LA QUESTIONE EBRAICA Sin dalle origini della loro storia gli ebrei hanno costituito un’isola monoteistica nel mare del politeismo antico. Occuparono la Palestina sotto la guida di Mosè nel 1200 a.C. Le dodici tribù di cui era costituito il popolo ebraico (rette da comandanti militari eletti con poteri limitati e temporanei) strinsero un patto d’alleanza religiosa e le loro tradizioni culturali e soprattutto religiose li portarono a sostenere continue lotte con le popolazioni vicine con le quali vennero a contatto: assiri, babilonesi, persiani, macedoni e romani. Proprio quest’ultimi nel 70 d.C., ad opera dell’imperatore Tito distrussero il tempio di Gerusalemme e dettero inizio alla Diaspora (dispersione di un popolo che lascia la terra degli avi migrando in altre direzioni, in questo caso in tutta l’area mediterranea ed europea). In età imperiale gli Ebrei della Diaspora furono tollerati e protetti perché la realtà dell’impero era multiforme. In età medioevale soprattutto dalle Crociate (1096), furono adottati verso gli ebrei dei procedimenti ristrettivi e segregazionisti ad esempio furono loro proibiti il possesso delle proprietà immobili e le professioni liberali. Essi si dedicarono ad attività commerciali ed al prestito del denaro ad interesse (anche in conseguenza della proibizione dell’usura fatta ai cristiani dalle autorità della chiesa). Essi divennero oggetto del disprezzo della superstizione popolare che li ritenne per secoli responsabili di ogni calamità naturale come epidemie, carestie etc. In particolare una delle accuse che venne mossa nei loro confronti è quella di essere stati i portatori della peste nera. Nel mese di ottobre 1347 navi mercantili genovesi giunsero nel porto di Messina, con a bordo alcuni marinai morti ed altri in fin di vita. Le navi provenivano dalla città di Caffa, in Crimea, dove i genovesi avevano costituito una base commerciale. La città era assediata dai tartari da quasi tre anni, anche se alcune navi riuscivano ad entrare ed uscire dal porto, consentendo agli assediati di resistere per lungo tempo. Alla fine del mese di settembre si diffuse improvvisamente fra l’esercito tartaro un morbo letale che fece strage di soldati; ben presto, però, la malattia raggiunse anche i cittadini di Caffa che morirono a migliaia. I marinai genovesi, che riuscirono a partire dalla città, avevano già contratto il morbo, ma comunque condussero le loro navi fino alle coste del Mediterraneo e toccarono terra nel porto siciliano di Messina. I malati presentavano degli strani rigonfiamenti all’inguine e sotto le ascelle, di colore nero, trasudanti sangue. Anche il corpo era pieno di macchie nere, causate dall’emorragie interne che provocavano forti dolori e che portavano alla morte entro cinque giorni. Quando gli abitanti di Messina si accorsero che gli improvvisi casi di morte erano da ricollegarsi all’arrivo di quelle navi, le cacciarono immediatamente dalla città; in tutta Europa si diffuse il contagio mortale per le campagne, paesi e città e molti piccoli centri furono completamente spopolati, rimanendo deserti. Il morbo continuò ad imperversare per tutta Europa fino al 1351, arrivando nel 1353 fino in Russia. Un popolo cattolico come quello del Medioevo, con credenze religiose che incolpavano gli ebrei della morte di Gesù, videro in questa popolazione il capro espiatorio della peste, incolpandoli di gettare veleni nei fiumi e nelle fontane, avendo come unico scopo quello di eliminare il popolo cristiano per impossessarsi del mondo. Vittime di persecuzioni, gli ebrei vennero particolarmente colpiti in Spagna (cacciati dai cattolici sovrani Fernando ed Isabella nel 1492, che li consideravano degli eretici) ed anche in altri paesi, subito dopo la cacciata dei musulmani con i quali avevano convissuto serenamente. Nel XVI secolo essi furono rinchiusi nei ghetti, in particolare l’istituzione di questi in Italia fu negli anni 1516 e 1555 rispettivamente a Venezia e a Roma. Questi ghetti determinarono il progressivo isolamento politico, civile e sociale di questa popolazione. Gli Ebrei acquisirono alcuni diritti importanti dopo la Rivoluzione Francese (1789) grazie alla soppressione di alcune discriminazioni giuridiche: poterono muoversi liberamente, praticare qualsiasi attività lavorativa e prendere parte alla vita politica non solo passivamente ma anche in maniera attiva. Molti altri Paesi, sull’esempio francese, soppressero le discriminazioni giuridiche nei confronti del popolo ebraico. Tra questi paesi non vi figurava la Russia, dove gli Ebrei erano relegati a vivere in aree circoscritte destinate esclusivamente a loro. Però queste riforme a loro favore durarono ben poco e ci furono nuove persecuzioni a causa del malcontento delle popolazioni che abitavano le stesse loro nazioni. Le ragioni stavano nell’economia, poiché in molti paesi gli Ebrei erano stati interdetti dal praticare alcune attività lavorative e dato che ai Cristiani non era concesso di prestare denaro ad interesse, gli Ebrei erano soliti alla pratica dell’usura. Gli usurai Ebrei si arricchirono molto, tanto da essere considerati appartenenti alla classe capitalistica, causando lo sfavore dei socialisti. Un’altra causa, sempre in campo economico, fu l’episodio di Vienna, dove i sarti di origine ebraica si accontentavano di un salario minimo e notevolmente inferiore ai colleghi non Ebrei, perciò quando il lavoro scarseggiava, i sarti Ebrei erano considerati gli unici responsabili della disoccupazione. Nell’800 sorge una nuova forma di antisemitismo cioè un’attività anti- ebraica organizzata politicamente e fondata su precise basi scientifiche. Una delle questioni più importanti di questa continua persecuzione nei confronti degli Ebrei, è “L’Affaire Dreyfus”: il capitano Albert Dreyfus venne accusato, nel 1894, di spionaggio e tradimento per aver trasmesso ai tedeschi documenti segreti relativi all’esercito francese. Questo caso divise la Francia in due schieramenti: i dreyfusardi e gli antidreyfusardi. I primi denunciarono l’alleanza dell’esercito e della Chiesa e reclamarono la revisione del processo nel nome del rispetto del diritto e della verità. Riunitisi nella “ Ligue des droits de l’homme”, fondata nel 1898, furono a poco a poco raggiunti dalla sinistra radicale o socialista, laica e antimilitarista. Gli antidreyfusardi invece privilegiarono l’onore dell’esercito a scapito della verità. Provenienti dalla destra cattolica, nazionalista ed antiparlamentare, essi non videro in Dreyfus che una spia ed un traditore che, per le sue origini ebree, minacciò l’integrità nazionale. Si riunirono nella “Ligue de la patrie française” e nella “Ligue des patriotes”. L’antisemitismo nacque in Germania e si diffuse in Europa dando origine, come reazione, al movimento del sionismo, movimento a carattere politico-religioso volto a riunire la Palestina a tutti gli ebrei dispersi nel mondo. Fondatore fu Theodor Hertze il quale nel 1897 organizzò a Basilea il primo congresso sionista (dopo aver assistito al processo contro Dreyfus, dove rimase scandalizzato dall’iniquità delle due parti) e collaborò alla fondazione della banca nazionale ebraica i cui fondi sarebbero dovuti servire all’acquisto e alla messa in valore dei terreni in Palestina (incentivare le attività produttive). Nel 1909 sorse la prima città ebraica Tel-Aviv. La Gran Bretagna cercò di appoggiare questo movimento tanto che nel 1917 il sionismo ottenne dall’Inghilterra la dichiarazione di Belfast, in questo documento ci si impegnava a costruire un focolare ebraico in Palestina protetto da Londra secondo i programmi elaborati da Hertze e dai suoi successori. Così si ebbe una notevole immigrazione ebraica che precedette la formazione di colonie agricole, alla costituzione di centrali e di impianti per utilizzare e sfruttare le acque del Giordano. Questo flusso immigratorio dette fastidio agli Arabi i quali si risentirono e da qui scaturirono violente lotte, aggravatesi dopo il 1933 per la presenza ebraica che in Palestina andava sempre più aumentando a causa delle persecuzioni naziste in Europa. Infatti, negli anni successivi alla prima guerra mondiale in Germania l’antisemitismo si affermò come dottrina ufficiale del nazismo, teorizzato da Hitler e Rosemberg, il quale nell’opera intitolata “ Il mito del XX secolo” teorizzava i principi che sfociarono nelle leggi razziali di Norimberga (1935) alle quali dal 1938 si uniformò anche se in forma più blanda pure l’Italia fascista. Durante la seconda guerra mondiale l’antisemitismo hitleriano (teorizzato oltretutto nella “soluzione zero”, studiata da Hitler e quattordici ufficiali di stato il 20 gennaio 1942) toccò il suo apice con l’eliminazione fisica di sei milioni di ebrei, ma anche di tre milioni di polacchi, 20 milioni di russi e persino degli oppositori del nazismo, nei campi di sterminio. Questo annientamento degli Ebrei fu concepito come un fatto di pulizia biologica, condotta infatti in modo industriale. Riguardo alla deportazione degli Ebrei nei campi di sterminio, rimangono tutt’oggi molti interrogativi e questioni non chiare: potevano l’Europa, la Croce Rossa internazionale, gli alleati di Hitler, gli Stati Uniti d’America, non sapere? Perché la Chiesa non si dichiarò fermamente contraria a questo genocidio? Era veramente più importante occuparsi della costituzione dello Stato di Israele? Si crede che effettivamente gli USA sapessero, ma la questione degli Ebrei non era rilevante quanto la vittoria su Hitler e il Giappone, così sottovalutarono il problema. Per quel che riguarda lo Stato di Israele, si pensava questa fosse l’unica soluzione per mettere la parola fine a pogrom ed olocausti. I tedeschi affermavano che anche se avessero perso la guerra, la vittoria sarebbe stata loro comunque poiché sarebbero riusciti nel loro intento di sterminare il popolo ebraico e se per caso qualche sopravvissuto avesse confessato l’accaduto, nessuno gli avrebbe creduto. Per molti tedeschi però questo problema non sarebbe mai esistito, non credono o vogliono negare, poiché effettivamente il problema è rinascente, in quanto vediamo che in Germania, ma non solo, stanno rinascendo gruppi o partiti politici di estrema destra, con riferimenti chiari a Hitler e al nazismo, che creano problemi sociali molto pesanti, se pensiamo persino che l’Austria è governata da un politico che si rifà alle idee dell’antisemitismo, col consenso del popolo. E ancora non sono da dimenticare lo sterminio da parte di Milosevic nei confronti del popolo bosniaco e kosovaro, o tutti gli stermini dei popoli più poveri dei quali si tratta sempre più di rado. Il movimento sionista che ebbe un ruolo particolare durante e dopo la seconda guerra mondiale , vide realizzare le proprie attese nel 1947 quando l’ONU decise la spartizione della Palestina tra Arabi ed Ebrei, e soprattutto nel 1948 quando venne proclamato lo stato di Israele. La nascita dello stato di Israele ha portato tragiche conseguenze cioè quattro guerre arabo-israeliane: la prima nel 1947-49, la seconda nel 1956, la terza nel ’67 e la quarta nel ’73. La creazione dello Stato fece incrementare l’afflusso degli ebrei dall’Europa centrale ed orientale e ribaltò la consistenza della popolazione locale ponendo gli arabo- palestinesi in situazione di inferiorità giuridica e numerica. In quel periodo pur di non sottostare al potere israeliano 750mila palestinesi abbandonarono il paese rifugiandosi negli stati arabi confinanti (1948). I successi riportati dagli israeliani nei confronti degli eserciti che si erano riuniti nella lega Araba, portarono nel 1949 ad un armistizio con il quale si delinearono i territori del nuovo stato. La fascia costiera , il deserto del Negev, l’alta e bassa Galilea , una parte della Giudea e della Samaria: Gerusalemme venne divisa in due parti, la parte occidentale ad Israele e quella orientale venne annessa alla Giordania. Nel 1988 Yasser Arafat dell’OLP (organizzazione liberazione Palestina) ha programmato ad Algeri la costituzione dello stato indipendente della Palestina sui territori della Transgiordania e della striscia di Gaza occupati dagli israeliani. Gran parte degli arabo-palestinesi vive in campi profughi soprattutto in Libano e Giordania, il loro capo Arafat conduce da anni una battaglia per il ritorno del suo popolo in Palestina, la sorte dei palestinesi ha causato un continuo stato di guerra tra Israele ed i Paesi Arabi confinanti, soltanto l’Egitto ha firmato un trattato di pace con Israele.Anche ultimamente ci sono stati scontri tra le due popolazioni , i problemi sono sempre gli stessi , la capitale Gerusalemme , il territorio , i profughi arabi ed i vari insediamenti . Dopo la seconda guerra mondiale l ‘ONU ha cercato di ridare terre agli Ebrei , terre che non gli appartenevano più , terre che erano state conquistate legittimamente dagli Arabi ed erano diventate loro ; prepotentemente gli Ebrei una volta dato loro il diritto di avere una loro vera patria dopo tanti anni hanno cacciato via coloro che avevano sempre vissuto lì , costringendoli a rifugiarsi in piccole strisce di terre limitrofe alle loro case , costretti a vivere come profughi nelle loro stesse terre . Agli Ebrei sono state date queste terre solamente perché 1000 e più anni prima i loro antenati avevano casualmente abitato in quei territori , ma non riescono a capire che Israele è loro quanto lo è per gli Arabi , che hanno bisogno comunque anche loro di un posto dove possono riconoscere le loro origini e dove possono professare liberamente la loro religione . __________________ _____________________________________________________ __________ Una terra contesa, due popoli in cerca di una nazione, i tentativi di portare avanti un colloquio e il continuo ricorso alla violenza. Dal crollo dell'Impero ottomano alle vittime di oggi. Date, luoghi e protagonisti di una storia tutt'altro che chiusa. 1917-1949: La fine dell'Impero ottomano, il mandato britannico e la creazione dello Stato di Israele In una dichiarazione del 2 novembre 1917, il ministro degli Esteri britannico Arthur James Balfour esprimeva il consenso del proprio governo alle "aspirazioni sioniste ebraiche" e alla creazione di un "focolare nazionale ebraico" in Palestina. L'11 dicembre, l'entrata in Gerusalemme del generale Allenby poneva fine a quattro secoli di dominio ottomano in Terrasanta e dava inizio ad un mandato britannico sulla Palestina che sarebbe durato trent'anni. Durante tale periodo l'immigrazione degli ebrei in Palestina si intensificò enormemente, alimentata soprattutto dalle centinaia di migliaia di ebrei che fuggivano precipitosamente dall'Europa orientale a seguito della rivoluzione d'Ottobre e della guerra civile russa. Se fino a quel momento la comunità ebraica in Palestina era cresciuta assai lentamente (gli ebrei a Gerusalemme erano 17 mila nel 1880, 25 mila nel 1890, 35 mila nel 1900, 45 mila nel 1910), ora gli insediamenti sionisti iniziavano ora ad aumentare enormemente. Ebrei e arabi, che fino ad allora avevano convissuto pacificamente, iniziavano a diventare più sospettosi e ostili. Disordini si verificarono nel 1920, 1921, 1929 e dal 1936 al 1939, anno in cui l'Inghilterra assicurò agli arabi la sospensione dell'immigrazione ebraica e l'indipendenza della Palestina entro dieci anni. Lo scoppio della seconda guerra mondiale e il succedersi degli eventi ad essa connessi fecero sorgere all'interno della comunità ebraica due opposte correnti: una sostenitrice degli Alleati e una di resistenza armata contro la decisione del governo mandatario di chiudere le frontiere palestinesi ai profughi superstiti della persecuzione nazista (i milioni di vittime della Shoah creeranno tra l'altro di lì a poco un elemento di "pressione" morale sull'Onu). Al termine della guerra, l'intensificarsi del terrorismo ebraico contro il governo britannico e l'incapacità della Gran Bretagna di assicurare la pace nei territori palestinesi, condussero alla decisione dell'assemblea dell'Onu (29 novembre 1947) di spartire la Palestina in uno stato ebraico e in uno stato arabo e di internazionalizzare per dieci anni Gerusalemme, ponendola sotto il controllo delle Nazioni Unite. La risoluzione fu accettata dagli ebrei, ma respinta dai palestinesi sotto la forte pressione dei Paesi arabi (il 17 dicembre successivo la Lega araba dichiarò che si sarebbe opposta con la forza alla spartizione). Seguirono mesi di guerriglia tra forze irregolari arabe ed ebraiche. Il governo britannico decise di ritirare le proprie truppe; il mandato britannico sulla Palestina terminò ufficialmente il 15 maggio1948. Il giorno precedente un governo provvisorio ebraico capeggiato da Ben Gurion aveva proclamato lo Stato d'Israele. Seguì la guerra dell'indipendenza che terminò nel 1949 con i trattati d'armistizio di Rodi (febbraio-luglio 1949). Il governo d'Israele fu tenuto da una serie di coalizioni di centro-sinistra dirette da Ben Gurion, leader del partito laburista. Anni '50: Tra accordi e conflitti si intensifica il rapporto Occidente-Medio Oriente Negli anni Cinquanta si assistette ad un graduale avvicinamento di Israele agli Stati Uniti, causato principalmente dalla politica antisionista ed antisemita adottata da Stalin negli ultimi mesi del proprio regime; ciò portò alla rottura delle relazioni diplomatiche fra Unione Sovietica e Israele e al miglioramento dei rapporti tra Urss e i paesi arabi. Il 23 gennaio 1950, in contrasto con le risoluzioni delle Nazioni Unite, Israele trasferì la propria capitale da Tel Aviv alla parte est di Gerusalemme. Nel 1956, la nazionalizzazione del canale di Suez da parte del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser e, più in generale, la politica panaraba intrapresa (una politica, cioè, che perseguiva l'unità del mondo arabo e che mirava alla rinascita della grandezza araba contro la supremazia occidentale) diedero luogo ad una crisi che sfociò nella guerra del Sinai, che vide contrapposte Francia, Inghilterra e Israele da una parte ed Egitto dall'altra. Il conflitto terminò con la vittoria militare israeliana, ma in realtà favorì il trionfo politico di Nasser e non apportò risultati duraturi per Israele. Anni '60: La guerra dei sei giorni e l'occupazione dei territori Le lotte politiche al suo interno, infatti, si susseguirono e raggiunsero una tale durezza da indurre, nel 1963, Ben Gurion alle dimissioni. Il nuovo primo ministro, Levi Eshkol, continuò come aveva fatto il suo predecessore, a sviluppare con successo rapporti con Stati Uniti, Europa occidentale e Terzo Mondo, ma dovette anche affrontare gravi problemi sia di politica interna che di sicurezza militare per l'intensificarsi delle incursioni e delle azioni di guerriglia delle forze arabe. Nel 1967, la politica panaraba di Nasser giunse ad un nuovo apice: chiese il ritiro delle forze di sicurezza dell'Onu poste a presidiare il confine del Sinai, proclamò la chiusura del Golfo di Aqaba alle navi israeliane (di fondamentale importanza per gli approvvigionamenti di Israele) e siglò un patto militare con la Giordania. La reazione non tardò. Israele sferrò, nel giugno del medesimo anno, un attacco aereo simultaneo contro le forze arabe e diede inizio ad un conflitto che durò poche ore (guerra dei sei giorni) e che si concluse con una sbalorditiva vittoria militare. Le forze israeliane occuparono Gerusalemme est, la Cisgiordania, la striscia di Gaza e le alture del Golan. Circa trecentoventimila profughi palestinesi fuggirono dai territori occupati riversandosi in Egitto, in Giordania e in Siria. Anni '70: Verso l'accordo di Camp David Nei primi anni Settanta la rivendicazione dei profughi palestinesi residenti nei Paesi arabi (circa due milioni e mezzo in totale) di aver riconosciuto uno Stato nazionale otteneva consensi anche nei Paesi occidentali. Israele si trovava così sempre più isolato sul piano diplomatico internazionale. La guerra dello Yom Kippur (ottobre 1973) inoltre evidenziò la debolezza politica ed economica dei tre milioni di israeliani di fronte alla coalizione araba, resa ancor più forte dall'appoggio sovietico e dalle ricchezze petrolifere utilizzate come arma di ricatto con i sostenitori occidentali di Israele. La crisi toccò particolarmente il Partito laburista che dovette sempre più appoggiarsi alle frazioni conservatrici. Il nuovo governo Rabin, tuttavia, riuscì a raggiungere importanti obiettivi sia in politica estera (accordo con l'Egitto) che in politica interna (potenziamento capacità militare e riforme finanziarie). Ciononostante, a causa dei dissensi interni alla coalizione, nel dicembre 1976 Rabin si dimise e convocò nuove elezioni. Nel maggio 1977 il Partito laburista perse la maggioranza che deteneva da quasi trent'anni; salì al potere una coalizione di centro-destra guidata dal Partito Likud il cui leader Menahem Begin divenne primo ministro. Fautore di una politica intransigente verso il mondo arabo, appoggiò e favorì l'insediamento di coloni israeliani nella Cisgiordania occupata. Nel novembre 1977 il presidente egiziano Anwar Sadat compì un gesto sensazionale recandosi in visita a Gerusalemme dove ebbe un colloquio con Begin e tenne un discorso alla Knesset. Il mese successivo lo stesso primo ministro israeliano ricambiò la visita recandosi in Egitto. Ma il sostanziale fallimento di queste visite creò la base per un accordo che portò gli Stati Uniti al centro del processo di pace. Dopo otto mesi di intensa diplomazia Begin, Sadat e il presidente americano Jimmy Carter si incontrarono, nel settembre 1978, a Camp David siglando un accordo diviso in due parti: nella prima si stabilivano le basi per un trattato di pace fra Israele e ciascuno dei suoi vicini; nella seconda parte, solamente fra Egitto e Israele. Ma solo questo secondo punto fu sottoscritto, a Washington, nel marzo 1979. Mediante tale accordo l'Egitto ottenne la restituzione del Sinai, mentre l'anno seguente vennero ristabilite le relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Il mondo arabo, tuttavia, fu in tal modo spaccato e la questione palestinese rimase irrisolta e ancor più complessa. Anni '80: L'invasione del Libano e la nascita dell'Intifada Nei primi anni Ottanta entrò in scena un piccolo stato fino ad allora rimasto ai margini del conflitto araboisraeliano, il Libano. Scosso all'interno dagli attriti delle diverse fazioni religiose, era anche sede, dopo che furono espulsi nel "settembre nero" (1970) dalla Giordania, della leadership dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e di molti suoi militanti. Dal Libano l'Olp compì, con una intensificazione sempre maggiore a partire dal 1981, bombardamenti e raid che minacciavano gli insediamenti israeliani del Nord. Israele rispose nel giugno 1982 con l'invasione del Libano, avanzando fin verso la stessa Beirut per cacciare le basi dell'Olp. Venne inviata una forza multinazionale di pace da parte di Stati Uniti, Francia, Italia e Gran Bretagna che ha consentito l'evacuazione (verso la Tunisia) dei combattenti dell'Olp, ma che non ha consentito di riportare la calma nel paese. La forza venne ritirata nel 1984. A partire dalla fine del 1987 i palestinesi dei territori occupati diedero vita ad una lunga e diffusa rivolta (Intifada) contro Israele, che reagì con una dura repressione. L'Olp, che sosteneva tale rivolta nata comunque spontaneamente, abbandonò il suo ruolo di aperta lotta armata contro Israele e nel dicembre 1988 il suo presidente, Yasser Arafat, annunciò uno storico cambiamento nella politica dell'Organizzazione che abbandonava la strategia del terrorismo. Anni '90: Arafat e Rabin si stringono la mano Il 18 gennaio 1991, ventiquattr'ore dopo l'inizio della Guerra del Golfo, missili Scud lanciati da una postazione al confine iracheno-giordano colpivano i sobborghi di Tel Aviv. Fu un attacco a sorpresa contro una popolazione inerme ed estranea alle ragioni del conflitto. I calcoli di Saddam Hussein di porsi come il difensore della causa araba - e palestinese in particolare - e di mettere in difficoltà la coalizione antiirachena, non portarono i risultati sperati. George Bush, infatti, si era premunito facendo accettare al primo ministro israeliano Shamir l'impegno a non scatenare rappresaglie. Il 20 agosto 1993 rappresentanti di Israele e dell'Olp si incontrano ad Oslo per un accordo di pace. Rispettivamente il 9 ed il 10 settembre successivi Yasser Arafat e il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin si scambiano lettere di mutuo riconoscimento. Nella sua lettera a Rabin, Arafat riconosce "il diritto dello Stato di Israele ad esistere in pace e sicurezza" e rinuncia all'"uso del terrorismo e della violenza". Nella sua lettera, Rabin riconosce l'Olp come "rappresentante del popolo palestinese". Il 13 settembre a Washington ha luogo la famosa stretta di mano tra Arafat e Rabin i quali firmano una Dichiarazione dei principi alla presenza del presidente statunitense Bill Clinton. Il 4 maggio 1994 Israele e l'Olp siglano un accordo riguardante la striscia di Gaza e l'area di Gerico. Il 1° luglio Arafat torna in Palestina; arriva a Gaza il 12 dello stesso mese e qui stabilisce il proprio quartier generale, accolto e acclamato da decine di migliaia di palestinesi. Il 26 ottobre un Trattato di Pace viene siglato anche da Israele e Giordania. Il 4 novembre 1995, Yitzhak Rabin - al quale l'anno precedente era stato consegnato il premio Nobel per la pace insieme a Yasser Arafat e al ministro degli Affari esteri di Israele Shimon Peres - viene assassinato a Tel Aviv da un estremista israeliano. Il 30 maggio 1996 viene eletto primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu e viene formato un governo di destra. Per decisione di tale governo il 24 settembre si inizia ad aprire un tunnel sotto la Città Vecchia in Gerusalemme Est. Seguono scontri nella città e nei territori occupati tra polizia e civili palestinesi da una parte e esercito israeliano dall'altra. Il 28 settembre il Consiglio di Sicurezza dell'Onu adotta una risoluzione per la cessazione dell'apertura del tunnel. Il 23 ottobre 1998, alla presenza di Bill Clinton e del re Hussein, Arafat e Netanyahu siglano l'accordo di Wye River attraverso il quale si impegnano ad adempiere agli accordi precedenti. Sulla stessa linea si pone l'accordo di Sharm el-Sheikh del 5 settembre 1999. Nei primi mesi del 1999, il primo ministro Netanyahu viene indagato per illeciti finanziari. L'inchiesta, dalla quale comunque uscirà assolto, provoca la crisi del governo e lo costringe a presentare le proprie dimissioni. Vengono indette le elezioni anticipate che, tenute il 17 maggio dello stesso anno, vengono vinte dal laburista Ehud Barak che, con il 56 per cento dei consensi, viene eletto primo ministro di Israele. 2000: l'Intifada di al-Aqsa L'11 luglio 2000 ha luogo una conferenza a Camp David che però non sembra portare a risultati soddisfacenti per il processo di pace. La situazione si aggrava enormemente a partire dalla fine del settembre successivo: il 28 il presidente del Likud Ariel Sharon (che verrà poi eletto primo ministro d'Israele nel febbraio 2001) si reca in visita alla Spianata delle Moschee, un'azione provocatoria tendente a ribadire la sovranità israeliana sulla zona. Ne segue la cosiddetta "Intifada di al-Aqsa" che alla metà del maggio 2001 fa registrare, quali vittime degli scontri fra palestinesi e milizie israeliane, più di 500 morti, per massima parte arabi. ORIGINE, ASCESA E DECLINO DELL’OLP Fino al 1967 i palestinesi non avevano avuto una rappresentanza autonoma, ed erano oppressi sia da Israele, sia dai regimi arabi, che ne assumevano per esigenze interne una poco efficace difesa, prevalentemente verbale. Formalmente l'OLP (Organizzazione di Liberazione della Palestina) era stata costituita nel 1964, ma era un organismo burocratico - creato soprattutto dall'Egitto - alla cui testa era stato collocato Ahmed al-Shuqeiri, un personaggio senza credibilità, che non esitava a riprendere vecchi argomenti della propaganda antisemita fascista. è proprio dopo la penosa sconfitta dei paesi arabi nella guerra del 1967 che emerge al Fatah, guidata già allora da Yasser Arafat. Il suo nucleo centrale si era formato al Cairo nel 1957, sotto l'impressione della sconfitta militare egiziana (il successo iniziale di Israele era stato però fermato dalla resistenza delle masse egiziane, e dall' intervento politico dell'URSS e degli Stati Uniti). Peserà anche molto l'esempio della lotta armata algerina, iniziata subito dopo la sconfitta francese a Dien Bien Phu nel Vietnam. Al Fatah conquista un grande prestigio con qualche azione di guerriglia fin dal 1965 (in particolare il sabotaggio degli impianti israeliani per la deviazione delle acque del Giordano), e poi nel 1968 con la battaglia di Karameh, che ferma una colonna israeliana entrata in Giordania, e rappresenta l'unica azione militare vittoriosa realizzata dagli arabi in quella fase. Conquistata la direzione dell'OLP, Arafat cerca di coinvolgere altre organizzazioni, come il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina di George Habbash (FPLP o più brevemente FP) e il Fronte Democratico Popolare di Liberazione della Palestina di Nayef Hawatmeh (FDPLP o FD), entrambi laici e di tendenza più o meno marxista. Il rapporto sarà sempre difficile, con frequenti rotture e nuove convergenze; le divergenze sono sulle tattiche di lotta, ma anche sulla necessità di sottrarre i palestinesi alla tutela dei regimi reazionari arabi. L'OLP si trasforma presto in un grosso apparato statale senza uno Stato, e ha quindi sempre più bisogno di contributi da parte dei paesi della Lega Araba, soprattutto dell'Egitto, dell'Iraq e dell' Arabia Saudita. In questo contesto i contributi dei palestinesi della diaspora, alcuni dei quali hanno raggiunto posizioni di rilievo soprattutto nei paesi del Golfo, diventano determinanti non solo per la sopravvivenza dell'apparato, ma anche per l'accettazione da parte dell'OLP delle pressioni dei paesi arabi" Così, per non irritare i regimi che finanziano il costoso apparato, la maggioranza dell'OLP guidata da Arafat teorizza la "non ingerenza" negli affari interni dei paesi arabi che, oltre ad essere in stridente contraddizione con le diffuse aspirazioni all'unità araba, è praticamente impossibile, soprattutto in Giordania, dove i palestinesi sono la maggioranza della popolazione e influenzano inoltre i settori giordani più avanzati, mentre il re Hussein (nipote di quell'Abdallah che era stato scelto dagli inglesi) si appoggia solo sulle armatissime tribù beduine, come lui fatte venire dal cuore dell'Arabia saudita. Il risultato è che i palestinesi vengono ugualmente coinvolti nei conflitti interni, risolti da Hussein facendo bombardare i quartieri poveri di Amman nel settembre 1970 (la risposta palestinese, tardiva ed esasperata, sarà l' ondata di terrorismo in tutti i paesi che hanno protetto Hussein, e prenderà il nome di "settembre nero"). La stessa situazione si riproporrà nel fragile Libano, dominato da uno strato reazionario e filoimperialista, che ha chiesto aiuto alla flotta e ai paracadutisti degli Stati Uniti nel 1958 (quando una sollevazione popolare aveva spazzato via il sovrano filo britannico dell'Iraq, e la rivoluzione araba sembrava dilagare ovunque). Israele prepara pazientemente una rete di notabili al suo servizio e, nel 1978, in concomitanza con le trattative di pace con l 'Egitto, creerà un sedicente "Libano Libero", affidato alle feroci milizie del maggiore Haddad, un disertore libanese armato e stipendiato dal governo di Tel Aviv. La zona occupata da Haddad e dagli israeliani arriva al fiume Litani, ricco di acque che vengono dirottate verso la parte settentrionale di Israele, che è al contrario piuttosto arida. La propaganda sionista e reazionaria ripete che Arafat è un terrorista e un estremista. è semplicemente assurdo: all' inizio della sua attività politica, Arafat ha scelto la lotta armata perché non aveva altra scelta, e perché aveva di fronte a sè l'esempio di come i sionisti si erano impossessati della sua terra, con la lotta armata e un terrorismo spietato verso le truppe di occupazione britanniche, i palestinesi, e anche tra le stesse formazioni sioniste concorrenti. Ma ha scelto poi la strada della trattativa, della ricerca di un'intesa anche attraverso un compromesso, al punto di provocare lacerazioni tra gli stessi palestinesi. Arafat può essere definito "un terrorista" come lo è stato Nelson Mandela nei ventisette anni detenzione, fino al giorno in cui la classe dominante bianca ha dovuto tirarlo fuori dalla prigione e chiedergli di tenere a bada le masse africane (rimaste prive del potere economico, proprio grazie alla buona disponibilità di Mandela e degli altri dirigenti neri dell'ANC all'accordo e alla coesistenza basata sullo status quo). Per questo gli israeliani, che lo attaccano sui mass media istericamente, hanno evitato di ucciderlo, pur avendo i mezzi per farlo, come hanno fatto con tanti suoi collaboratori. Lo hanno fatto nel 1983 con Issam Sartawi (che era per giunta un uomo che cercava l'intesa con le componenti più ragionevoli della società israeliana), nel 1988 con Abu Jihad, e con moltissimi altri, anche in questa fase; ma hanno evitato di ucciderlo sapendo che, morto Arafat, anche le masse palestinesi più moderate esploderebbero in una rivolta esasperata e distruttiva. GERUSALEMME - E' la guerra degli uomini talpa. E si combatte lungo una striscia di terra che corre tra Gaza, in area palestinese, e l'Egitto. Da mesi gli attivisti dell'Intifada cercano di procurarsi armi e munizioni facendole passare attraverso dei tunnel segreti costruiti sotto la zona di confine. Gli israeliani cercano di impedirlo con la realizzazione di una trincea profonda dieci metri che dovrebbe interrompere il tracciato delle gallerie. Una lotta di pala e piccone che fa sorridere gli abitanti di Gaza: «Ma cosa volete che passi là sotto. Qualche fucile, delle cartucce. Mica i carri armati». DAI VIETCONG AL LIBANO - La passione dei tunnel tra i palestinesi risale all'esperienza del Libano ed è stata copiata dai guerriglieri vietcong. Quando i fedain, negli anni '70, operavano sul territorio libanese avevano creato una estesa rete di depositi e rifugi Rafah, la trincea scavata dagli israeliani per bloccare i tunnel palestinesi smantellati dall'invasione israeliana dell'82. Un sistema tornato in auge con l'intifada. I membri di varie fazioni hanno iniziato a scavare le gallerie imitando i contrabbandieri che per anni hanno usato questa tecnica. I TUNNEL - Ne esistono due tipi. Il primo è un tunnel, situato ad una profondità di 3-4 metri, lungo tra i 50 e i 150 metri. I trafficanti vi calano dei recipienti (grosse bacinelle, scatole in legno) che vengono tirati, da una parte all'altra del confine, con delle corde. Il secondo sistema meno usato - prevede la realizzazione di una galleria più ampia, sorretta da strutture in legno: l'ingresso ha un diametro di circa 80 centimetri. Lungo il percorso vengono creati piccoli buchi per consentire l'areazione. L'accesso è verticale ed è facilitato da scalette in corda. Nella parte palestinese il tunnel può terminare all'interno di una abitazione, in modo da assicurare protezione a chi è coinvolto nel contrabbando. Oppure lo sbocco - tra i 30-50 centimentri di diametro - viene mimetizzato e coperto con un telone ricoperto di sabbia. Tunnel per trasportare armi MESI DI SCAVI - La realizzazione dello scavo può durare qualche mese, un periodo che si riduce nel caso vengano riattivate vecchie gallerie. Nel tentativo di bloccare i tunnel gli israeliani hanno formato una unità speciale che opera nel settore di Rafah e agisce lunga la cosiddetta «Philadelphia road» che segue il confine. In base agli accordi di Oslo a Israele è affidato il compito di controllare la frontiera usando appunto la striscia d'asfalto. Gli esploratori beduini sono capaci di «leggere» il terreno e scoprire avvallamenti sospetti, i genieri invece usano bulldozer e sonde. LA TRINCEA - Per motivi di sicurezza, i soldati hanno distrutto molte case palestinesi e piante in una fascia compresa tra i 50 e i 150 metri sostenendo che venivano usate per nascondersi dai guerriglieri. Nelle ultime settimane è quindi scattata la costruzione della trincea. Ora aspettiamo la risposta degli uomini-talpa. Guido Olimpio Israele, con Sharon tornano i «falchi» TEL AVIV (ISRAELE) - Il leader dell'opposizione di destra Ariel Sharon è il nuovo primo ministro di Israele, grazie alla schiacciante vittoria sul rivale laburista - e premier uscente Ehud Barak. I dati ufficiali finali assegnano il 62,5% dei voti a Sharon contro il 37,4% di Barak. Quest'ultimo ha ammesso la sconfitta e si è dimesso dalla presidenza del partito laburista, lasciando anche il seggio in parlamento. L'affluenza alle urne è stata pari al 62%, la più bassa dalla nascita dello stato israeliano nel 1948. Il primo atto di Sharon è stata l’offerta al partito laburista di entrare in un goverrno di unità nazionale. In caso di risposta negativa infatti Sharon sarebbe costretto a fare i conti con i partiti di matrice religiosa per trovare una maggioranza in Parlamento. LA REAZIONE DEGLI ARABI - La reazione del mondo arabo alla nomina di Sharon è stata estremamente negativa. Soltanto l'Egitto, il primo Paese del fronte arabo a fare la pace con lo Stato ebraico, ha scelto la linea della cautela. «Aspetteremo di vedere cosa farà Sharon. Se la sua sarà una politica di pace o di repressione», ha detto ai giornalisti il presidente egiziano Hosni Mubarak prima di rientare dal Kuwait al Cairo. Il leader egiziano non ha mancato di ricordare che nel 1982 Sharon, ministro della Difesa nel governo di Menachem Begin, fu complice indiretto del massacro compiuto nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila dai falangisti cristiani. Nessun commento ufficiale sulla nomina di Sharon da parte dei palestinesi, ma Marwan Barghuti, il segretario di Al-Fatah, la principale componente politica palestinese ha dichiarato che il nuovo primo ministro non è altro che «l’ultima pallottola» degli israeliani. LA CAUTELA DEI LEADER OCCIDENTALI - L’elezione di Sharon è stata accolta con dichiarazioni prudenti da parte dei più importanti leader europei. “Solo la pace può dare sicurezza e benefici economici e culturali ai popoli della regione”: sottolinea il presidente della Commissione europea Romano Prodi nel messaggio di congratulazioni al nuovo primo ministro. Un concetto ripetuto anche dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi secondo il quale «nessuno deve dimenticare che non c'è alternativa al negoziato e alla pace». Messaggi analoghi sono giunti dal cancelliere tedesco Gerard Schroeder e dal presidente francese Jacques Chirac. Ora la parola passa ai fatti: sarà dai comportamenti concreti del nuovo leader che Sharon verrà giudicato dall’Occidente. Marco Letizia La pace, il cavaliere e l'armatura svuotata 4 novembre 2001 - di Barbara Spinelli Più volte, ripensando alle dispute suscitate dal mio articolo sui mancati mea culpa nell’ebraismo, mi è venuto in mente quel che ha scritto David Grossmann, scrittore israeliano, poco dopo l’attentato di Manhattan: "Se non arriverà la pace in Medio Oriente, a poco a poco ci trasformeremo tutti in una sorta di armatura vuota, priva del proprio cavaliere". Non saremo capaci di ascoltarci l’un l’altro, perché l’armatura parlerà al nostro posto. Non saremo capaci di metterci in questione, di interrogare il nostro passato, le nostre parole, le nostre conoscenze storiche, le nostre certezze, perché tutto questo passato, parole, conoscenze, certezze - sono diventate l’armatura che abbiamo messo fra noi e i fatti reali, fra noi e la nostra coscienza. In alcuni momenti ho perfino avuto l’impressione che questo esistere a partire dall’armatura restringesse la vocazione al pensiero individuale, solitario. Il collettivo Noi prendeva il sopravvento sul più scabroso io penso, io dubito. Non poche lettere inviate alla Stampa - e per le quali vorrei comunque ringraziare: ogni dissenso aiuta a pensare - sono firmate da piccoli collettivi, da persone che reagiscono in gruppo. Da piccole chiese, che si mobilitano contro l’eresia di individui non ortodossi. Un epiteto mi ha colpito, per la sua singolarità e per le assonanze che risveglia: "rinnegato". Questo vuol dire che discorrere su diaspora e Israele è oggi impresa ardua, sia fuori che dentro l’ebraismo. Ne fecero l’esperienza spiriti ebrei liberi come Hannah Arendt, Arthur Koestler, Henri Bergson, Simone Weil, Gershom Scholem, Ernst Gombrich, Raymond Aron, Judah Magnes, in tempi travagliati. Per parte mia non ho mai pensato che l’ebraismo fosse un monolito, e ho memoria delle voci dissidenti da esso scaturite, a cominciare dalla denuncia del bellicismo israeliano pronunciata da Primo Levi nell’82, su questo giornale. È di prese di posizione come la sua che oggi - dopo l’11 settembre - si sente crudelmente la mancanza. Anche negli altri epiteti non mi riconosco: antisemita, seguace di Göbbels, filo-terrorista, e senza pretendere di replicare a tutte le accuse - non ho competenza teologica - vorrei tentare alcune risposte provvisorie che chiariscano un poco la mia posizione. In primo luogo il mea culpa, che forse ha suscitato più sdegno. Non ho trovato altro termine, per esprimere qualcosa che secondo me non rimanda solo alle tradizioni della liturgia cristiana: le due parole latine possono esser tradotte in vari modi, ma restano un tratto costitutivo della cultura occidentale. Nei suoi momenti migliori - che sono sempre stati momenti di esame di coscienza, soprattutto dopo le guerre di religione - la cultura occidentale ha saputo coniugare lo spirito critico, un’alta idea del diritto, una vocazione a farsi piccoli di fronte all’enormità degli errori compiuti. Il mea culpa di Giovanni Paolo II sullo sterminio degli ebrei ha concentrato l’attenzione del pubblico su un male estremo, ma il ravvedimento riguarda anche mali diversi, e non a caso il Pontefice ha pronunciato molti mea culpa, non uno soltanto. Non mi sembra giusto aggrapparsi a un termine per respingere compiti che tutti siamo chiamati a assumerci - ebrei e non ebrei - se vogliamo fondare le nostre azioni sull’etica, la coscienza e la ragione. Chiedere scusa per le sofferenze arrecate, guardare il dolore dell’altro oltre quello proprio e dei propri cari: qui è la nobiltà degli esseri umani, quale che sia la loro appartenenza religiosa o etnica. Ho detto che gli ebrei faticano ad assumersi tale compito, sia in Israele sia nella diaspora, e che questa riluttanza può rivelarsi nefasta, all’indomani dell’11 settembre: per la prima volta infatti il destino di Israele è veramente in pericolo. L’America è stata la sua fondamentale garanzia di sopravvivenza, ma oggi l’ombrello protettivo si chiude: sono bastati tre aerei terroristi, scaraventati contro le Torri Gemelle e il Pentagono, perché gli Usa smettessero di essere la superpotenza invulnerabile che avevano voluto rappresentare. Non lo sono più, non si sentono più tali, e in prospettiva il loro comportamento diverrà più europeo: dunque più impaurito, negligente verso lo Stato ebraico. Questo espone gravemente Israele: la sua solitudine non è mai stata così grande e il suo sgomento si può comprendere. Ma dallo sgomento toccherà pure uscire e ripensare l’intera situazione e rimeditare anche sul passato, perché il tempo non lavora in favore della nazione israeliana. Il tempo, se lo si lascia passare senza iniziative forti anche sul piano simbolico (il ravvedimento è una di esse, oltre a gesti di pace unilaterali come il ritiro dai territori) lavora in favore delle forze di distruzione, e di un terrorismo cui urge far fronte sollecitamente. Mettiamo che Arafat abbia in mente una deportazione degli ebrei fuori dalle loro terre. Un modo sicuro per secondarlo è quello di dare tempo al tempo: dunque non fare nulla, aspettare che sia lui a fare la prima mossa. Dal suo punto di vista, sempre che abbia in mente la distruzione di Israele, sarebbe la soluzione ideale: gli basterebbe aspettare. Quello che mi preoccupa nelle lettere e negli articoli dei miei critici è la scarsa inquietudine che essi sembrano provare per la sorte effettiva degli abitanti d’Israele. Il fatto è che non c’è tempo per discutere sull’orgoglio degli ebrei e sulla vera giustizia. Israele è condannata a fare il primo passo, proprio perché più matura e più razionale delle élite arabopalestinesi, pena una catastrofe. Ma il vero punto controverso riguarda la natura delle colpe israeliane, e se esistano colpe, e se le élite politiche e religiose - in Israele e fuori siano disposte ad alcuni atti di contrizione o ripensamento. Atti certamente difficili, perché nulla di simile sembra venire da parte palestinese o araba. Ma atti ineludibili, e che non possono ridursi alle prese di posizione isolate di alcuni storici eterodossi, peraltro malvisti nel mondo accademico israeliano, come Tom Segev o Benny Morris. Sono le classi dirigenti (politici, rabbini) che a mio parere potrebbero utilmente aiutare Israele e l’ebraismo a uscire dall’età dei miti, e a entrare nella nuda storia dei fatti. Nella storia dei fatti non esistono persone o popoli esenti da colpe, errori. Né si capisce come mai Israele dovrebbe, unico, sottrarsi a quest’umana ventura. È il motivo per cui ho parlato di mitologia ebraica, e di un’antica tendenza a vivere nella metastoria piuttosto che nella storia: storia che è sempre fatta di cadute e riprese, errori e correzioni, dogmatismi e ritorno alla razionalità. Uno dei miti che mi sono apparsi ricorrenti è quello dell’antisemitismo eterno, che caratterizzerebbe la storia ebraica dai tempi della distruzione del Tempio ad opera dei romani, nel 70 d.C., ai giorni d’oggi. Mito temibile, perché esso ingenera l’illusione - come diceva Hannah Arendt - di "un’identità ebraica eternamente buona, la cui monotonia è stata turbata solo dall’altrettanto monotona cronaca di persecuzioni e di pogrom". Ne consegue l’incapacità di tanti israeliani di guardare la propria storia passata, e non solo passata. Penso in particolare alla genesi di Israele e ai rapporti tra ebrei e palestinesi, fin dall’inizio inesistenti o impossibili. E penso anche a vicende recenti: al dilatarsi di un integralismo ebraico che non di rado è sfociato nel terrorismo, entrando in una dialettica micidiale col terrore palestinese; alla condiscendenza di tanta parte della diaspora verso i molti rabbini che in Israele propugnano l’integralismo e ne legittimano le violenze. L’eccidio perpetrato dal medico colono Baruch Goldstein nella moschea di Hebron, il 25 febbraio ’94 (29 morti, tutti in preghiera come i 16 protestanti trucidati da fanatici islamici in Pakistan, il 28 ottobre scorso) è stato approvato da un certo numero di rabbini, alcuni dei quali hanno addirittura chiamato Goldstein "santo vendicatore". Le omelie del rabbino Yussuf Ovadia a Gerusalemme prendono regolarmente di mira l’Islam e i "serpenti musulmani": "Dio si è pentito di aver creato gli arabi", ha detto il 5 agosto 2000, senza esser condannato dai principali rabbini della diaspora. È la ragione per cui ho suggerito un mea culpa non solo verso i palestinesi ma anche verso l’Islam, non senza sperare che il mea culpa venga un giorno anche dai palestinesi e dall’Islam. Ma le obiezioni più forti riguardano la nascita di Israele, e la guerra successiva alla proclamazione dello Stato il 14 maggio ’48. Molti lettori sono convinti anche in questo caso che l’innocenza sia tutta dalla parte di Israele, e le colpe tutte da parte degli arabi-palestinesi, che avrebbero "rifiutato" di convivere con gli ebrei. Alcuni ripropongono addirittura l’originario mito sionista di un "popolo senza terra in una terra senza popolo", quasi che la Palestina fosse un paese vuoto quando gli ebrei cominciarono a trasferirvisi nell’800. La verità dei fatti è diversa dalla leggenda su cui Israele ha costruito la propria identità. La politica di espulsione e spesso deportazione dei palestinesi non è successiva all’offensiva militare degli stati arabi, il giorno dopo la proclamazione dello Stato, ma la precedette, nel corso di quella che Benny Morris, in un lucido libro sulla nascita di Israele, chiama la guerra civile nella Palestina sotto mandato britannico (Benny Morris, Le Vittime, Rizzoli 2001). L’esodo di circa 700.000 palestinesi dai villaggi, prima e durante la guerra, non nacque da una strategia araba di rifiuto delle buone intenzioni israeliane. Fu attizzata da attentati terroristici ebraici (condotti a Haifa dalla Banda Stern e dall’Irgun di Begin) ma innanzitutto da un eccidio, a Deir Yassin il 9 aprile ’48, che costò la vita di 350 civili e che si incuneò come un incubo nelle memorie palestinesi e arabe, fin dall’esordio della guerra scoppiata nel maggio ’48. Sono fatti noti, prima ancora che i nuovi storici israeliani li riscoprissero. Nell’ottobre 1948, in una lettera al direttore di Commentary, Judah Magnes, presidente dell’Università ebraica, fu il solo a ergersi contro il mito della piccola nazione incolpevole: "Se gli arabi di Palestina hanno abbandonato i loro territori "volontariamente", sotto l’urto della propaganda araba e in preda a un autentico panico, non si può dimenticare che l’argomento più potente, in questa propaganda, era la paura di una ripetizione delle atrocità compiute dal gruppo Irgun-Stern a Deir Yassin, dove le autorità ebraiche furono incapaci di prevenire l’azione o di punire i colpevoli, o non vollero farlo". Fu Magnes stesso a porre, fin da allora, la questione morale: "Ogni tentativo di affrontare una situazione umana tanto ampia da un punto diverso da quello umano e morale ci porterà in un pantano". E ancor oggi è cruciale per Israele darsi quella legittimazione etica che allora vacillò, per tanti ebrei e non ebrei. D’altronde questo è vero sempre: non si può agire né governare senza fare appello alla coscienza, specie la propria. L’idea stessa di morale non ha senso al di fuori di una qualche visione della colpa, o della responsabilità per gli sbagli commessi. È in questo quadro che ho accennato al cristianesimo cattolico, come modello europeo di apprendimento dagli errori e di responsabilizzazione personale. E non per sostenerne la superiorità o irreprensibilità, o per spingere gli ebrei a conversioni o acculturazioni, ma solo per costatare come un solo monoteismo sia stato capace di una secolarizzazione autentica, mutando strutture e natura della propria religione. È la tesi sostenuta dall’orientalista Bernard Lewis, secondo cui Islam e ebraismo sono, da questo punto di vista, più simili di quanto si creda. C’è da domandarsi se l’ebraismo sia in grado di affrontare simile secolarizzazione, ma per quanto riguarda il passato la risposta è negativa. La stessa Aufklärung ebraica (l’età dei Lumi che faceva capo a Moses Mendelssohn) fece una scelta di secolarizzazione - propugnando la separazione tra potere civile e religioso, l’indipendenza della cultura dalle certezze della fede - ma i suoi esponenti si sentirono costretti a abbandonare l’ortodossia, anche quando conservarono la consapevolezza delle proprie origini. È quello che sostiene Hannah Arendt: "Il laicismo e il sapere laico furono identificati esclusivamente con la cultura non ebraica, cosicché a questi ebrei non venne mai in mente di avviare un processo di secolarizzazione relativo alla loro stessa eredità". Accadde in tal modo che l’eredità spirituale della religione di Mosè divenne più che mai monopolio dei rabbini. Un altro punto dolente è quello che concerne la doppia lealtà nella diaspora. L’espressione è magari infelice e me ne scuso ma non è, la mia, un’argomentazione antisemita. Inquietudini analoghe - sulla società tribale che può nascere da un multiculturalismo legalistico - furono formulate da Raymond Aron e, nel 1996, dallo storico dell’arte Ernst Gombrich, in un discorso che suscitò scandalo perché negava l’esistenza di una specifica cultura ebraica in Europa ("Queste definizioni preferisco lasciarle alla Gestapo: io parlo di cultura europea"). Invece di indignarsi converrebbe forse chiedersi cosa significhi oggi essere ebrei. So che non esiste praticamente risposta, ma un tentativo lo si può fare. Secondo molti, e io tenderei a aderire a tale posizione, è essenzialmente una fede religiosa. Il resto - razza, popolo nazionale, legame di sangue - è tutta materia incandescente, alla luce dei nazionalismi e di Auschwitz. Per quasi due millenni, la Terra è stata di fatto marginale nel pensiero ebraico. Era sostituita dal Libro. E certo si può capire il nazionalismo ebraico, dopo la catastrofe immane che sono stati i Lager. Si può capire anche la crisi della religione: per alcuni Dio velò il proprio volto e perfino scomparve, nella cenere dei forni. Ma siamo sulla terra per interrogare e interrogarci, e anche l’identità di un popolo o una religione possono divenire oggetto di indagine. Ci si può domandare se non sia nazionalismo etnico, quello che resta dell’ebraismo. Se le sue forme non siano perniciose, nella politica israeliana come palestinese, anche il giorno in cui fra i due Stati s’innalzerà quel muro che tanti auspicano, illudendosi che esso scioglierà ogni nodo di ieri e di oggi. Pernicioso perché in ambedue i casi lo sciovinismo si collega al concetto religioso di popolo eletto. Ci si può domandare se Israele e la diaspora facciano bene a vedere il mondo come raffigurazione di un antisemitismo eterno, e se sia giusto che la shoah continui a essere elemento fondante dell’ebraismo statuale e spirituale. Infine ci si può chiedere se gli ebrei non siano in qualche modo affezionati al proprio dolore: paradossalmente, a forza di chiamarlo destino, molti di loro dimenticano il pericolo concreto che hanno di fronte. Ci si può chiedere se l’antisemitismo non sia durevolmente divenuto un "elisir di vita" (Lebenselixier), come lo chiamava Theodor Herzl quando fondò il sionismo: una minaccia che conferisce identità all’ebreo, quasi più della preghiera. Sono domande che questa polemica giornalistica ha reso ancora più attuali, ed è il motivo per cui vale la pena sforzarsi insieme e tentare di attenuare il timore di tanti pensatori ebrei: il timore che l’ebraismo abbia bisogno di crearsi sempre nuove emergenze, per provare la propria esistenza individuale o collettiva. Il timore che non ci sia più il cavaliere, dentro l’armatura vuota.