospirazioni, delle congiure, dei pronunciamenti rivela ben presto la propria angusta sterilità. Sul diffuso malcontento che percorre alcuni strati della società, lesi nei loro interessi dall’assetto politico fissato a Vienna, si leva ben presto il vivace travaglio della cultura che, collegandosi al generale processo europeo di elaborazione ed espansione delle idee di libertà, giunge, nella particolare situazione nostrana, a rafforzare e diffondere il concetto di “nazione”, e ad accomunare le tendenze pur contrastanti di tutti coloro che sentivano l’esigenza del mutamento, del rinnovamento (...). La concordia discors dei programmi, delle proposte circa i metodi per realizzare la libertà della nazione riflette il rapporto tra le più vive forze della cultura, che hanno una parte determinante soprattutto nello schieramento estremo, democratico e radicale, e i nuclei di interessi costituiti, di natura economica (borghesia) e politica (Piemonte), propensi ad un mutamento moderato, tale cioè da non mettere in gioco l’ordinamento sociale esistente. L’accordo si istituisce quando l’abile azione del Cavour “diplomatizza” la rivoluzione, legando la soluzione del problema nazionale alla favorevole congiuntura internazionale e alle tendenze espansive tradizionali dei Savoia: i democratici scendono allora generosamente in lotta a fianco dei moderati in vista del fine comune, realisticamente riconoscendo l’importanza del contributo militare e diplomatico del Piemonte. (...) Nello sforzo unitario di restaurazione d’una coscienza morale, di educazione ad una volontà collettiva, stava forse l’aspetto più alto e nobile della nostra civiltà del secolo scorso, anche se esso comportava alcunché di ingenuo, di utopistico, di letterario. Così il Risorgimento, particolarmente a coloro che ne vissero le passioni, poté apparire il punto d’arrivo, di maturazione, di tendenze aspirazioni fermenti già presenti in numerose manifestazioni della plurisecolare vicenda della nostra civiltà (...). In ciò indubbiamente, nella tensione morale dei suoi gruppi migliori di sostanziare le proprie aspirazioni delle idealità, delle utopie che avevano costituito la trama vitale della storia del nostro popolo, la società italiana opera un risorgimento. Certo il fervore di natura mistica presenta i suoi lati deboli (...). La rivoluzione borghese in Italia si manifesta dunque anzitutto e precipuamente in campo etico-culturale, con l’adesione agli ideali di libertà che le erano propri nella sua parabola ascendente europea, rielaborati e spesso ricreati su fondamenti della locale tradizione, entro i limiti che la particolare condizione della nostra società comportava. Fatto sta che le minoranze attive operarono con una carica morale positiva, seppero infine forzare la dura crosta che i secoli precedenti avevano accumulato, la corazza di indifferenza e di passiva accettazione, affrontare con l’azione la “grande e spaventosa impresa” prevista dagli illuministi. Il punto d’arrivo sul piano delle pratiche realizzazioni politiche, vale a dire l’unità politicoterritoriale e l’indipendenza dallo straniero, non è ancora il risorgimento come lo avevano sognato i suoi più puri fautori, o lo è solo in parte. Nel momento in cui la nazione italiana si affaccia tra gli altri popoli dotati di autogoverno, le idee di libertà, nel rapido evolversi della vita associata europea sotto lo stimolo di nuove esigenze sociali ed umane, si sono come reincarnate, hanno preso forme diverse e diversi nomi. (...) (da ANTOLOGIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, AAVV Ed. D’ANNA, Messina 1969, vol. III Parte Prima, pag.34-36) 2 2. Romanticismo e Risorgimento Il Romanticismo italiano si identificò con lo spirito liberale e nazionale del nostro Risorgimento, al quale diede alcuni fondamenti ideologici essenziali. Elaborò, infatti, i nuovi concetti di patria, nazione e iniziativa popolare, di diritto alla libertà di tutti i popoli, come fondamento anche di quella individuale e dell’armonico sviluppo della persona, dell’oppressione politica come diminuzione della dignità umana. Soprattutto li fondò su un’idea della storia come costruzione progressiva di civiltà cui erano chiamati a collaborare individui e popoli, e ispirò di conseguenza una nuova fede nell’«Ideale», come fu allora chiamato, e altro non era se non questo complesso di persuasioni unito al culto dei valori spirituali concepiti come motore primo della realtà e della storia. E ispirò, infine, l’ardore della lotta e del sacrificio, la religione della libertà. Santorre di Santarosa, dopo il fallimento dei moti piemontesi, andrà a morire combattendo per la libertà della Grecia, come fece uno dei maggiori poeti inglesi del tempo, il Byron; il Nullo, dopo l’impresa dei Mille, cadrà combattendo per la libertà della Polonia. Il sentimento nazionale non si chiuse, allora, in nazionalismi esclusivistici e aggressivi, ma fu aperto al rispetto di tutte le patrie e di tutte le nazionalità, alla volontà di collaborare a una battaglia comune per la libertà. Si deve pertanto al Romanticismo se il movimento nazionale fu sentito come un problema morale prima ancora che politico. Nasce di qui lo stretto legame fra letteratura e politica che si ebbe nell’Ottocento, a partire dalla disputa classico-romantica. Questa, infatti, propose una letteratura militante, intesa alla trasformazione degli animi, alla fondazione nel popolo d’una coscienza nazionale. Ebbe di qui origine la ricerca d’un contenuto moderno, attuale, popolare, d’una letteratura aderente al vero, cioè alla vita reale e agli intimi affetti. Si affermò così, come un modello a cui conformarsi, la figura dello scrittore d’opposizione, non più celebratore del potere costituito; immerso nella storia, nella sua storia, quella che era chiamato a costruire con gli altri, nella posizione di suscitatore di energie morali, e non inteso alla ricerca d’una perfezione statica, in una sorta di eternità fuori del tempo. Egli esce, pertanto, dal chiuso delle accademie e delle corti, diventa un educatore alla libertà e un combattente, con gli scritti e con l’azione, sentendosi interprete e guida dell’anima nazionale: colui che l’aiuta a venire alla luce. Era quest’ultima un’impresa ancor più difficile di quella da svolgere nel campo politico e militare. Se il Regno d’Italia stabilito da Napoleone aveva determinato una corrente d’interessi che coinvolgevano buona parte, se non tutta, l’Italia, era infatti necessario che a questa si accompagnasse una coscienza risoluta del diritto del Paese alla libertà, e cioè a una propria organizzazione statale. Ma l’ideale unitario si affermò soltanto a poco a poco, dopo il fallimento dei moti del 1821 e del 1831; dopo, soprattutto che le sconfitte della prima guerra d’indipendenza, nel ’48-’49, e quelle delle insurrezioni di Roma e di Venezia fecero comprendere la necessità d’uno sforzo comune e d’una soluzione unitaria. Gli scrittori furono costantemente presenti in questo processo, e si può dire che la prima, grande rivoluzione romantica in Italia sia stata la posizione d’un patto nuovo fra essi e il pubblico; il tentativo di creare una letteratura nazionale e popolare, nella quale i lettori dovessero sentirsi protagonisti, in cui vedessero rispecchiati e portati a più matura coscienza le proprie tradizioni e aspirazioni. Il Risorgimento rimase tuttavia una rivoluzione condotta essenzialmente dalla classe borghese, anche se questa, nelle rivolte di Milano, Brescia, Venezia, riuscì a coagulare intorno a sé una vasta partecipazione popolare. Estranee restarono le masse contadine, cui solo pochi fra i pensatori politici del tempo seppero volgere lo sguardo con un’adeguata comprensione dei loro problemi e della loro importanza sul piano nazionale. Fu questo un limite del movimento, che peserà sulla storia futura del Paese. Ma la fondazione d’uno stato moderno, aperto, in condizioni di parità, al colloquio con l’Europa, consentì all’Italia un ingresso effettivo nella storia. Sul piano dell’organizzazione della cultura va riscontrato il costituirsi degli scrittori come gruppo di intellettuali strettamente correlato ai politici e agli uomini d’azione che guidano il riscatto nazionale; si ha, cioè, un’organizzazione democratica, costantemente commisurata con l’azione, della produzione letteraria, sottratta ai condizionamenti dei governi autoritari: una letteratura, insomma, impegnata. (da LETTERATURA ITALIANA – 3 L’Ottocento, M. PAZZAGLIA Ed. ZANICHELLI, Bologna 1993, pag. 397-398) 3 LA LETTERATURA NELL’ETÀ RISORGIMENTALE 3. Nuovi scrittori e nuove tematiche letterarie (...) I nostri scrittori dell’età romantica incarnano un tipo di letterato moralmente nuovo, immune da spirito cortigiano e servile, libero e altamente consapevole della sua missione di verità, sdegnoso di qualsiasi frattura fra ciò che si sente e ciò che si scrive, tra l’animo e la parola. (...) Questa produzione, mentre si rinnova profondamente nei contenuti, accostandosi alla vita, si libera in gran parte della vecchia tendenza alla idealizzazione, ripudia le regole classicistiche, i generi letterari, la mitologia; (...) elabora nuove forme espressive, nuovi “generi”, impiega una lingua più sciolta, più libera e viva, più vicina al parlato; ha l’occhio ai maggiori romantici d’oltralpe, da BYRON a SCHILLER, da GOETHE a BÜRGER, da HUGO a SCOTT, senza tuttavia trascurare la lezione più valida del classicismo, vale a dire la chiarezza, la concretezza dell’espressione, il sicuro dominio della fantasia e della passione da parte della ragione, l’abitudine di definire esattamente e lucidamente i contorni delle immagini. I temi più diffusi, ma non i soli, e nella poesia e nella prosa, sono quelli patriottici. Essi sono tratti ora dalla storia presente (...); ora da quei momenti, da quegli episodi, da quei personaggi della storia remota, che paiono aver relazione con la situazione e gli ideali presenti, come le epiche e fortunate lotte delle antiche città in difesa della propria libertà (...). Universale, dunque, il nostro primo romanticismo; e in quanto concreto, in quanto cioè sorgente di una situazione reale e materiale degli ideali e delle aspirazioni di ogni cuore, veramente popolare.(...) 4. Il romanzo storico Il tema patriottico, accanto a motivi fantastici e sentimentali, è, se non prevalente, almeno assai più evidente nel genere tipico del nostro romanticismo, nel romanzo storico. In questo genere vediamo chiaramente come i nostri scrittori tendano a calare i loro ideali nel mondo della storia, ad incarnarli in precisi fatti storici, per vivificarli e renderli operanti nel presente. I romanzi storici di questi anni seguono in gran parte, ma non tutti, la falsariga manzoniana. Essi tuttavia rimangono notevolmente lontani dai Promessi Sposi (...). Ora mentre una parte della produzione letteraria di questi anni, soprattutto quella in prosa, riconosce il suo modello nel MANZONI (...) una parte considerevole riconosce il proprio maestro nel MAZZINI: s’ispira alla sua fede democratica, alla sua religione della patria e dell’umanità, al suo altissimo ideale di rigenerazione dell’umanità per opera dell’umanità medesima, alle sue idee sull’arte come lirico incitamento all’azione (...). Gli scrittori di romanzi, che direttamente si richiamano al Manzoni sono il GROSSI (MARCO VISCONTI), il CARCANO, il D’AZEGLIO (ETTORE FIERAMOSCA), il CANTÙ e il TOMMASEO. All’indirizzo ideologico ed espressivo del Mazzini si richiama invece il GUERRAZZI. (...) 5. Gli scrittori di memorie Un’età così ricca di rivolgimenti, che si contraddistingue per la larga partecipazione alle vicende politiche da parte degli intellettuali, non fa meraviglia che ci abbia dato tanti libri di “memorie”, ossia di autobiografie (...) testimonianza di un nuovo tipo di uomo, che non conosce frattura tra le idee e l’agire pratico, ma, sostenuto da un alto ideale, prende deciso il suo posto di combattimento nella vita e sa affrontare fino in fondo, con fermezza e coraggio, la lotta; attestano l’unità profonda dell’uomo col letterato, l’avviamento ad una prosa schietta e viva, realistica e popolare. [n.d.r., ricordiamo solo alcuni nomi molto rappresentativi: PELLICO, LE MIE PRIGIONI SETTEMBRINI, RICORDANZE - NIEVO, LE CONFESSIONI DI UN ITALIANO] (da ANTOLOGIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, AAVV Ed. D’ANNA, Messina 1969, vol. III Parte Prima, pag.713-721) 4 6. La corrente realistica L’esigenza realistica, la tendenza cioè alla rappresentazione oggettiva della realtà, che ha nel Manzoni il suo grande interprete, affiora, più o meno apertamente in tutta la produzione letteraria minore, e s’alterna e si fonde spesso con quella lirica. Schiettamente realistica, immune da abbandoni sentimentali, nuova nel linguaggio, nelle forme, negli spiriti e negli argomenti, è la poesia del GIUSTI, del PORTA e del BELLI. GIUSEPPE GIUSTI (1809-1850) - Di piacevole lettura, soprattutto per la festevole arguzia, l’opera del Giusti lascia nel complesso l’impressione più di garbata e raffinata letteratura che di poesia, più di scherzo che di satira; diverte più che commuovere, riposa più che far pensare e riflettere. Il Giusti non fu uomo di alti ideali, di profondi affetti e di grandi passioni; fu quello che si dice un borghese di buon senso -e toscano, dobbiamo aggiungere- incapace di entusiasmo, pieno di cautele e di riserve, che (...) quasi sempre risolve la sua amarezza nella satira, nella rappresentazione oggettiva di scene e figure reali, accessibili all’uomo medio, al popolo, nelle quali con estro vivace e brioso, bolla, mette in ridicolo la bassezza morale, l’ignoranza, la cupidigia, i vizi di un popolo avvilito da una servitù secolare; i tirannelli locali, gli austriaci oppressori, il clero, i funzionari prepotenti e servili, gli sbirri. (...) Nel complesso però le poesie del Giusti si sente che non nascono da passione profonda, da una coscienza morale sdegnata e offesa, da un uomo animato da fiducia. Proprio per questo esse mancano di calore, di unità, di sobrietà; si disperdono in una serie di osservazioni acute ed argute, si risolvono nella creazione di macchiette che, anziché toccare il cuore, divertono la mente. CARLO PORTA (1775-1821) - Il romanticismo (...) nutrì grande ammirazione per la poesia dialettale, la considerò all’altezza di quella in lingua italiana, proprio perché gli parve strumento di una più diretta, aderente e viva espressione dell’anima popolare. (...) Ma trattando del Porta bisogna tenere presente che egli nasce in quell’ambiente milanese settecentesco che già contava una fiorente tradizione di poesia dialettale (...). ”Il punto di vista da cui il Porta si pone ad osservare la società che lo circonda è quello di un uomo di formazione illuministica, di calda, schietta, appassionata umanità, che attraverso l’esperienza delle vicende storiche succedutesi in quegli anni tempestosi è venuto svolgendo le sue idee originarie, aprendosi ai nuovi ideali risorgimentali. Di qui la ricchezza della sua poesia, la passione morale, il vigore polemico, la pietà, che la sostengono e le danno unità. Inizia con la rappresentazione di persone e vicende comiche, passa alla caricatura e alla satira delle figure più retrive e goffe della nobiltà, del basso clero, ignorante e meschino, del servilismo diffuso, e giunge alla rappresentazione commossa, vibrante di umana pietà e comprensione degli umili e degli offesi. Per la prima volta nei versi del Porta questi umili, nei loro casi grotteschi, recano la coscienza del proprio avvilimento e perciò riescono profondamente umani e suscitano nel lettore un moto di pietà e di sdegno contro i responsabili di tale loro stato di degradazione”.(Caretti) GIOACHINO BELLI (1791-1863) - Il Belli, scrivendo i suoi duemila e più sonetti, non si propose intenti didattici o morali, ma unicamente di lasciare un monumento della plebe romana dei suoi tempi (...).e ci ha consegnato una fortissima rappresentazione (...) dei costumi, delle credenze, delle superstizioni, della fede, dei vizi, delle virtù del popolo della Roma papale e, insieme, della vita e della decadenza delle classi “superiori”, osservate dallo stesso popolo che è protagonista dell’opera. (...) Per l’ambiente torpido, conservatore in cui visse, il poeta romano rimase fermo all’ideale settecentesco delle riforme (...) Di qui il carattere della poesia del Commedione, così diversa da quella del Porta; il limite del realismo del Belli, il suo procedere più dall’istinto che dalla fermezza e dalla novità delle idee. “L’oggettività del Belli (...) non approda mai, almeno nell’intenzione cosciente dello scrittore, a un messaggio di vita e di progresso, e ha bisogno, per rivelarsi, di rinchiudersi ad ogni momento in un’esigenza di rappresentazione pura, distaccata, obbediente soltanto a certe regole di linguaggio, di precisione figurativa, di impassibile documento.” (Sapegno) (op. cit., pag.727-732) 5 7. La storiografia politica e letteraria In Italia il fervore di studi storici è in diretta relazione col moto risorgimentale. Ovunque sorgono, in questo periodo, deputazioni, società commissioni di storia patria; si fondano riviste, si raccolgono e si interpretano documenti e materiali da servire ai futuri scrittori della storia d’Italia. I nuovi storiografi risorgimentali, più o meno sensibili alla lezione del VICO e del CUOCO, accolgono l’idea della storia come svolgimento e progresso, ma la subordinano ai loro ideali politici e patriottici; e nelle vicende del passato, a cominciare soprattutto dal medioevo, ricercano la linea di svolgimento e di progresso della civiltà nazionale, la radice dei loro ideali presenti di libertà e di indipendenza. (...) Gli storici liberal-cattolici e neo-guelfi, dal MANZONI al CANTÙ, al BALBO, al GIOBERTI, al CAPPONI, muovono dall’idea comune che il cattolicesimo fu elemento essenziale, positivo, progressivo della nazionalità e della civiltà italiana; mentre gli storici laici o neo-ghibellini, da NICCOLINI a PISACANE e FERRARI informano i loro scritti all’idea che la Chiesa fu causa delle discordie italiane, dell’asservimento dell’Italia allo straniero; che bisogna abolire il potere temporale, riformare l’insegnamento pubblico e privato fondandolo su principi nuovi, coraggiosamente liberali e democratici, diversi perciò da quelli affermati dalla tradizione cattolica. (...) CARLO CATTANEO ha una sua originale e assai rilevante posizione in seno alla cultura lombarda e italiana dell’ ’800, oltre che come studioso di problemi economici, politici, sociali, scientifici e linguistici, anche come storico e critico letterario. (...) Egli appare animato da un vivissimo senso del concreto, dalla volontà di applicarsi alle più diverse scienze in quanto queste possono offrire applicazioni utili alla civiltà; mosso, nelle sue ricerche e nei suoi studi storici, dalla necessità di ricercare la soluzione dei problemi dell’uomo presente nelle leggi generali dell’evoluzione dell’umanità. Senonché egli ripudia ogni schema astratto di filosofia della storia e, riallacciandosi all’insegnamento degli illuministi lombardi, propone di applicare alle scienze morali, nello studio della formazione della coscienza dell’uomo civile presente, il metodo sperimentale. (...) La nostra storiografia e la nostra critica letteraria, muovendo dall’idea che ogni popolo che fa parte delle nazioni civili ha un suo “genio”, una sua “missione” da compiere nel quadro della universale civiltà, esaltano quelle opere nelle quali, a loro avviso, si riflettono i valori storicamente positivi, splende il “genio” del popolo italiano (...); e accogliendo l’idea che la poesia di ciascun popolo è schietta e originale finché si svolge per una forza spontanea, per un impulso che viene dal popolo, e che essa decade quando accoglie passivamente l’influsso di altre civiltà e di altre letterature, esaltano soprattutto la poesia medioevale (...): ammirano particolarmente Dante in quanto poeta civile, cantore e profondo interprete della storia e delle passioni della sua età. (...) MAZZINI e GIOBERTI, avversari in politica, ebbero in comune molte idee intorno alla letteratura: entrambi considerarono le lettere come strumento validissimo per l’educazione morale ed intellettuale dei popoli; entrambi ebbero in comune l’idea che per fare un popolo libero, fosse necessario soprattutto educarlo, che alla letteratura e all’arte toccasse il compito di promuovere la ricostruzione morale e civile, l’unità spirituale degli italiani. (op. cit., pag.733-739) La scuola democratica si accentrò intorno alla figura di MAZZINI, il maggior interprete dell’anima romantica del nostro Risorgimento. Uomo di vaste letture e di viva sensibilità letteraria (come, del resto, il Gioberti), fu, tra gli intellettuali di quest’età, il più vicino allo spirito del Romanticismo europeo. Egli fece della patria e della libertà una religione laica e immanentistica, tale da risolvere in sé tutta la vita della coscienza. Il suo slancio di libertà e giovinezza, di ardore di sacrificio e di fede negli ideali di verità, libertà e giustizia che si attuano nel grande poema della storia umana, divennero un mito, una persuasione spirituale suscitatrice non solo d’azioni eroiche, ma anche di poesia, come si vede studiando l’opera di molti scrittori risorgimentali, anche non del tutto concordi con lui ideologicamente, in una tradizione che va da Goffredo Mameli a Ippolito Nievo a Carducci, e comprende anche Giambattista Niccolini e Francesco Domenico Guerrazzi. (da LETTERATURA ITALIANA – 3 L’Ottocento, M. PAZZAGLIA Ed. ZANICHELLI, Bologna 1993, pag. 399) 6 ALESSANDRO MANZONI 8. La novità dell’opera manzoniana (...) già nel 1806, ALESSANDRO MANZONI (1785-1873) avvertiva l’esigenza di una letteratura moralmente utile, educativa, ispirata al vero, moderna, popolare, e si poneva insieme il problema della lingua da impiegare per una letteratura siffatta (...) E trovò nelle dottrine dei romantici lombardi i fondamenti alla elaborazione di quella sua originale poetica, dalla quale dovevano prendere l’avvio non soltanto i Promessi Sposi, ma la più alta produzione narrativa dell’Ottocento. La poetica del Manzoni “esclude ogni forma di abbandono al sentimentale, di compiacimento idilliaco, di divertimento fantastico; essa bandisce e allontana da sé per sempre ogni concetto della poesia come lirica, nel senso tradizionale petrarchesco di questa parola; tende cioè a mettere in primo piano l’oggettività della materia poetica e a collocare in ombra, fin quasi ad annullarlo, l’intervento soggettivo dello scrittore (...)” (Sapegno) A questa poetica si riallaccia il problema della lingua, che il Manzoni già pone nella lettera al Fauriel del 1806, quando rileva la necessità di colmare la distanza tra la lingua scritta e quella parlata. Ora nelle liriche e nelle tragedie il poeta ancora utilizza, in parte, il linguaggio tradizionale; ma quando mette mano al romanzo, vale a dire a un genere nuovo, col proposito ben chiaro di fare opera realistica e popolare, non trovando alcun sostegno nella precedente tradizione narrativa, crea una lingua del tutto nuova, la più vicina possibile a quella parlata. Trovandosi ad agire in un’epoca di crisi e in una società in profondo rinnovamento, delle cui ombre e luci si preoccupò di indagare nel profondo tutte le ‘ragioni’, il romanzo gli si venne sempre più configurando come un’opera insieme di giudizio etico, di indagine psicologica e di fantasia narrativa, e si sentì chiamato ad avviare una forma d’arte interamente nuova e precisamente quella del romanzo di idee, sotto specie di romanzo storico, che ha avuto poi tanta fortuna nello svolgimento della moderna narrativa europea. (...) Il Manzoni creava così in Italia, si può dire dal nulla, il romanzo moderno, e impostava pragmaticamente la questione della lingua come problema stilistico dell’adeguamento della forma espressiva alla natura intima dell’opera d’arte, facendo confluire nei Promessi Sposi tutte le sue esperienze di storico, di moralista e di scrittore e armonizzando tra loro i corrispettivi piani stilistici (quello della narrazione storica, quello dell’oratoria morale, quello della distensione o del raccoglimento lirico, quello dell’annotazione intellettuale o del commento ironico, e soprattutto quello arduo del ‘parlato’ dimesso e familiare) in un organismo sintatticamente compatto e organico che trova, appunto nella magistrale variatio dei diversi registri, la sua dinamica e suggestivamente mutevole continuità di autentica prosa di romanzo. (...) Il Manzoni ha superato così i limiti dell’Illuminismo e ha conferito una precisa e originale fisionomia al romanticismo italiano; ha inventato il personaggio moderno (...); ha sottratto alla storia il carattere di semplice cornice scenografica e ne ha rappresentato invece la tragica connessione con il destino degli uomini, grandi e piccoli; (...) ha insistito rigorosamente sul tema della responsabilità morale di ogni individuo, aprendo nuovi orizzonti alla più sottile, penetrante e spregiudicata analisi psicologica; ha dimostrato la legittimità artistica dei personaggi ‘negativi’, anticipando i grandi romanzi realistici (...)”.(Caretti) (da ANTOLOGIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, AAVV Ed. D’ANNA, Messina 1969, vol. III Parte Prima, pag.355-361) I PROMESSI SPOSI 9. Dalle tragedie al romanzo Le forme oggettive delle liriche e dei cori, il gusto della meditazione storica, il realismo, rivolto ad esprimere la serietà della vita quotidiana, l’indagine psicologica acuta e penetrante: tutti questi caratteri salienti della poesia manzoniana tendevano a un ritmo di racconto più ampio, a un linguaggio più immediatamente comunicativo. Per questo, si può dire che tutta l’opera del Manzoni trova nel romanzo la sua conclusione. 7 Ma i Promessi Sposi sono anche l’espressione definitiva della concezione manzoniana della vita, di quella tensione spirituale che aveva caratterizzato fin dall’inizio la sua attività culturale e poetica e la sua stessa testimonianza cristiana. La verità ritrovata e proclamata negli Inni sacri, si era dolorosamente scontrata, nelle tragedie, con un sentimento desolato della storia, con la scoperta del male e del suo continuo trionfo nei rapporti fra gli uomini; nel romanzo assistiamo, invece, a un rasserenamento che nasce da un’approfondita visione umana e religiosa, e che, senza indulgere mai a un facile ottimismo, approda a un’attesa più fiduciosa del trionfo finale del bene anche sulla terra. Rispetto alle tragedie, il romanzo rappresenta una svolta decisa della poetica manzoniana. Non vi è più, in esso, un’invenzione rigorosamente condizionata da eventi storici precisi, ma una vicenda del tutto immaginaria, quella di Renzo e Lucia, ancorata tuttavia al reale, immersa nei «costumi storici» di un’epoca ben definita, colta nella concretezza del suo spirito e della sua civiltà. I romanzi storici erano allora di moda, e celeberrimi erano quelli di Walter Scott; ma mentre in essi la storia era un pretesto di narrazione avventurosa e pittoresca, il Manzoni intendeva di «applicarsi a considerare nella realtà il modo di agire degli uomini in ciò che esso ha di opposto allo spirito romanzesco», di risalire, cioè, dal vero storico al vero morale. Voleva, insomma, cogliere, attraverso una visione attenta e circostanziata del suo agire, la psicologia dell’uomo e la lotta continua che si svolge nella sua coscienza fra il bene e il male. Il romanzo storico diveniva così per lui un romanzo d’idee, una meditazione sulla condizione umana nel mondo. Anche in questo ambito, però, esso rivela un’ispirazione nuova rispetto alle tragedie. Là il popolo appare nello sfondo, visto come una massa amorfa e sofferente, destinata non ad agire, ma a subire la storia, «fatta» dai potenti, anche se ad essi il poeta indicava, come unico mezzo di salvezza e di redenzione da un mondo di sangue e di violenze, l’essere collocati dalla «provvida sventura» fra gli oppressi. La novità dei Promessi Sposi è, invece, la scoperta che anche i volghi spregiati collaborano alla storia, e in modo, sostanzialmente, più importante dei «grandi», perché con la loro umile fede e la loro mansuetudine, e con la loro sete di giustizia, sono meglio disposti ad accogliere il messaggio cristiano, e quindi capaci di attuare la vera civiltà, che, per il Manzoni, coincide con l’affermazione integrale dello spirito del Vangelo. 10. Personaggi e situazioni del romanzo I Promessi Sposi possono, in questo senso, essere definiti l’epopea degli umili e della loro vita. I due protagonisti del romanzo sono, infatti, due semplici popolani, Renzo e Lucia, che del popolo sembrano riassumere le doti migliori. In Renzo ritroviamo la schiettezza, la cordialità espansiva, l’onestà laboriosa, la generosità dell’anima popolare, e soprattutto l’anelito di giustizia, tanto più sentito in quanto egli appartiene a una classe da sempre oppressa e soggetta all’arbitrio dei potenti, che hanno fatto la legge per sé, per mantenere intatto un regime di prepotenza e di privilegio. In Lucia vediamo invece la mansuetudine, la nativa purezza, la fede spontanea e profonda nella Provvidenza. È la donna destinata ad essere sposa e madre, che vive in quest’attesa la sua limpida giovinezza, che sa amare senza perdere il suo pudore nativo, la sua intatta innocenza. Sono due «eroi» tutt’altro che romanzeschi, che non si obliano in una vicenda d’amore e di passione, ma sentono la vita come un impegno e un dovere, di cui dovranno rendere conto a Dio, e vedono nell’amore e nel matrimonio la grande avventura della loro esistenza, o meglio, il suo significato, e ad essi s’accostano con un senso di responsabilità morale. Il loro ideale è l’«allegrezza raccolta e tranquilla» di cui parla fra Cristoforo accomiatandosi da loro, e coincide con un impegno autenticamente cristiano, con la serenità di una vita semplice e laboriosa, illuminata dalla promessa di una felicità più vera nei cieli. Attorno a loro sta tutta una folla di figure minori di popolani, guardati dal poeta con una simpatia che potrebbe sembrare parzialità, soprattutto se paragonata alla continua ironia polemica con cui considera il mondo, ad essi opposto, dei potenti. In realtà, se è vero che il Manzoni ritiene più facili a trovarsi fra il popolo le virtù cristiane, sa benissimo che esse, e soprattutto la più alta, cioè l’umiltà, non sono un dato di fatto fatalmente legato a una classe sociale, ma scelta e conquista individuale. Per quel che riguarda i potenti, la condanna del Manzoni è recisa. Sono coloro (da Don Rodrigo, al dottor Azzeccagarbugli, a Ferrer, al governatore di Milano) che vivono nella superbia e nella prepotenza, chiusi nel loro orgoglio di casta e in un assurdo senso dell’onore, che sarebbe 8 meglio chiamare albagia puntigliosa; che violano la legge cristiana di fraternità e d’amore, in quanto opprimono altri uomini, considerandoli una razza inferiore, e non come dei fini, ma come un semplice mezzo per appagare il loro capriccio (è l’atteggiamento di don Rodrigo verso Lucia) o la loro sete di lusso e di ricchezza. E tuttavia, anch’essi possono compiere la loro scelta, comprendere che «non c’è giusta superiorità dell’uomo sugli uomini se non in loro servigio», come fanno il Cardinale, l’Innominato dopo la conversione e, soprattutto, fra Cristoforo, che è il simbolo di un cristianesimo attivo e militante, rivolto ad attuare i propri ideali nel mondo senza violenza, ma con una fede austera e sicura. Tutti questi personaggi sono concretamente calati nella realtà e nei costumi del loro tempo, ricostruito dallo scrittore in base a profondi studi storici. È stato anzi detto che il Seicento è il vero protagonista del romanzo; ed è formula che può essere accolta, purché, però, s’intenda che questo secolo diventa il simbolo della vita umana di sempre. È un Seicento, infatti, guardato con animo di moralista più che di storico; età di sopruso e di violenza, di puntiglio e di vuoto culto dell’esteriorità, di sussiego e di pedanteria, nella classe dirigente. Su questo sfondo si svolgono i grandi eventi storici, la peste, la fame e la guerra, i flagelli da cui gli uomini, nelle Rogazioni della liturgia cattolica, chiedono a Dio di essere liberati, e nei quali si assomma il travaglio d’intere generazioni. Ma se gli ultimi due appaiono frutto del mal governo e di una legge anticristiana stabilita dagli uomini nel mondo, la peste, oltre a essere un flagello reale, diviene il simbolo della sofferenza del vivere e dell’errore e insieme un mezzo attraverso il quale Dio prova l’uomo, una sventura che può diventare una grande occasione della Grazia, un dolore nel quale l’uomo può purificarsi e redimersi. 11. Realismo poetico e cristiano Il dramma dell’uomo nel mondo è costantemente illuminato, nel romanzo, da una luce cristiana. Dietro la vicenda spesso dolorosa e torbida, sempre, comunque, difficile, del vivere, aleggia costante la presenza di Dio che le dà un significato, l’illumina, la consola, la dischiude alla promessa dell’eternità. È un Dio che atterra il potente e aiuta l’oppresso, «che affanna e che consola», che, nell’intricata e sanguinosa storia degli uomini, svolge, per vie arcane, un suo piano provvidenziale di bene e di redenzione. Per questo il Manzoni sente il valore altissimo della vita, la sua dignità, e, potremmo dire, la sua santità: in ogni momento di essa vede, infatti, svolgersi una vicenda che si prolunga nell’eternità, mentre la fede nell’intervento costante della Provvidenza nel mondo gli da la certezza di un possibile, anche se travagliato trionfo finale del bene e della giustizia anche in terra. (...) Il realismo cristiano del Manzoni non approda a prospettive rivoluzionarie in senso politico e sociale. La rivendicazione della dignità degli umili non comporta quella d’una nuova iniziativa del popolo, del suo riscatto dalla miseria e dall’oppressione, della sua acquisizione alla cultura moderna e all’iniziativa risorgimentale (...).Ma l’insegnamento del Manzoni non è, tuttavia, quello ricavato dai moderati che ne decretarono il trionfo, riducendolo a modeste prospettive conservatrici. Quello dei Promessi Sposi è, infatti, un messaggio difficile e problematico, non un’edulcorata propaganda cattolica. Mentre il poeta si china sull’animo dei suoi personaggi per ritrovarvi la voce di Dio, scopre l’uomo, la sua psicologia tormentata e contraddittoria, mentre promette la pace e la felicità nei cieli, si protende nell’attesa della giustizia da conquistare nel mondo, mentre propone alla vita una giustificazione ultraterrena, avverte che questa comincia qui, in terra, nell’affermazione della libertà, dell’eguaglianza, del rispetto dell’uomo (di ogni uomo) e della sua vita, anche della più umile. Nel suo scavo sofferto e profondo dell’interiorità, il Manzoni rivela quanto siano difficili la conquista della verità e la serietà della professione morale, continuamente contraddette dall’ipocrisia, dal conformismo, dall’insincerità verso noi stessi, che sono poi aspetti dell’egoismo utilitaristico sia nel campo individuale sia in quello sociale. Questa strenua ricerca della verità dell’uomo nella vita quotidiana e nella storia porta il Manzoni a demistificare la prospettiva umanistico-eroica della nostra cultura e delle nostre: lettere, sì che egli può essere considerato col Leopardi il fondatore della letteratura italiana moderna. (da LETTERATURA ITALIANA – 3 L’Ottocento, M. PAZZAGLIA Ed. ZANICHELLI, Bologna 1993, pag. 239-241) 9 L’ETÀ DEL REALISMO 12. Il panorama letterario italiano del secondo Ottocento Sarebbe difficile unificare in una prospettiva culturale comune la produzione letteraria dopo l'Unità, caratterizzata com'è da un'irrequietezza strettamente connessa alle difficoltà ideologiche, politiche e sociali che si sono fatte rilevare finora. Va inoltre ricordato che essa è rivolta a un numero di lettori pur sempre limitato, che crescerà solo lentamente, col diminuire dell'analfabetismo. Anche per questa ragione non esprime tutta la realtà sociale di quegli anni. I diseredati, ad esempio, sono quasi completamente privi di una loro voce. (...) Si ebbe una produzione narrativa attenta alle questioni sociali che rimase, per la modesta consistenza culturale, vicina alla letteratura di consumo e legata a un generico populismo sentimentale, di cui è prova evidente il «socialismo» presente nel libro Cuore del De Amicis. (...) La letteratura «alta» dell'epoca è legata alla cultura borghese e presenta, a volte nello stesso autore, intrecci ideologici contraddittori. Negli stessi anni, ad esempio fra '80 e '90, coesistono il vecchio idealismo d'ascendenza mazziniana, la tematica tardo-romantica, entrata, oltre che nella letteratura, nel costume, il Positivismo e le prime avvisaglie decadentistiche, come si può vedere esaminando la produzione carducciana di quegli anni o considerando, per fare un esempio, la pubblicazione coeva, nel 1889, di testi come il secondo volume delle Odi barbare del Carducci, Mastro Don Gesualdo del Verga, II piacere del D'Annunzio, Malombra del Fogazzaro. Si possono approssimativamente indicare queste date, per le singole correnti: gli anni fra il '60 e la fine degli anni Settanta per la Scapigliatura; gli anni Ottanta come momento culminante del Verismo, cui succede un più risoluto affermarsi delle tendenze decadentistiche. Ma la realtà presenta un intreccio complesso e coevo tra i vari movimenti, e di questi con altre esperienze (...). Un fenomeno notevole e tipicamente italiano di questi anni fu il nuovo Classicismo, rappresentato soprattutto dal Carducci. Esso va collegato a una tradizione non mai spenta nell’Ottocento, in quanto, fin dalla prima polemica classico-romantica, fu visto come un carattere specificatamente nazionale della nostra cultura, in opposizione al Romanticismo, considerato come movimento d’importazione. Per tutto il secolo c’era stata inoltre una linea politico-letteraria di derivazione alfieriana e foscoliana, e quindi classicheggiante, legata alla Sinistra risorgimentale. Il nuovo classicismo viene ora incontro alla volontà dei moderati di non cambiare il mondo, cioè di esorcizzare quanto vi può essere di rivoluzionario nel pensiero e nella sensibilità del tempo (soprattutto sul piano sociale), chiudendolo in forme composte e assumendolo in una prospettiva di conservatorismo illuminato, aperto cautamente al progresso, pronto a fare alcune concessioni al popolo, ma non a lasciargli una reale iniziativa politica. È, insomma, un classicismo borghese; e la borghesia, in effetti, decretò il grande successo del Carducci, considerato «vate» della nuova Italia, mentre reagiva con diffidenza o indifferenza a Verga e al Verismo. (op. cit., pag.496-497) 13. La «Scapigliatura» Il nome «Scapigliatura» definisce una corrente letteraria, fiorita tra il '60 e l'80. Fu composta da un gruppo di scrittori lombardi (Emilio Praga, Arrigo Boito, Carlo Pisani Dossi) che ebbero a Milano il loro luogo d’incontro, furono legati di amicizia e da somiglianza di vita e di costume. Non riuscirono a elaborare una nuova poetica ben definita, ma vollero essere scrittori di avanguardia, ribelli, nell’arte e nella vita, alla letteratura ufficiale, cioè al manzonismo e al suo spirito cristiano, alla retorica patriottica, a ogni conformismo letterario o di costume. (...) Gli Scapigliati di continuo oscillarono fra uno smarrimento conseguente al tramonto dei valori risorgimentali, e l’incapacità di liberarsi pienamente del passato; fra un’ansia di romantici ideali e il sentimento scorato della loro ineluttabile fine, fra la realtà gretta e meschina e il desiderio del sogno, dell’evasione. Fu un contrasto esasperatamente romantico, che essi vissero con abbandono totale, portato a volte fino al ripudio della vita. Dal nostro primo Romanticismo li distingue, però, soprattutto il loro individualismo anarchico e antiborghese. (...) Anticiparono due correnti posteriori nettamente contrastanti: il Decadentismo e il Verismo. (op. cit., pag.532-533) 10 GIOSUÈ CARDUCCI 14. La reazione classicistica carducciana A confronto dei classicisti contemporanei, al pari dei quali si propose di reagire al fiacco sentimentalismo degli ultimi romantici, GIOSUÈ CARDUCCI (1835-1907) rivela una spiccata e originale personalità sostenuta da ben più profonde, serie, vive esigenze di rinnovamento. Il suo classicismo non si esaurisce in una retorica, formale fedeltà alla tradizione espressiva nazionale, in una formalistica opposizione alla libertà espressiva proclamata dai romantici, ma si traduce soprattutto in una concezione morale derivata dai classici: concezione energica, attiva, antimistica che per diversi aspetti s’accorda con quella illuministica e rifiuta ogni forma di stanca sentimentalità, di morbosa sensibilità, di vaga religiosità ed esalta invece l’umana operosità, l’energia interiore, la schiettezza del sentire. Alla luce di questa concezione polemizza contro la poesia degli ultimi romantici, nella quale vede la testimonianza di una intima fiacchezza morale (...). Contro di essa esalta l’ideale di una poesia aliena ad ogni sentimentalismo, ispirata a forti e schietti affetti, alla vita colta nei suoi valori fondamentali, intesa a educare, a instaurare una nuova coscienza civile e morale, ad alimentare il culto della libertà e della patria: quella poesia che aveva trovato le sue ultime grandi voci nell’Alfieri, nel Foscolo, nel Leopardi delle canzoni civili. Appare evidente quanto il fine, l’intento morale, l’ufficio civile che il Carducci assegna alla poesia, discendano direttamente dalla poetica del nostro primo romanticismo. Ma egli crede fermamente che il suo ideale di poesia civile, di una umanità schietta, energica, combattiva, fiduciosa nel proprio operare, possa realizzarsi soltanto attraverso la disciplina, le forme sobrie, scultorie, pregnanti, limpide ed elette dei classici. (...) Ma è pur vero che l’ideale classicistico dell’uomo e della vita, di cui il Carducci si fa assertore e banditore, tradisce al fondo qualcosa di angusto e libresco, di programmatico e di polemico e spesso limita, comprime o rintuzza o falsa o svia quella ricchezza e schiettezza e varietà di affetti che pur il poeta sentiva agitarsi e lievitare al fondo dell’animo, le note più profonde e moderne, quelle che attestano la sua più intima adesione all’eredità romantica: il contrasto tra l’ideale e il reale, il sentimento della vita come incessante sforzo di inseguire sogni continuamente sfuggenti; il senso della morte come dissoluzione, l’eterno, implacabile fluire della vita, il cadere di ogni umana cosa. Di qui il tono retorico, l’impressione che qualcosa di voluto e di forzato (...) che una sorta di diaframma letterario offuschi molte sue poesie. E d’altra parte l’impressione che la poesia genuina, autentica, sorga proprio quando il poeta riesce a liberarsi dal suo assunto programmatico, a ritrovare il punto esatto di coincidenza tra il suo sentire, la sua educazione letteraria e la sua concezione classicistica dell’uomo e della vita. Sono questi i momenti di schietta e impetuosa e sincera partecipazione alle lotte civili, i momenti di appassionata polemica nei quali il poeta libera il suo temperamento attivo, forte, fiducioso nell’operare umano; e ancora i momenti nei quali il poeta si ripiega su di sé, quasi in una pausa meditativa, e avverte la propria solitudine, il senso della vanità della propria battaglia, e sente il fatale fluire della vita, la forze distruttrice del tempo cui contrasta la solennità immobile della natura, il contrasto tra la vita come luce ed energia perenne e la morte come tenebra, silenzio, annullamento. (da ANTOLOGIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, AAVV Ed. D’ANNA, Messina 1969, vol. III Parte Seconda, pag.48-50) 15. Le idee e la poetica del Carducci Dal Positivismo il Carducci riprese l’interpretazione generale del mondo dominato da leggi fisiche e l’idea che ragione e scienza dovevano servire all’uomo per comprendere la natura, distruggere le false credenze soprannaturali e guidarlo alla conquista del progresso, della libertà e della democrazia. (...). A questo naturalismo si legano un sentimento romantico della storia come un vasto poema, epico e drammatico, in cui s’affermano nei secoli, di là dalla caducità dei singoli, i supremi valori spirituali: libertà, giustizia, patria e fraternità umana. Il Carducci sentì che una misteriosa forza provvidenziale muove la vicenda degli uomini, realizzando, pur fra le loro cadute e aberrazioni, il giusto e il bene; e mazzinianamente la vide incarnata nel popolo, nelle nazioni libere e 11 democratiche. Di qui nasce il suo sentimento costruttivo della vita, che non ignora il dolore e il nulla della morte, ma non s’accascia dinanzi alla loro ombra inesplicabile; cerca anzi, nel costruire in fraterna solidarietà con gli uomini il grande edificio della civiltà, la giustificazione dell’esistenza. Questo gli parve l’insegnamento più alto della classicità, che egli sentì come la tradizione genuina del nostro popolo. Roma rappresentò per lui la sintesi della civiltà greca e latina, intesa alla esaltazione della libera attività dell’uomo nel mondo e per il mondo, la città che aveva unificato l’Italia in nazione e aveva donato al mondo una superiore civiltà. Il suo spirito aveva permeato le età più gloriose della nostra storia (il Comune, il Rinascimento) e doveva ora ispirare l’Italia risorta. (...) La critica recente ha individuato il nucleo centrale della poesia carducciana in un nostalgico amore della vita nella sua luminosa pienezza, intimamente unito a un sentimento della morte come totale e fisica privazione della vita; in un contrasto fra sole e ombra. La compresenza dei due motivi, vissuti dal poeta non nella forma di una meditazione filosofica, ma come intuizione primordiale del contrasto dell’esistenza, rende più energica l’aspirazione agli ideali più alti. (...) 16. Il «magistero» carducciano Nonostante il classicismo, la vivace polemica antiromantica, l’accoglimento di più d’un motivo della cultura positivistica, il Carducci restò legato alla prospettiva romantico-idealistica della storia come divenire dell’«Idea», ossia come affermazione sicura e progressiva dei grandi ideali che costituiscono la civiltà. Non approdò a un pensiero originale, ma tentò una sintesi delle persuasioni dominanti, magari con qualche semplificazione e conciliazione eccessiva, che resero, d’altra parte, il suo messaggio più facilmente accessibile a larghi strati della borghesia. In effetti egli fu il maestro riconosciuto di alcune generazioni di Italiani, e il suo influsso ideologico perdurò, nel Novecento, fino al periodo fra le due guerre; cosa che non sarebbe stata possibile senza un’involuzione, o, per lo meno, un arresto della crescita socio-politica del Paese. (...) Gli va certamente attribuito il merito, in un’età di tendenziale disimpegno ideologico quale fu quella che seguì immediatamente il compiersi dell’Unità (...) di avere vigorosamente richiamato gli ideali di libertà, giustizia, patria, umanità, che erano poi l’unica cultura dello stato unitario, senza indulgere agli incipienti eccessi nazionalistici. La sua esaltazione della romanità venne ben presto stravolta, a cominciare dal D’Annunzio, in senso imperialistico (...). L’idea d’un «primato» italiano era invece, come s’è già detto, largamente utopistica, dato che l’Italia di allora aveva, evidentemente, assai più da imparare che da insegnare. Nuocciono, a questa parte del messaggio carducciano, la sua genericità, la sua fondamentale astrattezza, l’assenza completa d’ogni vera problematica sociale, in anni, per giunta, di rivoluzione industriale in Italia e in Europa, quando l’avvenire civile del nuovo stato italiano si giocava proprio sulla sua capacità di inserire o meno nella vita nazionale attiva le grandi masse che erano state escluse dal Risorgimento, come lo erano, da secoli, dalla vita nazionale effettiva. Quello del Carducci è un atto di culto rivolto a ideali che gli venivano dal passato, e in questo senso egli può essere considerato una figura conclusiva del Risorgimento, che ne preannuncia, nel contempo, l’involuzione, propria d’ogni cultura o movimento che, abbia esaurito la sua funzione storica. Il suo limite, che egli ebbe in comune, del resto, con tutta la Sinistra storica, dalla quale maturarono in quegli anni le soluzioni autoritaristiche d’un Crispi, sta nel non avere rimeditato quegli ideali, la loro valenza attuale effettiva, nel non averli confrontati con la realtà. (...) Quest’immagine del movimento risorgimentale, ignara del socialismo d’un Pisacane e delle motivazioni sociali del brigantaggio meridionale, fu costruita da una destra liberale e monarchica e propagandata nelle scuole fino alla fine della seconda guerra mondiale, conquistando larghi strati nella piccola e media borghesia. Carducci divenne, nell’interpretazione «estetica» di Benedetto Croce, l’ultimo figlio di Omero, un poeta «sano» da contrapporre alla «malattia» attestata dalla letteratura del Novecento: che era poi l’espressione del grave disagio nato dalla rivoluzione industriale e dai conseguenti conflitti di classe, dall’imperialismo e dalle sue guerre, dai reali contrasti sociali e ideologici della storia europea dell’ultimo secolo. Per tutte queste ragioni egli resta di qua dalla civiltà letteraria del Novecento. Anche “la restaurazione classicistica operata da lui nel linguaggio poetico, soprattutto nelle Odi barbare, è lontana dalla sperimentazione linguistica che verrà operata dai nuovi poeti, a partire dal Pascoli. (da LETTERATURA ITALIANA – 3 L’Ottocento, M. PAZZAGLIA Ed. ZANICHELLI, Bologna 1993, pag. 578-581) 12 GIOVANNI VERGA 17. Dai primi romanzi alla poetica verista Prima di aderire a una poetica veristica, il Verga ripercorre il cammino della narrativa ottocentesca. Mentre nelle prime prove ricalca i modi del romanzo storico, con echi frequenti dello Scott, del Byron, di Dumas padre, in Una peccatrice, Storia d’una capinera, Tigre reale, Eva, Eros, appare legato alla sensibilità tardo-romantica e scapigliata. La materia di questi romanzi è passionale, l’ambiente è alto-borghese, individualistico e raffinato, che nell’amore cerca una romantica evasione dalla piattezza del vivere quotidiano, un mondo di sensazioni nuove e intense, anche se, alla fine, piomba nell’angoscia della passione delusa. Ma già in questi romanzi, attraverso un fondo torbido di romanticismo autobiografico, comincia a intravedersi un’ispirazione più originale. (...). Alla Sicilia ritorna più decisamente il Verga con la novella Nedda (1874), una tappa importante nella conquista d’un mondo poetico originale. È una storia di miseria e di sventura, ambientata fra il bracciantato siciliano (...), scavata in una realtà sociale precisa, come precisa è la psicologia del personaggio centrale; determinata dalla miseria che induce a condizioni di vita subumane, ma, al tempo stesso, capace di affetti intensi e profondi; ed è, soprattutto, una vicenda «vera», legata alla vitalità elementare, ai dolori «veri» e alle gioie «vere» della gente umile, al dramma della lotta per la vita. La novità del racconto sta nel tentativo di un’arte oggettiva, che segua il meccanismo reale della vicenda e dei sentimenti dei protagonisti, senza modifiche imposte dalla volontà, o meglio, dalla cultura dell’autore. Vi si aggiunge la pietà contenuta ma profonda, per il mondo dei diseredati, sfruttati e oppressi da sempre, tragicamente rassegnati al loro destino di sofferenza. (...) Un nuovo passo, e per molti aspetti decisivo, sarà costituito dalle esperienze delle prime novelle accolte, poi, in Vita dei campi: Fantasticheria e, soprattutto, Rosso Malpelo. Con esse il Verga si allineava con la corrente più viva del romanzo europeo contemporaneo, accogliendo la lezione del Naturalismo come metodo d’indagine della realtà e componendola con le istanze regionalistiche e veristiche che egli veniva svolgendo in quegli anni sia attraverso il dialogo col Capuana e il De Roberto, sia attraverso una propria maturazione spirituale, culturale, letteraria incentrata sulla ricerca appassionata del vero, sul piano artistico e umano. (...) La prefazione ai Malavoglia rivela il progetto verghiano d’una serie di romanzi intesi a un’interpretazione progressiva e totale della vita umana nella società. I due romanzi maggiori dovevano essere il semplice inizio del ciclo dei vinti (...). 18. Un verismo problematico Il pessimismo nei confronti dell’idea positivistica del progresso isola il Verga nel panorama europeo, conferendo alla sua ricerca e ai suoi esiti un carattere patetico inconfondibile. Il progresso «fatale» della specie si costruisce, a suo avviso, sull’infelicità della persona, e questa coopera, sì, al progresso, ma inconsciamente. All’osservatore resta il senso d’una pena incessante del vivere, che si perde poi, finalmente, nel nulla. Si può parlare, in proposito, d’una concezione materialistica della realtà, nel senso che l’indagine condotta ai vari livelli sociali rivela che l’economicità, e l’egoismo che ne consegue, sono i motori reali della storia, sia del singolo sia dell’umanità. L’«accorgersi che non si sta bene e che si potrebbe star meglio», la «vaga bramosia dell’ignoto» che si traduce nella ricerca della ricchezza come potere, secondo le conclusioni dei romanzi del ciclo compiuti, o in forme d’ambizione più elevata, come avrebbero dovuto dimostrare i romanzi del ciclo che poi non vennero scritti, si traduce però in uno scacco, di fronte all’intervento avverso della società, o, conclusivamente, della morte. E siccome non c’è, nel Verga, l’idea d’una trascendenza in senso religioso, e neppure quella d’un divenire storico progressivo - romantico o positivistico che fosse - la spinta esistenziale rimane chiusa in un cerchio di affermazioni individuali, in un sostanziale egoismo che è la condanna e, insieme, la pena dell’individuo: del «vinto». Anche i sentimenti più generosi, gli affetti domestici, la santità della casa, l’amore restano, al più, come un conforto, un mezzo di sopravvivenza, non conducono a una reale evoluzione. 13 Il pessimismo verghiano raggela miti, speranze, vicende dei protagonisti in una fissità desolata; non concede altro eroismo che la resistenza alla vita, l’attaccamento coraggioso allo scoglio dove la fortuna li ha fatti cadere. Resta, negli umili, il conforto del focolare domestico, della «religione» della famiglia, della casa, del lavoro, che appare tuttavia sempre più problematica con l’elevarsi della scala sociale, sempre più sommersa dalla legge universale di avidità e di trionfo sull’altro, come si può vedere nel passaggio da I Malavoglia a Mastro-don Gesualdo, da Vita dei campi a Novelle rusticane. Nasce di qui la perplessità di alcuni critici di fronte a questo Verga ora «progressivo» ora «regressivo». Progressivo per la capacità demistificatrice del suo sguardo lucido e rigorosamente etico sulla realtà della società del suo tempo - già scossa, peraltro, da vivi fermenti sociali e socialisti -, e regressivo nella sua visione disincantata e pessimistica, conservatrice, quando non reazionaria, come appare da certe scelte politiche. Ora (...) l’ambiguità verghiana rivela un sentimento della realtà conflittuale, combattuto, al quale l’artista reagisce chiedendo all’arte un mezzo di penetrazione sicura nel groviglio della realtà, una più autentica forma conoscitiva. (...) Testimone d’una società da lui concepita senza speranza di mutamento, il Verga affida al suo naturalismo e verismo (o come si vogliano chiamare) un compito di testimonianza che l’arte deve - egli pensa - rendere fedelmente, assumendo tutta la sua responsabilità conoscitiva. Il suo verismo assume, cioè, il metodo positivo e l’istanza scientifica dell’impersonalità che diventano un mezzo di comprensione della realtà, nella sua complessità di sfumature e di contraddizioni; la premessa necessaria per rappresentarla nel romanzo coi colori del vero. 19. Lo stile verghiano A questo punto, la conquista d’uno stile di rappresentazione adeguato all’oggetto, e cioè alla nuova conoscenza del «vero», in cui sta la profonda motivazione dell’arte verghiana, diventa conquista non tanto della parola, ma della cosa. Lo sforzo dello scrittore è rivolto a una ricostruzione del mondo nelle e con le parole con cui i suoi personaggi lo conoscono e lo vivono. È questa la grande novità delle novelle e dei romanzi che chiameremo «siciliani» (...). Nelle narrazioni siciliane il Verga ritrova, infatti, una forma di stile che si potrebbe definire «corale», nel senso che riflette la parlata dialettale, non nel lessico, ma nella sintassi; e questa non consiste soltanto nell’ordine dato al periodare, ma in quello conferito alla narrazione: al modo, cioè, in cui la successione degli eventi, gli oggetti, la vita si presentano alla mente d’una voce-narrante popolare, del tutto calata in una forma di racconto vissuto che tenta di definire cose e fatti in piena congruenza con la mentalità dei protagonisti. Questo è il più importante artificio del Verga, che gli consente la desiderata impersonalità e, al tempo stesso, definisce più incisivamente e drammaticamente il personaggio, sia pure in una dimensione generalmente popolare, che costituisce la sua cultura, il suo modo di esistere, di presentarsi nella vita; anche se poi questo non implica una minore responsabilità nelle sue scelte. Il Verga ha voluto mettere il lettore borghese davanti al personaggio contadino colto nella sua mentalità, nella sua verità, che nasce da un modo di percepire le cose e di contenersi diverso da quello di colui che sa leggere e scrivere, del borghese che vive nella città, della persona colta. Egli scrive, per esempio, descrivendo una tempesta sul mare: «all’improvviso il vento si mise a fischiare al pari della macchina della ferrovia quando esce dal buco del monte»; portando il lettore a vedere le cose come le vede il personaggio, col suo primitivo stupore davanti alla macchina ignota che esce dalla galleria nella roccia. Nella letteratura «alta» dell’epoca c’è un certo protagonismo del treno, che in Carducci, per esempio, è simbolo del progresso, secondo una compiaciuta analogia intellettuale, lontana peraltro dalla psicologia e quindi dalla coscienza linguistica dei Malavoglia. Attraverso questo artificio compositivo della coralità o del narratore implicito (...) lo scrittore è giunto alla bramata oggettività o impersonalità e, soprattutto, è riuscito a dare voce al silenzio disperato d’una moltitudine tenuta fuori della storia, l’ha fatta entrare nella cultura e nella coscienza della nazione italiana, affermando, nel contempo, la sua fede nella moralità, nella bellezza e nella forza del vero. (op. cit., pag.654-658) 14 NOTE BIOGRAFICHE ESSENZIALI ALESSANDRO MANZONI (1785-1873) 1785 – nasce a Milano ALESSANDRO MANZONI, figlio del conte Pietro e di Giulia Beccaria; riceve la prima educazione nei collegi dei padri somaschi, poi dei barnabiti. 1795 – Giulia si separa dal marito e va a vivere a Parigi con il conte Carlo Imbonati. 1801/05 – a Milano, il giovane Alessandro ha contatti con esuli politici, accosta le idee illuministe, conosce Monti e Foscolo, abbraccia il radicalismo giacobino e anticlericale. 1805 – raggiunge a Parigi la madre, dopo la morte di Imbonati, mai conosciuto di persona, ma celebrato in una famosa poesia. Recupera il rapporto con Giulia e il suo affetto materno. 1808 – sposa la ginevrina Enrichetta Blondel, calvinista, si interessa alle tematiche religiose. 1810 – si “converte” al cattolicesimo e torna a Milano, dove vivrà quasi ininterrottamente fino alla morte, nel palazzo di Via Morone, oggi sede del museo manzoniano. 1812/27 – è il periodo più fecondo, in cui scrive odi, tragedie e la prima stesura del romanzo. 1833/39 – è colpito da numerosi lutti familiari (perde la moglie, 4 figlie, la madre). 1840 – dopo una accuratissima revisione linguistica, esce l’edizione definitiva de I Promessi Sposi. Nello stesso anno si risposa con Teresa Borri Stampa, donna di forte personalità e grande cultura. 1861 – è nominato senatore a vita del nuovo Regno d’Italia, onorato come un padre della Patria. 1873 – il 22 maggio muore per i postumi di un trauma cranico. Verdi dedicherà alla sua memoria la Messa di Requiem. È sepolto nel Famedio del cimitero Monumentale di Milano. GIOSUĖ CARDUCCI (1835-1907) 1835 – nasce a Valdicastello (Lucca) GIOSUÈ CARDUCCI, figlio del medico carbonaro Michele e di Ildegonda Celli. Trascorre l’infanzia in Maremma, prima a Bolgheri poi a Castagneto. 1849 – la famiglia si trasferisce a Firenze, dove Giosuè frequenta le scuole degli scolopi, gettando le basi della sua vastissima cultura umanistica, classica e moderna. Detesta il Manzoni. 1856 – si laurea alla Scuola Normale di Pisa e inizia la carriera di docente. 1857/58 – in seguito al suicidio del fratello Dante e alla morte del padre, deve provvedere ai bisogni della famiglia; intanto sposa Elvira Menicucci, dalla quale avrà quattro figli. 1860 – viene nominato docente di eloquenza all’università di Bologna, dove vivrà per il resto della sua esistenza, svolgendo un’imponente attività di erudito e critico letterario. 1868 – scrive la raccolta Levia gravia, poesie dominate da un forte impegno civile. Seguiranno importanti raccolte: Giambi ed epodi (1882), di forte polemica politica, le Rime nuove (1887), in cui si celebra la natura e il paesaggio, le Odi barbare (1893), in cui esalta la storia d’Italia. 1890 – è nominato senatore del Regno e sostiene la politica del Crispi. 1904 – abbandona l’insegnamento per motivi di salute, lasciando la cattedra a Giovanni Pascoli. 1906 – riceve il premio Nobel per la letteratura. 1907 – muore il 16 febbraio, di cirrosi epatica; è sepolto nella Certosa di Bologna. GIOVANNI VERGA (1840-1922) 1840 – nasce a Catania GIOVANNI VERGA, in una famiglia di nobili origini e di tradizioni liberali, che lo indirizza agli studi di legge, che il giovane però interrompe per dedicarsi alla letteratura. 1869 – lascia la Sicilia per recarsi a Firenze, che diverrà nel 1867 la capitale d’Italia. 1872 – si trasferisce a Milano, dove viene in contatto con artisti della Scapigliatura lombarda e frequenta il salotto letterario della contessa Maffei. 1874 – esce la sua prima novella “verista”, Nedda, nella quale compare uno stile del tutto nuovo. 1881 – nel romanzo I malavoglia si chiariscono e consolidano i cardini della sua visione letteraria. 1894 – il successo di Cavalleria rusticana inaugura la stagione del verismo teatrale 1889 – pubblica Mastro Don Gesualdo, il primo grande romanzo italiano dell’alienazione borghese. 1915 – negli ultimi anni conduce vita isolata a Catania, ma allo scoppio della guerra, prende una decisa posizione a fianco degli interventisti. 1920 – riceve pubbliche onoranze per i suoi 80 anni e il re lo nomina senatore del Regno. 1922 – il 27 gennaio muore per emorragia cerebrale. Riposa nel cimitero Monumentale di Catania. 15 ALESSANDRO MANZONI da ADELCHI (1822) ATTO QUINTO, scena ottava, Morte di Adelchi DESIDERIO ADELCHI (...) DESIDERIO ADELCHI DESIDERIO ADELCHI - Orrendo m’è il vederti così. - Molti sul campo cadder così per la mia mano. - O fronte balda e serena! Oh man gagliarda! Oh ciglio che spiravi il terror! - Cessa i lamenti, cessa o padre, per Dio! Non era questo il tempo di morir? Ma tu, che preso vivrai, vissuto nella reggia, ascolta. Gran segreto è la vita, e nol comprende che l’ora estrema. Ti fu tolto un regno: deh! Nol pianger: mel credi. Allor che a questa ora tu stesso appresserai, giocondi si schiereranno al tuo pensier dinanzi gli anni in cui re non sarai stato, in cui né una lagrima pur notata in cielo fia contro te, né il nome tuo saravvi con l’imprecar de’ tribolati asceso. Godi che re non sei, godi che chiusa all’oprar t’è ogni via: loco a gentile, ad innocente opra non v’è: non resta che far torto, o patirlo. Una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi dritto (...) Reggere iniqui dolce non è; e tu l’hai provato: e fosse; non dee finir così? Questo felice, cui la mia morte fa più fermo il soglio, cui tutto arride, tutto plaude e serve, questo è un uom che morrà. - Ma ch’io ti perdo, figlio, di ciò chi mi consola? - Il Dio che di tutto consola. da ADELCHI ATTO QUARTO, Coro, Morte di Ermengarda Sparsa le trecce morbide sull’affannoso petto, lenta le palme, e rorida di morte il bianco aspetto, giace la pia, col tremolo sguardo cercando il ciel. (...) Sgombra, o gentil, dall’ansia mente i terrestri ardori; leva all’Eterno un candido pensier d’offerta, e muori: fuor della vita è il termine del lungo tuo martir. (...) Ahi! nelle insonni tenebre, pei claustri solitari, tra il canto delle vergini, ai supplicanti altari, sempre al pensier tornavano gl’irrevocati dì; quando da un poggio aereo, il biondo crin gemmata, vedea nel pian discorrere la caccia affacendata, e sulle sciolte redini chino il chiomato sir; (...) Ma come il sol che reduce l’erta infocata ascende, e con la vampa assidua l’immobil aura incende, risorti appena i gracili steli riarde al suol, Te dalla rea progenie degli oppressor discesa, cui fu prodezza il numero, cui fu ragion l’offesa e dritto il sangue, e gloria il non aver pietà, ratto così dal tenue obblio torna immortale l’amor sopito, e l’anima impaurita assale e le sviate immagini richiama al noto duol. Muori; e la faccia esanime si ricomponga in pace; com’era allor che improvida d’un avvenir fallace, lievi pensier virginei solo pingea. Così quando ancor cara, improvida d’un avvenir mal fido, ebbra spirò le vivide aure del Franco lido, e tra le nuore Saliche invidiata uscì: Sgombra, o gentil, dall’ansia mente i terrestri ardori; leva all’Eterno un candido pensier d’offerta, e muori: (...) dalle squarciate nuvole si svolge il sol cadente, e, dietro il monte, imporpora il trepido occidente: al pio colono augurio di più sereno dì. te collocò la provida sventura in fra gli oppressi: muori compianta e placida: scendi a dormir con essi: alle incolpate ceneri nessuno insulterà. 16 ODE - IL CINQUE MAGGIO (luglio 1821) 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 Ei fu. Siccome immobile, Dato il mortal sospiro, Stette la spoglia immemore, Orba di tanto spiro, Così percossa, attonita La terra al nunzio sta, Muta pensando all’ultima Ora dell’uom fatale; Né sa quando una simile Orma di piè mortale La sua cruenta polvere A calpestar verrà. Lui folgorante in solio Vide il mio genio, e tacque; Quando con vece assidua Cadde, risorse, e giacque, Di mille voci al sonito Mista la sua non ha: Vergin di servo encomio E di codardo oltraggio, Sorge or commosso al subito Sparir di tanto raggio; E scioglie all’urna un cantico Che forse non morrà. Dall’Alpi alle Piramidi, Dal Manzanarre al Reno, Di quel securo il fulmine Tenea dietro al baleno; Scoppiò da Scilla al Tanai, Dall’uno all’altro mar. Fu vera gloria? Ai posteri L’ardua sentenza; nui Chiniam la fronte al Massimo Fattor, che volle in lui Del creator suo spirito Più vasta orma stampar. La procellosa e trepida Gioia d’un gran disegno, L’ansia d’un cor che indocile Serve, pensando al regno; E il giunge, e tiene un premio Ch’era follia sperar; Tutto ei provò: la gloria Maggior dopo il periglio, La fuga e la vittoria, La reggia e il tristo esiglio: Due volte nella polvere, Due volte sull’altar. Ei si nomò: due secoli, L’un contro l’altro armati, Sommessi a lui si volsero, Come aspettando il fato; Ei fe’ silenzio, ed arbitro S’assise in mezzo a lor. 55 60 65 70 75 80 85 90 95 100 105 E sparve, e i dì nell’ozio Chiuse in sì breve sponda, Segno d’immensa invidia E di pietà profonda, D’inestinguibil odio E d’indomato amor. Come sul capo al naufrago L’onda s’avvolve e pesa, L’onda su cui del misero, Alta pur dianzi e tesa, Scorrea la vista a scernere Prode remote invan; Tal su quell’alma il cumulo Delle memorie scese! Oh quante volte ai posteri Narrar sé stesso imprese, E sull’eterne pagine Cadde la stanca man! Oh! quante volte, al tacito Morir d’un giorno inerte, Chinati i rai fulminei, Le braccia al sen conserte, Stette, e dei dì che furono L’assalse il sovvenir! E ripensò le mobili Tende, e i percossi valli, E il lampo de’ manipoli, E l’onda dei cavalli, E il concitato imperio, E il celere ubbidir. Ahi! forse a tanto strazio Cadde lo spirto anelo, E disperò; ma valida Venne una man dal cielo, E in più spirabil aere Pietosa il trasportò; E l’avviò, pei floridi Sentier della speranza, Ai campi eterni, al premio Che i desideri avanza, Dov’è silenzio e tenebre La gloria che passò. Bella immortal! benefica Fede ai trionfi avvezza! Scrivi ancor questo, allegrati; Ché più superba altezza Al disonor del Golgota Giammai non si chinò. Tu dalle stanche ceneri Sperdi ogni ria parola: Il Dio che atterra e suscita, Che affanna e che consola, Sulla deserta coltrice Accanto a lui posò. 17 da I PROMESSI SPOSI CAPITOLO I Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d’oggi, e che s’incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia. Dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti (...). Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato d’una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si trovan nel manoscritto, né a questo luogo né altrove. Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l’altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra, e, messa poi questa nell’altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all’intorno, li fissava alla parte d’un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. (...). Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L’abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva distinguer dell’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d’ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi. Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica. 18 (...) (digressione sul fatto che i “bravi” non sono perseguibili, nonostante le leggi) Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l’aspettato era lui. Perché, al suo apparire, coloro s’eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt’e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s’era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l’altro s’era staccato dal muro; e tutt’e due gli s’avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s’avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l’indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all’indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell’occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un’occhiata, al di sopra del muricciolo, ne’ campi: nessuno; un’altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti di quell’incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d’abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi. - Signor curato, - disse un di que’ due, piantandogli gli occhi in faccia. - Cosa comanda? - rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo. - Lei ha intenzione, - proseguì l’altro, con l’atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull’intraprendere una ribalderia, - lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella! - Cioè... - rispose, con voce tremolante, don Abbondio: - cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s’anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune. - Or bene, - gli disse il bravo, all’orecchio, ma in tono solenne di comando, - questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai. - Ma, signori miei, - replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, - ma, signori miei, si degnino di mettersi ne’ miei panni. Se la cosa dipendesse da me,... vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca... - Orsù, - interruppe il bravo, - se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c’intende. - Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli... - Ma, - interruppe questa volta l’altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, - ma il matrimonio non si farà, o... - e qui una buona bestemmia, - o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e... - un’altra bestemmia. - Zitto, zitto, - riprese il primo oratore: - il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l’illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente. Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d’un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand’inchino, e disse: - se mi sapessero suggerire... - Oh! suggerire a lei che sa di latino! - interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. - A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all’illustrissimo signor don Rodrigo? - Il mio rispetto... - Si spieghi meglio! 19 -... Disposto... disposto sempre all’ubbidienza -. E, proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio. - Benissimo, e buona notte, messere, - disse l’un d’essi, in atto di partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. - Signori... - cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada dond’era lui venuto, e s’allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s’intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de’ tempi in cui gli era toccato di vivere. (...) (digressione sulle “gride” e sulla giustizia del tempo) Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. (...) Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull’animo del poveretto, quello che s’è raccontato. Lo spavento di que’ visacci e di quelle parolacce, la minaccia d’un signore noto per non minacciare invano, un sistema di quieto vivere, ch’era costato tant’anni di studio e di pazienza, sconcertato in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don Abbondio. “ Se Renzo si potesse mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà delle ragioni; e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli... ih! E poi, e poi, perduto dietro a quella Lucia, innamorato come... Ragazzacci, che, per non saper che fare, s’innamorano, voglion maritarsi, e non pensano ad altro; non si fanno carico de’ travagli in che mettono un povero galantuomo. Oh povero me! vedete se quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi sulla mia strada, e prenderla con me! Che c’entro io? Son io che voglio maritarmi? (...) Giunto, tra il tumulto di questi pensieri, alla porta di casa sua, ch’era in fondo del paesello, mise in fretta nella toppa la chiave, che già teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente; e, ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito:- Perpetua! Perpetua! -, avviandosi pure verso il salotto, dove questa doveva esser certamente ad apparecchiar la tavola per la cena. Era Perpetua, come ognun se n’avvede, la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l’età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche. - Vengo, - rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il fiaschetto del vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva ancor toccata la soglia del salotto, ch’egli v’entrò, con un passo così legato, con uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto, che non ci sarebbero nemmen bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per iscoprire a prima vista che gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero. - Misericordia! cos’ha, signor padrone? - Niente, niente, - rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante sul suo seggiolone. - Come, niente? La vuol dare ad intendere a me? così brutto com’è? Qualche gran caso è avvenuto. - Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire. - Che non può dir neppure a me? Chi si prenderà cura della sua salute? Chi le darà un parere?... - Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio vino. - E lei mi vorrà sostenere che non ha niente! - disse Perpetua, empiendo il bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare. 20 - Date qui, date qui, - disse don Abbondio, prendendole il bicchiere, con la mano non ben ferma, e votandolo poi in fretta, come se fosse una medicina. - Vuol dunque ch’io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto al mio padrone? - disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto. - Per amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va... ne va la vita! - La vita! - La vita. - Lei sa bene che, ogni volta che m’ha detto qualche cosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai... - Brava! come quando... Perpetua s’avvide d’aver toccato un tasto falso; onde, cambiando subito il tono, - signor padrone, disse, con voce commossa e da commovere, - io le sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura, perché vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere, sollevarle l’animo... Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo; onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più d’una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di supplica, e dicendo: - per amor del cielo! - Delle sue! - esclamò Perpetua. - Oh che birbone! oh che soverchiatore! oh che uomo senza timor di Dio! - Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto? - Oh! siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà, povero signor padrone? - Oh vedete, - disse don Abbondio, con voce stizzosa: - vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi come farò, come farò; quasi fosse lei nell’impiccio, e toccasse a me di levarnela. - Ma! io l’avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi... - Ma poi, sentiamo. - Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo è un sant’uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse una bella lettera, per informarlo come qualmente... - Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti da dare a un pover’uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi! l’arcivescovo me la leverebbe? - Eh! le schioppettate non si dànno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, appunto perché lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a... - Volete tacere? - Io taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s’accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le... - Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggianate? - Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male da sé, a rovinarsi la salute; mangi un boccone. - Ci penserò io, - rispose, brontolando, don Abbondio: - sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare E s’alzò, continuando: - non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch’io che tocca a pensarci a me. Ma! la doveva accader per l’appunto a me. - Mandi almen giù quest’altro gocciolo, - disse Perpetua, mescendo. - Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco. - Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. Così dicendo prese il lume, e, brontolando sempre: una piccola bagattella! a un galantuomo par mio! e domani com’andrà? - e altre simili lamentazioni, s’avviò per salire in camera. Giunto su la soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con tono lento e solenne: - per amor del cielo! -, e disparve. 21 Capitolo XII (...) arrivò Renzo finalmente davanti a quel forno. La gente era già molto diradata, dimodoché poté contemplare il brutto e recente soqquadro. Le mura scalcinate e ammaccate da sassi, da mattoni, le finestre sgangherate, diroccata la porta. “Questa poi non è una bella cosa”, disse Renzo tra sé: “se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne’ pozzi?” Ogni tanto, usciva dalla bottega qualcheduno che portava un pezzo di cassone, o di madia, o di frullone, la stanga d’una gramola, una panca, una paniera, un libro di conti, qualche cosa in somma di quel povero forno; e gridando: - Largo, largo, - passava tra la gente. Tutti questi s’incamminavano dalla stessa parte, e a un luogo convenuto, si vedeva. “Cos’è quest’altra storia?” pensò di nuovo Renzo; e andò dietro a uno che, fatto un fascio d’asse spezzate e di schegge, se lo mise in ispalla, avviandosi, come gli altri, per la strada che costeggia il fianco settentrionale del duomo (...) La gente era più fitta quanto più s’andava avanti, ma al portatore gli si faceva largo: egli fendeva l’onda del popolo, e Renzo, standogli sempre attaccato, arrivò con lui al centro della folla. Lì c’era uno spazio vòto, e in mezzo, un mucchio di brace, reliquie degli attrezzi detti di sopra. All’intorno era un batter di mani e di piedi, un frastono di mille grida di trionfo e d’imprecazione. L’uomo del fascio lo buttò su quel mucchio; un altro, con un mozzicone di pala mezzo abbruciacchiato, sbracia il fuoco: il fumo cresce e s’addensa; la fiamma si ridesta; con essa le grida sorgon più forti. - Viva l’abbondanza! Moiano gli affamatori! Moia la carestia! Crepi la Provvisione! Crepi la giunta! Viva il pane! Veramente, la distruzion de’ frulloni e delle madie, la devastazion de’ forni, e lo scompiglio de’ fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane; ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva. (...) Già era di nuovo finita la fiamma; non si vedeva più venir nessuno con altra materia, e la gente cominciava a annoiarsi; quando si sparse la voce che, al Cordusio (una piazzetta o un crocicchio non molto distante di lì), s’era messo l’assedio a un forno. Spesso, in simili circostanze, l’annunzio d’una cosa la fa essere. Insieme con quella voce, si diffuse nella moltitudine una voglia di correr là: - Io vo; tu, vai? vengo; andiamo, - si sentiva per tutto: la calca si rompe, e diventa una processione. Renzo (...) s’avviò alla coda dell’esercito tumultuoso. Questo, dalla piazza, era già entrato nella strada corta e stretta di Pescheria vecchia, e di là, per quell’arco a sbieco, nella piazza de’ Mercanti (...). Dalla piazza de’ Mercanti, la marmaglia insaccò, per quell’altr’arco, nella via de’ fustagnai, e di lì si sparpagliò nel Cordusio. Ognuno, al primo sboccarvi, guardava subito verso il forno ch’era stato indicato. Ma in vece della moltitudine d’amici che s’aspettavano di trovar lì già al lavoro, videro soltanto alcuni starsene, come esitando, a qualche distanza della bottega, la quale era chiusa, e alle finestre gente armata, in atto di star pronti a difendersi. A quella vista, chi si maravigliava, chi sagrava, chi rideva; chi si voltava, per informar quelli che arrivavan via via; chi si fermava, chi voleva tornare indietro, chi diceva: - Avanti, avanti -. C’era un incalzare e un rattenere, come un ristagno, una titubazione, un ronzìo confuso di contrasti e di consulte. In questa, scoppiò di mezzo alla folla una maledetta voce: - C’è qui vicino la casa del vicario di provvisione: andiamo a far giustizia, e a dare il sacco -. Parve il rammentarsi comune d’un concerto preso, piuttosto che l’accettazione d’una proposta. - Dal vicario! dal vicario! - è il solo grido che si possa sentire. La turba si move, tutta insieme, verso la strada dov’era la casa nominata in un così cattivo punto. Capitolo XII [Renzo] Il mio debol parere è questo: che non è solamente nell’affare del pane che si fanno delle bricconerie: e giacché oggi s’è visto chiaro che, a farsi sentire, s’ottiene quel che è giusto; bisogna andar avanti così, fin che non si sia messo rimedio a tutte quelle altre scelleratezze, e che il mondo vada un po’ più da cristiani. Non è vero, signori miei, che c’è una mano di tiranni, che fanno proprio al rovescio de’ dieci comandamenti, e vanno a cercar la gente quieta, che non pensa a loro, per farle ogni male, e poi hanno sempre ragione? anzi quando n’hanno fatta una più grossa del solito, camminano con la testa più alta, che par che gli s’abbia a rifare il resto? Già anche in Milano ce ne dev’essere la sua parte. (...) 22 E quel che è peggio (e questo lo posso dir io di sicuro), è che le gride ci sono, stampate, per gastigarli: e non già gride senza costrutto; fatte benissimo, che noi non potremmo trovar niente di meglio; ci son nominate le bricconerie chiare, proprio come succedono; e a ciascheduna, il suo buon gastigo. E dice: sia chi si sia, vili e plebei, e che so io. Ora, andate a dire ai dottori, scribi e farisei, che vi facciano far giustizia, secondo che canta la grida: vi dànno retta come il papa ai furfanti: cose da far girare il cervello a qualunque galantuomo. Capitolo VIII (...) Alzatosi poi, come in fretta, [fra’ Cristoforo] disse: - Via, figliuoli, non c’è tempo da perdere: Dio vi guardi, il suo angelo v’accompagni: andate -. E mentre s’avviavano, con quella commozione che non trova parole, e che si manifesta senza di esse, il padre soggiunse, con voce alterata: - Il cuor mi dice che ci rivedremo presto. Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto. Senza aspettar risposta, fra’ Cristoforo, andò verso la sagrestia; i viaggiatori usciron di chiesa; e fra Fazio chiuse la porta, dando loro un addio, con la voce alterata anche lui. Essi s’avviarono zitti zitti alla riva ch’era stata loro indicata; videro il battello pronto, e data e barattata la parola, c’entrarono. Il barcaiolo, puntando un remo alla proda, se ne staccò; afferrato poi l’altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglìo più lontano dell’acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di que’ due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano. L’onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia increspata, che s’andava allontanando dal lido. I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand’ombre. Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d’addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l’occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all’estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com’era, nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente. Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! (...) Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande. Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia, e poco diversi i pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca gli andava avvicinando alla riva destra dell’Adda. _______________ 23 GIIUSEPPE GIUSTI SANT’AMBROGIO (1845-46) Vostra Eccellenza che mi sta in cagnesco per que’ pochi scherzucci di dozzina, e mi gabella per anti-tedesco perché metto le birbe alla berlina, o senta il caso avvenuto di fresco a me che girellando una mattina, càpito in Sant’Ambrogio di Milano, in quello vecchio, là, fuori di mano. Che vuol ella,Eccellenza?il pezzo è bello, poi nostro, e poi suonato come va; e, coll’arte di mezzo, e col cervello dato all’arte, l’ubbie si buttan là. Ma cessato che fu, dentro, bel bello io ritornava a star come la sa; quand’eccoti, per farmi un altro tiro, da quelle bocche che parean di ghiro, M’era compagno il figlio giovinetto d’un di que’ capi un po’ pericolosi, di quel tal Sandro, autor d’un romanzetto ove si tratta di Promessi Sposi... Che fa il nesci, Eccellenza? O non l’ha letto? Ah, intendo: il suo cervel, Dio lo riposi, in tutt’altre faccende affaccendato, a questa roba è morto e sotterrato. un cantico tedesco lento lento per l’aer sacro, a Dio mosse le penne: era preghiera, e mi parea lamento, d’un suono grave, flebile, solenne, tal, che sempre nell’anima lo sento: e mi stupisco che in quelle cotenne, in que’ fantocci esotici di legno, potesse l’armonia fino a quel segno. Entro, e ti trovo un pieno di soldati, di que’ soldati settentrionali, come sarebbe Boemi e Croati, messi qui nella vigna a far da pali: difatto se ne stavano impalati, come sogliono in faccia a’ generali, co’ baffi di capecchio e con que’ musi, davanti a Dio diritti come fusi. Sentia nell’inno la dolcezza amara de’ canti uditi da fanciullo; il core che da voce domestica gl’impara, ce li ripete i giorni del dolore: un pensier mesto della madre cara, un desiderio di pace e di amore, uno sgomento di lontano esilio che mi faceva andare in visibilio. Mi tenni indietro; ché, piovuto in mezzo di quella maramaglia, io non lo nego d’aver provato un senso di ribrezzo che lei non prova in grazia dell’impiego. Sentiva un’afa, un alito di lezzo; scusi Eccellenza, mi parean di sego, in quella bella casa del Signore fin le candele dell’altar maggiore. E quando tacque, mi lasciò pensoso di pensieri più forti e più soavi. Costor, dicea tra me, Re pauroso degl’italiaci moti e degli slavi, strappa a lor tetti, e qua senza riposo schiavi gli spinge per tenerci schiavi; (...) A dura vita, a dura disciplina, muti, derisi, solitari stanno, (...) e quest’odio che mai non avvicina il popolo lombardo all’alemanno, giova a chi regna dividendo e teme popoli avversi affratellati insieme. Ma in quella che s’appressa il sacerdote a consacrar la mistica vivanda, di subita dolcezza mi percuote su, di verso l’altare, un suon di banda.. (...) Era un coro del Verdi; il coro a Dio là de’ Lombardi miseri assetati; quello: O Signore, dal tetto natio, che tanti petti ha scossi e inebriati. Qui cominciai a non esser più io; e, come se que’ cosi doventati fossero gente della nostra gente, entrai nel branco involontariamente. Povera gente! Lontana da’ suoi, in un paese qui che le vuol male, chi sa che in fondo all’anima po’ poi non mandi a quel paese il principale! Gioco che l’hanno in tasca come noi. Qui, se non fuggo, abbraccio un caporale, colla su’ brava mazza di nocciolo, duro e piantato lì come un piolo. 24 CARLO PORTA Deggià, Lustrissem, che semm sul descors de quij prepotentoni de Frances, ch’el senta on poo mò adess cossa m’è occors jer sira in tra i noeuv, e mezza, e i des giust, in quell’ora che vegneva via sloffi, e stracch come on asen de bottia. (...) (...) gris come on sciatt, corri a ca che né vedi nanch la straa, foo per dervì el portell, e el traeuvi on tratt nient’olter che avert, e sbarrattaa... Stà à vedè, dighi subet, che anca chì ghè ona gabola anmò contra de mi. (...) Mi à bon cunt saldo li: fermem del pè della scara... e denanz de ris’scià on pien col fidamm à andà su, sbraggi Chi l’è? (...) Intant nessun respond (...) El fatt l’è ch’el fracass el cress anmò: e senti ona pedanna oltra de quell, proppi d’ona personna che ven giò; (...) Ghe semm nun chì al busilles: finalment vedi al ciar della lampita de straa a vegnimm alla contra on accident d’on cavion frances de quii dannaa che inscì ai curt el me dis: Ett vô el marì de quella famm, che sta dessora lì? Mi, muso duro tant e quant lù, respondi: Ovì, ge suì moà, perché? Perché, el repia, voter famm, Monsù, l’è trè giolì, saccher Dieu, e me plé. O giolì, o non, ghe dighi, l’è la famm de moà de mi, coss’hal mò de cuntamm? (...) Ovej, ch’el staga rèqui cont i man, ch’el varda el fatte so de no toccamm,, se de no Dia ne libra! Sont capazz... E lu in quell menter mollem on scopazz. E voeuna, e do! Sangua de dì de nott, che nol se slonga d’olter che ghe doo! E lu zollem de capp on scopellott. (...) Ah sanguanon! A on colp de quella sort me sont sentuu i cavij a drizzà in pee, e se nol fudess staa che i pover mort m’han juttaa per soa grazia a tornà indree, se no ciappi on poo d’aria, senza fall sta voeulta foo on sparposet de cavall! da DESGRAZZI DE GIOVANNIN BONGEE Giacché, illustrissimo,stiamo discorrendo di quei prepotentoni di Francesi, senta un po’ adesso cosa mi è capitato ieri sera fra le nove e mezzo e le dieci, proprio in quell’ora che venivo via, sfatto e stanco come un asino dalla bottega. (...) (...) Ingrugnito come un rospo, corro a casa senza neppure vedere la strada; faccio per aprire l’uscio del portone, e lo trovo nientemeno che aperto e spalancato... Sta a vedere, mi dico subito, che anche qui c’è una trappola ancora contro di me. (...) Io, a buon conto, lì, fermo: mi pianto ai piedi della scala... e prima di mettermi in un guaio arrischiandomi a salir su, urlo Chi è? (...) Intanto nessuno risponde (...) Fatto è che il fracasso cresce ancora: e sento il rumore di un passo, oltre quello, proprio di una persona che viene giù; (...) Ed ora ci siamo al busillis: finalmente vedo alla luce del lampione della strada venirmi incontro un accidente di zazzerone francese, di quei maledetti che così di botto mi dice: Siete voi il marito di quella donna, che abita lì sopra? Io, a muso duro come lui, rispondo: Sì, sono io, perché? Perché, ribatte, vostra moglie, Signore, è molto bella, perdio, e mi piace. Bella o no, gli dico, è la moglie del sottoscritto, lei cos’ha da dire? (...) Ohè, stia fermo con le mani, guardi bene di non toccarmi, se no Dio ne liberi! Son capace... E lui intanto mi dà una sberla. E una, e due! Sangue di Dio, smetta di alzare le mani, sennò io gliele do! E lui mi allunga di nuovo uno scapaccione. (...) Ah perdiana! A una botta come quella mi son sentito rizzarmi i capelli, e se non fosse stato che i poveri morti mi hanno aiutato,buon per lui, a tornare indietro, se non prendo un po’ d’aria, senza dubbio questa volta commetto uno sproposito da matto. 25 GIOACCHINO BELLI dai SONETTI , (1830-1847) La riliggione der tempo nostro Er miserere de la sittimana santa Che rriliggione! È rriliggione questa? Tutta quanta oramai la riliggione consiste in zinfonie, genufressione, segni de croce, fittucce a la vesta, Tutti l’ingresi de Piazza de Spaggna nun hanno antro che ddì ssì cche ppiascere è de sentì a Ssan Pietro er miserere che ggnisun istrumento l’accompaggna. cappell’in mano, cenneraccio in testa, pessci de tajjo!, razzi, priscissione, bussolette, Madonne a’ ggni cantone, ccene a punta d’orloggio, ozzio de festa, Defatti, cacchio!, in ne la gran Bertaggna e in nell’antre cappelle furistiere chi ssa ddì ccom’a Rroma in ste tre ssere Miserere mei Deo sicunnum maggna? scampanate, sbaciucchi, picchiapetti, parme, reliquie, medàjje, abbitini, corone, acquasantiere e moccoletti. Oggi sur maggna sce sò stati un’ora; e ccantata accusì, ssangue dell’ùa!, quer maggna è una parola che innamora. E ttrattanto er Vangelo, fratel caro, tra un diluvio de smorfie e bell’inchini, è un libbro da dà a ppeso ar salumaro. Prima l’ha detta un musico, poi dua, poi tre, ppoi quattro; e tutt’er coro allora j’ha ddato ggiù: mmisericordiam tua. EMILIO PRAGA da PENOMBRE (1864) Preludio Noi siamo i figli dei padri ammalati, aquile al tempo di mutar le piume, svolazziam muti,attoniti,affamati, sull’agonia di un nume. O nemico lettor, canto la Noia, l’eredità del dubbio e dell’ignoto, il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia, il tuo cielo,e il tuo loto! Nebbia remota è lo splendor dell’arca, e già all’idolo d’or torna l’umano, e dal vertice sacro il patriarca s’attende invano; Canto litane di martire e d’empio; canto gli amori dei sette peccati che mi stanno nel cor,come in un tempio, inginocchiati. s’attende invano dalla musa bianca che abitò venti secoli il Calvario, e invan l’esausta vergine s’abbranca a lembi del Sudario. Canto le ebbrezze dei bagni d’azzurro, e l’Ideale che annega nel fango… non irrider, fratello, al mio sussurro se qualche volta piango: Casto poeta che l’Italia adora, vegliardo in sante visïoni assorto, tu puoi morir!… Degli antecristi è l’ora! Cristo è rimorto! giacché più del mio pallido demone, odio il minio e la maschera al pensiero, giacché canto una misera canzone, ma canto il vero! GIUSEPPE MAZZINI dagli SCRITTI LETTERARI Traditori dell’Italia! No, traditori dell’Italia sono (...) quei che immesiriscono l’Italia colle ineziette grammaticali e le questioncelle erudite, o ne accarezzano il sonno sugli allori degli antenati; (...). Ma gli uomini che (...) trasportano il genio per vie non corrotte dalla imitazione, non guaste dalla servilità dei precetti; che a favole, vuote di senso per noi, sostituiscono una credenza, che tragga l’animo a spaziare pei campi dell’infinito; gli uomini che s’aggirano religiosi tra le rovine dell’antica grandezza e dissotterrano a conforto ed esempio dei nipoti ogni reliquia dei tempi trascorsi; (...) questi uomini non tradiscon la patria (...). Essi vogliono dare all’Italia una letteratura originale, nazionale; una letteratura che non sia un suono di musica fuggitivo, che ti molce l’orecchio e trapassa; ma una interprete eloquente degli affetti, delle idee, dei bisogni e del movimento sociale. (1828) Quando nella seconda metà del secolo XVIII s’intese in Italia il primo grido di riforma letteraria, i letterati, generalmente parlando, dormivano o addormentavano (...). Primi i Verri e Beccaria con altri pochissimi predicarono doversi volgere la letteratura a un fine libero e nazionale: poi quelle sdegnose e grandi anime d’Alfieri e Parini tentarono la riforma e aguzzarono la penna (...); ma (...) gli ingegni levati in un fremito verso la fine del secolo si racquetarono ben tosto, ammutirono, e giacquero sotto la dominazione di Bonaparte. Allora alcuni giovani, animosi, Italiani di mente e di core, pensarono che la letteratura (...) rimaneva immutata e inerte appoggiata su pochi principi vecchi di venti secoli (...). I giovani ingegni sospettarono che a rifare la letteratura fosse partito unico e primo il disfarla (...), mutarne le forme, l’ordinamento e le leggi. Le basi d’una letteratura non potevano gettarsi durevoli, se non appoggiandole alle tendenze universali del secolo: (...) dappertutto ferveva un desiderio d’indipendenza, una sete di riflessione, una intolleranza di autorità. (...) Le menti, nutrite per tanti secoli d’inezie e di favole, anelavano il vero ed essi proscrissero le mitologie, inculcarono l’osservazione della Natura, e derisero quella smania d’attempare i concetti e le cose ad un tipo ideale, che faceva la letteratura strana, monotona, inefficace. A questi pochi principi si riducevano gli insegnamenti di quei primi romantici, per ciò che riguarda i caratteri esterni della letteratura, ma l’anima, l’intima essenza, la vita di questa invocata letteratura, si rimaneva pur sempre, e a forza, celata. Un pensiero di fuoco, un pensiero ardito, generoso, sublime aveva spirato il concetto: un pensiero che parlava di patria, di risorgimento, di gloria. (1829) dalla LETTERA AI NAZIONALISTI TEDESCHI (1861) Io trovo nella storia del mio Paese che qualunque volta ei visse di vita propria e d’un pensiero suo veramente, quella vita fu vita di tutti, quel pensiero fu l’Unità del Mondo. Mi stanno davanti il Campidoglio e il Vaticano; la Roma dei Cesari, o meglio della Repubblica (...) e la Roma dei papi: è mia colpa se io intravedo una terza missione più grande per la terza Roma, per la Roma del Popolo Italiano? (...) (...) io sono italiano, ma uomo ed Europeo ad un tempo. Adoro la mia patria perché adoro la Patria; la nostra libertà, perché io credo nella Libertà; i nostri diritti, perché credo nel Diritto. La Nazionalità è per me santa, perché io vedo in essa lo strumento di lavoro per il bene di tutti, pel progresso di tutti: le condizioni geografiche, le tradizioni storiche, la lingua, le tendenze speciali, non ne sono per me che gli indizi; ma la missione ch’essa esercita, o è chiamata ad esercitare, ne è il battesimo e la consacrazione. La Nazione deve essere per l’Umanità ciò che la famiglia è, o dovrebbe essere, per la Patria. Se essa opera il male, se opprime, se si dichiara missionaria d’ingiustizia per un interesse temporaneo, essa perde il diritto all’esistenza e si scava la tomba. È questa tutta la mia segreta dottrina sulla Nazionalità. 27 CARLO CATTANEO da NOTIZIE NATURALI E CIVILI SU LA LOMBARDIA, (1844) (...) Per tal modo le Alpi eccelse e gli abissi dei laghi, i fiumi incassati e l’uniforme pianura silicea, le correnti sotterranee e le aque tepide nel verno, gli aquiloni intercetti e le influenze marine, le generose piogge e l’estate lucida e serena, erano come le parti d’una vasta machina agraria, alla quale mancava solo un popolo, che compiendo il voto della natura, ordinasse gli sparsi elementi a un perseverante pensiero. Altre mirabili attitudini delle terre, delle aque e del cielo si collegavano a preparare le riviere del Benaco a un popolo di giardinieri, che le abbellisse d’olivi e di cedri; e chiamava un popolo di viguajuoli a tender di viti le balze su cui pendono i ghiacci di Rezia. Il progresso dell’incivilimento dimostrerà con fatto posteriore che in ogni regione del globo giaciono così predisposti gli elementi di qualche gran compagine, che attende solo il soffio dell’intelligenza nazionale. Da ben poche generazioni si accorse il popolo britannico di vivere in mezzo ai mari chiamato dalla natura a navigarli vastamente, e d’aver sotto i piedi i sotterranei tesori della forza motrice. Perloché può forse avvenire che più d’un popolo che largheggia con noi di superbi vaniloquj, non abbia per avventura inteso ancora il verbo dei suoi proprj destini. sulle CINQUE GIORNATE DI MILANO Al 1° gennaio [1848] i giovani di tutto il regno si erano invitati tra loro a non fumare più tabacco, per togliere alla finanza austriaca una delle sue principali entrate. Lo stato maggiore austriaco distribuì allora trentamila sigari ai soldati, e dando loro quanto denaro bastasse per ubriacarli, li mandò ad attaccar briga in città. I medici delle prigioni riconobbero nelle vie bande di condannati, alcuni in atto di fumare per irritare il popolo, altri in atto di urlare dietro ai soldati che fumavano. Alla sera del 3 gennaio, granatieri ungheresi e dragoni tedeschi si avventavano con le sciabole sulla gente che muoveva pacifica per la città. Evitando i giovani, ferivano e uccidevano vecchi e fanciulli. Si seppe che, arrestati, molti cittadini si trovarono senza armi; onde fatta manifesta la vile insidia dei militari, molti dicevano apertamente:”un’altra volta noi pure saremo armati, e si vedrà”. Parendo ormai poca cosa le deportazioni, la polizia impetrò il giudizio statario, ossia l’autorità di processare e impiccare entro due ore. (...) Il truculento Radetzki armava il castello; faceva partire da Milano il governatore Spaur, uomo mansueto, e faceva partire il viceré e la sua famiglia. Voleva averci completamente nelle sue mani (...) Ogni giorno, deportazioni improvvise rapivano altri cittadini; le donne tremavano; l’ansietà cresceva, eppure nessuno fuggiva; un lume di speranza era in fondo ai cuori. (...) Sì, la ribellione scoppiava veramente e si vedeva correre a volo per la città il tricolore cisalpino. A quella vista, le guardie austriache restavano immote e stupefatte! Se un uomo metteva il capo a una finestra, il popolo gridava che il posto degli uomini era in strada. I giovani uscivano d’ogni parte con pistole, sciabole bastoni. [Il 20 marzo viene costituito il Comitato di difesa, di cui fa parte anche Cattaneo] Il primo servigio che il Comitato doveva rendere era quello di collegare tra loro gli sforzi, fino allora sconnessi, del popolo combattente. Con mosse molto semplici si poterono avviluppare i corpi del nemico: molti rimasero prigionieri. (...) Anche il conte Bolza, quello che aveva diretto le stragi di settembre e gennaio, restò senza scampo. Mentre si cercava il suo nascondiglio, alcuni popolani vennero a domandarmi se trovandolo dovevano negargli quartiere. “Se lo ammazzare -risposi- fate una cosa giusta; se non lo ammazzate, fate una cosa santa” Fu salvo. È un fatto che al di fuori del combattimento, i nostri non versarono una stilla di sangue. 28 N.d.r.: i testi relativi a CARDUCCI e VERGA saranno consegnati prossimamente 29