Socrate Biografia Il periodo storico in cui visse Socrate è caratterizzato da due date fondamentali: il 469 a.C. e il 404 a.C. La prima data, quella della sua nascita, segna la definitiva vittoria dei Greci sui Persiani(battaglia dell'Eurimedonte). La seconda si riferisce a quando all'età dell'oro di Pericle seguirà, dopo il 404 con la vittoria spartana, l'avvento del governo dei Trenta Tiranni. La vita di Socrate si svolge dunque nel periodo della maggiore potenza ateniese ma anche del suo declino. Il padre di Socrate, Sofronisco, fu uno scultore del demodi Alopece, ed è possibile che abbia trasmesso tale mestiere al giovane figlio, anche se nessuna testimonianza gli attribuisce alcun mestiere: in tal senso, secondo Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, II, 19), opera di Socrate sarebbero state le Cariti, vestite, sull'acropoli di Atene. Sua madre, Fenarete, che aveva già avuto un figlio di nome Patrocle da un precedente matrimonio con Cheredemo, sarebbe stata una levatrice. Probabilmente Socrate era di famiglia benestante, di origini aristocratiche: nei dialoghi platonici non risulta che egli esercitasse un qualsiasi lavoro e del resto sappiamo che egli combatté come oplita nella battaglia di Potidea, e in quelle di Delio e di Anfipoli. È riportato nel dialogo Simposio di Platone che Socrate fu decorato per il suo coraggio. In un caso, si racconta, rimase al fianco di Alcibiade ferito, salvandogli probabilmente la vita. Durante queste campagne di guerra dimostrò di essere straordinariamente resistente, marciando in inverno senza scarpe né mantello. Nel 406, come membro del Consiglio dei Cinquecento (Bulé), Socrate fece parte della Pritania quando i generali della battaglia delle Arginuse furono accusati di non aver soccorso i feriti in mare e di non aver seppellito i morti per inseguire le navi spartane. Socrate ricopriva la carica di epistate e fu l'unico nell'assemblea che si oppose alla richiesta illegale di un processo collettivo contro i generali. Nonostante pressioni e minacce bloccò il procedimento fino alla conclusione del suo mandato quando infine sei generali ritornati ad Atene furono condannati a morte. Nel 404, i Trenta Tiranni ordinarono a Socrate e ad altri quattro cittadini di arrestare il democratico Leone di Salaminaaffinché fosse mandato a morte. Socrate si oppose all'ordine «preferendo – secondo quanto tramandato dalla platonica Lettera VII – correre qualunque rischio che farsi complice di empi misfatti». Socrate è descritto da Platone come un uomo avanti negli anni e piuttosto brutto, e aggiunge anche che era come quelle teche apribili, installate di solito ai quadrivi, raffiguranti spesso un satiro che custodivano all'interno la statuetta di un dio. Questo pare quindi fosse l'aspetto di Socrate, fisicamente simile a un satiro, e tuttavia sorprendentemente buono nell'animo, per chi si soffermava a discutere con lui. Diogene Laerzio riferisce che, secondo alcuni antichi, Socrate avrebbe collaborato con Euripide alla composizione delle tragedie, ispirando in esse temi profondi di riflessione. Socrate fu sposato con Santippe, che gli diede tre figli: Lampsaco, Sofronisco e Menesseno. Tuttavia, secondo Aristotele e Plutarco, due di questi li avrebbe avuti da una concubina di nome Mirto. Santippe ebbe fama di donna insopportabile e bisbetica (Diogene Laerzio in Vite dei filosofi, II, 36, narra che una volta Santippe, dopo aver ingiuriato il coniuge, «gli versò addosso l'acqua»). Socrate stesso attestò che avendo imparato a vivere con lei era divenuto ormai capace di adattarsi a qualsiasi altro essere umano, esattamente come un domatore che avesse imparato a domare cavalli selvaggi, si sarebbe trovato a suo agio con tutti (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 36-37). Egli d'altra parte era talmente preso dalle proprie ricerche filosofiche al punto da trascurare ogni altro aspetto pratico della vita, tra cui anche l'affetto della moglie, finendo per condurre un'esistenza quasi vagabonda. Socrate viene anche rappresentato come un assiduo partecipante ai simposi, intento a bere e a discutere. Fu un bevitore leggendario, soprattutto per la capacità di tollerare bene l'alcool al punto che quando il resto della compagnia era ormai completamente ubriaca egli era l'unico a sembrare sobrio. Sapere di non sapere Paradossale fondamento del pensiero socratico è il "sapere di non sapere", un'ignoranza intesa come consapevolezza di non conoscenza definitiva, che diventa però movente fondamentale del desiderio di conoscere. La figura del filosofo secondo Socrate è completamente opposta a quella del saccente, ovvero del sofista che si ritiene e si presenta come sapiente, perlomeno di una sapienza tecnica come quella della retorica. Le fonti storiche che ci sono pervenute descrivono Socrate come un personaggio animato da una grande sete di verità e di sapere, che però sembravano continuamente sfuggirgli. Egli diceva di essersi convinto così di non sapere, ma proprio per questo di essere più sapiente degli altri. Nell'Apologia di Socrate ci viene descritto come egli abbia preso coscienza di ciò a partire da un singolare episodio. Un suo amico, Cherefonte, aveva chiesto alla Pizia, la sacerdotessa dell'oracolo di Apollo a Delfi, chi fosse l'uomo più sapiente e questa aveva risposto che era Socrate. Egli sapeva di non essere il più sapiente e quindi volle dimostrare come l'oracolo si fosse sbagliato andando a dialogare con quelli che avevano fama di essere molto sapienti, i poeti, gli artigiani e, in particolare, i politici. Ma alla fine del confronto, racconta Socrate, questi, messi di fronte alle proprie contraddizioni (l'aporia socratica) e inadeguatezze, provarono stupore e smarrimento, apparendo per quello che erano: dei presuntuosi ignoranti che non sapevano di essere tali. «Allora capii», dice Socrate, «che veramente io ero il più sapiente perché ero l'unico a sapere di non sapere, a sapere di essere ignorante. In seguito quegli uomini, che erano coloro che governavano la città, messi di fronte alla loro pochezza presero a odiare Socrate». « Ecco perché ancora oggi io vo d'intorno investigando e ricercando...se ci sia alcuno...che io possa ritenere sapiente; e poiché sembrami che non ci sia nessuno, io vengo così in aiuto al dio dimostrando che sapiente non esiste nessuno » Egli quindi "investigando e ricercando" conferma l'oracolo del dio, mostrando così l'insufficienza della classe politica dirigente. Da qui le accuse dei suoi avversari: egli avrebbe suscitato la contestazione giovanile insegnando con l'uso critico della ragione a rifiutare tutto ciò che si vuole imporre per la forza della tradizione o per una valenza religiosa. Socrate in realtà (sempre secondo la testimonianza di Platone) non intendeva affatto contestare la religione tradizionale, né corrompere i giovani incitandoli alla sovversione. Il processo Il processo si tenne nel 399 a.C. innanzi a una giuria di 501 cittadini di Atene, e – com'era da aspettarsi per una figura come quella di Socrate - fu atipico: egli si difese contestando le basi del processo, anziché lanciarsi in una lunga e pregevole difesa o portando in tribunale la sua famiglia per impietosire i giudici, come di solito si faceva. Fu riconosciuto colpevole per uno stretto margine di voti - appena trenta. Dopodiché, come previsto dalle leggi dell'Agorà, sia Socrate sia Meleto dovettero proporre una pena per i reati di cui l'imputato era stato accusato. Socrate sfidò i giudici proponendo loro di essere mantenuto a spese della collettività nel Pritaneo, poiché riteneva che anche a lui dovesse essere riconosciuto l'onore dei benefattori della città, avendo insegnato ai giovani la scienza del bene e del male. Poi consentì di farsi multare - seppur di una somma ridicola (una mina d'argento dapprima, cioè tutto quello che egli possedeva; trenta mine poi, sotto pressione dei suoi seguaci, che si fecero garanti per lui). Meleto chiese invece la morte. Furono messe ai voti le proposte: con ampia maggioranza - 360 voti a favore contro 140 contrari gli ateniesi, più per l'impossibilità di punire Socrate, multandolo di una somma così ridicola, che per effettiva volontà di condannarlo a morte, accolsero la proposta di Meleto e lo condannarono a morire mediante l'assunzione di cicuta. Era pratica diffusa autoesiliarsi dalla città pur di sfuggire alla sentenza di morte, ed era probabilmente su questo che contavano gli stessi accusatori. Socrate dunque intenzionalmente irritò i giudici, che non erano in realtà mal disposti verso di lui. Ma perché lo fece? Socrate in effetti aveva già deciso di non andare in esilio, in quanto anche fuori di Atene avrebbe persistito nella sua attività: dialogare con i giovani e mettere in discussione tutto quello che si vuol far credere verità certa. «Perciò, - sostenne Socrate, - mi ritroverò a rivivere la stessa situazione che mi ha portato alla condanna: qualcuno dei parenti dei miei giovani discepoli si irriterà della mia ricerca della verità e mi accuserà». Del resto egli non temeva la morte, che nessuno sa se sia o no un male, ma la preferiva all'esilio, questo sì un male sicuro. Accettazione della condanna Come racconta Platone nel dialogo del Critone, Socrate, pur sapendo di essere stato condannato ingiustamente, una volta in carcere rifiutò le proposte di fuga dei suoi discepoli, che avevano organizzato la sua evasione corrompendo i carcerieri. Ma Socrate non sfuggirà alla sua condanna poiché «è meglio subire ingiustizia piuttosto che commetterla», egli accetterà la morte che d'altra parte non è un male perché o è un sonno senza sogni, oppure darà la possibilità di visitare un mondo migliore dove, dice Socrate, s'incontreranno interlocutori migliori con cui dialogare. Quindi egli continuerà persino nel mondo dell'aldilà a professare quel principio a cui si è attenuto in tutta la sua vita: il dialogo. Si pone a questo punto uno dei temi più dibattuti della questione socratica: il rapporto tra Socrate e le leggi: perché Socrate accetta l'ingiusta condanna? Quintiliano Biografia Marco Fabio Quintiliano nacque a Calagurris Iulia Nasica nella Spagna Tarraconensis nel 35 d.C. Si trasferì in tenera età con il padre retore a Roma dove poté seguire lezioni di Remmio Palèmone e di Domizio Afro. Inoltre poté conoscere il filosofo Lucio Anneo Seneca la cui influenza sui giovani egli considerò deleteria. Finiti gli studi ritornò in Spagna dove poté restare fino al 68 esercitando la professione di maestro di retorica; in seguito a quella data venne ricondotto a Roma da Sulpicio Galba che in quel medesimo anno divenne imperatore. Giunto a Roma nel 68, vi esercitò probabilmente l'avvocatura e soprattutto incominciò la sua attività di maestro di retorica, con tanto successo che nel 78 Vespasiano gli affidò quella che può ben dirsi la prima cattedra statale in assolto. L'imperatore gli accordò un onorario annuo di 100.000 sesterzi, dando un concreto riconoscimento all'importanza dell'arte retorica nella formazione della gioventù e della futura "classe dirigente". Dopo vent'anni d'insegnamento, decise di abbandonare l'incarico e si dedicò alla stesura in un primo momento di un dialogo in cui espose la propria posizione sulla crescente corruzione dell'arte dell'eloquenza (l'opera perduta De causis corruptae eloquentiae), e poi dell'opera più importante, l'Institutio oratoria dove loda l'amico Giulio Secondo per il suo stile elegante e dice che se fosse vissuto più a lungo, avrebbe ottenuto la reputazione di oratore illustre agli occhi dei posteri. Ma se la vita pubblica di Quintiliano fu abbastanza agiata, quella privata fu turbata da gravi sventure domestiche, come la morte della moglie giovanissima e di due figli in tenera età. Fra i suoi numerosi allievi, ebbe Plinio il Giovane e, forse, Tacito; Domiziano lo incaricò nel 94 dell'educazione dei suoi nipoti, cosa che gli valse gli ornamenta consularia, ovvero il titolo di console, nonostante non avesse mai rivestito nel corso della propria vita questa carica. Morì nel 96 d.C. Institutio oratoria Il suo capolavoro - dedicato all'amico Vittorio Marcello, funzionario della corte di Domiziano, per l'educazione del figlio Geta - è l'Institutio oratoria (90-96 d.C.), cioè "la formazione dell'oratore" e del futuro uomo politico, che compendia l'esperienza di un insegnamento durato vent'anni (dal 70 al 90 ca). Scopo di quest'opera è fungere da manuale per coloro che vogliano impegnarsi nell'ars oratoria ma la Institutio oratoria è anche un trattato denso di insegnamenti pedagogici e suggerimenti didattici. Qui propone una pedagogia illuminata e innovativa, correggendo il modello tradizionale. Per esempio è contrario alle punizioni corporali, considerandole controproducenti al processo educativo. Poi ha una attenzione particolare nei confronti delle inclinazioni personali e proprie del bambino. La pedagogia si basa su un processo sistematico, che non si sviluppa per "assaggi" o frammenti ma si basa su una programmazione ben precisa e congegnata, per questo definita "enciclopedica", che punta cioè alla formazione generale dell'allievo. È un metodo graduale, che procede dal più semplice al più complesso, dal generale alla definizione e continuo perché non ha un inizio e una fine ma dovrebbe durare tutta la vita. In questo lavoro interagiscono, oltre che l'educatore, l'alunno stesso, la scuola (che è una sorta di piccola società), la famiglia. Quintiliano riconosce nella figura materna un ruolo fondamentale nella formazione del bambino: la madre, nei primi anni di vita del figlio, deve impegnarsi il più possibile a parlar bene, in modo corretto, per far sì che non si creino lacune a livello linguistico già in tenera età. È concezione rivoluzionaria per certi punti di vista, in quanto la figura della donna era poco considerata, per quanto concerne questi compiti. È definita una pedagogia perfettiva: Quintiliano pensa e crede che ogni bambino possa diventare come Alessandro il Macedone, cioè la perfezione. Una figura da ammirare, per le sue gesta e soprattutto perché fu allievo di Aristotele (uno dei punti di riferimento di Quintiliano). Seneca invece criticò questo aspetto, perché riteneva l'immagine di Alessandro Magno totalmente immorale, spregiudicata, diseducativa, un brutto esempio da seguire in quanto il peggior modello di persona e di condottiero. È una pedagogia della parola: vero che afferma che il bambino possa diventare tutto ciò che desideri, qualsiasi tipo di persona, però l'obiettivo finale della pedagogia proposta da Quintiliano è quella di formare il perfetto oratore.