Il volo di Darwin
di Stefano Dalla Casa
DARWIN
L’opinione pubblica mondiale attribuisce giustamente alla figura del naturalista inglese Charles
Robert Darwin una importanza monumentale. L’errore che però spesso si commette è quello di
credere che il pensiero evolutivo inizi e finisca con il lavoro di questo scienziato. E’ un errore
comprensibile, poiché la maggior parte delle persone (me compreso) tende spesso a vedere la teoria
dell’evoluzione delle specie per mezzo della selezione naturale come un punto fermo, un fulmine a
ciel sereno, insomma una rivoluzione di proporzioni tali in grado di deviare il nostro giudizio fino a
farci dimenticare il fatto scontato che anche e soprattutto le teorie scientifiche fanno parte della
storia e che dietro ad ogni teoria c’è una persona, anch’essa con una propria storia.
Darwin deve invece essere considerato come uno spartiacque poiché con lui il concetto di
evoluzione biologica delle specie, corrente di pensiero già esistente a livello filosofico, diventa
definitivamente materia di scienza.
Ribadirò più volte questo concetto, ma distinguendo una teoria scientifica da una filosofica non
voglio affatto escludere l’esistenza di una filosofia della scienza, né voglio affermare che essa, in
quanto prodotto umano, sia scevra dall’ideologia.
Il mio lavoro vuole appunto essere quello di descrivere (e celebrare), anche se a grandi linee, tanto
Darwin quanto la sua teoria tenendo presente però che nemmeno l’evoluzione si sottrae ad una
forma sui generis di evoluzione: Darwin ha avuto dei predecessori (vedi appendice) e ha molti
eredi.
La scienza è storia.
LA TEORIA
Ho affermato in precedenza che la teoria dell’ evoluzione darwiniana sembra sia sottoposta essa
stessa a un processo evolutivo. Allo stesso modo sembra che, dopotutto, la teoria sia rimasta
sostanzialmente la stessa per i successivi 150 anni.
Consapevole di incorrere nel rischio di eccedere con le metafore, sento comunque di poter
affermare che la Teoria dell’ evoluzione, così come la concepì Darwin, sembra contenere già in sé
in “germi” che hanno permesso agli scienziati successivi di sviluppare la teoria stessa: aspetti che
Darwin trattò meno approfonditamente e che rimasero in ombra per lungo tempo rispetto al
principio della selezione naturale sono stati ripresi ed ampliati da scienziati successivi, così che
risulta difficile stabilire dove finisca Darwin e inizino Mayr, Gould, Eldredge e via dicendo.
Invito il lettore a tenere conto di questo aspetto 1.
Nel novembre del 1859 Charles Robert Darwin pubblicò L’origine delle specie. In questo libro
Darwin espone la sua teoria dell’evoluzione, anzi la moderna teoria dell’evoluzione, dal momento
che i suoi assunti fondamentali valgono tuttora. Questa è una teoria scientifica e il suo campo di
competenza è la biologia.
Al Darwin Day svoltosi a Roma il 12 febbraio 2005, Pietro Corsi ha ricordato come l’evoluzione, in quanto teoria
scientifica, sia da intendersi come un programma di ricerca.
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1
Sebbene Darwin si riferisca alla Teoria al singolare, secondo l’attenta analisi di Mayr (1994) e altri,
il paradigma darwiniano si compone di 5 sottoteorie:





Evoluzione in quanto tale: gli organismi si trasformano. Il cambiamento della materia
vivente secondo Darwin è generazionale e popolazionale.
Discendenza comune: l’attuale diversità della materia vivente può essere ricondotta a un
virtualmente unico antenato. Con questo assunto Darwin concretizza l’archetipo ipotizzato
dai suoi contemporanei, tra i quali ricordo Richard Owen (1804-1858), (vedi appendice,
p.14)
Moltiplicazione delle specie: una specie tende a produrre o a scindersi in specie figlie.
Questa sottoteoria mette in luce come il cambiamento abbia tanto una dimensione temporale
quanto una geografica.
Gradualità: i nuovi tipi non vengono prodotti mediante un cosiddetto “salto mutazionale”,
ma mediante cambiamenti graduali. La legittimazione di questo assunto viene dal rifiuto dei
singoli individui come unità del cambiamento, a favore di un’ottica popolazionistica.
Selezione naturale: le trasformazioni sopradescritte della materia vivente avvengono
principalmente attraverso un processo in grado di incanalare la variabilità che si presenta in
natura.
Sempre secondo Mayr (1994), queste sottoteorie non sono necessariamente collegate fra loro.
Questo può essere facilmente dimostrato quantunque si osservi come, a parte la selezione naturale,
autori predarwiniani avessero già avanzato, anche se in forme differenti, le altre quattro sottoteorie e
come dopo Darwin molti scienziati, pur appoggiando l’evoluzione in quanto tale, respingessero una
o tutte e quattro le rimanenti sottoteorie1.
La grandezza di Darwin fu allora quella di costruire una teoria composita ove ogni parte del
ragionamento trovava conferma nelle altre. Questo tuttavia non costituisce un artifizio: Darwin
pervenne alla Teoria sulla base correlazioni logiche emerse dall’ attento esame dei dati disponibili.
Il paradigma darwiniano si può quindi così riassumere:
La specie è un’insieme instabile che tende a cambiare in senso generazionale (temporale) e
geografico (evoluzione in quanto tale). E’ quindi plausibile supporre, che le omologie strutturali
che i sistematici trovano continuamente in Natura, siano da ascrivere a un legame di tipo ereditario
(moltiplicazione delle specie) e spostando questa tesi nel tempo è evidente come si possa risalire ad
un unico antenato, progenitore dell’attuale diversità dei viventi (discendenza comune).
Infine Darwin pone l’accento su come questo cambiamento sia graduale e come la causa principale
di quest’ultimo sia da ricercarsi nel principio della selezione naturale.
La selezione naturale è una delle più famose intuizioni di Darwin, e merita quindi una trattazione
più specifica.
Avendo Darwin dedotto che gli organismi non sono fissi nella loro forma attuale, né lo sono stati
ma tendono invece a divergerne di generazione in generazione, e avendo contemporaneamente
osservato gli incredibili adattamenti che le specie presentano in natura, pervenne alla conclusione
che queste variazioni fossero soggette ad una azione continua e graduale detta “selezione naturale”,
secondo la quale quelle mutazioni vantaggiose per la sopravvivenza, nel momento e nel luogo nel
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Lamarck (1744-1829) fu il primo evoluzionista della Storia e riteneva che l’evoluzione fosse un fenomeno graduale.
T. H. Huxley (1825- 1895) soprannominato “The Darwin’s bulldog” per la passione con la quale difendeva l’amico
Charles in pubblico, aveva però delle riserve su molti punti della teoria. In particolare non accettò mai l’idea del
gradualismo filetico. Il giorno prima della pubblicazione dell’Origine scrisse a Darwin (in Mayr, 1994):
<<Ti sei addossato una difficoltà non necessaria quando hai accettato senza alcuna riserva l’idea che Natura non facit
saltum>>
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quale si presentino, vengono mantenute e riescono quindi a trasmettersi e a fissarsi nelle
generazioni successive, le altre scartate. La biodiversità presente verrebbe quindi indirizzata
secondo l’imperativo della sopravvivenza.
E’ bene specificare come i termini da me usati finora non debbano trarre in inganno: la selezione
naturale non è un’azione perpetrata da entità fisiche o metafisiche, ma è piuttosto un filtro passivo,
le cui maglie cambiano continuamente (sulla critica del finalismo, vedi oltre).
Cruciali per la genesi della teoria della selezione naturale furono infatti per Darwin gli studi di
Thomas Malthus (1766-1834) sul concetto di popolazione che evidenziano una caratteristica
importantissima delle forme di vita sul piano ecologico. Se analizziamo infatti una qualsiasi specie
in rapporto all’ambiente notiamo che esiste un incolmabile divario tra le risorse disponibili e il tasso
di crescita della specie stessa, la quale tenderà ad aumentare in maniera esponenziale. Darwin stesso
calcolò che in Africa, nel giro di 750 anni si avrebbero circa 19 milioni di elefanti (notoriamente
uno degli animali più lenti a riprodursi) derivati da una sola coppia. Questo in sintesi significa che
non ci saranno mai abbastanza risorse per la sopravvivenza dell’intera discendenza, quindi solo una
piccola frazione di quest’ultima potrà sopravvivere e riprodursi ulteriormente.
Mayr (1988), infatti, scrive: "essere riusciti a pensare in termini di popolazione invece che di entità
è ciò che rende possibile l’evoluzione per mezzo della selezione naturale”.
Secondo Darwin la competizione fra organismi verso l’approvvigionamento delle risorse sia a
livello intra-specifico che inter-specifico (lotta per l’esistenza1) si concluderà con la sopravvivenza
degli individui e delle popolazioni più adatte, che saranno quindi in grado di trasmettere le proprie
caratteristiche alla propria discendenza.
Tutto questo però non basta a comprendere pienamente l’evoluzione: bisogna infatti sottolineare
che nel processo evolutivo vi è una totale assenza di progettualità (finalismo2), è cioè indipendente
sia dalla volontà degli organismi sia da un ipotetico disegno divino o di altra natura che miri a un
fine. Il processo evolutivo è quindi un processo storico privo di obiettivo se non la sopravvivenza
stessa e si muove inoltre su un asse temporale irreversibile sia dal punto di vista ontogenetico che
filogenetico.
Ciò nondimeno, un errore comune riguardo alla teoria dell’evoluzione è che questa sia un processo
lineare e inevitabile da una minore a una maggiore complessità3. Il corollario ingenuo e immediato
di questo è che l’uomo sia visto come punto di arrivo di questo cammino. Anche l’iconografia
standard dell’evoluzione non ci aiuta poiché ad esempio ci mostrerebbe l’evoluzione da antenati
scimmieschi all’uomo come un lineare progresso: l’uomo che si stacca dalla sua bassa animalità
raggiunge la postura eretta e si mette in cammino, pronto a prendere possesso del mondo.
Vista in questi termini l’evoluzione ricalcherebbe la vecchia e obsoleta concezione di Scala
Naturae di derivazione Aristotelica, dove l’antropocentrismo era portato alle estreme conseguenze,
in quanto l’uomo, posto al vertice di questa ipotetica scala, era visto come l’essere vivente che più
1
Gould (1994) evidenzia come questa famosa espressione debba essere letta in maniera metaforica e non sempre come
un combattimento all’ultimo sangue. Esistono infatti una vasta gamma di strategie per il successo riproduttivo
assolutamente non bellicose, ad esempio un accoppiamento più precoce e frequente o una migliore cooperazione tra i
partner nell’allevamento della prole. Sullo stesso tema è interessante notare come nei documentari più sensazionalistici
alcuni animali vengano definiti come “feroci predatori”. Questa affermazione, oltre a essere priva di senso (gli esseri
viventi, compreso l’uomo non fanno altro che sfruttare in vari modi le risorse), è fuorviante proprio perché avvalora
l’idea di un perenne conflitto dove sopravvive il più forte. Applicata alla specie umana poi, questa visione credo che
potrebbe giustificare il famoso detto “Homo homini lupus”, con nefande conseguenze.
2
A questo proposito vorrei sottolineare che la parola evoluzione deriva dal latino ex-volvo e significa srotolare i papiri,
pergamene. La parola risulterebbe quindi inappropriata all’atto di descrivere un processo privo di fine. Se però ci
spostiamo dalla finalità alla teleonomia, cioè se riconosciamo quella proprietà fondamentale del vivente (Monod, 1960)
che è il fatto di possedere un “progetto” funzionale, allora evoluzione diventerebbe senz’altro un termine perfetto per
descrivere lo sviluppo di un organismo (Development per gli anglofoni).
3
“[…] trilobiti e placodermi, a quanto sembra, erano più complessi nella struttura e forse più specializzati dell’ uomo
moderno. (Mayr, 1994)”
3
si avvicinava alla Divinità; in realtà come ha sempre sottolineato, fra altri, Stephen Jay Gould
l’evoluzione è una serie contingente e improbabile di eventi; se la volessimo rappresentare
schematicamente non sarebbe certo una parabola ascendente o una retta inclinata, ma piuttosto una
continua ramificazione asimmetrica che da un’origine si espande in tutte le direzioni senza punti di
arrivo, un po’ come un “Big Bang” biologico.
Questo introduce il dualismo caso-necessità (Monod 1970): nell’evoluzione il caso è rappresentato
dalle mutazioni, esse dipendono infatti (anche se Darwin non lo sapeva) da errori di codifica del
patrimonio genetico assolutamente imprevedibili e caotici, mentre la necessità è rappresentata dalla
selezione naturale, che determina la sopravvivenza del più adatto in relazione sia all’ambiente sia
agli altri organismi in un particolare momento (lotta per l’esistenza). Le forme che vediamo, uomo
compreso, sono solo alcune tra le infinite che avrebbero potuto presentarsi; se infatti potessimo fare
tornare la vita sulla Terra allo stadio di brodo primordiale e osservarne l’evoluzione, per la Teoria
del Caos questa evoluzione, pur seguendo le stesse regole, sarebbe diversa, non riconosceremmo né
l’uomo né qualsiasi altra forma vivente o estinta poiché, dato l’incommensurabile numero di
variabili e di contingenze, è impossibile che la stessa forma si ripresenti identica due volte.
La cosiddetta Teoria del Caos, nata intorno agli anni ’60 del XX secolo, in sintesi non è altro che la
presa di coscienza di come ogni sistema nel quale interagiscano un gran numero di parti (sistema
complesso) abbia una evoluzione strettamente dipendente dalle condizioni iniziali. Durante
l’evoluzione del sistema ogni minuta irregolarità viene amplificata enormemente. Motto famoso
della teoria è l’effetto farfalla: “Se una farfalla batte le ali a Pechino cambia il tempo a New York.”
Non è affatto sorprendente che la suddetta teoria trovi grandissima applicazione allorquando ci si
voglia cimentare a descrivere la storia della vita sulla Terra.
A questo proposito è però bene ricordare che la materia (vivente o meno) ha comunque dei vincoli
di struttura e che l’evoluzione opera all’interno di essi. Possiamo quindi prevedere, ad esempio, che
i primi organismi saranno entità semplici e autonome (unicellularità) alcune delle quali in futuro si
organizzeranno e coordineranno fino a perdere la propria individualità (organismi pluricellulari) e
che si svilupperà, prima o poi, un qualche tipo di simmetria.
Continuando questo discorso introduttivo sulla teoria di Darwin bisogna ricordare e sottolineare
ancora una volta (date le critiche a cui periodicamente è sottoposta) che è una teoria scientifica, non
una speculazione filosofica o ideologica. Ciò si può facilmente evincere dalla lettura de L’ origine
delle specie . Vediamo infatti che Darwin procede per osservazione, ipotesi e ricerca delle prove.
Su questo ultimo punto è però bene fare una precisazione: le prove dell’evoluzione sono
necessariamente di natura induttiva e non deduttiva come avviene per la maggior parte delle altre
teorie scientifiche. L’ipotesi evolutiva infatti mal si adatta a verifiche di tipo sperimentale in senso
classico e questo, tra le altre cose, è dovuto al fatto che il processo evolutivo, essendo di tipo
storico, sfugge ad una osservazione diretta e immediata (e sperimentalmente riproducibile) del
fenomeno. Questa apparente limitazione comunque non deve sminuire la teoria poiché, a meno che
non si abbia ancora la pretesa di vedere il mondo in termini meccanicisti, la scienza, in particolar
modo in ambito biologico, si è già resa conto che al metodo sperimentale classico deve
necessariamente essere affiancato il metodo comparativo-osservativo.
Mayr (1988) a questo proposito rileva come la biologia oggi si divida tra lo studio delle cause
prossime (biologia funzionale) e quello delle cause remote (biologia evolutiva) per il quale appunto
un’approccio strettamente sperimentale si rivelerebbe assolutamente inadeguato.
L’esperimento in biologia, anche evolutiva, esiste, intendiamoci1, ma i suoi risultati vengono
sempre tradotti in termini statistici, cioè di probabilità. Starà all’intelligenza degli scienziati saperli
interpretare e dare loro il giusto valore.
E’ in corso un grande esperimento (richiederà cinque anni) teso a stabilire se il trend verso l’una o l’altra delle due
forme del famoso lepidottero Biston betularia (carbonaria e betularia) sia o no derivante dalla predazione differenziale
degli uccelli. In caso affermativo ci troveremmo di fronte a un grande esempio di evoluzione darwiniana in atto.
1
4
Inoltre l’esperimento in biologia evolutiva non permette mai di fare previsioni per il futuro mentre
ci fornisce dati statistici in base ai quali possiamo costruire ipotesi che spieghino cosa è avvenuto
(ad esempio si può ricostruire la filogenesi delle specie) o cosa stia avvenendo (ad esempio stabilire
se è in atto o no una speciazione).
Se nonostante tutto questo insisto a parlare di evoluzione in termini di “Teoria scientifica”,
ignorando il principio epistemologico che prevede che una teoria debba poter essere verificata
deduttivamente (non induttivamente) e falsificata (Karl Popper, 1902-1994), lo faccio soprattutto
per un motivo squisitamente umano che di scientifico ha ben poco: adoro la magniloquenza della
parola “Teoria” e me ne scuso con il lettore.
Vorrei comunque sottolineare che la parola “teoria” deriva dal greco theoria e significa appunto
osservazione, speculazione, contemplazione. Il problema si riferisce quindi all’ aggettivo
“scientifica” e personalmente credo che una trattazione onesta dei dati anche in mancanza di
esperimenti riproducibili e predittivi sia sufficiente a fare ascrivere l’ evoluzione biologica delle
specie alla categoria delle teorie scientifiche.
GENESI DELLA TEORIA: DARWIN UOMO E SCIENZIATO
Gli studi di Darwin furono lunghi e complessi, basti dire che dopo aver osservato la variazione delle
specie allo stato domestico, supportato peraltro da una diretta esperienza nell’allevamento dei
colombi e dalla coltivazione di svariate piante che svolgeva nel suo giardino, si dedicò ad
approfondire lo studio della flora e della fauna della Gran Bretagna, rilevando similitudini e
differenze con le altre specie del mondo.
Ancora più importante per la maturazione intellettuale e umana1, di Charles Darwin fu il lungo
viaggio (quasi cinque anni) che egli compì intorno al mondo dal dicembre del 1831 all’ottobre del
1836: appena ventiduenne Darwin salpò dall’Inghilterra sul brigantino Beagle agli ordini del
capitano Fitz Roy, la cui missione principale era quella di compiere una serie di rilevamenti
geografici; a questo proposito si ricorda che la figura di un naturalista a bordo nel corso delle
spedizioni geografiche era diventata consuetudine a partire da fine ‘700 con Linneo.
Durante questo lungo viaggio il giovane Darwin poté collezionare una mole immensa di
osservazioni e di dati. Lo spirito entusiasta con il quale egli affrontò questa avventura si può
evincere dalla lettura di Viaggio di un naturalista intorno al mondo: si tratta di un sunto diretto
anche al lettore più profano che egli scrisse anni dopo essere tornato in Inghilterra (1845) traendolo
dai propri appunti di viaggio nei quali aveva annotato diligentemente i fatti di interesse naturalistico
che aveva potuto osservare nel corso delle proprie esplorazioni. Se Darwin affrontò con tale
atteggiamento questa tappa significativa della propria vita lo si deve anche al fatto che egli era stato
galvanizzato dalla lettura dei resoconti dei viaggi in terre lontane che avevano pubblicato i
naturalisti che lo precedettero, primo fra tutti Alexander von Humboldt con i suoi Voyage (18071833), che egli cita innumerevoli volte.
Scrive Darwin nell’Autobiografia: “Il viaggio sul Beagle è stato di gran lunga l’avvenimento più
importante della mia vita e quello che ha determinato tutta la mia carriera. (Darwin, citato da
Continenza, 1998, p. 35) ”
Particolarmente importanti per i suoi studi furono le celeberrime isole Galapagos che più che
probabilmente gli aprirono gli occhi riguardo ai meccanismi di speciazione.
Bisogna però ricordare che in Viaggio di un naturalista intorno al mondo Darwin non parla mai
dell’evoluzione delle specie e delle sue modalità, ma è comunque evidente (anche al lettore più
disattento) come dalle pagine dell’intero libro trasudi un punto di vista spiccatamente evolutivo.
Proprio a proposito delle Galapagos egli scrive (p. 472):
1
Si leggano a questo proposito le sue idee a proposito della schiavitù e sul valore della dignità umana.
5
“L’arcipelago è un piccolo mondo particolare ,o piuttosto un satellite unito all’America,
donde ha preso pochi coloni dispersi, e ha ricevuto il suo carattere generale dalle sue
produzioni indigene. Se consideriamo la piccola estensione di queste isole ci sentiamo tanto
più stupiti per l’abbondanza delle loro creature aborigene e per la loro diffusione limitata.
Vedendo ogni altura coronata dal suo cratere e i confini fra la maggior parte delle colate di
lava ancora distinti, siamo portati a credere che in un periodo geologicamente recente, si
stendesse qui sopra l’intatto oceano. Perciò, tanto nello spazio come nel tempo, ci sembra di
essere in certo modo portati vicini a quel grande fatto, il mistero dei misteri, che fu la prima
comparsa di nuovi esseri su questa terra.”
Dopo il suo ritorno Darwin inizia la redazione dei famosi Taccuini, sulla base sia dei propri appunti
sia del lavoro dei classificatori ai quali aveva affidato le collezioni naturalistiche accumulate lungo
il viaggio: il reverendo Henslow si occupò delle piante, Leonard Jenyns dei pesci, F. H. Hope dei
coleotteri, M. I. Berkeley dei funghi, George Waterhouse dei mammiferi e di una parte degli insetti,
Richard Owen delle ossa fossili, Thomas Bell dei rettili, William Lonsdale dei coralli, Christian
Gottfried Ehrenberg degli infusori e John Gould degli uccelli.
Dai Taccuini sappiamo che Darwin aveva già ben chiara in mente la propria rivoluzionaria idea di
evoluzione e l’espressione “my theory” diventa ricorrente. Tuttavia Darwin, sempre prudente,
preferì aspettare a divulgare le proprie conclusioni e lavorò sulla Teoria per i successivi 20 anni, sia
perché l’opposizione nei confronti anche solo del trasformismo Lamarckiano era ancora troppo
forte, sia perché rimanevano da approfondire comunque molti aspetti, specialmente sul versante
delle prove a sostegno. Il mondo probabilmente avrebbe dovuto aspettare ancora più a lungo se un
altro naturalista, Alfred Russel Wallace (1823-1913) non gli avesse spedito un proprio studio dal
quale si evinceva che egli era giunto, in modo totalmente indipendente, sostanzialmente alle stesse
conclusioni.
Darwin ricevette il manoscritto il 18 giugno del 1858; se avesse voluto essere il primo a divulgare
l’ipotesi scientifica dell’evoluzione biologica delle specie per mezzo della selezione naturale,
avrebbe dovuto affrettarsi. E così fece.
Nel 1859 finalmente pubblica L’ origine delle specie, un testo molto più breve di quello
originalmente previsto, ma nonostante ciò considerato fondamentale per la biologia moderna,
all’interno della quale non nascose, anzi evidenziò i punti che la sua teoria, allora, non poteva
spiegare, tanto che scrisse: “ poche furono le obiezioni alla mia teoria che già non avessi
considerato e a cui non avessi cercato di dare risposta (Darwin, Autobiografia: citato da Giuseppe
Montalenti nell’introduzione all’Origine delle Specie, Bollati boringhieri, p.23)”
Nell’esposizione della sua teoria Darwin, sempre prudente, si guardò bene dal pronunciarsi
sull’uomo, preferendo riferirsi a nessuna specie in particolare, anche se era chiaro che non aveva e
non avrebbe riservato all’ uomo alcun trattamento di favore.
Scrisse infatti nella conclusione: “Molta luce verrà fatta sull’origine dell’uomo e della sua storia.”
(citato da Continenza,1998, p. 88). Fu una mossa intelligente: se non avesse agito in questo modo
l’attenzione del mondo per il lavoro di una vita si sarebbe esaurita intorno a questo punto e la
scientificità dell’intera opera non sarebbe stata probabilmente notata e si sarebbe persa.
La prima testimonianza che Darwin si stesse dedicando all’ evoluzione umana risale al 1868: in un
cladogramma egli ipotizza progenitori comuni all’ uomo e alle antropomorfe.
Già il Linneo, il primo sistematico, aveva correttamente collocato l’uomo nell’ordine dei Primati,
ma Darwin va ben oltre.
Quando i tempi furono maturi, cioè quando tanti altri si chiedevano come si collocasse l’uomo in
questa nuova visione della vita, Darwin scrisse poi L’ Origine dell’ uomo (1871) , il quale non è
altro che un corollario della teoria. Questo porta Gould (1994) a sottolineare come Darwin abbia
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sempre saputo portare avanti le sue idee con cautela e modestia pur rendendosi conto che il suo
lavoro avrebbe rappresentato una svolta epocale ed evidenzia come egli abbia annunciato al mondo
la sua scoperta in tono quasi dimesso: “Ho chiamato questo principio1, grazie al quale ogni lieve
variazione, se utile, viene conservata, con il termine di Selezione naturale (Darwin, citato da:
Gould, 1994)”.
E’ ragionevole chiedersi se questa modestia, associata alla già citata prudenza, abbia contribuito e in
quale misura a far prendere seriamente in considerazione una teoria tanto rivoluzionaria.
RIVOLUZIONE:
Carl Sagan scrive (1996, p. 73):
“Gli scienziati non cercano di imporre i loro bisogni e i loro desideri alla natura, ma la
interrogano umilmente e prendono sul serio le risposte. Siamo ben consapevoli del fatto che
gli scienziati hanno commesso errori. Comprendiamo l’imperfezione umana. Perciò
insistiamo su una verifica indipendente e – nella misura del possibile – quantitativa di ogni
ipotesi proposta. Siamo costantemente impegnati a pungolare, sfidare, cercare contraddizioni
o piccoli errori residui, a proporre spiegazioni alternative, a incoraggiare eresie, e
concediamo le ricompense più grandi a coloro che confutano in modo convincente le idee
affermate.”
Prima di Darwin la biologia rimaneva per molti aspetti allo stadio di descrizione, come una gran
massa di dati sconnessi, incoerenti e frammentari; la teoria dell’evoluzione legò questi dati con un
filo logico, ne diede plausibili spiegazioni e fornì una visione generale e unitaria della vita .
La teoria di Darwin fu una vera e propria rivoluzione che definì la biologia in quanto scienza
complessiva della vita e la elevò allo stesso rango delle altre scienze della natura, quali fisica e
chimica, che peraltro, come si è poi scoperto, essa racchiude.
In questi termini viene da chiedersi se l’affermazione lapidaria attribuita al fisico Ernest Rutheford
(“La scienza è fisica o collezionismo di francobolli.”) non sia da imputare a una sorta di
campanilismo scientifico mentre sembra assai più convincente e giustificata la tesi del biologo
evolutivo George Gaylord Simpson (This view of life, New York 1964):
“[…] La biologia allora è la scienza che sta al centro di tutta la scienza, ed è qui, in questo
campo nel quale tutti i principi di tutte le scienze sono incorporati, che la scienza può veramente
diventare unificata.”
Ancora oggi la biologia moderna non può prescindere dagli studi di Darwin. La ragione della
longevità di questa teoria è che come ogni buona teoria scientifica non è presentata come un
monolitico dogma, non fornisce né pretende di fornire tutte le risposte, ma ha alla base delle geniali
intuizioni corroborate da dati osservativi ed empirici che ne rendono inattaccabile la sostanza.
Questo significa che la teoria può essere, è stata e sarà più volte adeguata e perfezionata sulla base
dei nuovi dati, ma “l’impalcatura” rimarrà quella originale stabilita da Darwin. (prendo in prestito
questa metafora da Gould (2002) pp. 2 e seguenti). L’effetto più immediato di questa rivoluzione fu
un impulso enorme in tutti quei campi della ricerca scientifica che ora l’evoluzione univa: anatomia
1
Da notare che Darwin usa la parola “principio” e non “legge”, scelta che da una parte potrebbe significare ulteriore
modestia, dall’ altra, forse, potrebbe rispecchiare la visione di un mondo naturale dove le cosiddette “leggi di Natura”
non sono altro che prodotti umani che spesso sono applicabili solo in condizioni ben definite (ad esempio la meccanica
Newtoniana) e non dei dogmi prestabiliti dal Creatore.
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comparata, embriologia1, paleontologia, biogeografia; si formò così, tra gli oppositori e i difensori
acritici di Darwin (entrambi inutili anche se in modo opposto) una nuova generazione di scienziati
consapevoli di questa interdisciplinarietà pronti a usare tutti i dati a disposizione per continuare il
lavoro di Darwin e a dare risposta ai quesiti irrisolti.
E le risposte arrivarono: con la riscoperta nel 1900 degli studi di Mendel2 nasceva la genetica e
l’enigma sul meccanismo di trasmissione dei caratteri iniziava a dipanarsi: si ipotizzò infatti l’
esistenza di unità di dimensioni submicroscopiche che furono poi chiamate geni alle quali appunto è
dovuta l’ereditarietà dei caratteri degli organismi viventi; sempre nel XX secolo vennero scoperte le
basi chimiche della vita secondo le quali ogni essere vivente, dal batterio alla balena, esiste grazie a
quattro elementi di base: ossigeno, carbonio, azoto, idrogeno e venne così coniugata la chimica con
la biologia.
La genetica Mendeliana classica sembrava però essere in contrasto con la teoria evolutiva: se da una
parte spiegava come le caratteristiche venivano trasmesse da una generazione alla successiva,
dall’altra questo processo sembrava troppo conservativo perché la selezione naturale potesse agire
efficacemente sulle sparute mutazioni casuali, che, stando a Darwin, costituivano uno dei motori
dell’evoluzione stessa, che determinavano cioè la variabilità intraspecifica.
A partire però dalla genetica di popolazione si sviluppa la Teoria sintetica dell’evoluzione basata
sulle condizioni di equilibrio Hardy-Weinberg secondo la quale le frequenze alleliche all’ interno
di una popolazione rimangono costanti (situazione di non evoluzione) se si verificano determinate
condizioni:
1. La frequenza di mutazione di un allele alla propria forma contrapposta deve essere uguale
alla frequenza di mutazione nel senso inverso
2. Non vi deve essere migrazione differenziale dei portatori dell’ uno o dell’ altro allele da o
verso popolazioni contigue.
3. nessuno dei genotipi possibili con le combinazioni degli alleli deve essere favorito
selettivamente
4. La popolazione deve essere infinitamente grande
Dal momento che in natura queste condizioni non si verificano mai, le popolazioni sono altamente
instabili dal punto di vista genetico ed è quindi possibile l’evoluzione per mezzo della selezione
naturale. Ancora una volta era stato necessario pensare in termini di popolazione.
In seguito, con la scoperta del DNA effettuata nel ’53 da parte di James Watson e Francis Crick
(1916-2004), e successivamente del codice genetico vennero descritte a livello molecolare tanto
l’ereditarietà quanto le mutazioni, le quali non sono altro che errori, casuali e imprevedibili, di
replicazione del patrimonio genetico durante la riproduzione. E’ sconcertante rendersi conto del
fatto che la selezione naturale agisca proprio su queste “imperfezioni”3.
Un’altra applicazione della Teoria è l’etologia.
Darwin si può forse considerare come il primo etologo in quanto intuì che, come è presente
un’ereditarietà dei caratteri anatomici, c’è anche un’ ereditarietà (di tipo culturale o biologico) dei
caratteri comportamentali, quindi la selezione naturale plasmerebbe anche il comportamento delle
specie animali.
Famosa, anche se non sempre applicabile è la tesi di Haeckel (1834-1919): “L’ ontogenesi ricapitola la filogenesi”,
un assioma che legò l’embriologia all’evoluzione filogenetica.
2
Non a caso quest’ ultimo fu definito come il padre postumo della genetica.
3
Bisogna però ricordare come la mutazione rappresenti solo la causa remota della variabilità di una popolazione.
La causa prossima della variabilità, e che quindi è soggetta alla selezione, è il riassortimento di queste mutazioni
all’interno del pool genico della popolazione stessa.
1
8
L’applicazione della teoria dell’ evoluzione spalanca anche altre porte: se è vero che la vita sulla
Terra è possibile grazie praticamente a soli quattro elementi biogeni principali (O, C, N, H ) e
quindi non è altro che il sottoprodotto di reazioni chimiche complesse e leggi fisiche, non è forse
possibile che questi o altri elementi abbiano fatto scoccare la scintilla della vita su altri pianeti e che
questa poi si sia evoluta seguendo le stesse regole di caso e necessità che segue sulla Terra?
Sarebbe nata la bioastronomia1, branca della scienza che, pur basando la propria la propria esistenza
e autorità su prove del tutto indirette, rimane comunque estremamente interessante e stimolante.
Qualche esempio: nel meteorite di Murchison (Australia), una condrite carbonacea caduta nel ’69,
sono stati rinvenuti 92 aminoacidi dei quali solo 19 presenti sulla Terra; nel meteorite marziano
ALH84001, caduto in Antartide 13.000 anni fa, qualche scienziato avrebbe riconosciuto dei fossili
di forme di vita di tipo batterico.
Ricordo al lettore anche il celeberrimo esperimento di Stanley Miller (1935), il quale produsse
aminoacidi in laboratorio a partire da quei componenti che si pensa abbiano costituito la primitiva
atmosfera terrestre.
Un’ altra interessantissima speculazione sulla teoria dell’ evoluzione è la vita artificiale.
Ho detto in precedenza che la vita può essere definita come il sottoprodotto di reazioni chimiche
complesse e leggi fisiche (constitutive reduction; Mayr, 1988).
Questa però non è una vera e propria definizione di vita, poiché qualunque fenomeno naturale è a
essa riconducibile. Quello che invece è specifico della materia vivente è la propria complessa autoorganizzazione in virtù della quale essa risponde a stimoli esterni, trasforma in vari modi l’energia,
cresce, si riproduce e, soprattutto, si evolve. L’ auto-organizzazione che permette di esplicare queste
funzioni vitali poggia a sua volta su un continuo flusso di informazioni dal livello più elementare
(DNA e RNA) a quello più complesso (reti neurali).
In quest’ottica sembra che l’essenza della vita sia allora l’informazione: è concepibile un
programma informatico che simuli la materia vivente? Secondo i più ottimisti si potrebbe
addirittura creare una nuova forma di vita basata sul silicio e sul codice binario invece che sul
carbonio e sul codice genetico. E’ probabile che entrambe le ipotesi non escano dal campo
speculativo poiché:
1. Qualsiasi nostra imitazione sarebbe piuttosto pallida dal momento che non possiamo proprio
dire di conoscere a fondo l’oggetto della nostra imitazione.
2. Se supponiamo un atto creativo, significa che non siamo ancora in grado di vedere
l’evoluzione come un insieme di fenomeni totalmente scevri da una qualsivoglia impronta
teleologica, come probabilmente è in realtà.
Ciò nondimeno i primi tentativi svolti in tal senso sono incoraggianti e forieri di applicazioni
pratiche: programmi che sono in grado di adattarsi alle circostanze mediante un processo
assimilabile a quello della selezione naturale sono una realtà che trova ampio utilizzo in vari tipi di
automazioni.
IL BIODETERMINISMO: LA TRAVISAZIONE DELLA TEORIA
La teoria dell’ evoluzione, che è probabilmente una delle teorie scientifiche più affascinanti,
nel corso della sua storia è stata anche soggetta ad abusi e strumentalizzazioni2, a volte tragiche. La
1
A solo titolo informativo ricordo che assieme alla bioastronomia nacque anche la pseudoscienza a essa correlata, cioè
l’ufologia. Qualsiasi pseudoscienza è solo un sottoprodotto della cultura popolare e come tale merita una trattazione a
parte.
2
E’ pur vero che questo è quasi sempre destino delle teorie, ma mi preme far rilevare il fatto che nel momento in cui
l’uomo (occidentale) rientra a far parte a pieno titolo del mondo naturale, qualsiasi tesi a esso correlata che prenda lo
spunto dalla Teoria di Darwin rischia seriamente di produrre effetti catastrofici. La scienza è uno strumento e non ha
pulsioni. L’uomo, invece, sì: il rischio è che qualcuno, seguendo le proprie, pretenda di impersonificare la scienza e usi
l’autorità da essa conferitagli come una clava.
9
ragione per cui ci stupiamo di ciò è che in noi è radicato un antico mito riguardo alla scienza.
Seneca nelle sue Naturales Quaestiones esprime bene questa nostra ingannevole credenza: Seneca
infatti ha una incondizionata e acritica fiducia nella scienza come strumento di conoscenza, la quale
viene vista come un continuo, costante progresso che eleverà l’uomo al di sopra dell’umano, a uno
stadio tale da permettergli di conoscere Dio liberandolo dalla paura.
Parallelamente oggi molti credono che la scienza sia una marcia inesorabile verso la verità che è
garantita dalla più assoluta oggettività.
Si crede perciò che la scienza sia al di sopra di tutto, un’ entità autonoma e indipendente dal resto
delle attività umane. Ma questo, come anticipato, è solo un illusione. La ricerca scientifica infatti
non può prescindere né dal contesto storico e sociale nella quale è stata prodotta né dalle personali
inclinazioni dello scienziato. Questo si traduce in un inevitabile vizio di prospettiva, particolarmente
accentuato nelle scienze biologiche fino a raggiungere il culmine ogni qualvolta ci si accosti a una
specie in particolare: l’Homo sapiens.
È per questo che dopo Darwin molti scienziati travisarono e strumentalizzarono la sua teoria che,
ribadiamolo, è una teoria scientifica, come autorità per giustificare la situazione di vantaggio o
svantaggio di alcuni gruppi in base alle differenze di razza, classe, sesso e a volte anche religione.
Si cercò di dimostrare che un indigente o un criminale non può essere altro che tale e che una donna
o un nero sono per natura inferiori al maschio bianco. Ma Darwin stesso ci aveva già messo in
guardia scrivendo in Viaggio di un naturalista attorno al mondo (p. 611) : “ se la miseria dei nostri
poveri non fosse causata dalle leggi di natura, ma dalle nostre istituzioni, la nostra colpa sarebbe
grande”.
La scienza quindi può diventare e, per coloro che strumentalizzarono Darwin lo è diventata, una
vera e propria sovrastruttura marxiana allo stesso modo di religione, stato e filosofia, che giustifica
le disuguaglianze fra gli uomini all’ interno della società civile.
Sintetizzando: un nero, in quanto tale, non può essere che uno schiavo ed è giusto che sia così (Su
questo, però, Seneca non sarebbe stato d’accordo.)
Sarebbe nato il biodeterminismo, corrente di pensiero che, pretendendo di basarsi su dati scientifici,
classificherebbe gli uomini in categorie sulla base di un presunto materiale ereditario innato
responsabile di ogni aspetto della persona. L’uomo sarebbe appunto biodeterminato e
conseguentemente anche predestinato.
Se tutto questo veniva poi associato ad una superficialissima ottica evolutiva è facile immaginare le
conseguenze: se ogni aspetto umano è innato ed ereditario deve necessariamente essere soggetto a
una rigida selezione: l’uomo stava delegando la propria morale alla scienza, forse senza accorgersi
neppure che in realtà questa scienza non era e che egli stava in realtà cercando il modo di
giustificare l’ingiustificabile.
Una delle più usate discriminanti che utilizzarono questi, che ricordiamolo, erano scienziati, fu l’
intelligenza, secondo l’ equazione: meno intelligente = inferiore = svantaggiato. L’ intelligenza
venne vista appunto come una caratteristica innata e ereditaria, trasmessa da un gene mendeliano,
come il colore degli occhi, qualcosa di localizzato nel cervello e come tale quantificabile con un
numero. Una vera e propria reificazione dell’ intelligenza.
Ciò nonostante, con la craniometria prima e il calcolo del quoziente intellettivo poi il
biodeterminismo contraddice però la teoria dell’evoluzione da cui pretende di prendere spunto. Esso
è infatti, nella sua essenza:
“[…] una teoria dei limiti, che considera lo stato corrente dei gruppi come una misura di
dove essi dovrebbero e devono stare (anche se permette ad alcuni rari individui di elevarsi in
conseguenza della loro fortunata biologia) (Gould,1996, p. 48).”
L’essenza dell’evoluzione invece, come ho ricordato precedentemente, è la dinamicità e il
superamento dei limiti.
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Uno scienziato in particolare ha analizzato in un libro gli errori del biodeterminismo.
Il suo nome è Stephen Jay Gould e il titolo originale del libro è appunto The mismeasure of man,
cioè l’errata misurazione dell’ uomo.
In questo libro Gould evidenzia che il biodeterminismo ha radici antiche: nella Repubblica di
Platone, Socrate per dividere la repubblica in tre classi ( governanti, soldati, lavoratori) propone di
divulgare un mito secondo il quale mentre la divinità plasmava gli uomini, avrebbe mischiato, nell’
ordine, ad alcuni l’ oro, ad altri l’ argento, ad altri il ferro e il bronzo. Ora i metalli hanno ceduto il
posto ai geni, ma la tesi di fondo non è cambiata: i ruoli sociali ed economici rivestirebbero in modo
preciso la costituzione innata degli uomini. Con un’ unica differenza: Socrate sapeva di dire una
menzogna.
Nell’introduzione al saggio sopracitato Gould esprime un concetto di estremo interesse con il quale,
almeno nelle intenzioni, ho voluto caratterizzare il mio lavoro. Egli, in pratica, afferma di essere
uno scienziato ma, senza vergogna, dice candidamente di essere anche un uomo e, come tale egli
porta con sé degli ideali senza i quali, probabilmente, non avrebbe scritto quella apologia dell’
uguaglianza tra gli uomini (o almeno così io la definisco) che è The mismeasure of man.
Avviandomi alla conclusione ricordo al lettore che, se Gould è un idealista, è anche vero che un
aspetto particolare del biodeterminismo, cioè il razzismo, è oggettivamente falso: se
didascalicamente si definisce “razza” una varietà ben differenziata in seguito ad isolamento (cioè
una ben definita unità genealogica) questo concetto è inapplicabile all’ uomo.
Da una indagine svolta in famiglia pare invece che i libri di testo, anche solo di una generazione fa.
definissero la “razza negra” come caratterizzata da: “capelli crespi, naso camuso e sudore dall’
odore nauseabondo.”
Ricordo di nuovo la frase di Darwin: “Se la miseria dei nostri poveri non fosse causata dalle leggi
della natura, ma dalle nostre istituzioni, la nostra colpa sarebbe grande”
E la nostra colpa è grande.
CONCLUSIONI
E’ lampante come la teoria dell’ evoluzione di Darwin e le sue successive modificazioni ci possano
insegnare qualcosa sulla scienza stessa.
Tutte le specie, per adattarsi a un mondo in perpetuo cambiamento, non possiedono alternative all’
evoluzione biologica, comunque essa avvenga.
Tutte eccetto l’uomo, il quale sceglie continuamente di modificare l’ambiente stesso; per fare
questo l’uomo usa la scienza.
Intendo la scienza in questo contesto nella sua accezione più ampia e generale, come un insieme di
fenomeni conoscitivi che spesso trovano applicazione nella tecnologia e che vengono tramandati
nelle generazioni successive per via culturale.
Il mio è però solo un artifizio conclusivo ben lungi dal voler essere una apologia dell’ essere
umano: si è visto come distinguere naturale e artificiale per giungere deduttivamente alla
definizione dell’ umano sia inconcludente: la natura pullula di oggetti “artificiali” non umani e
nemmeno la cultura sembra essere un’ esclusività dell’ uomo il quale, per giunta, sembra essersi
garantito solo una sopravvivenza a medio termine.
La scienza, come rileva Sagan, non è perfetta. E’ solo lo strumento di conoscenza migliore che
abbiamo. Al pari dell’evoluzione la scienza si modifica costantemente seguendo le strade più
disparate. Evoluzione biologica ed evoluzione culturale possiedono entrambe una enorme mole di
contingenza.
11
Durante la lettura dei testi utilizzati per la stesura di questo lavoro credo di aver trovato un esempio
significativo di tutto ciò: assodato che l’ evoluzione non è teleologica come si spiega la comparsa di
strutture molto complesse? Cioè: come può la selezione naturale favorire gli stadi incipienti di un
carattere molto ben definito e adattato alla sua funzione? Esempio classico di questo problema sono
le ali: mezza ala non servirebbe a niente. La spiegazione che Gould e altri forniscono è elegante e
geniale: le strutture complesse si accumulano e si definiscono anch’ esse per selezione naturale ma
nel corso dell’ evoluzione cambiano la loro funzione, vengono cioè riadattate.
Se mezz’ ala non serve a volare, potrebbe sempre servire per la termoregolazione o per qualche
altra funzione con un valore adattativo sufficiente perché il carattere venga conservato.
Torniamo allora all’evoluzione della scienza. Come ho anticipato Darwin trovò negli studi di
Malthus sul concetto di popolazione la chiave per lo spostamento del concetto di selezione dall’
ambiente domestico alla natura1.
Tuttavia penso che gli studi di Malthus scaturissero da un fine ideologico: giustificare sul piano
scientifico il modello economico del tempo cioè il vero responsabile delle crescenti condizioni di
miseria a dispetto del pur innegabile divario tra tasso di crescita e mezzi di sussistenza. Non mi
spiegherei altrimenti la seguente affermazione:
“Per fornire all’uomo incitamenti all’azione e per spingerlo a secondare i benigni disegni
della Provvidenza […] è stato stabilito che la popolazione debba aumentare assai più
rapidamente degli alimenti. Questa legge generale […] produce certamente molti danni
parziali, ma una piccola riflessione potrà forse dimostrarci che essa produce un grande
sovrappiù di bene…(Thomas Malthus, citato da Continenza, p.54)”
Da cui si evince come, una volta giustificato lo status quo, si fosse cercato di inserirlo all’ interno di
un disegno provvidenziale.
Dal momento che non troviamo in Darwin tracce di tutto questo, risulta evidente come egli stesso
abbia riadattato a una nuova funzione una precedente teoria, riadattamento, quest’ultimo, che risultò
vincente.
E così spiccò il volo.
Darwin scrive: “ci fu un lungo intervallo di tempo durante il quale mi rimase incomprensibile come la selezione si
potesse applicare a organismi viventi in natura. (citato da: Continenza, 1998, p.51)”
Secondo gli storici di Darwin, incluso Mayr (1994), il debito nei confronti di Malthus dovrebbe comunque essere
ridimensionato: la lettura di Malthus agì come un “catalizzatore” e avvenne in un momento della vita di Darwin in cui
lo studioso aveva già quasi del tutto maturato il pensiero popolazionistico.
Mayr (1994) riassume così: “quell’unica frase* di Malthus agì come un cristallo lasciato cadere in una soluzione
soprasatura.”
* “Si può quindi dire con certezza che la popolazione, se non è tenuta sotto controllo, continua a raddoppiarsi ogni
venticinque anni, ovvero cresce in proporzione geometrica.”
1
12
Bibliografia:
Asimov, Isaac: Vittoria silenziosa Mondadori, Milano (1975) 1976
Continenza, Barbara: Darwin Collana “Le Scienze” I grandi della Scienza, Milano (1998), 2004
(Gruppo editoriale l’ Espresso, Roma)
Darwin, Charles R. : Viaggio di un naturalista intorno al mondo Saggi Giunti, Firenze (1845) 2002
Darwin, Charles: L’ origine delle specie Bollati Boringhieri, Torino (1872) 2001
Gould, Stephen Jay: Bravo brontosauro Feltrinelli, Milano (1991) 2002
Gould, Stephen Jay: Intelligenza e pregiudizio Il Saggiatore, Milano (1996,1981) 2001
Gould, Stephen Jay: L’evoluzione della vita sulla terra Le scienze 316, Milano, 1994, pp. 25-31
Gould, Stephen Jay: La struttura della teoria dell’evoluzione Codice, Torino, pp.2 e segg
Majerus, Michael: L’ evoluzione nero su bianco. darwin 3, Roma, 2004, pp. 34-42
Mayr, Ernst: Is biology an autonomous science? In: Mayr, Ernst (ed.): Toward a new philosophy of
biology: observation of an Evolutionist. Cambridge, Massachusetts, and London, England:
The Belknap Press of Harward University Press, 1988
Mayr, Ernst: Un lungo ragionamento Bollati Boringhieri, Torino (1991) 1994
Roncuzzi Claudio, Scalini Fabio, Marchi Corrado: l’evoluzione ingabbiata dalle immagini
canoniche dal sito http://www.racine.ra.it/Isoriani/evoluzione
Sagan, Carl: Il mondo infestato dai demoni Baldini&Castoldi, Milano (1996) 1997
13
Appendice: Paleontologia ed evoluzione
Eccetto che non si voglia ignorare la paleontologia, non si può descrivere la storia della vita sulla
Terra a prescindere dalla teoria dell’evoluzione. Qualcuno potrà forse obiettare che la paleontologia,
come scienza, esisteva già prima che la famosa teoria fosse sviluppata da Charles Darwin.
Questa obiezione è tendenziosa: Darwin ebbe sì l’enorme merito di cogliere l’evoluzione nei suoi
tratti essenziali che tutti noi conosciamo (mi riferisco, ad esempio, alla selezione naturale e alla lotta
per l’esistenza), ma dobbiamo ricordare che egli si avvalse del lavoro di molti altri scienziati a lui
precedenti, alcuni dei quali evidenziarono proprio quei nuclei attorno ai quali egli avrebbe costituito
la propria Teoria (lo stesso Darwin lo ricorda nel compendio storico all’“Origine delle specie”,
1872, pp. 67 e segg.). Dal momento che fra questi precursori hanno particolare rilievo i
paleontologi, dovremmo dire piuttosto che fu proprio la paleontologia uno dei motori che portarono
la scienza a considerare ipotesi di tipo evolutivo.
Georges Cuvier (1769-1832), che noi tutti conosciamo come il fondatore della paleontologia e
dell’anatomia comparata, fu in questo senso un personaggio chiave. Egli, infatti, pur essendo
dichiaratamente ostile alla prima teoria evoluzionista scientifica della storia, sviluppata in quel
periodo da Jean Baptist Lamarck (1744-1829), era un personaggio dotato di genio e acume non
comuni e i suoi studi vennero in seguito utilizzati da Darwin durante la redazione dell’Origine delle
specie.
In particolare Cuvier viene ricordato per aver sviluppato un principio fondamentale dell’anatomia
comparata al quale ancora oggi si affidano paleontologi ed evoluzionisti. Mi riferisco al famoso
principio di correlazione delle parti, in virtù del quale in un organismo una parte anatomica implica
la successiva secondo leggi funzionali. Utilizzando questo principio i paleontologi possono
ricostruire induttivamente un intero scheletro a partire da un numero limitato di reperti.
Darwin utilizzò in seguito il principio di correlazione per la sua teoria. Infatti, nell’Origine delle
specie scriverà:
“Variazione correlata – con questa espressione voglio indicare che le diverse parti
dell’organismo sono così strettamente collegate durante l’accrescimento e lo sviluppo, che
quando compaiono, in qualsiasi parte, leggere variazioni, e si accumulano per selezione
naturale, le altre parti subiscono modificazioni. (Darwin, 1872, p.206)
La paleontologia e Darwin devono ricordare Cuvier anche per un suo lavoro del 1812 intitolato
“Recherches sur les ossemens fossiles des quadrupèdes, où l’on rètablit les caractères de plusieurs
espèces d’animaux que les rèvolutions du globe paraissent avoir dètruites” (Ricerche sulla struttura
ossea dei fossili dei quadrupedi, in cui si ristabiliscono le caratteristiche della maggior parte delle
specie animali che le rivoluzioni del globo sembrano aver distrutto), con il quale stabilisce in modo
definitivo la realtà del fenomeno di estinzione e della successione degli organismi.
Volendo azzardare un’ipotesi potremmo affermare che Cuvier rifiutò qualsiasi ipotesi tendesse a
riformare l’idea che gli organismi fossero frutto di atti creativi indipendenti per via dei suoi rapporti
col potere. Egli era infatti, a quel tempo, uno degli uomini più potenti della Francia e, come
sottolinea Appel:
“[…] giustamente temette che le teorie speculative (come quella trasformista di Lamarck
n.d.r), la maggior parte delle quali aveva una struttura materialistica, sarebbero state
sfruttate in nome della scienza, per scalzare la religione e promuovere disordini sociali.”
(citato da : S.J. Gould, 2002 p. 372)
Etienne Geoffroy Saint-Hilaire (1772-1844), primo curatore per i vertebrati al Museum d’histoire
naturelle, dapprima intimo amico di Cuvier diventò in seguito suo fiero rivale, dando vita al celebre
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dibattito Geoffroy-Cuvier. Il terreno su cui si scontravano i due scienziati, cioè la morfologia,
diventa cruciale alla successiva luce della teoria dell’evoluzione: mentre Cuvier sosteneva che gli
organismi fossero “entità discrete, non trasformabili, progettate per specifiche condizioni di vita e
nient’ altro (citato da S.J. Gould, 2002, p. 372) ” (funzionalismo), Geoffroy affermava che:
“l’animale è un principio che ricava la sua forma esterna o, per essere più precisi, le
differenze nella sua forma dagli ambienti in cui è obbligato a svilupparsi (Balzac, La
commedia umana, 1842 in S.J. Gould, 2002, p.395) ” (formalismo).
A seconda delle interpretazioni viene considerato vincitore della disputa Cuvier oppure Geoffroy,
ad entrambi noi riconosciamo il merito di aver insinuato un dubbio negli scienziati dell’epoca: gli
esseri sono fissi e immutabili oppure possono modificarsi ?
E’ evidente quanto grande sia il debito di Darwin nei confronti della dicotomia funzionalismoformalismo nata grazie all’intelligenza di un grande paleontologo.
Sir Richard Owen (1804-1858), paleontologo, fu il primo scienziato che nel 1841 sostenne la
necessità di creare un nuovo ordine tassonomico per classificare i resti fossili di quegli strani
animali simili ai rettili ma troppo singolari per essere accomunati ai rettili attuali: nasceva così il
sottordine Dinosauria. Ad Owen si deve anche il primo tentativo di ricostruzione fisica di un
dinosauro, in quel caso si trattava dei resti di un Iguanodon. Ebbene questo valente scienziato nei
confronti del quale la paleontologia è sicuramente in debito, nonostante gli errori che commise
(molte sue ricostruzioni si sono rivelate poi errate), fu anche uno di quegli uomini che renderanno
indissolubile il binomio paleontologia-evoluzione. Infatti Stephen Jay Gould, storico e filosofo della
scienza (nonché paleontologo), descriverà Owen come un “evoluzionista esitante”. Owen, infatti,
spinse il formalismo alle estreme conseguenze affermando che, almeno per i vertebrati, si poteva
risalire ad un singolo archetipo generatore. Questo archetipo ipotizzato da Owen non è però da
intendersi come un reale progenitore, ma piuttosto come un ideale astratto, platonico e, soprattutto
creato da Dio.
E’ comunque evidente come Owen si fosse avvicinato, in modo timido e fin troppo prudente, a
quello che sarà uno dei temi centrali dell’evoluzione, cioè il fenomeno della mutazione.
E alla fine arrivò Charles R. Darwin.
Darwin “ridicolizzò la cautela di Owen (Gould) ” e, con la selezione naturale distrusse la
dicotomia fra funzionalismo e formalismo del quale Owen, come è noto, era il più accanito
sostenitore.
Nello schizzo storico aggiunto alle successive edizioni dell’Origine Darwin scrive:
“Ho dedotto, dall’ultima edizione di quest’opera,[…] che il professor Owen ammette che la
selezione naturale concorre in qualche modo alla formazione di nuove specie. Tuttavia le sue
affermazioni sono confuse e non suffragate da prove. Inoltre ho riportato alcuni estratti di un
carteggio fra il professor Owen e il redattore della London Review, dai quali è apparso
evidente, sia al redattore che a me stesso, che il professor Owen sostiene di aver enunciato la
teoria della selezione naturale prima che lo facessi io. Allora ho espresso la mia sorpresa e
soddisfazione di fronte a questa affermazione.[…](Darwin, citato da S. J. Gould, 2002,
p.413)”
In conclusione la mia tesi è che Darwin abbia un debito enorme nei confronti della paleontologia in
generale e dei paleontologi che lo hanno preceduto in particolare e che, anche se noi oggi, a ragione,
celebriamo Darwin, non dobbiamo dimenticare che la teoria dell’evoluzione non è stata creata dal
nulla per merito di un geniale intelletto, ma essa stessa è il frutto di un processo evolutivo che
lavora incessantemente da secoli e non si è ancora fermato.
Per questo possiamo affermare quanto anticipato all’inizio, cioè che, oggi, ogni paleontologo deve
essere anche un evoluzionista e ogni evoluzionista deve essere anche paleontologo.
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Credo giusto sottolineare anche che il debito di Darwin nei confronti della paleontologia sia da
leggersi più che altro in termini di forma mentis: la scienza paleontologica ,infatti, richiede una
enorme capacità immaginativa e speculativa (si pensi alla ricostruzione per induzione di uno
scheletro) e, molto più importante, la capacità di vedere la vita in termini storici.
Direi che forse il debito contratto da Darwin non sia tanto nei confronti della paleontologia, quanto
nei confronti dei paleontologi stessi. Darwin lamentava infatti una pesante incompletezza dei resti
fossili che non gli permetteva di dimostrare la sua teoria di un’ evoluzione lenta e graduale. Non si
trovavano i cosiddetti anelli mancanti.
Circa un secolo dopo però entra in gioco un altro paleontologo: il già citato Stephen Jay Gould.
Gould afferma che non ci sono motivi convincenti per ritenere che la documentazione fossile sia
tanto incompleta quanto pensava Darwin e, anzi, rispecchierebbe fedelmente (nei limiti del
possibile) la storia della vita sulla Terra. La Teoria andava modificata.
Insieme a Niles Eldredge propone quindi la teoria degli equilibri punteggiati secondo la quale le
forme di vita attraversano lunghi periodi di stasi (equilibri) seguiti da episodi di speciazione
istantanea (punteggiati) sulla scala dei tempi geologici.
Vista in questi termini, non è più possibile pensare alla paleontologia semplicemente nei termini di
un grande libro con molte pagine strappate e, confermando la precedente metafora, siamo costretti a
concludere che quelle pagine o non esistessero affatto, o non avevano avuto il tempo di andare in
stampa.
Per via dell’amore che l’uomo prova nei confronti di proverbi e aforismi, è tuttavia prevedibile che
il motto Natura non facit saltum, impiegherà ancora molto tempo per essere ridimensionato.
Stefano Dalla Casa
Bibliografia:
Darwin, Charles: L’ origine delle specie Bollati Boringhieri, Torino (1872) 2001
Gould, Stephen Jay: La struttura della teoria dell’ evoluzione Codice, Torino (2002) 2003
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