MAX WEBER
(Capitolo 8)
Max Weber (1864-1920) nasce in una famiglia borghese appartenente al mondo della
cultura e della politica. Nel 1890 inizia la sua attività politica nel partito cristiano sociale ma
la sua carriera in questo ambito rimase senza successo. Egli fu favorevole alle imprese
imperialistiche ma auspicò un sistema democratico all’interno della nazione tedesca.
All’inizio della sua attività di studioso Weber fu in contatto con il c.d “circolo dei socialisti
di cattedra” e per esso svolse una ricerca sulle condizioni di vita dei contadini della Prussica
orientale: così ebbe modo di confrontare la proprietà agricola con quella capitalistica.
Intorno a lui si formò un circolo di intellettuali cui facevano parte Simmel, Lacaks ed altri.
Nel 1928 tornò all’insegnamento all’Università di Monaco di Baviera ed aderì al partito
repubblicano collaborando alla stesura della costituzione della Repubblica di Weimar. Morì
nel 1920 quando ancora la sua opera più impegnativa Economia e società non era ancora
terminata.
Uno dei tentativi più noti di Weber è quello di scindere la scienza sociale dalla politica,
eppure la politica è sempre presente nei suoi scritti tanto che affrontare lo studio del suo
pensiero senza correlalo con i problemi politici del suo tempo si rischia di non
comprenderlo completamente. D’altra parte non è possibile comprendere a fondo questo
autore senza in quadrarlo nell’ambito di quel dibattito sul metodo delle scienze storico
sociali che aveva avuto inizio con Dilthey, Windelband e Rickert.
Il metodo delle scienze sociali - La relazione con i valori e i giudizi di valore – Il tipo ideale
Dilthey aveva distinto le scienze della natura dalle scienze dello spirito in quanto le prime
studiano il mondo esterno all’uomo e i nessi causali tra i fenomeni fisici e le seconde
devono comprendere l’uomo dall’interno, per immedesimazione.
Windelband, aveva invece distinto le scienze nomotetiche da quelle idiografiche nel senso
che le prime studiano il ripetersi di fenomeni nel tempo secondo leggi determinate mentre
le seconde studiano i fenomeni nella loro singolarità e irripetibilità spostando dunque il
problema dall’oggetto al metodo.
Rickert da parte sua aveva affermato che era necessario far riferimento ad una scala di valori
universali per orientarsi nella molteplicità infinita degli eventi storico-sociali e per poter
scegliere quelli più significativi.
Mex Weber riprende il discorso di Windelband e Ricker correggendolo con la
considerazione che senza una selezione dall’infinità priva di senso di tutto ciò che accade
nel mondo la conoscenza è semplicemente impossibile. La realtà oggettiva è un caos per cui
la conoscenza (anche quella scientifica) è possibile soltanto in relazione ad una scala di
valori che indichi ciò che merita di essere considerato e quale valore attribuire a tale evento.
Per Weber, però, tale scala di valori non è composta da valori universali (come per Wind. E
Rick.) perché questi valori cui far riferimento sono storicamente, socialmente ed anche
individualmente relativi.
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Poi, Weber aggiunge che non solo il riferimento a valori è essenziale per la conoscenza ma
anche che esistono tanti modi di conoscere la realtà, cioè che uno stesso evento può essere
considerato da più punti di vista diversi.
Quindi, la realtà può essere conosciuta solo in quanto si attribuiscono a settori particolari di
essa significati e valori particolari ed essa è sempre mediata culturalmente in quanto è la
“cultura” che permette di selezionare alcune aspetti dalla realtà infinita priva di senso
attraverso l’attribuzione a essi di significati specifici.
Dato che i valori cui far riferimento non sono universali essi non possono essere indicati da
alcuna legge scientifica. Nelle scienze storico-sociali le leggi sono ipotetiche e il loro
compito è quello di chiarire determinati aspetti in studio del fenomeno ma non possono
esaurirlo: si possono cercare connessioni causali espresse in forme di regole ma va sempre
tenuto presente che mentre per le scienze esatte della natura le leggi hanno tanta più validità
quanto più sono generali, per le scienze storico sociali tanto più le leggi sono generali
quanto più perdono di valore. Pertanto, il principio delle scienze nomotetiche (che studiano
il fenomeno nella loro tendenza a ripetersi secondo leggi determinate) è valido anche per le
scienze storicio-sociali in quanto l’inquadrare il fenomeno da studiare in una legge, sempre
ipotetica, può essere utile per la comprensione del fenomeno stesso.
Certamente, secondo Weber, si possono inquadrare soltanto alcune cause di un fenomeno
perché esse in realtà sono infinite così non c’è possibilità di esaurire la comprensione di un
fenomeno storico-sociale con l’individuazione delle sue cause: si possono solo mettere in
evidenza alcuni fattori che, secondo il punto di vista particolare da cui muove la ricerca,
hanno condizionato l’emergere della situazione specifica in studio.
Le scienze storico-sociali, poi, trattano di fenomeni culturali nelle loro configurazioni
storiche ed individuali specifiche (quindi uniche ed irripetibili) di conseguenza non è
sufficiente individuare le relazioni quantitative ma è necessario immedesimarsi, rivivere,
intendere (Verstehen): è evidentissima l’influenza di Dilthey. E’ bene chiarire subito, però,
che il verstehen di Weber (l’intendere), è diverso da quello di Dilthey perché per
quest’ultimo l’intendere significa immedesimazione con i motivi fondamentalmente
irrazionali (e che come tali possono solo essere intuiti) mentre per Weber l’intendere non
comporta un’immedesimazione di tipo psicologico ma si basa sul fatto che l’azione può
essere razionale in quanto tende a raggiungere scopi con mezzi considerati validi
(razionalità rispetto allo scopo).
Ecco che non c’è nessuna analisi scientifica puramente oggettiva e che non sia quindi
unilaterale nel senso di non poter prescindere da una relazione con i valori e che tali valori
siano insindacabili in quanto “questione di fede” implica che la scienza sociale non può dare
alcuna indicazione pratica circa le scelte da compiere in sede politica. La scienza non può
dare giudizi di valore in quanto essi si basano su determinati ideali e sono perciò di origine
soggettiva.
La scienza può, invece, conferire consapevolezza a chi agisce che ogni agire, ma anche il
non agire, ha delle conseguenze e significa dunque prendere posizione in favore di
determinati valori rispetto ad altri: compiere la scelta, però, è cosa che riguarda
esclusivamente il soggetto agente. La scienza può indicarci quali mezzi sono più idonei per
raggiungere il fine che ci siamo proposti in relazione alla loro efficacia, e può insegnarci a
considerare i fini che ci siamo proposti criticamente (solo nel senso di assenza di
contraddizione interna di ciò che vogliamo).
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La scienza, dunque, deve far suo il principio della avalutatività nel senso che tutto ciò che
essa può fare è giudicare l’efficienza delle scelte rispetto alle mete che si vogliono
raggiungere ma la scelta di queste mete esula dalla scienza e diventa questione di fede
risolvibile solo dalle religioni positive.
Queste affermazioni di Weber hanno un significato anche politico, infatti, sulla loro base,
egli è in grado di porsi criticamente nei confronti del positivismo classico come del
materialismo storico. Partendo da questi presupposti, Weber afferma che essendo la realtà
storico-sociale infinita e non esauribile da un unico punto di vista, l’errore della concezione
materialistica della storia non consiste nell’analisi, scientificamente legittima, dei
condizionamenti economici ma nell’aver presupposto che tale analisi sia l’unica valida da
un punto di vista scientifico, cadendo tutte le altre nell’ideologia. Se la concezione
materialistica della storia come studio del condizionamento economico dei processi culturali
è un metodo prezioso, come pretesa dogmatica va recisamente rifiutato. Non è dunque
l’analisi ad essere errata ma la presunzione che il punto di vista assunto e il conseguente
metodo adottato siano gli unici validi quando invece la medesima realtà storico sociale può
essere validamente studiata con pari legittimità e scientificità da punti di vista diversi. Il
significato politico della concezione di Weber è evidente: riducendo il marxismo a un punto
di vista tra i tanti possibili, toglie ad esso quella forza attiva che dall’inizio ne voleva essere
un tratto distintivo essenziale. Weber si definiva esplicitamente un borghese (… contento di
esserlo).
Naturalmente, Weber (dopo aver affermato che scienza e conoscenza non sono possibili
senza una selezione fondata su una relazione con i valori, di un tratto specifico della realtà
che si considera come significativo a scapito di altri) si trova nella necessità di indicare
quali possibilità ha la scienza sociale di essere oggettiva. Weber afferma a questo proposito
che l’oggettività delle scienze sociali è garantita dal metodo. Egli afferma che ogni
fenomeno storico-sociale è determinato da una serie di concause ma è possibile accentuare
unilateralmente un suo fattore specifico, che in concreto non si trova mai allo stato puro e
isolato, e costruire sulla sua base un modello che serva all’interpretazione della realtà in
questione dal particolare punto di vista unilaterale da cui essa è osservata. E’ questo il “tipo
ideale”: esso è cioè uno strumento euristico per l’interpretazione della realtà che, una volta
accettato, conduce chi lo accetta a determinate conclusioni e quindi garantisce l’oggettività
della ricerca scientifica. Il tipo ideale è dunque l’estrapolazione dalla realtà storico-sociale
di un suo tratto (che concretamente si trova inserito in tale realtà) che viene appositamente
accentuato concettualmente in modo da formare un modello tramite il quale interpretare la
realtà. Esso è un’utopia nel senso che, nella sua purezza concettuale, non può mai essere
rintracciato empiricamente nella realtà. Esso serve come schema di riferimento rispetto al
quale la realtà deve essere misurate e comparata al fine di illustrare determinati elementi
significativi del suo contenuto empirico. Ecco che l’artigianato, il capitalismo, il
cristianesimo, la chiesa, la setta, lo stato, sono tutti esempi di “tipo ideale” portati da Weber.
La ricerca storico-sociologica
Negli stessi anni nei quali elabora la sua metodologia (agli inizi del ‘900), Weber cerca di
applicarla alla ricerca concreta, di questo periodo è, infatti, il suo famoso saggio su L’etica
protestante e lo spirito del capitalismo (1905).
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Se da un lato questa ricerca costituisce il terreno concreto sul quale Weber applica la sua
metodologia, dall’altro non si può nascondere anche la valenza politica di quest’opera in
quanto con essa Weber cerca di dare una spiegazione alle origini del capitalismo diversa da
quella di Marx ed Engels.
Il capitalismo, afferma Weber, non è né sete di potere né sopraffazione economica in quanto
tali fenomeni si sono sempre manifestati in tutte le epoche e in tutti i luoghi. Esso è un
“calcolo razionale al fine di un guadagno sempre rinnovato”. Tale calcolo è proprio
dell’impresa capitalistica e richiede, affinché possa realizzarsi, il libero scambio, il lavoro
formalmente libero e probabilità di guadagno formalmente pacifiche. Esso può essere
inteso, dunque, come un freno razionale all’impulso irrazionale del guadagno smodato, della
bramosia di lucro.
Elementi caratteristici del capitalismo (che solo isolatamente possono trovarsi anche in altre
formazioni storiche ma che tutti insieme sono un fenomeno storicamente specifico) sono
che:
a) l’attività deve essere organizzata ai fini del guadagno;
b) ci deve essere una separazione tra amministrazione di tale attività e quella domestica;
c) devono essere tenuti razionalmente libri contabili;
d) lavoro formalmente libero (= libera concorrenza), nel senso che ogni imposizione,
privilegi e proibizioni non consentirebbero la piena razionalizzazione dell’impresa
rispetto al guadagno e la necessaria organizzazione sociale che il capitalismo
richiede. E’ questo che determina il formarsi delle classi sociali contrapposte dei
capitalisti e dei proletari come fenomeno anch’esso storicamente specifico.
Weber muove dunque alla ricerca dello “spirito del capitalismo”, cioè di quei presupposti
culturali senza i quali il capitalismo occidentale non avrebbe potuto svilupparsi: egli lo
trova nell’etica protestante e, in particolare, nel puritanesimo (con la sua dottrina della
predestinazione). La dottrina puritana comporta la totale sottomissione dell’individuo a Dio:
l’uomo ha il proprio destino già segnato fin dalla nascita (salvezza o dannazione) e,
pertanto, ogni sua attività non serve a modificarlo. Le condizioni di vita (ricchezza o
povertà) sono indicazione di ciò che Dio ha riservato agli uomini perciò per il puritano la
capacità di guadagno ai fini del reinvestimento diventa l’unico segno esteriore della propria
predestinazione alla salvezza che può essere riscontrato nella vita terrena. Di qui la grande
importanza assunta dal denaro nella cultura capitalistica (il tempo è denaro, il credito è
denaro, il denaro è per sua natura fecondo e produttivo). A questo uso del denaro per il
rinvestimento e nuovi guadagni è legato il principio del dovere professionale, della
professione come vocazione.
Anche quando poi, nel tempo, i connotati più strettamente religiosi scompariranno
l’influenza esercitata dall’etica protestante sullo spirito capitalismo rimarrà vincolante.
Weber dunque contrappone all’origine del capitalismo così come descritta dal materialismo
storico l’accentuazione (secondo i principi del tipo ideale) dell’influenza religiosa
Ricordiamo che Weber non vuole rovesciare in posizione “spiritualistica” quella
“materialistica” di Marx: egli afferma soltanto che l’errore della concezione materialistica
della storia non consiste nell’analisi, scientificamente legittima, dei condizionamenti
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economici ma nell’aver presupposto che tale analisi sia l’unica valida da un punto di vista
scientifico, cadendo tutte le altre nell’ideologia. Se la concezione materialistica della storia
come studio del condizionamento economico dei processi culturali è un metodo prezioso,
come pretesa dogmatica va recisamente rifiutato. Non è dunque l’analisi ad essere errata ma
la presunzione che il punto di vista assunto e il conseguente metodo adottato siano gli unici
validi quando invece la medesima realtà storico sociale può essere validamente studiata con
pari legittimità e scientificità da punti di vista diversi.
Weber continuerà a mettere in luce il nesso dialettico che intercorre tra religione ed
economia nelle varie società storiche, nella consapevolezza che la priorità di un fattore
rispetto all’altro non può essere decisa una volta per tutte.
L’azione dotata di senso, l’azione sociale e la relazione sociale.
Weber continuerà ad occuparsi costantemente del problema della “relazione di valore” –
(inevitabile in quanto dirige la selezione e la formulazione dell’oggetto di un’indagine
empirica) e dell’avalutatività (altrettanto inevitabile in quanto le scienze storico-sociale non
possono dare giudizi di valore destinati a guidare l’azione) e, di pari passo, si occuperà sia
di problemi metodologici sia di ricerca storico-sociale mettendo in luce i condizionamenti
reciproci che intercorrono tra società, religione, economia.
In questa ottica egli affronta L’etica economia delle religioni mondiali (con studi su
Confucianesimo, Taoismo, Induismo, Buddismo e Giudaismo antico) ed anche nella sua
opera più importante (anche se incompiuta e pubblicata postuma) Economia e Società sono
presenti problemi di carattere metodologico che sostanziale (questi ultimi relativi anche al
mondo contemporaneo).
Egli inizia questa sua grande opera chiarendo il suo parere a proposito dell’ambito della
sociologia: La sociologia deve designare una scienza la quale si propone di intendere, in
virtù di un procedimento di interpretazione, l’agire sociale e quindi spiegarlo casualmente
nel suo corso e nei suoi effetti.
Ecco che, una volte definito che oggetto della sociologia è “l’agire sociale”, Weber passa a
chiarire che cosa debba intendersi per agire, agire sociale e interazione sociale.
L’agire è tale soltanto se è dotato di senso quando, cioè, l’agire viene prodotto
contestualmente ad un’attribuzione di significato da parte dell’attore all’azione (= quando
l’azione ha un motivazione individuale). Così, non è agire un’azione di tipo puramente
reattivo (quando non c’è motivazione non si ha azione ma “comportamento” anche se
empiricamente può essere difficile distinguere tra comportamento e azione orientata
tradizionalmente).
Si ha senso di fatto, quando il senso è attribuito da un soggetto agente (che può essere
inteso come individuo o anche come gruppo o media di soggetti agenti); senso
intenzionato soggettivamente quando ad attribuire senso all’azione è un soggetto assunto
come “tipo ideale” (cioè un modello).
L’agire, in senso lato, comprende un agire interno ed un agire esterno. L’agire esterno è
quell’agire in cui l’attore ha come riferimento (= è orientato) il mondo esterno, cioè gli altri;
l’agire interno è un agire di tipo riflessivo (autoreferenziale) in cui l’attore ha come
riferimento se stesso.
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Si ha agire sociale quando il senso attribuito all’azione è orientato verso altri soggetti
individuali (= quando la motivazione individuale dell’attore è diretta verso altri soggetti
individuali).
Esaminando l’agire sociale, Weber elaboro i famosissimi quattro fondamenti determinanti
dell’agire sociale:
a) agire in modo razionale rispetto allo scopo: che si ha quando l’attore concepisce
chiaramente il fine e combina razionalmente i mezzi per il suo conseguimento (es:
l’ingegnere che costruisce un ponte);
b) agire in modo razionale rispetto al valore: che si ha quando l’attore agisce
razionalmente non per conseguire un risultato pratico ma per rimanere fedele ad un
suo principio (es.: il capitano che cola a picco con la sua nave)
c) agire affettivamente: che si ha quando l’azione riflette uno stato d’animo;
d) agire tradizionalmente: che si ha quando l’azione riflette abitudini acquisite
dall’attore.
Ci rendiamo conto come Weber intende queste azioni non in rapporto all’osservatore (come
fa Pareto) ma in rapporto al significato che il soggetto agente attribuisce al proprio agire.
Weber poi passa a specificare cosa debba intendersi per relazione sociale.
Si ha relazione sociale quando il comportamento di più individui è instaurato
reciprocamente secondo il suo contenuto di senso e orientato in conformità. Affinché si
abbia relazione sociale è necessario che entrambe le parti che agiscono attribuiscano un
minimo di senso comune al loro agire. Non si tratta necessariamente di solidarietà (es.
nella lotta) ma ciò che è necessario è che il senso attribuito all’azione dalle parti deve essere
comune (= devono dare lo stesso significato).
La sociologia, dunque, ha come ambito problematico l’azione sociale e la relazione
sociale.
Il concetto di agire dotato di senso, con particolare riferimento all’agire sociale, porta alla
centralità del verstehen (=comprendere) cioè dell’elemento della comprensione. Se l’agire è
legato ad un significato interno, occorre comprendere questo significato interno: quindi,
primo compito della sociologia è quello del verstehen, cioè ricostruire gli estremi del
significato interno della condotta attraverso tecniche di tipo più lato possibile. Per esempio,
la scuola storica romantica da cui viene Weber, che è rappresentata da Rickert e
Windelband (che sono stati maestri di Weber) intende il concetto di verstehen come una
specie di compenetrazione nel senso che dice “il sociologo (l’osservatore) vive nello stesso
mondo culturale in cui vive l’attore e quindi il compito della sociologia non può che essere
questa specie di compenetrazione simpatetica che l’osservatore deve avere nei confronti
dell’attore in quanto essi appartengono allo stesso mondo culturali ed in quanto hanno le
stesse coordinate culturali. Quindi il pensiero romantico (Weber romperà con esso pur
rifacendosi ad esso) intende la comprensione come esaustiva (nel senso che esaurisce il
compito della sociologia: la sociologia deve essere sostanzialmente una tecnica di
identificazione comprendente gli attori sociali in base alla loro comunanza culturale che
mette insieme l’osservatore con l’attore). Weber afferma e ribadisce l’importanza della
comprensione ma, secondo lui, il verstehen non esaurisce il compito della sociologia ma
costituisce solo il primo momento; il secondo momento è costituito dall’analisi causale del
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comportamento. Per questo, il grande contributo di Weber è stato quello di mettere insieme
comprensione (cioè l’analisi e l’intelligibilità del vissuto) e spiegazione (cioè ricostruzione)
di un’imputazione di tipo causale.
Pertanto, la grande svolta metodologica di Weber da quanto punto di vista è stata quella di
mettere insieme la comprensione (cioè l’interpretazione che è costituita da un atteggiamento
di tipo intuizionista dell’osservatore nei confronti dell’attore) e di trasferire questo
componente in un secondo spazio del lavoro sociologico che è quello della spiegazione
causale. Perciò, se diciamo che l’uomo è guidato dai sentimenti (credenze, pregiudizi, ecc.)
occorre riuscire a trasformare questi sentimenti in variabili che mi mettano nelle condizioni
metodologiche di dire che quando l’uomo ha certi sentimenti da questi sentimenti ne
scaturisce un certo comportamento. Se noi trasformiamo in variabili ciò che è alla base della
soggettività dell’uomo, potremo poi fare un’analisi causale di questo dominio empirico
identica all’analisi causale che si fa nelle scienze esatte.
Le forme di potere
Weber in riferimento al potere, distingue innanzitutto il potere (o autorità) dalla potenza (o
potere, a seconda delle traduzioni).
Potere (o autorità) è la possibilità che un comando determinato trovi obbedienza presso
certe persone e solitamente, ma non necessariamente, questo tipo di potere comporta un
apparato amministrativo.
Potenza (o potere) è la possibilità di far valere la propria volontà anche di fronte ad
un’opposizione.
Il potere si distingue dalla potenza in quanto legittimo.
Ciò che interessa dal punto di vista sociologico è esclusivamente l’autorità (o potere).
Secondo Weber esistono tre tipi puri di potere (autorità) in riferimento alla validità della
loro legittimità:
a) potere legale – che si basa sul riconoscimento dell’autorità di ordinamenti statuiti e
del diritto di comando di coloro che sono chiamati ad esercitare tale potere in base ad
essi (potere a carattere razionale). In questo caso si obbedisce alla “legge” e alle
persone “preposte” dall’ordinamento stesso a farla osservare e non alla persona in
quanto tale.
b) potere tradizionale – che si ha quando il diritto di esercitare il potere è conferito dal
carattere sacro della tradizione valida da sempre e nella legittimità di coloro che in
base ad essa sono chiamati a rivestire tale autorità. In questo caso si obbedisce al
“signore”, al “re”, come persona designata dalla tradizione, in virtù della reverenza
da parte di coloro che la riconoscono.
c) potere carismatico – che si ha quando il diritto di esercitare il potere è conferito in
virtù del riconoscimento di qualità eccezionali, eroiche, straordinarie proprie di un
individuo. In questo caso di obbedisce al “duce”, in quanto tale, designato
carismaticamente in virtù della devozione che ha saputo conquistarsi grazie alle sue
eccezionali qualità.
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Questa distinzione tra i tre tipi di potere prescinde da circostanze storiche specifiche: si
tratta di tipi puri, ideali, di uno schema di riferimento per lo studio delle diverse
configurazioni in cui di fatto il potere si presenta.
Weber osserva che nella società capitalistico-industriale prevale la razionalità rispetto
allo scopo cioè un tipo di razionalità formale che guarda all’efficienza dei mezzi più che
alla bontà del fine, così come prevale il potere razionale-legale. In tali società la
razionalità viene ad identificarsi con l’organizzazione burocratica ed efficientistica in cui
non possono entrare considerazioni di carattere personale. Nella burocrazia non esistono
uomini ma funzioni e funzionari che devono svolgere un compito ben preciso, nel
migliore e più efficiente dei modi, senza chiedersi altro. Questo tipo di organizzazione è
propria del capitalismo e riguarda tanto l’organizzazione amministrativa dello Stato
quanto l’impresa. In questo tipo di organizzazione, la spersonalizzazione,
l’oggettivazione dei rapporti è un tratto caratteristico e nello stesso tempo essenziale
(burocrazia = massima efficienza).
Partiti politici e classi sociali
Anche il modo in cui Weber affronta il problema dei partici politici e delle classi sociali
denota a un tempo l’influenza di Marx e la volontà di contrapporsi a lui
Ricordiamo come il concetto di classe in Marx abbia basi esclusivamente economiche:
nella società capitalista esistono due sole classi – borghesia e proletariato – e la
differenza tra l’una e l’altra è determinata dalla proprietà privata o meno dei mezzi di
produzione.
L’analisi di Weber invece integra quella marxiana considerando affianco alla “classe” il
“ceto”:
-
la classe – che evidenzia la dimensione prettamente economica – come composta da
individui che condividono una posizione comune in una data situazione di mercato;
-
il ceto – che è un concetto squisitamente sociologico – che è un insieme di persone
(una comunità o gruppo di status) che hanno un comune stile di vita (derivante
dall’educazione ricevuta e dal prestigio derivante dalla nascita e/o dalla professione)
e condividono il senso di possedere la medesima identità di gruppo (persone che
dunque condividono una stessa “Situazione di ceto” intesa come effettivo
privilegiamento positivo o negativo nella considerazione sociale).
Weber invece afferma che nella società capitalista esistono diversi tipi di partito (uno
solo dei quali è caratterizzato da comuni interessi materiali dei suoi membri mentre gli
altri si caratterizzano per avere una comune concezione del mondo) ed una pluralità di
classi.
Weber distingue le classi in possidente (quando le differenze di possesso determinano in
modo primario la situazione di classe) ed acquisitiva (quando le possibilità di
utilizzazione sul mercato dei beni o delle prestazioni determinano in modo primario la
situazione di classe)
Weber, fino alla fine della sua vita, insiste sull’avalutatività della scienza nel senso che
essa può avere solo funzioni strumentali rispetto ai fini che i politici vogliono
raggiungere ma non può esprimere per essi giudizi di valore. I fini non possono essere
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mai messi in discussione perché la scelta dei fini è questione di fede. La vita è
concepita come una lotta tra una pluralità di valori irriducibili l’uno all’altro. E’
questo il principio del politeismo dei valori.
LA RAZIONALITA’ IN WEBER
Un primo e generale livello di razionalità circa l’agire umano Weber lo definisce
quando egli afferma che “azione razionale appare quell’azione che mira a determinati
fini scelti liberamente dall’attore, senza condizionamenti affettivi o coazioni, e per
raggiungimento dei quali egli sceglie mezzi adeguati” (che poi questi mezzi siano
adeguati può anche essere una convinzione soggettiva dell’attore).
Questo discorso è poi ripreso ed ampliato in un saggio del 1913 Alcune categorie della
sociologia comprendente. Weber afferma, e qui è evidentissima l’influenza di Dilthey,
che dato che le scienze storico-sociali, trattano di fenomeni culturali nelle loro
configurazioni storiche ed individuali specifiche (quindi uniche ed irripetibili) non è
sufficiente individuare le relazioni quantitative ma è anche necessario immedesimarsi,
rivivere, intendere (Verstehen) per rendere l’azione “evidente”. E’ bene chiarire subito,
però, che il verstehen di Weber (l’intendere), è diverso da quello di Dilthey perché per
quest’ultimo l’intendere significa immedesimazione con i motivi fondamentalmente
irrazionali (e che come tali possono solo essere intuiti) mentre per Weber l’intendere
non comporta un’immedesimazione di tipo psicologico ma si basa sul fatto che l’azione
può essere razionale in quanto tende a raggiungere scopi con mezzi considerati validi
cioè è razionale rispetto allo scopo.
Razionalità rispetto allo scopo soggettiva (= razionalità soggettiva) significa che
l’attore tiene un comportamento orientato esclusivamente in base ai mezzi ritenuti
(soggettivamente) adeguati per raggiungere gli scopi che l’attore stesso si era proposti
(concependoli soggettivamente con precisione e chiarezza). Ciò che caratterizza questo
tipo di razionalità non è l’effettiva adeguatezza dei mezzi per il raggiungimento dei fini
ma la convinzione soggettiva di tale adeguatezza.
Weber poi contrappone alla razionalità rispetto allo scopo soggettiva la razionalità
normale oggettiva (= razionalità oggettiva) della quale rende alcune definizione non
sempre chiare e conciliabili l’una con l’altra. Una volta Weber afferma che “le
aspettative riposte nell’azione risultano valide in base a precedenti esperienze” e dunque
sembra far riferimento all’efficienza oggettiva dei mezzi; un’altra volta parla di “agire
orientato correttamente in vista di ciò che vale oggettivamente” egli sembra far
riferimento la valore, alla meta che si vuole raggiungere. Weber poi aggiunge che tanto
la razionalità soggettiva quanto la razionalità oggettiva sono assolutamente irriducibili
l’una all’altra perché un conto è la razionalità oggettiva nel senso di un’effettiva
correlazione tra mezzi e scopi messa in evidenza empiricamente, altro è la convinzione
soggettiva dell’adeguatezza tra mezzi e scopi.
Comunque, tanto la razionalità rispetto allo scopo soggettiva quanto la razionalità
normale oggettiva sono “tipi ideali” cioè modelli costruiti dal ricercatore al fine di
orientarsi nella realtà storico-sociale che intende studiare.
Non tutte le azioni sono razionali rispetto allo scopo ma Weber afferma che anche le
azioni irrazionali possono essere comprese e lo schema di riferimento per comprendere
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tali azioni è dato proprio dal modello di azione razionale rispetto allo scopo soggettiva.
Del resto, nella realtà, nessuna azione è totalmente razionale o totalmente irrazionale.
Weber, però, lascia cadere questa prima distinzione della razionalità (soggettivaoggettiva) molto probabilmente in seguito all’ambiguità del termine “oggettivo” in
relazione a questo tema.
In Economia e società, l’opera uscita postuma nel 1922, ripropone, nel capitolo dedicato
ai concetti sociologici fondamentali in rapporto ai tipi di agire sociale, due nuove
distinzioni (tra esse collegate)
a) razionalità secondo lo scopo – razionalità secondo il valore, che è di gran lunga la
più famosa;
b) razionalità formale – razionalità materiale; - distinzione effettuata in relazione
all’economia.
Weber afferma che l’agire è tale solo quando è dotato di senso (= quanto l’attore
attribuisce alla sua azione in significato) e si ha agire sociale quando il senso attribuito
all’azione è orientato verso altri soggetti individuali (= quando la motivazione
individuale dell’attore è diretta verso altri soggetti individuali).
Indicando i fondamenti determinanti dell’agire sociale, Weber afferma che come ogni
agire anche l’agire sociale può essere determinato:
e) in modo razionale rispetto allo scopo: agisce in maniera razionale rispetto allo
scopo colui che orienta il suo agire in base allo scopo, ai mezzi e alle conseguenze
concomitanti, misurando razionalmente i mezzi in rapporto agli scopi e gli scopi in
rapporto alle conseguenze ad anche i diversi scopi possibili in rapporto reciproco.
L’agire razionale rispetto allo scopo guarda solo all’efficienza dei mezzi per il
raggiungimento dello scopo e, in caso di scopi concorrenti o contrastanti, l’individuo
agente sceglie valutando la loro urgenza rispetto ad una scala di bisogni soggettivi.
f) in modo razionale rispetto al valore: agisce in modo razionale rispetto al valore colui
che agisce spinto dalla certezza nell’incondizionato ed indiscutibile valore di un
determinato comportamento in quanto tale prescindendo dalle conseguenze. La
razionalità rispetto al valore sottomette i mezzi al valore assoluto attribuito allo
scopo. Questo tipo di razionalità pone l’accento non sul valore in quanto tale, non
sulla scelta, ma sul suo carattere incondizionato. Infatti, la scelta tra valori non può
essere sottoposta a criteri razionali. Le scelte ultime che guidano l’agire sono cioè
“questione di fede”: è questo il tema del politeismo dei valori. L’uomo che agisce
volontariamente misura e sceglie tra i valori secondo la propria coscienza e secondo
la sua personale concezione del mondo. La scienza può condurlo alla coscienza che
ogni agire (ma anche il non agire) significa nelle sue conseguenze una presa di
posizione in favore di determinati valori e perciò di regola contro altri. Compiere la
scelta, però, è cosa sua.
g) affettivamente: quando l’azione riflette stati d’animo o affetti;
h) tradizionalmente: quando l’azione riflette abitudini acquisite.
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La distinzione che Weber fa tra razionalità formale e razionalità materiale è
effettuata in relazione all’economia.
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razionalità formale di un agire economico definisce la misura del calcolo
tecnicamente possibile e realmente applicato a esso. La razionalità formale è
paragonata alla razionalità rispetto allo scopo nel senso che si limita a constatare che
“viene compiuto un calcolo razionale rispetto allo scopo, con mezzi tecnici il più
possibile adeguati”. Il calcolo sembra essere correlato con l’efficienza dei mezzi
tecnici indipendentemente dai fini che si vogliono raggiungere e proprio in ciò sta il
carattere formale di questa razionalità la quale non si trova mai allo stato puro in
quanto nella realtà è sempre correlata a considerazioni materiali.
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La razionalità materiale, invece, fa valere esigenze etiche, politiche, edonistiche e
di qualsiasi specie misurando in base ad esse razionalmente rispetto al valore, o
razionalmente rispetto allo scopo materiale, i risultati dell’agire economico. Essa
guarda al raggiungimento di uno scopo considerato positivamente indipendentemente
dagli eventuali sacrifici che ciò può comportare dal punto di vista dell’efficienza dei
mezzi. E’ il raggiungimento dello scopo a costituire il fondamento della razionalità
materiale e rispetto ad essa è sempre possibile una critica circa le intenzione e i mezzi
di cui ci si serve per tale raggiungimento.
La razionalità formale ha bisogno di alcune condizioni materiali per potersi esprimere:
a) la lotta di mercato tra economia autonome- i prezzi monetari su cui basare il calcolo
sono infatti il risultato di tale lotta;
b) libertà di mercato – in quanto senza di essa la calcolabilità non potrebbe verificarsi in
modo autonomo rispetto alla coercitività;
c) è necessaria la presenza di strati sociali con un loro potere d’acquisto in modo che le
imprese ricavino un certo utile.
Per quanto riguarda la razionalità in riferimento all’economia, Weber afferma che c’è
differenza tra razionalità economica formale (basata sul calcolo) non è concettualmente
identica alla razionalità formale basata sul calcolo monteraio.
In altri casi si può avere un conflitto tra razionalità formale e razionalità materiale: sono i
casi in cui considerazioni o convinzioni politiche ostacolano lo svolgimento dell’attività
economica secondo quei criteri del calcolo e dell’efficienza di cui sopra.
La dicotomia tra razionalità formale e razionalità materiale è riportata da Weber
anche alla legislazione e alla giurisdizione.
Tanto la legislazione quanto la giurisdizione possono essere razionali o irrazionali.
Sono formalmente irrazionali quando vengono impiegati mezzi diversi da quelli
razionalmente controllabili (es. il ricorso ad oracoli e divinazioni). Per quanto riguarda la
giurisdizione, ad esempio, l’applicazione di regole formali generali (es. l’applicazione di
particolari procedure) garantisce la razionalità formale. Weber elenca una serie di postulati
dai quali la razionalità giuridica formale non può prescindere:
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a) ogni decisione giuridica è l’applicazione concreta di un principio giuridico astratto ad
una fattispecie;
b) per ogni fattispecie concreta deve essere possibile risalire ad una norma giuridica
astratta dalla quale poi derivare la decisione
c) ciò che non è espressamente contemplato nel sistema giuridico (quindi da esso
regolato) è per esso inesistente
La legislazione e la giurisdizione sono materialmente irrazionali quando per la decisione
assumono importanza valutazioni concrete del singolo caso anziché norme generali. Per le
questioni giuridiche, esse sono materialmente irrazionali quando le decisioni sono
influenzate da norme di dignità qualitativa diversa dalle generalizzazioni logiche di
interpretazioni astratte.
Abbiamo visto come fino ad ora Weber abbia posto e proposto dei concetti, distinzioni e
classificazioni essenzialmente in termini generali ed astorici è da considerare, però, che il
suo discorso ha origine da un problema storico che è poi anche il tema principale del
pensiero weberiano: quello del processo di razionalizzazione della moderna società
occidentale.
Egli prende in considerazione il tema della razionalizzazione da moltissimi punti di vista
(del diritto, della giurisdizione, dell’economia, ecc) ed a suo parere il problema principale
che si pone in relazione alle moderna società occidentale è questo “Per quale
concatenazione di circostanze, proprio in Occidente, e soltanto qui, si sono prodotti dei
fenomeni culturali i quali si sono trovati in una direttrice di sviluppo di significato e di
validità universali?”
Questo significato universale è la razionalità.
Il fenomeno del capitalismo si inquadra in questa generale tendenza verso una totale
razionalizzazione della vita. Il capitalismo, come organizzazione razionale della vita
economica, come investimento del capitale sulla base di un calcolo razionale al fine di un
possibile maggiore guadagno da investire in un processo sempre rinnovato, è fenomeno
tipico dell’Occidente moderno e si inquadra nella più ampia tendenza verso la totale
razionalizzazione.
Il razionalismo economico (= aumento di produttività del lavoro che si realizza tramite
l’organizzazione del processo produttivo da un punto di vista scientifico che ha abolito il
legame di tale processo coi limiti fisiologici della persona) proprio del capitalismo
occidentale moderno condiziona ogni aspetto della vita sociale e gli stessi ideali di vita della
moderna società borghese. La razionalizzazione comporta il dominio sulla natura e
sull’uomo stesso, il controllo di ciò che in epoche e società diverse da quelle del capitalismo
moderno era considerato come non controllabile dall’uomo, dovuto a forze magiche o
trascendenti e, in questo senso, comporta il disincantamento del mondo. Non occorre più la
magia per propiziare gli spiriti, ora c’ è la ragione e la scienza.
La razionalità non è effettiva conoscenza delle condizioni di vita che ci circondano ma
consapevolezza che l’uomo ha la capacità di raggiungere le mete che vuole con il suo
controllo razionale della realtà.
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Anche se il processo di disincantemento del mondo ha un ambito più vasto di quello relativo
al capitalismo, esso trova la sua realizzazione più ampia nell’Occidente modenro e
nell’organizzazione economica capitalistica.
Naturalmente il controllo della realtà reso possibile dalla razionalizzazione, comporta
un’organizzazione della società a esso adeguata. Tale organizzazione coincide sempre più
con la burocratizzazione, con la razionalità formale, efficientistica, con l’adeguatezza dei
mezzi al raggiungimento dei fini, con la riduzione dell’uomo a funzione, al ruolo che egli
deve esercitare all’interno dell’organizzazione ai fini del suo funzionamento.
Tale razionalità formale è però sorta storicamente sulla base di un elemento irrazionale.
Weber, nel suo famoso studio sull’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, coniuga il
razionalismo moderno con il concetto di professione come vocazione (Beruf) che sorge con
la religione protestante e con il calvinismo in particolare. L’adempimento del proprio
dovere, nelle professioni mondane, è valutato come il più alto contenuto che potessa
assumere l’attività etica. Attraverso la professione si operava a maggior gloria di Dio e in
essa si riscontrava un segno della propria salvezza ultraterrena.
Anche in altre concezioni religiose e nei principi etici che da esse derivano, si possono
ravvisare, secondo Weber, elementi di razionalizzazione. Lo si vede, ad esempio anche
nell’organizzazione della Chiesa che guarda all’efficienza, all’obbedienza, a darsi una
struttura burocratica rigidissima.
Weber ricorda comunque che il concetto stesso di razionalità non è assoluto: il razionalismo
è un concetto storico che racchiude in sé un mondo di contraddizioni.
Il processo di razionalizzazione proprio dell’occidente moderno è strettamente connesso con
la il concetto di potere legale.
Ricordiamo che, secondo Weber esistono tre tipi puri di potere (autorità) in riferimento alla
validità della loro legittimità:
d) potere legale – che si basa sul riconoscimento dell’autorità di ordinamenti statuiti e
del diritto di comando di coloro che sono chiamati ad esercitare tale potere in base ad
essi (potere a carattere razionale). In questo caso si obbedisce alla “legge” e alle
persone “preposte” dall’ordinamento stesso a farla osservare e non alla persona in
quanto tale.
e) potere tradizionale – che si ha quando il diritto di esercitare il potere è conferito dal
carattere sacro della tradizione valida da sempre e nella legittimità di coloro che in
base ad essa sono chiamati a rivestire tale autorità. In questo caso si obbedisce al
“signore”, al “re”, come persona designata dalla tradizione, in virtù della reverenza
da parte di coloro che la riconoscono.
f) potere carismatico – che si ha quando il diritto di esercitare il potere è conferito in
virtù del riconoscimento di qualità eccezionali, eroiche, straordinarie proprie di un
individuo. In questo caso di obbedisce al “duce”, in quanto tale, designato
carismaticamente in virtù della devozione che ha saputo conquistarsi grazie alle sue
eccezionali qualità.
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Questa distinzione tra i tre tipi di potere prescinde da circostanze storiche specifiche: si
tratta di tipi puri, ideali, di uno schema di riferimento per lo studio delle diverse
configurazioni in cui di fatto il potere si presenta.
Il processo di razionalizzazione, infatti, comporta la spersonalizzazione dei rapporti e il
potere razionale legale è per suo intrinseco carattere impersonale e vi è pure una
connessione tra razionalità formale, secondo lo scopo, e potere razionale: la prima guarda
all’efficienza dei mezzi a prescindere dai contenuti, la seconda alla correttezza formale del
comando in rapporto con chi lo esprime a prescindere dai contenuti.
Weber definisce lo Stato come “un’impresa istituzionale di carattere politico nella
quale l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della
coercizione fisica legittima in vista dell’attuazione degli ordinamenti”.
Lo Stato moderno è fondato sul potere legale in quanto l’obbedienza è dovuta
esclusivamente al fatto che la norma è posta in termini formalmente corretti: in esso non si
obbedisce alla persona bensì alla regola statuita la quale decide a chi e in che cosa si deve
obbedire.
Lo Stato moderno è basato su una organizzazione efficiente e, in questo senso, è burocrazia.
Esso comporta la generalità e l’astrattezza della norma e pertanto la spersonalizzazione.
La burocrazia non è una caratteristica della sfera politica ma si ritrova anche nell’impresa
capitalistica privata: entrambe procedono di par passo. Per Weber, alla base dello stato
moderno e del capitalismo moderno vi è la medesima dimensione di razionalità formale che
permette da un lato al cittadino di prevedere il funzionamento dell’ordinamento giuridico e,
dall’altro, all’imprenditore di comportarsi in base alle possibilità offerte dal mercato.
Impresa capitalistica e stato moderno sono aspetti del processo globale di razionalizzazione
verificatosi nell’Occidente moderno.
Weber mette anche in evidenza che il capitalismo si è potuto realizzare anche in contesti
giuridici diversi da quelli in cui prevale il formalismo: è il caso del diritto consuetudinario
inglese in cui la razionalità materiale sembra prevalere su quella formale. Possiamo dunque
concludere che un diritto razionale orientato in senso materiale può accompagnarsi con le
più svariate forme di economia capitalistica e non capitalistica; il diritto razionale formale è
compatibile soltanto con il capitalismo peculiare dell’Occidente moderno.
CRITICA
1) Lucaks
Giorgy Lucaks, critica duramente Weber in termini di marxismo ortodosso. Egli afferma
che Weber nel suo continuo tentativo di confutare la concezione materialistica della storia,
riporta sempre e tutto il suo discorso all’importanza dei fenomeni religiosi tant’è che da essi
fa dipendere anche l’origine del capitalismo (all’etica protestante, quindi ad un principio di
ordine spirituale).
Lucaks continua affermando che Weber, con lo strumento metodologico del “tipo ideale”
soggettivizza ogni genere di analisi della società e della storia ed inoltre affermando che la
scienza non può dare giudizi di valore in merito ai fini che, invece, devono essere
liberamente scelti dall’attore, rimette le scelte medesime all’irrazionale e al punto di vista,
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relativo ed arbitrario del soggetto. Weber toglie alla scienza la possibilità di dare un
orientamento pratico alle scelte politiche che non sia meramente tecnico lasciando dunque la
politica in balia dell’irrazionale.
Le accuse di Lucaks non sono sempre fondate: innanzitutto egli contrappone una
concezione dialettica della storia in cui la razionalità coincide con il progresso mosso dalle
contraddizioni economiche: più che una critica si tratta di una diversa concezione della
storia, certamente con conciliabile con quella di Weber.
Poi Lucaks sbaglia quando accusa Weber di spiritualismo perché Weber non vuole
confutare le argomentazioni proprie della concezione materialistica della storia ma
semplicemente integrarle considerandole come “uno dei tanti punti di vista validi e
legittimi”. Dunque, è corretto segnalare in Weber la presenza del “soggettivismo” ma ciò
non dimostra affatto l’erroneità di quanto Weber ha affermato.
2) Marcuse
Al tema della razionalizzazione propria della società occidentale come destino inevitabile,
dedica grande attenzione Herbert Marcuse.
Marcuse evidenzia che Weber rimane sempre legato al concetto di “avalutatività” della
scienza per cui la sua analisi non può portare né a plausi né a condanne né indicare vie per
l’azione. Egli, inoltre, appare convinto che la razionalità formale su cui è fondato qualsiasi
processo di industrializzazione e modernizzazione costituisca il destino dell’Occidente e
quindi una realtà storica non superabile: “l’inevitabile destino della nostra intera esistenza”.
Weber non può muovere critiche in quanto il dover essere è sottratto all’analisi scientifica e
reso impenetrabile alla critica. Marcuse afferma che a Weber sfugge il fatto che se la realtà
dell’industrializzazione è una realtà divenuta storicamente essa è per questo storicamente
superabile: non rendersi conto di ciò vuol dire accettare acriticamente lo status quo.
L’apparato amministrativo, la burocrazia (che porta alla spersonalizzazione), caratteristiche
del capitalismo moderno, sono strumenti del potere costituito. L’efficienza burocratica e
tecnologica non trova ragione in se stessa anche se sembra essere diventata fine di per sé.
Questa razionalità efficientistica ha un fondamento irrazionale in quanto non è messa al
servizio della realizzazione delle potenzialità umane ma solo del dominio che comporta
oppressione e negazione di queste stesse potenzialità. Oggi, un’effettiva amministrazione
razionale, coinciderebbe con l’uso della ricchezza sociale nell’interesse di un libero
sviluppo e soddisfacimento dei bisogni umani ed il progresso tecnico rende questa
razionalità una possibilità sempre più reale ma ad essa contraddice la razionalità
dell’apparato che è costituita su un’oppressione produttiva.
Marcuse, però, si chiede se questo continuo insistere di Weber sul fatto che la razionalità
capitalistica è solo formale, non sia in realtà malcelata critica. L’esame avalutativo della
razionalità efficientistica e burocratica, nasconde forse l’ironia, in quanto si sottintende che
questa non è vera razionalità?
3) Franco Ferrarotti
Anche Ferrarotti (Max Weber e il destino della ragione, 1965) si pone il problema della
razionalità in Weber. Egli sostiene che in Weber c’è una contraddizione, vissuta
coscientemente, tra l’esigenza dell’avalutatività della scienza e la preoccupazione per una
società in cui efficientismo e burocratizzazione riducono completamente a sé ogni dignità e
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riporta, a questo proposito, un brano di Weber in cui questa preoccupazione emerge
chiarissima “è terribile pensare che il mondo potrebbe un giorno essere pieno di nient’altro
che piccoli denti d’ingranaggio ….”.
Weber è dunque recuperato a quella sociologia il sui senso è l’insoddisfazione per lo status
quo e per la sua trasformazione razionale.
4) - E’ anche necessario notare che, in riferimento all’avalutatività, che Weber, certi valori li
dava per scontati e indiscutibili: sono i valori della tradizione liberale e borghese (la libertà
individuale, la dignità, il senso della fairness (rispetto delle regole del gioco). Egli dà per
scontato che ognuno avrebbe compreso la differenza tra l’etica dei fini ultimi e il fanatismo
e tra l’etica della responsabilità e l’opportunismo ma ciò non è avvenuto.
5) Weber, poi, studia il problema della razionalità sia in rapporto con l’atteggiamento del
soggetto agente e dell’interazione (a livello cioè microsociologico) che a livello di intere
formazioni sociali (macrosociologico).
6) Si ricorda poi che alcuni interpreti identificano la razionalità con il capitalismo mentre
altri considerano il capitalismo un’espressione (certamente la più completa ed importante)
della razionalità. Da un punto di vista marxista i mutamenti nella sfera economica sono
primari e gli alti aspetti della vita sociale vanno spiegati in correlazione con questi; da altri
punti di vista si può presumere un movimento verso la razionalità formale entro il quale si
spiega la stessa razionalità capitalistica.
7) Alfred Schutz
Secondo Schutz è corretto partire dal concetto di “azione dotata di senso” perché solo così si
giunge ad una corretta impostazione dei problemi delle scienze sociali, però, continua
Schutz, Weber non chiarisce se questo “senso” sia il medesimo per l’attore nel corso
dell’azione e ad azione compiuta, per i soggetti tra cui si instaura la relazione sociale e per
l’osservatore esterno. Sembra che Weber dia per scontato che il senso sia il medesimo per
tutti ma ciò, afferma Schutz, può essere accettato soltanto per fini pratici dei rapporti nella
vita quotidiana ma non può essere così per la scienza. E poi, Weber non indica che cosa
vuol dire “dare significato” all’azione: se prima si agisce e poi si attribuisce significato o se
il significato precede o è contemporaneo all’azione.
8) Talcott Parsons – Raymond Aron
Riconosce a Weber (pur rimproverando di non aver portato a compimento un sistema
sociologico generale) il merito di aver sottolineato come a fondamento della società vi
debbano necessariamente essere significati e valori condivisi. Aron accomuna Weber a
Durkheim e Pareto affermando che il tema fondamentale della loro riflessione è quello dei
rapporti tra la religione e la scienza e che, giustamente, ritrovano l’idea di Comte secondo la
quale le società non possono conservare la loro coerenza se non con le credenze comuni.
9) I chiarimenti metodologici di Weber, anche quando sono relativi all’interazione, non
sono mai fini a sé stessi ma costituiscono il presupposto per il compimento più adeguato
della ricerca storico-sociologica che, nel caso specifico della società industriale, è il
problema della crescente burocratizzazione e dell’oggettivazione dei rapporti.
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