La Storia della Palestina e di Israele Il conflitto arabo-israeliano abbraccia circa un secolo di tensioni politiche e di ostilità, sebbene lo stato di Israele sia stato istituito solo 60 anni fa. Esso riguarda la creazione del movimento sionista e la successiva creazione del moderno Stato di Israele nel territorio considerato dal movimento panarabo come appartenente ai palestinesi, siano essi musulmani, cristiani, drusi o altri, e che il popolo ebraico considera la sua patria storica. Come buona parte del Vicino Oriente, anche la Palestina ha dovuto subire l'occupazione britannica formalmente un Mandato della Società delle Nazioni ma, in realtà, frutto degli accordi franco-britannici Sykes-Picot rivelati dal nuovo governo sovietico l'indomani della Rivoluzione - a causa della sua rilevanza economica e strategica derivante dalla vicinanza con l'Egitto e il canale di Suez nonché con l'area siro-libanese assegnata invece in Mandato alla Francia. Grazie all'appoggio della Gran Bretagna (che vedeva di buon occhio la possibilità di insediamenti nella zona di popolazioni provenienti dall'Europa) e alla grande disponibilità economica di cui godevano alcuni settori delle comunità ebraiche della diaspora (il popolo ebraico era stato costretto per secoli a specializzarsi nelle cosiddette professioni "liberali" e, quindi, a dedicarsi anche al commercio e alle attività economico-finanziarie, con l'occupazione non di rado di importanti cariche in istituti bancari e società d'intermediazione finanziaria), Herzl organizzò il primo convegno sionista mondiale a Basilea nel 1897 e in esso furono poste le basi per la graduale penetrazione ebraica in Palestina, grazie all'acquisto da parte dell'Agenzia Ebraica di terreni da assegnare a coloni ebrei originari dell'Europa e della Russia, per poter poi conseguire la necessaria maggioranza demografica e il sostanziale controllo dell'economia che potessero giustificare la rivendicazione del diritto a dar vita a un'entità statale ebraica. Le popolazioni che vivono in tale zona sono da secoli a forte maggioranza araba ma al termine del XIX secolo e, sempre più consistentemente nei primi anni del XX secolo, fu consentito (dapprima dall'Impero Ottomano e poi dalla Gran Bretagna) l'insediamento di colonie ebraiche, molte delle quali guadagnate alla causa sionista. A partire dagli anni trenta del XX secolo, e ancor più dopo il termine del secondo conflitto mondiale e la tragedia dell'Olocausto, la Palestina vide fortemente alterata la sua composizione demografica, con la minoranza ebraica avviata a diventare maggioranza grazie all'acquisto di terreni reso possibile dai fondi concessi ai profughi ebrei sfuggiti alla persecuzione nazista. A partire dall'inizio del '900 la popolazione arabo-palestinese, sentendosi minacciata dalla crescente immigrazione ebraica, dette vita intanto a movimenti nazionalistici che miravano a stroncare sul nascere quella che era considerata una vera e propria minaccia d'origine straniera. La situazione si protrasse così, tra momenti di tensione e di distensione tra le due fazioni, fino al primo conflitto mondiale e alla conseguente caduta dell'Impero Ottomano. Il riconoscimento agli ebrei immigranti dall'Europa del diritto di godere di un focolare nazionale in Palestina fu dato dall'allora Ministro degli esteri della Gran Bretagna Arthur Balfour. Nel 1917 egli pubblicò la Dichiarazione Balfour, con cui la Gran Bretagna riconosceva ai sionisti il diritto di formazione di "'un focolare nazionale" in territorio palestinese, che venne interpretato dagli stessi come la promessa relativa al permesso di costituire uno stato autonomo ed indipendente. L'interpretazione della Dichiarazione Balfour sarà subito causa di attriti tra la popolazione araba pre-esistente (che temeva la costituzione di uno stato ebraico) e i sionisti, che la interpretavano come l'appoggio da parte del governo britannico al loro progetto. Nel 1948, a seguito di un'apposita risoluzione delle Nazioni Unite, su tali terre fu dichiarato lo Stato di Israele, con una prima emigrazione araba palestinese verso le nazioni limitrofe, fortemente incrementata in seguito alla sconfitta patita nel primo conflitto arabo-israeliano, scatenato l'indomani della dichiarazione d'indipendenza israeliana dagli Stati arabi dell'Egitto, della Siria, del Libano, della Transgiordania e dell'Iraq. La Società delle Nazioni affidò dunque alla Gran Bretagna un mandato per la Palestina, che fino a quel momento e per tutti i secoli precedenti aveva coinciso con il territorio degli odierni Stati di Israele e Giordania. La Società delle Nazioni riconosceva gli impegni presi da Balfour nel 1917, pur rimarcando nuovamente che questi non dovevano essere realizzati a discapito dei diritti civili e religiosi della popolazione non ebraica preesistente. Così, nel 1922 l'Inghilterra, seguendo quanto già deciso negli accordi di Sykes-Picot, concesse tutti i territori ad est del fiume Giordano (quasi il 73% dell'intera area del Mandato) all'emiro Abdullah. Questo divenne la Transgiordania, con una maggioranza di popolazione araba (nel 1920 circa il 90% della popolazione, stimata in un totale di circa 4.000.000 di abitanti), mentre l'area ad ovest del Giordano venne gestita direttamente dalla Gran Bretagna. Sotto il Mandato britannico l'immigrazione ebraica nella zona subì un'accelerazione mentre l'Agenzia Ebraica, organizzazione sionista che agiva grazie ai finanziamenti provenienti da sostenitori esteri, operò velocemente per l'acquisto di terreni. Il risultato fu quello di portare la popolazione ebraica in Palestina dalle 83.000 unità del 1915, alle 175.138 del 1931 (contro i 761.922 arabi e i quasi 90.000 cristiani), alle 360.000 unità della fine degli anni trenta, Negli anni venti e trenta numerose furono le dimostrazioni di protesta da parte dei movimenti palestinesi, che sfociarono in veri e propri scontri tra l'esercito di Sua Maestà britannica, i residenti arabi e i gruppi armati dei coloni ebrei. Spesso gli attriti non erano dovuti all'immigrazione in sé, ma ai differenti sistemi di assegnazione del terreno: gran parte della popolazione locale per il diritto inglese non possedeva il terreno, ma per le abitudini locali possedeva le piante che vi venivano coltivate sopra (tra cui gli alberi di ulivo, che erano la coltura prioritaria e che, vivendo anche secoli, divenivano dei "beni" passati di generazione in generazione nelle famiglie), di conseguenza molti terreni usati dai contadini arabi erano ufficialmente (per la legge inglese) senza proprietario e venivano quindi acquistati dai coloni ebrei (o loro affidati) appena immigrati i quali, almeno in un primo tempo, erano ignari di questa situazione. Questo, unito alle regole con cui venivano solitamente gestiti i terreni assegnati ai coloni (la terra doveva essere lavorata solo da lavoratori ebrei e non poteva essere ceduta o sub-affittata a non ebrei), di fatto toglieva l'unica fonte di sostentamento e lavoro a moltissimi insediamenti arabi pre-esistenti. Il 14 agosto del 1929 alcuni gruppi di sionisti (per un totale di diverse centinaia di persone, quasi tutte che fanno parte del gruppo sionista Betar di Vladimir Jabotinskij) marciarono sul Muro del pianto di Gerusalemme (luogo sacro ad entrambe le religioni e che già negli anni precedenti era stato motivo di scontro), rivendicando a nome dei coloni ebrei l'esclusiva proprietà della Città Santa e dei suoi luoghi sacri. Il gruppo era scortato dalle forze dell'ordine, avvisate in anticipo, con lo scopo di evitare disordini, nonostante questo iniziarono a circolare voci su scontri in cui i sionisti avrebbero picchiato i residenti arabi della zona e offeso Maometto. Come risposta il Consiglio Supremo Islamico organizzò una contro-marcia ed il corteo, una volta arrivato al Muro, bruciò le pagine di alcuni libri di preghiere ebraiche. Nella settimana gli scontri continuarono e, infiammati dalla morte di un colono ebreo e dalle voci (poi rivelatesi false) sulla morte di due arabi per mano di alcuni ebrei si ampliarono fino a comprendere tutta la Palestina. Il 24 agosto gli scontri raggiunsero la città dove furono uccisi quasi 70 ebrei, altri 58 furono feriti, alcune decine fuggirono dalla città, mentre 435 trovarono rifugio nelle case dei loro vicini arabi per poi fuggire dalla città nei giorni successivi agli scontri. Alcune famiglie torneranno ad Hebron due anni dopo, per poi lasciarla definitivamente nel 1936, evacuate dalle forze britanniche. Alla fine degli scontri ci furono, sul territorio della Palestina, tra gli ebrei 133 morti e 339 feriti (quasi tutti relativi a scontri con la popolazione araba, quasi 70 solo ad Hebron), mentre tra gli arabi ci furono 116 morti e 232 feriti (per la maggioranza dovuti a scontri con le forze britanniche). Verso la fine degli anni trenta, dopo la Grande Rivolta Araba e i falliti tentativi di divisione della Palestina in due Stati, sollecitata dalla Commissione Peel, la Gran Bretagna si pentì di aver sostenuto il movimento sionista, che mostrava aspetti inquietanti e violenti e cominciò a negare al sionismo quel discreto appoggio politico che fin lì aveva garantito, producendo il "Libro Bianco" nel 1939 . Ciò indusse pertanto gli ebrei di Palestina a cercare negli Stati Uniti quello che fino ad allora aveva concesso loro l'Impero britannico. Con la seconda guerra mondiale gli ebrei (con l'esclusione del gruppo della Banda Stern) si schierarono con gli Alleati mentre molti gruppi arabi guardarono con interesse l'Asse, nella speranza che una sua vittoria servisse a liberarli dalla presenza britannica. L'esito del conflitto non valse perciò a modificare la situazione di stallo che sfavoriva la popolazione araba, ancora in maggioranza. Con la fine della guerra, fu grande il dibattito tra le nazioni maggiori vincitrici per decidere il futuro di queste zone, anche alla luce delle direttive del presidente statunitense Woodrow Wilson che condannavano la costituzione di nuove colonie. Alla fine, con gli accordi di San Remo del 1920, si optò per l'autorizzazione da parte della Società delle Nazioni di affidare alla Gran Bretagna e alla Francia Mandati, necessari in teoria per educare alla "democrazia liberale" le popolazioni del disciolto Impero Ottomano. L'ONU dovette quindi affrontare la situazione che dopo trent'anni di controllo britannico era diventata pressoché ingestibile, visto che oramai la popolazione ebraica costituiva un terzo dei residenti in Palestina, anche se possedeva solo una minima parte del territorio (circa il 7% del territorio, contro il 50% della popolazione araba e il restante in mano al governo britannico della Palestina. Il 15 maggio 1947 fu fondato quindi l'UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine), comprendente 11 nazioni (Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, Olanda, Peru, Svezia, Uruguay, India, Iran, Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, Australia) da cui erano escluse le nazioni "maggiori", per permettere una maggiore neutralità. Sette di queste nazioni (Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, Olanda, Perù, Svezia, Uruguay) votarono a favore di una soluzione con due Stati divisi e Gerusalemme sotto controllo internazionale, tre per un unico stato federale (India, Iran, Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia), e una si astenne (Australia). Il problema chiave che l'ONU si pose in quel periodo fu se i rifugiati europei scampati alle persecuzioni naziste dovessero in qualche modo dover essere ricollegati alla situazione in Palestina. L'UNSCOP raccomandò anche che la Gran Bretagna cessasse il prima possibile il suo controllo sulla zona, sia per cercare di ridurre gli scontri tra la popolazione di entrambe le etnie e le forze britanniche, sia per cercare di porre fine alle numerose azioni terroristiche portate avanti dai gruppi ebraici. La definitiva risposta delle Nazioni Unite alla questione palestinese fu data il 25 novembre 1947 con l'approvazione della risoluzione 181, che raccomandava la spartizione del territorio conteso tra uno Stato palestinese, uno ebraico e una terza zona, che comprendeva Gerusalemme, amministrata direttamente dall'ONU. Nel decidere su come spartire il territorio l'UNSCOP considerò, per evitare possibili rappresaglie da parte della popolazione araba, la necessità di radunare tutte le zone dove i coloni ebraici erano presenti in numero significativo (seppur spesso in minoranza) nel futuro territorio ebraico, a cui venivano aggiunte diverse zone disabitate (per la maggior parte desertiche) in previsione di una massiccia immigrazione dall'Europa, una volta abolite le limitazioni imposte dal governo britannico nel 1939, per un totale del 56% del territorio. La nascita ufficiale dei due Stati in Palestina era stata fissata dall'ONU nel 1948, ma essa non ebbe mai luogo. Infatti, non appena i britannici ebbero lasciato la zona, la Lega Araba, che non aveva accettato la risoluzione dell'ONU, scatenò una guerra "di liberazione" contro Israele (1948-1955). Vi furono due periodi di tregua gestiti dall'ONU, con la presentazione di nuovi piani per la ripartizione del territorio vennero rifiutati da entrambe le parti in causa. Durante la seconda tregua venne assassinato il mediatore dell'ONU, conte Folke Bernadotte da parte di alcuni uomini del Lehi. In breve, dopo la catastrofe militare degli eserciti invasori, ci si ritrovò un unico Stato, quello israeliano, impegnato a difendere quanto già conseguito sul campo di battaglia e ad ottenere l'intero controllo del territorio palestinese tramite il proprio esercito. L'azione combinata della propaganda araba, basata sullo slogan tornerete nelle terre liberate, della guerra in sé, e della pressione psicologica (e in alcuni casi di veri e propri massacri come quello di Deir Yassin) di frange politiche israeliane, misero in fuga buona parte della popolazione araba e la estromisero definitivamente dalle proprie terre, che da allora si sono sempre disinteressati della normalizzazione della vita dei palestinesi lì rifugiati,il più delle volte in grado di sopravvivere solo grazie alle razioni alimentari elargite dall'Organizzazione delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNRRWA). L'11 dicembre 1948 l'ONU emise la risoluzione 194, che rimase per larga parte non attuata e che tra le altre cose prevedeva la demilitarizzazione di Gerusalemme, il cui controllo doveva passare all'ONU, e la restituzione (o il rimborso) dei beni e delle proprietà dei rifugiati (arabi in territorio israeliano e i pochi ebrei in territorio arabo) che volessero tornare a casa dopo la guerra Nel 1956 Israele, sfruttando la crisi di Suez, attacca l’Egitto ma viene fermato dalla comunità internazionale. Nel 1964 nasce l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina che punta a dare una rappresentanza ai palestinesi, slegandoli dalla dipendenza dai paesi arabi. Poco dopo ne diventa capo Yasser Arafat che la guiderà fino alla morte. Nel 1967 scoppia la guerra dei Sei Giorni con la quale Israele occupa la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme est. Nel 1973 Egitto e Siria attaccano Israele; è la guerra dello Yom Kippur. Israele occupa il Sinai in Egitto e le alture del Golan in Siria. Nel 1979 l’Egitto firma un accordo di pace con Israele. Finiscono così le guerre tra Israele e gli stati arabi, da questo momento in poi allo stato ebraico si contrapporrà solo l’Olp. Nel 1982 Israele invade e occupa la parte meridionale del Libano per distruggere le basi palestinesi. Dal 1987 al 1992 i palestinesi cominciano una forma di resistenza popolare, chiamata Intifada, Nel 1993 vengono firmati gli Accordi di Oslo e sembra che il conflitto stia per finire, ma i nodi principali restano irrisolti e rimandati a un secondo turno di negoziati: la nascita di uno stato palestinese indipendente, il ritorno dei profughi palestinesi, il controllo delle scarse risorse idriche e lo status di Gerusalemme. Nel 1994 la Giordania firma un accordo di pace con Israele. Nelle zone che dovrebbero diventare il futuro stato palestinese comincia una forma di autogoverno guidata dall’Autorità Nazionale Palestinese, presidente della quale viene eletto nel 1996 Yasser Arafat. Dopo l’entusiasmo degli Accordi, la diplomazia internazionale arresta la sua pressione e israeliani e palestinesi non riescono a trovare un accordo. Il 25 gennaio 2006, le elezioni politiche in Palestina sanciscono la vittoria del partito armato degli islamisti di Hamas. Il nuovo governo di Hamas ha però vita breve, dato che viene da subito boicottato dalla comunità internazionale e da Israele. Quest'ultimo sostiene Abu Mazen, sia apertamente che sottobanco, fornendo armi alle forze di Fatah e liberandone i prigionieri, mentre all'opposto i deputati eletti di Hamas vengono arrestati. Nel giugno 2006 Hamas cattura, al confine con la Striscia, il caporale israeliano Gilad Shalit, allora diciannovenne. Israele, però, rifiuta di barattarne la liberazione con quella di tutti i bambini e le donne palestinesi detenuti, come proposto da Hamas. Nel febbraio dell'anno successivo (in mezzo c'è stata la guerra tra Israele e Libano dell'estate 2006), Hamas e Fatah accettano di formare un governo di unità nazionale, sulla base di un accordo raggiunto alla Mecca. La crisi inter-palestinese continua però ad aggravarsi progressivamente, fino a quando, nel giugno del 2007, sfocia in scontri aperti che culminano con la conquista della Striscia di Gaza da parte di Hamas, mentre in Cisgiordania Fatah accusa il partito islamico di aver fatto un colpo di Stato, e fonda un governo di Emergenza. Israele nei mesi successivi dichiara Gaza “entità nemica” e stringe la Striscia sotto un durissimo embargo, impedendo l'apertura dei confini, incluso quello di Rafah, tra la Striscia e l'Egitto. Un embargo che nel gennaio 2008 spinge Hamas a distruggere tratti della barriera di confine, per consentire alla popolazione di sfondare in Egitto in massa, per procurarsi generi di prima necessità. Sull'altro fronte, nel novembre 2007, Israele e l'Autorità Palestinese di Abu Mazen e del premier Salam Fayyad, iniziano un percorso di colloqui di pace con la supervisione Usa ad Annapolis. Le trattative, però, procedono da subito a rilento per l'indisponibilità da parte di Israele a discutere i temi chiave del conflitto: lo status di Gerusalemme e quello dei profughi palestinesi. Non solo, Israele prosegue anche imperterrito la costruzione e l'ampliamento delle colonie in Cisgiordania, allo scopo di creare dati di fatto sul terreno, che non potranno essere coinvolti nella trattativa. Le proteste in questo senso della Segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice, rimangono inascoltate, mentre le concessioni israeliane ad Abu Mazen si limitano alla liberazione di alcuni detenuti con pene in scadenza, e di militanti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa, a condizione che rinuncino alla lotta armata. Il colloqui di Annapolis promettevano di portare alla nascita di uno Stato palestinese entro la fine del 2008. Nell'autunno 2008, però, la carriera del premier israeliano Olmert viene compromessa da guai giudiziari che portano la ministro degli Esteri Tzipi Livni a prendere il controllo del partito Kadima. La scadenza dei colloqui a quel punto diventa impossibile da rispettare, e tutto slitta al 2009, dopo le elezioni in Israele e la fine del mandato di Abu Mazen. La contesa per il futuro governo israeliano è soprattutto tra la Livni e Banjamin Netanyahu del Likud, la destra oltranzista. Mentre ancora non è affatto certo che le elezioni palestinesi si terranno. Alle 20:00 circa (ora locale) del 3 gennaio, le truppe israeliane sono penetrate con carri e mezzi blindati di vario tipo all'interno della Striscia di Gaza da tre punti, dando inizio ai primi scontri a fuoco, e riuscendo ad assumere il controllo di alcune postazioni di lancio dei razzi Qassam. La città di Gaza è stata totalmente accerchiata dalle forze armate israeliane, mentre violenti scontri si sono sviluppati a Dayr al-Balah e Bureyj, nella zona centrale della Striscia. Altri combattimenti sono scoppiati nel campo profughi di Jabaliya, a Nord della città di Gaza. Qui è stata segnalata l'uccisione di un capo militare di Hamas, Iman Siam. Il 6 gennaio 2009, un raid israeliano colpisce una scuola ONU adibita a rifugio per civili, dalla quale si riteneva fossero partiti lanci di razzi . Il numero delle vittime è stimato essere circa 40 e i feriti circa 50, e immediata è la reazione di Ban Ki Moon, Segretario Generale dell'ONU, che chiede un'indagine sull'avvenimento. L'esercito israeliano dichiara di non essere stato a conoscenza della presenza di civili in quell'edificio, e dispone un'inchiesta: al termine della stessa, il 15 gennaio, afferma di ritenere eccessivo il numero dei deceduti conteggiati dalle fonti internazionali (43), sostenendo che 21 dei caduti sarebbero stati noti, e tra questi vi sarebbero stati diversi militanti di Hamas (due sarebbero stati identificati subito, sempre secondo fonti dell'IDF). Le indagini dell'ONU hanno invece fin dal primo momento sostenuto che non vi sarebbero stati lanci di razzi dall'edificio e che la posizione di questo era nota da tempo ad Israele, mentre sarebbero state raccolte dai media testimonianze non verificate, sia a favore sia contro la loro presenza nell'area dell'edificio della scuola. Il 18 gennaio 2009 si svolge la Conferenza di Pace di Sharm el Sheikh, fortemente voluta dai governi occidentali e dall'egiziano Mubarak, che porta all'accettazione della tregua da parte d'Israele e del ritiro da Gaza a patto che i confini siano sorvegliati per evitare il contrabbando d'armi, e anche all'apertura di Hamas nei confronti di una tregua di una settimana se, in questo stesso periodo di tempo, Israele completerà il ritiro del proprio esercito. Le guerre tra Israele e i paesi arabi confinanti, del 1948 al 1973, hanno causato la morte di circa 100mila persone. La prima Intifada, dal 1987 al 1992, ha causato la morte di 2 mila persone, in massima parte palestinesi. Dall'inizio della seconda Intifada (settembre 2000) al 20 giugno 2007, hanno perso la vita 4626 palestinesi e 1050 israeliani. Almeno 214 palestinesi sono morti negli scontri tra le milizie di Hamas e Fatah. Il bilancio provvisorio della guerra nella Striscia di Gaza del dicembre2008/gennaio 2009 è di quasi 800 palestinesi morti, quasi metà dei quali civli, e 11 vittime israeliane. (fonte Amnesty International). Rispetto al conflitto generale innescato dalla rivendicazione dei Palestinesi per la nascita di un loro stato indipendente, il problema è quello sia dello Stato di Israele che dei palestinesi per il controllo dell’accesso ai fiumi e alle riserve idriche, scarse, della zona. Israele riceve armi e addestramento soprattutto dagli Stati Uniti, ma anche dalla Francia e dalla Germania, anche se riesce a produrre da solo la massima parte degli armamenti che servono alle sue forze armate. I vari gruppi palestinesi ricevono armamenti ed addestramento dall’Arabia Saudita, dall’Iran dalla Siria.