Il `68, la ricerca sociale empirica, i mass

STEFANO OROFINO
Il ’68, la ricerca sociale empirica, i mass-media:
l’altro Adorno
Ancora oggi, a più di quarant’anni dalla morte di Theodor W. Adorno, su
alcuni rilevanti aspetti della sua “teoria critica” continua ad avere un’ampia
diffusione una certa vulgata che, se non stravolge del tutto il pensiero
dell’autore francofortese, ne fornisce però certamente una lettura alquanto
unilaterale. In base a siffatta interpretazione, Adorno sarebbe un oppositore radicale del movimento studentesco degli anni Sessanta, nonché un
aspro critico della ricerche sociologiche empiriche e dei mass-media in
quanto tali: è evidente come una lettura del genere, volontariamente o involontariamente, contribuisca in ogni caso ad alimentare l’immagine di un
Adorno critico romanticheggiante della modernità, pensatore elitario e nostalgico dei primordi dell’epoca borghese. Ebbene, il presente saggio, anche sulla base di alcuni testi del teorico francofortese ancora inediti in lingua italiana, mira proprio a evidenziare le parzialità della suddetta lettura
del pensiero adorniano. In questa sede si cercherà quindi di precisare anzitutto in quale misura, ed entro quali limiti, Adorno eserciti delle critiche
nei confronti del movimento studentesco, della ricerca sociale empirica e
dei mass-media; ma si cercherà di mostrare altresì come al contempo, per
molti aspetti, e in perfetta coerenza cogli assunti fondamentali della teoria
filosofico-sociologica di cui è fautore, egli fornisca anche delle valutazioni
molto favorevoli tanto riguardo al movimento studentesco, quanto riguardo alla ricerca sociale empirica e ai mass-media. Delle valutazioni che anzi,
alla luce dei mutamenti sociali avvenuti nei decenni che sono passati dalla
morte del filosofo, al lettore odierno possono semmai apparire, paradossalmente, eccessivamente ottimistiche, di un ottimismo che in alcuni tratti
pare rasentare addirittura l’ingenuità.
1. È bene chiarire, a scanso di equivoci, che qui non si intende affatto
negare o sminuire la portata del pessimismo che contraddistingue la dialettica negativa, e che effettivamente la distanzia dalla corrente di pensiero
dominante nell’ambito della tradizione teorica marxista. Anzi, in via preliminare, è opportuno riassumere quali siano le ragioni alla base della suddetta posizione politica di Adorno e dei suoi colleghi francofortesi.
Ciò che induce gli esponenti della Scuola di Francoforte ad esprimere,
Bollettino Filosofico 26 (2010): 457-478
ISBN 978-88-548-4673-9
ISSN 1593-7178-00026
DOI 10.4399/978885484673932
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con intonazioni più o meno forti, ma comunque in modo chiaro, un notevole pessimismo riguardo alla possibilità dell’avvento del marxiano “regno
della libertà”, è prima di tutto l’involuzione autoritaria e repressiva conosciuta dai sistemi politici sorti nei paesi del cosiddetto socialismo reale. I
francofortesi constatano inoltre che nella società capitalistica odierna, pur
permanendo un antagonismo strutturale, vale a dire la divisione in classi,
tuttavia non esistono più – se pure siano mai esistite – le condizioni soggettive per il suo superamento. In primo luogo oggi, soprattutto grazie alle
lotte dei partiti e dei sindacati socialisti di cultura marxista, gli operai godono nel mondo occidentale di un tenore di vita abbastanza agiato, comunque accettabile e tale da allontanare da loro l’idea della rivoluzione sociale. In secondo luogo, poi – ed è la cosa più importante – ad una più o
meno ampia integrazione economica della classe operaia segue, nei paesi
capitalistici, una sua ancora più completa integrazione culturale, che il sistema sociale esistente è riuscito ad effettuare grazie all’industria culturale:
i mass-media hanno consentito una diffusione capillare dell’ideologia dominante, di quello che Marcuse chiama “pensiero a una dimensione”1; ossia
una forma di pensiero che non solo non concepisce più la possibilità dell’opposizione alla società attuale, ma costituisce esso stesso il frutto di un
pieno e piacevole adattamento ad essa2.
Ciò spinge Marcuse ad asserire che «la teoria dialettica non è confutata,
ma ciò non può offrire il rimedio. Non può avere carattere positivo”3. “La
teoria critica della società non possiede concetti che possano colmare la lacuna tra il presente ed il suo futuro; non avendo promesse da fare né successi da mostrare, essa rimane negativa»4.
Ebbene, per tutte le ragioni sopra elencate, gli esponenti della Scuola di
Francoforte sono profondamente pessimisti riguardo alle possibilità che
possa realizzarsi concretamente una praxis trasformatrice dell’esistente, per
cui Adorno giunge ad affermare che la teoria critica che essi propugnano
costituisce, suo malgrado, un obbligato «arretramento rispetto a Marx»5.
1 H. MARCUSE, L’uomo a una dimensione, tr. it. di L. Gallino e T. Giani Gallino,
Einaudi, Torino 1991, p. 34.
2 L’“Introduzione” a L’uomo a una dimensione è non a caso intitolata dal suo autore “La
paralisi della critica: la società senza opposizione” (cf. ivi, p. 7). Marcuse evidenzia inoltre
il fatto che rispetto alla situazione sociale che aveva di fronte Marx, si è verificata una crescente terziarizzazione del lavoro, non prevista dal fondatore del materialismo storico. La
presenza nella società contemporanea di un consistente ceto impiegatizio porta ad una
diminuzione ulteriore della forza dell’opposizione al sistema capitalistico(cf. ivi, p. 57).
3 H. MARCUSE, cit., p. 261.
4 Ivi, p. 265.
5 T.W. ADORNO, cit., in R. DAHRENDORF, Note sulla discussione della relazione di Karl.
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Un’opinione, questa, che è sostanzialmente condivisa da Marcuse, il
quale, sempre ne L’uomo a una dimensione, opera del 1964, parla a sua volta
di «una regressione da una teoria congiunta con la pratica storica ad un
pensiero astratto, speculativo: dalla critica dell’economia politica alla filosofia”6. Tale involuzione sarebbe la necessaria conseguenza del fatto che
“nell’impossibilità di indicare in concreto quali agenti ed enti del mutamento sociale sono disponibili, la critica è costretta ad arretrare verso un
alto livello di astrazione. Non v’è alcun terreno su cui la teoria e la pratica,
il pensiero e l’azione si incontrino»7.
Ebbene, se si considerano siffatte affermazioni, assieme ad altre ricordate poc’anzi, non si può dar torto ad Adorno allorché egli, pur non riferendosi direttamente al proprio collega, si espresse così riguardo al movimento studentesco e ai suoi sostenitori: «in verità non sono io ad aver
cambiato la mia posizione, ma sono gli altri ad aver cambiato la loro»8.
Ciò che distanziava Adorno dal movimento studentesco è quella che egli
ebbe a definire “la contraddizione esistente tra il movimento degli studenti e
la situazione oggettiva”9. Adorno, cioè, era ultrapessimista riguardo alle
possibilità di vittoria del movimento: se già l’ultimo Engels alla fine dell’Ottocento aveva sostenuto che, visto il rafforzamento degli eserciti verificatosi a partire dal tempo in cui egli e Marx erano giovani, «l’era delle barricate e della battaglia di strada è passata per sempre», e ciò perché «da quel
tempo si sono verificati moltissimi […] cambiamenti, e tutti a favore dell’esercito… Dal lato degli insorti, al contrario, tutte le condizioni sono diventate peggiori»10, a maggior ragione Adorno poteva asserire, riguardo alla
società della seconda metà del XX secolo, che «rispetto a quelli che hanno
R. Popper e Theodor W. Adorno, in T.W. ADORNO, K.R. POPPER et al., Dialettica e positivismo
in sociologia, a cura di H. Maus e F. Fuenstemberg, Einaudi, Torino, 1972, p. 150.
6 H. MARCUSE, cit., p. 12.
7 Ivi, p. 11.
8 Lettera di Adorno a Günter Grass, 4 novembre 1968, in S. MÜLLER-DOOHM, Theodor
W. Adorno. Biografia di un intellettuale, tr. it. di B. Agnese, Carocci, Roma 2003, p. 615.
9 Lettera di Adorno a Gabriele Henkel del 17 maggio 1968, cit. ivi, p. 614.
10 La suddetta frase di Engels è citata in L. GEYMONAT (ed.), Storia del pensiero filosofico e
scientifico, Garzanti, Milano 1996, vol. V, p. 417. Nello stesso luogo si nota che Engels, nell’ultima fase della sua vita, in base a considerazioni come quelle summenzionate, supera il rifiuto di principio della lotta parlamentare, ritenendo egli che il suffragio “da strumento di inganno qual è stato sin qui”, avrebbe potuto essere trasformato “in strumento di emancipazione” (ibid.). Adam Ulam osserva che, oltre che nell’ultimo Engels delle concessioni al parlamentarismo sono ravvisabili già nella Critica al programma di Gotha, l’ultimo importante scritto
teorico di Marx pubblicato quand’egli era ancora vivente (A.B. ULAM, Comunismo, in Enciclopedia
del Novecento, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1975, vol. I, pp. 918-938, qui pp. 920-922).
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potere decisionale sulla bomba atomica, le barricate sono ridicole»11. Una
frase, questa, che – vista l’assonanza con l’affermazione di Engels riportata
sopra – mostra (e probabilmente vuole mostrare) quanto fosse in realtà
“ortodossa” l’“eterodossa” teoria critica adorniana. In altri termini: in base
alla propria analisi della società, ad Adorno pareva impossibile che le lotte
studentesche potessero sconfiggere un potere fondato non solo sulle
bombe, ma anche sull’industria culturale, che plasmava le menti delle masse e riduceva gli oppositori a una sparuta minoranza (la quale, per di più, in
molti casi si richiamava ancora a Stalin e Mao Tse-Tung, nei quali Adorno
vedeva dei dittatori non molto migliori di Hitler). Quando poi (con Habermas) tacciava alcune frange di studenti protestatari di “fascismo di sini-stra”,
Adorno si riferiva al loro “azionismo”, al loro “attivismo cieco”, privo di
riflessione teorica, che come tale si discostava nella maniera più assoluta dal
razionalismo dialettico-materialista che sempre dovrebbe contraddistinguere coloro che si rifanno a Marx, e sfociava così in un decisionismo irrazionalistico12, paragonabile al fascismo anche per la censura che esso impone alla teoria allorché questa, analizzando concretamente il mondo che le
sta di fronte, dichiara attualmente irrealizzabile la prassi: «La disgrazia nel
rapporto tra teoria e prassi consiste oggi proprio nel fatto che la teoria è
sottoposta alla censura pratica preliminare. Per esempio mi si vuole proibire di esprimere alcune cose semplici che mostrano il carattere illusorio di
molte finalità politiche di determinati studenti»13.
In altri termini, le obiezioni che Adorno muoveva nei confronti del movimento studentesco si ricollegavano alla classica critica rivolta dai teorici
marxisti nei confronti del ribellismo astratto, volontaristico e irrazionale,
anarcoide. Per il teorico francofortese, cioè, la prassi deve sempre presupporre l’hegeliana “fatica del concetto”, ossia la teoria, la dialettica materialistica: «non c’è dubbio, e risulta incontestabile, che l’analisi razionale della
situazione è il presupposto per lo meno della prassi politica»14.
Ciò detto, è tuttavia necessario precisare che Adorno condivideva in
buona parte i fini della protesta degli studenti: in un’occasione egli ebbe a
dire che «senza il movimento studentesco l’attenzione generale non si sarebbe mai concentrata sui procedimenti di istupidimento in atto nella società presente»15. L’intellettuale francofortese cercò sempre il dialogo con
T.W. ADORNO, Parole chiave, tr. it. di A. Burger Cori, SugarCo, Milano 1974, p. 249.
S. MÜLLER-DOOHM, op. cit., pp. 603, 608, 620, 636 e 637 e T.W. ADORNO, cit.,
pp. 233-263.
13 Intervista citata a “Der Spiegel”, in S. MÜLLER-DOOHM, cit., p. 636.
14 T.W. ADORNO, cit., p. 241.
15 Intervista di Adorno a “Der Spiegel”, maggio 1969, in S. MÜLLER-DOOHM, p. 637.
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gli studenti, e prese sempre le distanze dai “reazionari”che volevano portarlo dalla loro parte nei momenti di maggiore contrasto che si ebbero fra lui
e il movimento16. Per di più, egli stigmatizzò sempre le violenze perpetrate
nei confronti degli studenti in protesta da parte della polizia17. Si aggiunga
che nei cenni alle ribellioni studentesche presenti negli interventi in una
conversazione radiofonica con Helmuth Becker, intitolata “Erziehung zur
Entbarbarisierung” – tenuta nel fatidico 1968 –, il filosofo esprime dei giudizi favorevoli nei confronti dei suddetti movimenti di protesta, argomentando per di più questi giudizi con una logica perfettamente assimilabile a
quella seguita nel discutere gli stessi temi da Marcuse. Nel corso della suddetta conversazione, Adorno asserisce in maniera esplicita di ritenere che,
nella situazione sociale che sta di fronte agli studenti, la ribellione ad uno
status quo ingiusto è da reputarsi un atto assolutamente antibarbarico:
Il mio sospetto è che la barbarie si abbia in qualsiasi caso in cui ha luogo una ricaduta nella violenza fisica primitiva, senza che questa stia in una relazione
chiara coi fini razionali della società […]. Mentre laddove conduca in modo
chiaro a instaurare stati di cose più degni degli uomini, anche in situazioni
molto ristrette, la violenza non può essere condannata senz’altro come barbarie […] Se si conoscono un po’ più da vicino gli eventi che oggi accadono
presso gli studenti ribelli, allora si potrà trovare che in questo caso non si tratta di scoppi primitivi di violenza, bensì, in generale, di modalità di comportamento politicamente riflettute. Per il momento non è necessario discutere
nello specifico se questa riflessione sia giusta o sbagliata. Ma essa non è tale da
trattarsi di una coscienza deformata, immediatamente aggressiva. I giovani
pensano perlomeno che i loro atti siano al servizio dell’umanità.18
Ad avviso di Adorno, neppure gli stessi istinti aggressivi, di per sé, sono
necessariamente barbarici: se essi si rivolgono contro la barbarie dominante, devono essere giudicati favorevolmente. Per rendere bene il concetto,
il teorico francofortese sostiene che quel che egli intende
col termine ‘debarbarizzazione’ non sia da cercare nella linea del moderatismo
e di un’eliminazione delle passioni forti, neppure nell’eliminazione dell’aggressività. La frase di Strindberg: ‘Come potrei amare il bene, se non odiassi il
male?’ mi sembra sempre molto appropriata a tal proposito.19
Ivi, pp. 607, 615 e 635-636.
Ivi, pp. 604 e 612-613.
18 T.W. ADORNO, “Erziehung zur Entbarbarisierung”, in ID., Erziehung zur Mündigkeit,
Vorträge und Gespräche mit Helmuth Becker, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1971, p. 124.
19 Ivi, pp. 122-123.
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Come si anticipava poc’anzi, la posizione di Adorno al riguardo è sostanzialmente concorde con la distinzione fra violenza rivoluzionaria e violenza
reazionaria teorizzata da Marcuse – sulla scorta di Sartre – nel suo noto
Saggio sulla tolleranza repressiva:
In termini di funzione storica, c’è una differenza tra violenza rivoluzionaria e
violenza reazionaria, tra violenza messa in pratica dagli oppressi e violenza
messa in pratica dagli oppressori. In termini di etica, ambedue le forme di
violenza sono inumane e dannose – ma da quando in qua la storia è fatta in
accordo con le norme etiche? Cominciare ad applicarle là dove i ribelli
oppressi lottano contro gli oppressori, quelli che non hanno niente contro i
possidenti, è servire la causa della violenza reale indebolendo la protesta
contro di essa.20
2. Per quanto attiene, invece, al tema della sociologia empirica, sono
molti gli interpreti che reputano la teoria critica di cui Adorno e la Scuola
di Francoforte sono fautori profondamente ostile nei confronti di quel genere di ricerca sociologica. Tale lettura del pensiero sociologico adorniano
– e francofortese – era avanzata da molti studiosi già all’epoca in cui i fondatori della scuola erano in vita, come risulta evidente dal fatto che Adorno,
in più di un’occasione pubblica, sente l’esigenza di precisare le sue tesi
sull’argomento. Al riguardo, egli dice innanzitutto di essere sorpreso dalla
diffusione di quel genere di lettura della teoria sociale sua e dei suoi colleghi francofortesi, visto che fin dai primi anni della sua esistenza l’Institut für
Sozialforschung si era distinto nel panorama culturale tedesco per l’utilizzo
dei metodi empirici, poi affinati a contatto con la sociologia americana durante il periodo dell’esilio cui i maggiori esponenti dell’Istituto furono costretti nell’era hitleriana:
è […] diffusa l’opinione che i rappresentanti della tendenza critica, per la quale è divenuto d’uso comune il nome ‘Scuola di Francoforte’, siano estranei alla
ricerca sociale empirica, se non ne siano addirittura degli oppositori, e questo
benché la suddetta scuola si sia qualificata da più di trent’anni per le ricerche
empiriche […]. I teorici più significativi della società non hanno mai disdegnato le ricerche empiriche. Nell’antichità Aristotele condusse uno studio sulle
20 H. MARCUSE, “La tolleranza repressiva”, tr. it. di R. Condelli, in R.P. WOLFF, B.
MOORE jr, H. MARCUSE, Critica della tolleranza, Einaudi, Torino, 1982, p. 95. Del resto,
anche l’Horkheimer degli anni Quaranta si esprime in termini analoghi: «Null’altro al
mondo può ancora giustificare la violenza, fuorché la circostanza che essa occorre per far
cessare la violenza» (M. HORKHEIMER, “Lo stato autoritario”, 1942, in ID., La società di
transizione, tr. it. di G. Backhaus, Einaudi, Torino 1979, p. 25).
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costituzioni delle città greche, che propriamente corrisponde già all’odierno
concetto di survey. Marx, che per il positivismo sociologico di Comte non nutrì altro che disprezzo, volse molte energie ad una ricerca empirica sugli operai, l’Enquête ouvrier. Il Capitale, non meno che La situazione della classe operaia
in Inghilterra, sono zeppi di materiale empirico, che nondimeno, coerentemente, serve alla dimostrazione della costruzione teoretica […]. Ho accennato al
fatto che la Scuola di Francoforte ha lavorato fin dall’inizio con gli strumenti
della ricerca sociale empirica. Essi furono adoperati tanto nel volume Autorità e
famiglia, quanto nelle ricerche americane sulla personalità autoritaria, nelle più
tarde ricerche di gruppo sulla coscienza politica della popolazione tedesca,
l’opera Studenti e politica, e di recente negli studi su una scala per il rilevamento del potenziale autoritario nella Germania post-hitleriana.21
Tra l’altro, se nell’ambito del testo da cui è stato estrapolato il brano riportato sopra, “Gesellschaftstheorie und empirische Forschung” – la cui rilevanza non può essere sottovalutata, visto che si tratta di un lavoro pubblicato nel 1969, l’anno stesso della morte di Adorno – si hanno solo delle
dichiarazioni di principio, da parte del teorico francofortese, a sostegno
della ricerca empirica, ogni dubbio sul suo atteggiamento in merito viene
fugato allorché si legga un altro testo, “Zum gegenwärtigen Stand der deutschen Soziologie”, del 1959, ove egli riporta un’amplissima serie di statistiche, di sondaggi d’opinione compiuti fino a quell’epoca, a partire dal secondo dopoguerra, da sociologi dagli orientamenti più disparati, studi empirici di cui l’esponente della Scuola di Francoforte non solo riferisce i risultati in modo dettagliato, segnalando anche le percentuali delle risposte
ai quesiti dei sondaggi, ma che chiama anche a conferma delle tesi più rilevanti propugnate dalla sua teoria critica22. Da ciò emerge quindi che AdorID., “Gesellschaftstheorie und empirische Forschung”, in ID., Soziologischen Schriften,
cit., pp. 538-540.
22 Adorno ricorda, per esempio, una serie di rilevamenti sulla gioventù tedesca degli anni
Cinquanta da cui viene fuori un quadro pressoché unanime sulle caratteristiche che connotano tale gruppo sociale, e cioè che nei suoi componenti prevale un atteggiamento freddo,
pratico, anti ideologico, nonché un certo scetticismo riguardo al futuro e alle istituzioni democratiche, che in alcuni casi sfocia apertamente nell’attesa di un nuovo uomo forte al potere. Tutti aspetti che concordano con la struttura caratteriale autoritaria delineata dalla teoria
critica francofortese. Estrapoliamo dal suddetto excursus compiuto da Adorno un brano in cui
egli riassume e commenta i risultati di tre sondaggi dell’istituto EMNID sul tema “Gioventù
fra i 15 e i 24 anni”: “La maggior parte dei giovani, circa i tre quarti, approva le misure educative adottate dai propri genitori. La frase ‘i giovani non devono criticare le prescrizioni, ma
eseguirle’, viene valutata positivamente dal 55% di essi […]. La tesi della disillusione e del
realismo della gioventù viene sempre di nuovo rafforzata: nel 41% prevalgono desideri materiali; l’interesse politico è più forte di quanto supposto finora. Tuttavia una percentuale fra il
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no non contesta l’uso dei metodi della ricerca sociale empirica, da lui ritenuti anzi fondamentali – per le ragioni che saranno spiegate meglio più
avanti –, bensì esclusivamente il fatto che la teoria sociologica di matrice
positivistica teorizzi una riduzione tout-court della sociologia a quei metodi.
Gli esponenti della sociologia empiristica, infatti, sostengono che le scienze
sociali, se vogliono acquisire i canoni di scientificità propri delle scienze naturali, come queste ultime devono limitarsi all’osservazione e alla comparazione dei fatti empiricamente controllabili. Già la sola interpretazione
teorica di questi fatti è ritenuta da siffatta corrente di pensiero un residuo
di metafisica. Sempre nel saggio menzionato poc’anzi, Adorno critica “la
più giovane generazione di sociologi”, poiché
essa preferisce attenersi al singolo e intermedio, che si esamina in quanto calcolabile e accertato, e rinunciare a delle pretese che sono avvertite in misura più o
meno ammissibile come eredità di un tempo in cui i compiti più specifici della
sociologia, e perciò i suoi metodi, non erano stati ricavati ancora in modo abbastanza chiaro, e che quindi dovrebbero essere liquidate […] La sociologia nonfilosofica si rassegna alla sola descrizione prescientifica di quel che accade e che,
senza relazione al concetto da cui è mediata, non è propriamente vera, bensì mera facciata, apparenza […]. La sociologia, affinché sia realizzata quell’idea di
scienza cui si è affidata fin dalle origini, e che è collegata in modo inscindibile col
nome ‘positivismo’, viene obbligata ad emanciparsi dalla filosofia.23
Adorno si oppone a questo modo di vedere, anzitutto poiché vi ravvisa un
aspetto intrinsecamente ideologico, consistente nel fatto che esso – fedele
alla visione weberiana di una scienza libera da valori – annulla l’idea di critica sociale, l’idea stessa che si possa emettere un giudizio valutativo sui
fatti, e tanto più il pensiero di una realtà sociale diversa da quella vigente
(appunto perché la sociologia dovrebbe limitarsi alla constatazione dei fatti
direttamente osservati)24. In secondo luogo, poi, contro questo genere di
57 e il 62% dei giovani non sarebbe interessata alla politica. Lo stato democratico sarebbe
approvato dal 39%, rifiutato dal 19%; gli indecisi sarebbero il 42%. Solo il 50% di essi si
sentirebbe corresponsabile dal punto di vista politico: un ulteriore indicatore dell’atteggiamento autoritario. Un terzo del campione elude domande su Hitler e il nazionalsocialismo”
(ID., “Zum gegenwärtigen Stand der deutschen Soziologie”, cit., p. 525).
23 Ivi, pp. 502-503.
24 Questa visione pseudoscientifica, fermamente antiteoretica, Adorno la ravvisa anche
negli studi sociologici compiuti nella sua epoca in ambito operaista: «Il tacito allontanamento
dalla teoria marxiana, che è stato provocato, da una parte, dalla storia della socialdemocrazia
tedesca, dall’altra dal sequestro e dalla falsificazione demagogica del materialismo dialettico
attuata dalla perdurante dittatura russa, ha creato un vuoto. L’unico risultato che sembra ac-
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impostazione, egli riprende la visione olistica di matrice hegeliana (e marxiana) secondo la quale anche il singolo fatto sociale direttamente osservabile assume il suo senso esclusivamente nel contesto della totalità in cui si
pone, e può dunque essere realmente compreso solo se viene compreso il
suo legame (dialettico) con siffatta totalità:
La ricerca sociale empirica non può ignorare il fatto che tutte le datità che essa
esamina, i rapporti soggettivi non meno che quelli oggettivi, sono mediati dalla
società. Il dato, i fatti, che rappresentano per essa, per i suoi metodi, una realtà
ultima, non sono affatto qualcosa di ultimo, ma di condizionato. Essa non può
quindi scambiare il proprio fondamento gnoseologico – la datità dei fatti che il
suo metodo si sforza di raggiungere – col fondamento reale, attribuendo ai fatti
il carattere di essere-in-sé, di immediatezza assoluta, di fondamento.25
In terzo luogo, infine, proprio il modo ossessivo con cui la corrente sociologica positivistica persegue l’oggettività dell’osservazione ha come paradossale risvolto la ricaduta in una forma di deleterio soggettivismo: infatti i
sondaggi d’opinione, l’espressione più tipica di ricerca sociale empirica, si
limitano a registrare un aspetto puramente soggettivo, per l’appunto le
opinioni degli intervistati, le quali in realtà costituiscono un prodotto, un
riflesso soggettivo, della struttura sociale; pertanto, solo la conoscenza di
quest’ultima consente di comprendere realmente le ragioni profonde da
cui traggono origine quelle opinioni e il loro prevalere presso le masse:
la ricerca sociale ortodossa […] parte dall’idea di una tabula rasa, di una lavagna bianca, come fa il padre dell’empirismo, John Locke. Il ricercatore dovrebbe attenersi ai commenti degli intervistati secondo il modello del plebiscito e della ricerca di mercato, senza curarsi al contempo di ciò a cui si riferiscono le opinioni. Queste ultime sono ritenute la fonte suprema di diritto della conoscenza […]. A noi sembra che la cosa più razionale sia riferire le ricerche empiriche quantitative all’analisi delle istituzioni sociali oggettive, con le
quali le opinioni che debbono essere analizzate e i modi di comportamento
hanno qualcosa a che fare. Nel settore della sociologia delle associazioni, per
cordarsi con la tradizione di scientificità nel movimento operaio […] fu la sociologia empirica
libera da valori. Il pathos del disincantamento, del realismo, sui quali essa insiste nella sua fase
più recente, si adeguò bene allo stato di coscienza disillusa di una classe lavoratrice che non
vedeva davanti a sé nessuna forza reale che avrebbe potuto cambiare così radicalmente la totalità, come ci si attendeva nella tradizione socialista […]. Nella rinuncia al pensiero che oltrepassa i limiti di ciò che è accertabile, e che pertanto è inalterabilmente critico, essa accondiscende troppo a quello stato di coscienza che essa registra e che invece dovrebbe dedurre
dalla situazione sociale» (ivi, p. 507).
25 ID., Scritti sociologici, pp. 207-208.
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esempio, noi non studiamo soltanto la loro ideologia quale si rispecchia negli
appartenenti all’associazione, ma studiamo, per quanto ci è possibile, l’associazione stessa […]. Il confronto delle opinioni soggettive con quegli elementi oggettivi risulta più essenziale dei metodi della ‘tabula rasa’.26
Una volta spiegate le ragioni della ferma critica di Adorno nei confronti
della riduzione della sociologia a ricerca sociale empirica, veniamo ora, invece, ai motivi per cui egli la reputa uno strumento fondamentale per la
teoria sociale. Anzitutto egli riconosce alla diffusione in Germania della ricerca sociale empirica, sorta negli Stati Uniti d’America, il merito di aver
svecchiato la tradizione sociologica tedesca, la quale, sotto l’influsso della
scuola di Dilthey, fino all’inizio del secondo dopoguerra – quando appunto
cominciarono a diffondersi i metodi statistici – aveva considerato il pensiero sociale una “scienza dello spirito”:
con la dissoluzione dei grandi sistemi filosofici […] i concetti teoretici si staccarono dal sistema […]. Così l’idea metafisica hegeliana dello spirito, che un
tempo pensava la totalità dell’essere, ricade nella sfera speciale dello spirito,
quello della cultura coagulata. Quest’ultima forma allora l’oggetto della scienza dello spirito di Dilthey, la cui idea e metodo ha avuto un tale influsso sulla
sociologia tedesca, da far sì che questa concepisse se stessa come scienza dello
spirito […]. Questa è la situazione di quell’avanzo della sociologia scientificospirituale tedesca che ha urgentemente bisogno, come suo correttivo, dei metodi empirici, il cui senso autentico è l’impulso critico […]. La sociologia non
è una scienza dello spirito. Le questioni di cui essa si occupa non sono essenzialmente e in primo luogo questioni della coscienza o anche dell’inconscio
stesso degli uomini, dai quali si formerebbe la società. Esse si riferiscono anzitutto al confronto fra uomini e natura e alle forme oggettive della socializzazione, che non si possono affatto ricondurre allo spirito nel senso di una costituzione interiore degli uomini.27
Adorno sottolinea in varie occasioni che una ricerca sociale che tratta gli
uomini alla stregua di oggetti che seguono meccanicamente delle leggi naturali è più adeguata a conoscere gli uomini quali sono effettivamente ridotti dal sistema sociale attuale di quanto non lo sia una teoria sociale che
in forma astratta e idealistica esalti una pretesa spiritualità che distinguerebbe gli uomini dagli altri esseri viventi, una concezione che nel mondo
odierno – il quale riduce il comportamento umano a riflesso meccanico a
ID., “Gesellschaftstheorie und empirische Forschung”, cit., pp. 544-545.
ID., “Zur gegenwärtigen Stellung der empirischen Sozialforschung in Deutschland”,
pp. 480-482.
26
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determinati stimoli esterni, e gli individui come tali ad appendice dell’apparato – scade a vuota ideologia di compensazione:
In un mondo che viene dominato universalmente da leggi economiche che
s’impongono sulle teste degli uomini, sarebbe illusorio voler comprendere i
fenomeni sociali come ‘pieni di significato’. Ciò che è un mero fatto viene colto in maniera adeguata solo mediante ‘fact-finding methods’. Se contro la tradizione delle scienze naturali si aspira al presunto campo dello spirito, si ignora che gli oggetti della stessa scienza sociale costituiscono una cieca naturalità,
sono tutto fuorché determinati spiritualmente […]. La consueta obiezione secondo cui la ricerca sociale empirica sarebbe troppo meccanica, grezza e priva
di elementi spirituali, sposta la responsabilità dall’oggetto della scienza a
quest’ultima. L’inumanità tanto rimproverata ai metodi empirici è ancor sempre più umana dell’umanizzazione dell’inumano […]. L’aspetto del nontrasparente e opaco, che la ricerca empirica fa risaltare in maniera così energica rispetto alla tradizione filosofica, appartiene costitutivamente al concetto
della società: esso esprime il fatto che la società, come la storia, si impone sulle teste degli uomini.28
Risulta evidente come Adorno, con argomentazioni del genere, nella valutazione della ricerca sociale empirica riprenda, in sostanza, la logica in base alla
quale il giovane Marx dichiarava il proprio “apprezzamento” per il cinismo
delle concezioni di Ricardo29; pertanto, almeno da questo punto di vista, la
ricerca empirica viene avallata dall’intellettuale di Francoforte soltanto quale
male necessario. Oltre a questo tipo di valutazione, però, Adorno fornisce
dei giudizi più univocamente favorevoli nei confronti della ricerca sociale
empirica. In primo luogo, egli sottolinea il fatto che i metodi statistici hanno
una natura intimamente democratica, giacché per la statistica non c’è un parere che conti più di un altro, per cui essa considera gli uomini tutti uguali:
in questo, le ricerche statistiche sono assimilabili al voto libero e segreto, e
28 Ivi, p. 483. Queste idee, comunque, sono espresse anche in saggi di Adorno tradotti
in italiano, seppure in un contesto per lo più critico nei confronti della ricerca sociale empirica. Cf. ID., Scritti sociologici, cit., pp. 195-196, nonché “Sociologia e ricerca sociale empirica”, cap. VIII delle Lezioni di sociologia pubblicate nel 1956 dall’Istituto per la Ricerca
So-ciale di Francoforte, a cura di Horkheimer e Adorno (tr. it. di A. Mazzone, Einaudi,
Torino 1966). In realtà, il suddetto capitolo, nella sua seconda parte, in cui vengono
evidenziati gli aspetti positivi della ricerca empirica, costituisce quasi una ripresa testuale
della seconda parte del saggio da cui è stato tratto il brano sopra citato.
29 Su Ricardo, Marx dice nei suoi manoscritti parigini: «Mister Chevalier rimprovera Ricardo di fare astrazione dalla morale: ma Ricardo fa parlare all’economia politica la lingua che
le è propria, e se questa non parla in termini di morale, la colpa non è di Ricardo» (K. MARX,
Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it. di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1976, p. 133).
468
Stefano Orofino
proprio per tale ragione erano state combattute dal nazismo:
Durante la dittatura di Hitler essa era – secondo il gergo allora abituale – indesiderata. In particolare, nella ‘public opinion research’ […] i nazisti, con buon
istinto, scorgevano un potenziale democratico. Il fatto che per la valutazioni statistiche ogni voce valga allo stesso modo, che il concetto di rappresentatività […]
non riconosca alcun privilegio, ricorda troppo il voto libero e segreto, col quale i
rilevamenti del settore condividono anche il nome ‘poll’.30
Dal punto di vista prettamente metodologico, comunque, l’aspetto per il
quale il teorico francofortese reputa altamente progressivo l’apporto della
ricerca empirica alla sociologia è da ricercarsi soprattutto nel fatto che queste ricerche consentono un controllo della teoria sociale, senza il quale essa
rischia di ricadere nel dogmatismo: «L’Istituto di Francoforte considera un
dovere la traduzione delle sue concezioni teoretiche in ricerche empiriche,
anzitutto per controllare la concezione»31. Egli asserisce poi, in altra occasione, che proprio «questa relazione oggettiva, intrinseca, al rischiaramento, alla dissoluzione di tesi cieche, dogmatiche e arbitrarie, è ciò che, come
filosofo, mi lega alla ricerca sociale empirica»32.
Adorno propone dei casi esemplari per far comprendere in che modo la
ricerca sociale empirica possa consentire un controllo di qualsiasi tesi sociologica, da quelle propugnate dalla corrente scientifico-spirituale a quelle
avanzate dalla corrente critico-dialettica, di cui egli è fautore. Riportiamo
un brano che, per quanto lungo, consente però una migliore comprensione
di siffatta visione adorniana:
In Germania, la ricerca sociale empirica ha il compito di mettere in evidenza
l’oggettività della realtà sociale, ovunque nascosta agli uomini e alla stessa coscienza collettiva, in modo rigoroso e senza trasfigurazioni. Se ci imbattiamo,
30 T.W. ADORNO, “Zur gegenwärtigen Stellung der empirischen Sozialforschung in
Deutschland”, cit., pp. 478-479. Ove è bene chiarire che Adorno non si nasconde nessuno
dei limiti dei ‘poll’, a cominciare dal fatto che spesso i sondaggi elettorali tendono a spostare una parte dell’elettorato dalla parte che essi presentano come vincitrice, sfruttando la
tendenza delle masse a schierarsi dalla parte di chi è ritenuto favorito per la vittoria elettorale: “il pericolo dell’uso improprio dei ‘poll’ è fuori questione. La tendenza antidemocratica, ma popolare, a stare dalla parte di coloro che appaiono come sicuri vincitori, può essere sfruttata da una propaganda che si maschera da scienza” (ivi, p. 489). Precisazione che
tra l’altro si rivela attualissima, in modo particolare per il tipo di campagna elettorale che
si conduce ai giorni nostri soprattutto proprio in Italia.
31 ID., “Gesellschaftstheorie und empirische Forschung”, cit., p. 540.
32 ID., “Zur gegenwärtigen Stellung der empirischen Sozialforschung in Deutschland”,
cit., pp. 482-483.
L’altro Adorno
469
per esempio, riferendoci ad una qualche presunta autorità della sociologia
scientifico-spirituale, nell’asserzione che l’uomo agricolo, a causa del suo spirito conservatore e del suo ‘atteggiamento’, si opporrebbe alle novità di genere scientifico e sociale, non ci acquieteremo con spiegazioni del genere. Pretenderemo la prova convincente che esse sono vere. Invieremo allora, per
esempio, presso i contadini in campagna, degli intervistatori fidati, e li solleciteremo a chiedere ai contadini che spieghino loro se sono restati nella loro fattoria per amore della terra natia e per fedeltà ai costumi dei padri. Confronteremo il conservatorismo con dei fatti economici, ed esamineremo se per
esempio in unità aziendali al di sotto di una certa grandezza alcune innovazioni
tecniche non siano redditizie e causino costi d’investimento così alti che la razionalizzazione tecnica in un’azienda del genere sarebbe irrazionale. Perciò ci
preoccuperemo inoltre di capire se il tener fede alla proprietà terriera, anche
quando in base ai principi della contabilità aziendale rende poco, non si giustifichi per i contadini intervistati perché essi, con le forze lavorative a buon
mercato della propria famiglia, ottengono un guadagno reale più elevato di
quello che sarebbe loro possibile in città.33
Adorno ricorda, inoltre, in ben due occasioni, un caso molto importante
nel quale è stata da lui modificata una propria tesi sociologica a causa dei risultati di una ricerca empirica, risultati che contraddicevano, appunto,
l’ipotesi di partenza dell’indagine. Ci si riferisce a uno studio sull’autoritarismo nei bambini, una ricerca in cui Adorno e i suoi colleghi era partiti
dall’ipotesi che i soggetti adulti nei quali si riscontra un carattere autoritario, presenterebbero un’analoga tipologia caratteriale già da bambini:
In uno studio americano sul pregiudizio nei bambini, al quale prese parte l’Istituto per la Ricerca Sociale, si dimostrò che i cosiddetti “bravi” bambini, che
oppongono poca resistenza alla scuola, sono liberi dal pregiudizio. Tuttavia, i
dati disponibili all’inizio della ricerca avevano rilevato con precisione un’alta
correlazione fra convenzionalismo e pregiudizio e, al contrario, fra non-conformismo e libertà dal pregiudizio. Quindi fummo costretti a modificare la
teoria. Proprio i bambini che sono riusciti ad interiorizzare l’autorità sono
perciò capaci, più tardi, da adulti, di pensare e agire in modo autonomo, anche in contrasto con l’autorità vigente, mentre quelli in cui
quell’interiorizzazione non è riuscita, non si sviluppano neppure verso
l’autonomia psichica, e da adulti hanno l’inclinazione ad accettare, superficialmente, degli standard posti in modo superficiale. Senza ricerca empirica
questo passo non avrebbe potuto essere compiuto in modo convincente34.
33 Ivi, p. 482. Lo stesso brano è presente, anche in questo caso con delle lievi varianti,
in M. HORKHEIMER e T.W. ADORNO (eds.), cit., pp. 140-141.
34 T.W. ADORNO, cit., pp. 485-486. L’altra occasione in cui Adorno ricorda il sud-
470
Stefano Orofino
Si può dunque asserire, per concludere sull’argomento, che, se contro il
positivismo sociologico Adorno rammenta che il fatto singolo può essere
realmente compreso solo se viene conosciuta la totalità in cui esso è inserito, nonché il posto che esso occupa in una totalità siffatta, tuttavia, contro
la teoria sociale che rifiuta i metodi empirici, egli tiene presente che la totalità non esiste al di là dei fatti: i singoli fatti sociali e la struttura sociale si
determinano in modo reciproco, dialetticamente.
Neppure il primato del tutto deve essere ipostatizzato, giacché esso si riproduce a partire dagli elementi singoli della vita sociale, ossia, in ultima analisi, a
partire dagli individui. Se noi attribuiamo un valore così grande alla totalità
sociale, ciò non accade […] perché siamo inebriati dai grandi concetti, dal potere e dalla magnificenza della totalità, ma al contrario perché nel tutto, nel
fatto che, se posso citare me stesso, “Il tutto è il falso”35, noi scorgiamo la fatalità. Se oggi, di fronte a questo stato di cose, si parla di pluralismo, si deve sospettare che questo pluralismo, sotto il dominio crescente del sistema complessivo, sia diventato un’ideologia. Si dovrebbe spezzare il predominio della
totalità, invece di fare come se questo pluralismo esistesse già. Si deve mirare
a che ciò che si può definire realmente pluralità, un’associazione di liberi uomini singoli, divenga un giorno possibile. Su questo l’intera dialettica deve essere pensata anche nel rapporto fra individuo e società […] Proprio in questa
forma di conoscenza si annuncia il potenziale di un migliore ordinamento della
società, un ordinamento in cui i molti potrebbero coesistere senza pericolo e
pacificamente l’uno con l’altro.36
3. Veniamo, ora, alla critica che Adorno rivolge nei confronti dei massmedia. È noto, al riguardo, che fin dagli anni Quaranta egli è Horkheimer
sono stati fra i primi asperrimi critici dei mass-media (si tenga presente il
famoso capitolo sull’industria culturale in Dialettica dell’illuminismo37). Nel
1965, poi, quando ormai si era diffuso il mezzo televisivo, Adorno scriveva
che «solo gli interessati potrebbero rifiutare di riconoscere che gli effetti
subliminali della comunicazione di massa come sistema complessivo, sommati tra loro, sono imponenti»38.
detto studio è la conferenza “Erziehung zur Mündigkeit”, pubblicato in una raccolta – qui
già menzionata – che dalla suddetta conferenza ha ripreso il titolo (cf. ID., Erziehung zur
Mündigkeit, cit., p. 140).
35 Cf. ID., Minima moralia, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1994, p. 48 (N. d. T.).
36 ID., “Diskussionbeitrag zu ‘Spätkapitalismus oder Industriegesellschaft?’”, in ID., Soziologischen Schriften, cit., pp. 586-587.
37 Cf. M. HORKHEIMER e T.W. ADORNO, Dialettica dell’illuminismo, tr. it. di R. Solmi,
Einaudi, Torino 1966, pp. 126-181.
38 T.W. ADORNO, Scritti sociologici, cit., p. 235. Adorno è consapevole che è impossibile
L’altro Adorno
471
Ora, però, in alcuni interventi pubblici tenuti sempre nel corso degli
anni Sessanta, l’intellettuale di Francoforte precisa un punto nevralgico
della sua concezione sui mass-media, e in particolare sul più potente fra di
essi, la televisione: a suo avviso, non è quest’ultima in se stessa, in base alla
sua struttura tecnologica, a svolgere un effetto deleterio sulle masse degli
spettatori; tale effetto è bensì frutto dell’uso che ne viene fatto nell’ambito
della società capitalistica, un uso che è volto ad assuefare il pubblico al sistema sociale vigente. Di per sé, quindi, secondo la visione di Adorno, i
media, e la televisione in particolare, potrebbero svolgere una fondamentale funzione educativa nei confronti del loro pubblico:
Io non sono, come viene detto ripetutamente nei miei riguardi, un oppositore
della televisione in sé. Altrimenti, fra l’altro, non avrei partecipato io stesso a
delle trasmissioni televisive. Per me, piuttosto, è sospetto l’uso che in larga misura viene fatto della televisione, perché credo che esso, in ogni caso in molte
sue forme, contribuisca a propagare ideologie, e a guidare in modo falso la coscienza degli uomini che la guardano. Che il mezzo televisivo, anche proprio con
l’orientamento alla formazione nel senso dell’estensione dell’informazione rischiaratrice, possegga un potenziale immenso, sono l’ultimo a negarlo39.
Lo studioso propone anche degli esempi specifici di un possibile uso alternativo, pedagogico e illuministico, del mezzo televisivo. Anzitutto egli,
pur ribadendo che oggi non può che essere predominante l’uso ideologico
un controllo empirico degli effetti inconsci della televisione: «la ricerca sociale empirica […],
finora, anche coi suoi metodi più raffinati, su questo tema è riuscita a scoprire relativamente
poco. Verosimilmente, ciò è connesso col fatto che i processi profondi […] si verificano in
modo tale che, appunto, anche con i metodi più raffinati, non si possono afferrare come effetti di singole trasmissioni, o di alcune serie di trasmissioni, nemmeno dopo anni» (ID., “Fernsehen und Bildung”, in Erziehung zur Mündigkeit, cit., p. 61). Egli aggiunge, peraltro, che
«per il fatto che non si può provare in maniera esatta che i media abbiano un effetto sulla psiche umana, tale effetto naturalmente non è confutato: esso è solo subliminale, molto più sottile e molto più fine, e perciò verosimilmente molto più pericoloso» (ivi, p. 62).
39 Ivi, pp. 51-52. Concetti analoghi Adorno li esprime in altri suoi due interventi, uno
alla radio, uno proprio in televisione. Il primo è un’intervista concessa alla “Hessischen
Rundfunk” in cui, dopo aver descritto quelli che a suo avviso sono i principali pericoli delle
televisione, egli tiene a precisare: (cf. intervista di Adorno alla “Hessischen Rundfunk” dell’11 settembre 1963, in Reset, “Adorno e l’inferno tv”, 2004, n° 81, pp. 17-18). Il secondo
degli interventi summenzionati è la sola intervista concessa da Adorno alla RAI, a un giovane Umberto Eco: «critico un certo modo di usare la televisione, ma non la televisione
come mezzo tecnico, che come tale giudico assolutamente positivo e di enormi possibilità
[…]. Bisogna cercare, per quanto è possibile e nel migliore dei modi, di dare agli
strumenti una funzione nuova, cioè esprimere e fare, nell’ambito di questi mezzi, cose che
superino i confini della dominante cultura dell’ideologia commerciale» (RAI, 1966, ibid.).
472
Stefano Orofino
della televisione, considerato che essa è nelle mani degli apparati di potere,
sostiene però che,
per il fatto […] che collaborano alla strutturazione dei programmi molte personalità critiche, indipendenti, e spesso addirittura degli oppositori del sistema
sociale vigente, è tuttavia possibile […] andare fino a un certo grado al di là
dell’esistente. Finché ci sono delle persone che capiscono molto di televisione
semplicemente da un punto di vista tecnico, le quali si accorgono che certe
commedie teatrali, diciamo per esempio delle opere di Beckett, sono particolarmente adatte al medium, e hanno le energie di trasmettere […] L’ultimo nastro di Beckett, […] una televisione di tal fatta può andare al di là della costituzione complessiva della televisione convenzionale e contribuire a trasformare
la coscienza degli uomini. Proprio il relativo consolidamento delle burocrazie
all’interno di certe istituzioni dell’industria culturale consente loro, paradossalmente, di comportarsi in maniera meno conformistica di quanto accadrebbe
se esse stessero sotto un controllo democratico apparentemente diretto40.
Nella stessa occasione l’intellettuale francofortese aggiunge che
in televisione si dovrebbe procurare un rifugio per quelle cose che sfuggono al
grande pubblico, nel senso di un programma per minoranze qualificate. Tuttavia, esse non deve essere chiuse ermeticamente, bensì, tramite una politica di
programmi prudente e molto conseguente, devono infine essere avvicinate anche agli altri uomini, presso i quali probabilmente il mezzo dello shock, perciò
il sorprenderli, risulta più efficace dell’assuefazione, benché anche in questa
sede si abbia qualcosa come una “formazione tradizionale”. Rammento ora una
circostanza che si è verificata in campo musicale: ad Amburgo, già da un gran
numero di anni, Hübner ha dato luogo a un programma ben definito, l’“Opera
moderna”, con della musica oltremodo esposta. Con la perseveranza e la pianificazione, per un periodo di tempo molto lungo, a poco a poco si è formato
un pubblico molto grande che ascolta questi concerti, e che addirittura li frequenta regolarmente, come concerti dal vivo, nella stazione radiotrasmittente
di Amburgo. Posso immaginare che proprio nel settore televisivo – e nelle cose visive, in generale, le resistenze sono certamente minori che in quelle musicali – si possa compiere qualcosa di analogo. In campo televisivo si dovrebbe
sollecitare una significativa pianificazione generale fra i reparti che si occupano
di programmi per minoranze qualificate e quelli che si occupano della programmazione generale, e fare in modo che discutano fra di essi i vari problemi
che si vengono a porre, anche quelli di carattere sociologico. Forse allora si
potrebbe addirittura aprire una breccia nel muro del conformismo con delle
trasmissioni esposte e ricche di aspettative41.
40
41
ID., “Fernsehen und Bildung”, cit., pp. 56-57.
Ivi, p. 67.
L’altro Adorno
473
Considerazioni, queste, le quali, come si accennava all’inizio del presente
saggio, appaiono oggi eccessivamente ottimistiche, se non addirittura ingenue, nel prospettare un uso della televisione a fini formativi e culturali, se si
pensa alla programmazione televisiva odierna. Ciò detto, se ci si chiede poi
cosa Adorno intenda quando dice che i pericoli in genere attribuiti alla televisione in realtà “riguardano la società”, la risposta la si può trovare in un testo
sociologico scritto quando ancora la televisione non esisteva. Ivi il teorico di
Francoforte asserisce che lo spettatore approva le proposte negative dei media per il semplice fatto che la sua mente è già di per sé pervertita dalla struttura della società, la quale riproduce nella psiche di ogni individuo tutte le
sue contraddizioni oggettive. I mass-media, argomenta Adorno, hanno solo
il compito di rafforzare l’esistente, di annullare ogni lacuna, ogni traccia del
non-identico, nel sistema dell’integrazione (quasi) totale:
Il dominio immigra negli uomini. Essi non devono essere ‘influenzati’, come
tendono a credere i liberali data la loro mentalità modellata sull’economia di
mercato. La cultura di massa si limita sempre soltanto a renderli nuovamente
tali quali sotto la coazione del sistema comunque già sono, controlla la lacune,
inserisce nella prassi anche la sua controparte ufficiale come public moral,
propone modelli da imitare. Non bisogna pensare che il cinema eserciti un’influenza su soggetti differenti, ma piuttosto che il suo pubblico gli è affine, e
crede già completamente in esso: con i residui dell’autonomia scompaiono anche quelli delle ideologie che mediavano fra autonomia e dominio42.
Come si accennava sopra, all’epoca in cui furono pronunciate queste parole, nel 1942, non esisteva ancora la televisione, ed è per questo che Adorno in tale contesto fa riferimento esclusivamente al cinema, ma è ovvio
che un discorso analogo può essere ripetuto ai giorni nostri per il medium
oggi più diffuso presso la popolazione. Nel caso dell’Italia, e del panorama
televisivo italiano, un mutamento qualitativo di notevole portata è avvenuto a partire dagli anni Ottanta, con la nascita dei grandi networks televisivi
nazionali: essi hanno portato senza alcun dubbio un accrescimento esponenziale di quella che è stata poi definita “tv-spazzatura”. Per di più, i grandi ascolti di questo genere di televisione hanno indotto la RAI, servizio
pubblico, per poter reggere la concorrenza, ad inseguire i networks privati
sulla loro stessa strada: sono stati cancellati via via, o comunque spostati in
seconda serata o ad orari ancora più improbabili, dei programmi di notevole spessore culturale che pure rappresentavano delle colonne della tradi42
T.W. ADORNO, Scritti sociologici, cit., p. 348.
474
Stefano Orofino
zione televisiva RAI. Il fatto che nel corso degli anni Ottanta la televisione
di stato abbia abbandonato man mano quel genere di programmazione che
costituiva il suo orgoglio, perché questa non poteva reggere negli ascolti la
concorrenza del gruppo privato Mediaset di Berlusconi (che poi non faceva
altro che importare nella sua tv molti aspetti della televisione americana), è
una testimonianza del fatto che è la televisione ad adeguarsi a ciò che il
pubblico vuole e non viceversa. La programmazione televisiva non fa che
riprodurre, seppure certo accentuandoli in rapporto al proprio potere di
diffusione, i mali che costituiscono leggi di natura dalla forma di organizzazione attuale della società. La televisione, in quanto è il più potente
mezzo di comunicazione di massa, nel mondo amministrato diventa il più
potente strumento di amministrazione, il mezzo che più di ogni altro concorre a realizzare, specie nelle menti deboli dei bambini, la totale integrazione all’esistente, fin nei recessi più profondi della psiche umana.
Orbene, riferendoci ancora al panorama televisivo italiano dei giorni
nostri, è nota la ormai pluriennale insistenza della sinistra del nostro paese
sulla necessità di risolvere il conflitto di interessi di Berlusconi, il quale,
oltre a essere il proprietario del gruppo Mediaset, di cui fanno parte le tre
maggiori reti televisive private nazionali (Canale 5, Italia 1 e Rete 4), oggi
è anche il capo del partito politico più votato d’Italia. Inoltre – prosegue
l’accusa della sinistra – nei vari periodi in cui Berlusconi è stato Presidente
del Consiglio dei Ministri (risultato ottenuto – sempre secondo la fazione
politica che si contrappone a Berlusconi – anche grazie al suo potere mediatico), il problema in questione è apparso rafforzato dal fatto che, come
capo del governo, egli è divenuto anche la persona con maggior peso nel
controllo delle tre reti del servizio televisivo pubblico, la RAI. Insomma,
Berlusconi e il centro-destra deterrebbero in questi periodi il consistente
sostegno mediatico di cinque delle sei principali reti televisive nazionali. In
effetti, non si può negare che queste accuse abbiano un fondamento.
Ora, però, Adorno considererebbe superficiale questo tipo di critica riguardo all’influenza politica della televisione berlusconiana: egli riteneva infatti che l’effetto politico più profondo delle televisione non risieda tanto
nelle trasmissioni espressamente dedicate alla politica, bensì nella programmazione generale, negli spettacoli televisivi di varia natura, i quali propagano
determinati modelli di vita e di personalità, contribuendo a plasmare l’individuo nella sua totalità, ad adattare la sua struttura psichica e caratteriale al sistema sociale vigente, e quindi – ovviamente – anche alle posizioni politiche
che più si conformano all’esistente. Nella conversazione radiofonica “Fernse-
L’altro Adorno
475
hen und Bildung” non solo Adorno, ma anche i suoi due interlocutori, Helmuth Becker e Gerd Kadelbach, si soffermano su questi aspetti:
Adorno: […] c’è qualcosa come un carattere formal-ideologico della televisione,
e cioè il fatto che si sviluppa una certa dipendenza dalla televisione, con la quale infine quest’ultima, come anche altri mass-media, propriamente diviene un
incomparabile contenuto di coscienza già con la sua sola esistenza, e con l’intero complesso della sua offerta distoglie gli uomini da quelli che sarebbero i loro veri interessi e da ciò che li riguarda in modo autentico. E da questo […]
più generale carattere ideologico della televisione, prima che da tutte le singole determinate ideologie, gli uomini, per quanto è possibile, dovrebbero essere vaccinati con ogni genere d’insegnamento sulla televisione […]. Becker: […]
Penso che in sostanza esista il pericolo che […] i giovani […] accettino dei cliché come forme molto dirette di relazioni umane, prima che in generale essi
le abbiano vissute. Che dunque essi inizino il loro sviluppo con delle ideecliché già fissate nella loro mente. Kadelbach: Già, e la questione di come ci si
possa contrapporre a questo si pone molto maggiormente riguardo agli spettacoli televisivi che non, per esempio, riguardo alle trasmissioni sulla politica.
Adorno: Esatto. Becker: Poiché la politica naturalmente fin dal principio, per
come viene mostrata in ogni caso da noi in televisione, viene messa seriamente
in discussione, ed espone punti di vista contrastanti fra loro, mentre negli atteggiamenti fondamentali della vita, come essi vengono espressi in tali spettacoli, sono comunicate cose che in maniera molto più consistente passano nell’inconscio, e per questo sono naturalmente molto più pericolosi. Adorno: Io
penso […] che in sostanza i consueti spettacoli televisivi siano politicamente
molto più pericolosi di qualsiasi trasmissione politica […]43.
In sostanza, l’effetto ideologico più consistente che Adorno rimprovera alla
programmazione televisiva – e che non è da addebitarsi tanto a singoli programmi, bensì al tipo di programmazione nel suo complesso, un effetto che
dunque si compie lentamente, nel corso di anni – è lo stesso che egli ravvisa
– su un piano culturale ben più elevato, ma anche su una fascia di popolazione molto minore – in alcune grandi espressioni della filosofia e dell’arte: quello di nascondere le contraddizioni sociali mediante un “velo armonistico”, ossia col generare l’illusione che nel mondo in cui viviamo regni un’armonia
pressoché completa:
Quel che mi pare il pericolo specifico connesso alla televisione […] è qualcosa che
riguarda molto i contenuti, e che non ha niente a che fare col mezzo tecnico. Tali
contenuti sono le forme indicibilmente false in cui, almeno all’apparenza, sono
trattati, discussi e presentati i cosiddetti problemi, affinché la televisione, come si
dice in modo molto bello, sia attuale e confronti gli uomini con questioni
43
ID., “Fernsehen und Bildung”, cit., pp. 55-56.
476
Stefano Orofino
essenziali. I suddetti problemi sono deformati dal fatto che vengono presentati
così come se per ognuno di essi fosse pronto un farmaco, come se bastasse che la
buona nonna o la gentile zia uscissero dalla porta più vicina per riportare ordine in
un matrimonio fallito. In questo caso abbiamo l’orribile mondo dei modelli di una
“vita intatta”, che per prima cosa forniscono agli uomini un’idea falsa di ciò che
sarebbe una vita giusta, e inoltre danno loro a intendere che le contraddizioni che
sono radicate nell’intimo nella nostra società potrebbero essere sanate e risolte da
relazioni fra uomo e uomo e da tutto quel che dipende dagli uomini. Credo che
laddove si incontri anche la più lieve tendenza all’armonizzazione del mondo, si
debba lottare contro di essa con assoluta severità44.
Si potrebbe dire quindi, seguendo quanto dice Adorno, che, se in Italia le
reti Mediaset, da quando sono nate, a partire dagli anni Ottanta, hanno
svolto un ruolo molto importante nella formazione delle idee politiche della
popolazione italiana, lo hanno fatto in un modo molto più sottile, ma anche
molto più profondo, rispetto a quanto sostenuto dalla maggior parte degli
attuali politici del centro-sinistra italiano. Le reti berlusconiane, seguendo
d’altronde una tendenza che si stava diffondendo nella società ita-liana dopo
l’indigestione ideologica degli anni di piombo, con i loro programmi, quali
telefilm importati dagli Stati Uniti, telequiz anch’essi impo-stati sul modello
della tv americana, varietà comici ecc…, hanno contri-buito alla
formazione completa della personalità di moltissimi individui, in particolare
di quelli più giovani, nati a partire dalla fine degli anni Settanta. I giovani
hanno come modello di esistenza primario quello fornitogli dalla
televisione, soprattutto dai programmi televisivi che più direttamente si rivolgono a loro. Anche i programmi, fra questi, che apparentemente potrebbero suscitare una qualche forma di pensiero critico, in realtà rappresentano uno strumento, per quanto involontario, di integrazione al sistema
sociale vigente: il fatto che tali programmi “critici”, individuabili anche nella programmazione Mediaset, sprizzino allegria in ogni loro aspetto, a cominciare dalle musiche, dalle scenografie e dai loro ritmi dinamici, produce
un duplice effetto ideologico: in primo luogo essi divertono, e già questo, di
per sé, come spiegano Horkheimer e Adorno, svolge una consistente
funzione di integrazione culturale delle masse alla società esistente; in secondo luogo, inoltre, le suddette trasmissioni trattano i mali sociali satiricamente, divertendo il proprio pubblico anche nel parlare dei più grandi mali
che attanagliano l’Italia e il mondo, cosicché hanno sullo spettatore, come
effetto psicologico primario, quello di indurlo a pensare che comunque an44
Ivi, pp. 58-59.
L’altro Adorno
477
che riguardo agli aspetti più tragici che si verificano nel mondo si possa
ridere, che ci si possa divertire anche trattando come argomento degli eventi dolorosi: the show must go on. Dal punto di vista politico immediato,
per di più, l’effetto principale prodotto da questo genere di televisione è,
ovviamente, la depoliticizzazione dell’opinione pubblica: si può pensare, obiettivamente, che fra i giovani educati dai reality show, dai telefilm, ecc…,
ce ne siano molti ad avere nella politica e/o nella cultura uno dei loro principali interessi? È poi altrettanto ovvio che l’individuo depoliticizzato, la cui
mente è piena zeppa fin dall’infanzia di modelli tratti dallo sport e dallo
spettacolo, tenda a votare per la formazione politica che già nel suo modo di
presentarsi all’elettorato, nel suo linguaggio e nei suoi simboli, rispec-chia
siffatti modelli: questi individui sentono come proprio il linguaggio di chi
parla di “discesa in campo”, di “squadra degli azzurri”, con battutine e sorrisi
a trentadue denti; di chi, per di più, è noto come editore dei propri
programmi preferiti e come ultravincente proprietario di una delle squadre
di calcio più importanti d’Italia e del mondo.
Il lettore potrà notare, pertanto, che la visione espressa da Adorno nella
conferenza in parola può essere reputata anche fin troppo ottimistica, poiché immagina la possibilità di una funzione pedagogica consapevolmente
svolta dalla televisione, una funzione pedagogica che ai giorni nostri teoricamente è ancora possibile – o forse lo è ancora di più, vista la maggiore
estensione del mezzo rispetto all’epoca in cui visse il teorico francofortese
–, ma che nella sostanza è ridotta a una funzione di nicchia, riservata per lo
più a colti e nottambuli, visto che la RAI relega nel palinsesto notturno
(fatta qualche eccezione) i suoi programmi di maggiore spessore culturale.
Adorno nutre maggiori speranze nella televisione europea rispetto a quella
americana proprio perché ai suoi tempi nel vecchio continente è maggiormente diffusa la televisione di stato, la quale non persegue diretti interessi
commerciali di imprenditori privati; questo è da lui asserito nel modo più
chiaro nella summenzionata intervista alla RAI45. Ebbene, non si può dire
che da allora ad oggi la programmazione della televisione di stato italiana
sia andata nel senso prospettato dal teorico francofortese: come si è già
detto sopra, essa, in realtà, con l’apparizione dei grandi networks privati,
si è sempre più adattata alla programmazione di questi ultimi, la quale ripropone, accentuandoli ancor di più, i difetti che lo studioso francofortese
riscontrava nella televisione privata americana degli anni Cinquanta. In45
T.W. ADORNO, intervista alla RAI del 1966, cit., p. 18.
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Stefano Orofino
somma, c’è davvero da chiedersi, con Sighard Neckel: “Mio Dio, se Adorno vedesse i Pokemon”46 – o “Il grande Fratello”, “Uomini e donne”, ecc…
potremmo aggiungere. E purtroppo c’è anche di peggio…
46
Cf. S. NECKEL, “Mio Dio, se Adorno vedesse i Pokemon”, Reset, cit., pp. 14-16.