Le origini

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Le origini
Xia (2200 a.C. – 1750 a.C.)
Non si sa molto della prima dinastia cinese, infatti, fino a poco tempo fa, gran parte degli storici
pensava che si trattasse soltanto di leggenda. Ma recenti scavi e documenti hanno provato che gli
storici in gran parte si sbagliavano. Il poco che si è scoperto indica che gli Xia discendevano da una
cultura neolitica diffusa nell’ampia valle del Fiume Giallo, conosciuta come cultura Longshan,
famosa per le terrecotte laccate di nero. Sebbene non ci siano pervenuti esempi di scrittura Xia, è
molto probabile che ci fosse già un sistema di scrittura, precursore di quello degli “oracoli d’osso”
degli Shang
Shang (1750 a.C. – 1040 a.C.)
Bisogna sapere tre cose della dinastia Shang: la prima, che erano la società
del bronzo più evoluta del mondo; la seconda, che le rovine Shang ci mostrano
l’esistenza delle più antiche e più complete testimonianze di scrittura cinese
(precedentemente, c’è un po’ di vasellame neolitico con qualche pittogramma
scolpito, ma pochi caratteri non fanno un sistema di scrittura), incise sulle ossa
piatte delle spalle dei suini, sul bronzo, sulla corazza delle tartarughe; e la terza,
che molto probabilmente era la civiltà antica più assetata di sangue. Amavano i
sacrifici umani, e molto. Se un re moriva, cento schiavi lo seguivano nella tomba.
Alcuni, per loro fortuna, venivano prima decapitati, altri erano gettati nella tomba
vivi. Le dinastie seguenti rimpiazzarono gli esseri umani con figure di terracotta,
come nella famosa armata di terracotta ritrovata nel 1974 a Xi’an. Facevano sacrifici umani anche
per consacrare edifici e per altri eventi cerimoniali. Gli Shang erano caratterizzati anche da un
sistema di successione davvero bizzarro: invece di una linea patriarcale, in cui il potere si passa da
padre a figlio, la successione avveniva da fratello maggiore a fratello minore, e quando non c’erano
più fratelli allora si ricorreva al maggiore dei nipoti materni.
Zhou occidentali (1100 a.C. – 771 a.C.)
Molti studiosi pensano che gli Zhou fossero molto più
“cinesi” degli Shang. Innanzitutto, avevano un sistema di
successione padre-figlio. Inoltre, non erano così accaniti coi
sacrifici umani. Però non erano evoluti come gli Shang nella
lavorazione del bronzo, anche se bisogna dire che ci
vorranno secoli perché gli occidentali raggiungano la
tecnica anche solo degli Zhou. In questo periodo abbiamo
anche le prime testimonianze di caratteri cinesi originali,
quelli che si usano ancora oggi. Alcuni studiosi, ma non
tutti, sostengono che gli Xia, gli Shang e gli Zhou siano stati
in realtà tre culture diverse che emersero più o meno
contemporaneamente in diverse zone della valle del Fiume
Giallo. E i documenti storici dimostrano che gli Shang
furono conquistati dagli Zhou, così come gli Xia furono
conquistati dagli Shang.
In realtà gli Zhou non dominarono tutta la Cina, che a quei tempi era costituita da una serie di
principati. Comunque, quello degli Zhou era il principato più potente e svolse un ruolo di egemonia
in quella regione. Geograficamente, erano al centro dei principati: ecco perché i cinesi chiamano la
Cina “Regno di Mezzo”. Gli Zhou furono capaci di mantenere pace e stabilità per pochi secoli,
dopodiché, nel 771 a.C., la capitale fu saccheggiata dai barbari che venivano da occidente.
Zhou orientali (771 a.C. – 256 a.C.)
Periodo delle Primavere e degli Autunni (722 a.C. – 481 a.C)
Periodo dei Regni Combattenti (403 a.C. – 221 a.C.)
Dopo che la capitale fu saccheggiata dai barbari che venivano dall’ovest, gli Zhou si trasferirono
a oriente, dividendo così nettamente la dinastia nel periodo occidentale e orientale. Naturalmente, in
questo periodo il potere degli Zhou ebbe un certo declino. Il cosiddetto periodo delle Primavere e
degli Autunni, che prende il nome da un libro che narrava la storia di quei tempi (“Annali delle
Primavere e degli Autunni”), è caratterizzato dal proliferare di nuovi ideali e filosofie. Le tre
correnti più importanti dal punto di vista storico sono Taoismo, Confucianesimo e Legismo.
Il Taoismo è basato sullo studio del Tao (letteralmente, “la Via”). Per chi fosse completamente a
digiuno di Taoismo consiglio la lettura del “Dao de Jing, la Via e la Virtù” (o “Tao te Ching”,
secondo la traslitterazione classica), il libro più grande e antico sul Taoismo. Si dice scritto da un
filosofo chiamato Lao-Zi., ma non sappiamo realmente se Lao-Zi sia effettivamente il nome
dell’autore, o se Lao-Zi sia mai veramente esistito, o se il libro non sia invece una raccolta di autori
vari. La prima riga del Dao de Jing si può tradurre come “La Via più diritta non è quella più duratura
e immutabile”. Ma si può anche tradurre con “La Via che si può conoscere non è la vera Via”. Si può
anche tradurre in altri modi, tutti comunque con lo stesso significato paradossale e quindi tutti con
interpretazioni molto diverse. Il libro è fitto di moltissimi altri paradossi, come “Più il saggio spende
per il prossimo, più possiede. Più dà agli altri, più ha per sé stesso”. I Taoisti amano questo genere di
cose; la famosa storia dell’uomo che sogna di essere farfalla e che poi si sveglia e si chiede se è
veramente un uomo oppure una farfalla che sogna di essere un uomo, è un classico del Taoismo. Il
Taoismo ha profondamente influenzato il Buddismo Cha’an (detto anche Zen) e in qualche modo
anche molti artisti odierni, da Borges a Tarkovskij (non a caso, nel suo film Stalker, Tarkovskij fa
citare al protagonista ampi stralci del Dao de Jing).
Confucio (Kong Fu Zi), che visse circa 500 anni prima di Cristo, credeva essenzialmente che gli
uomini con moralità fossero anche dei buoni governanti, e che la virtù sia la proprietà più importante
che un ufficiale deve avere. Credeva anche che la virtù si possa ottenere seguendo la giusta condotta,
e quindi mise in gran risalto la rispettabilità. Gran parte di ciò che si conosce come
“Confucianesimo” fu scritto in realtà da Mencio, un discepolo di Confucio, che pensava che gli
esseri umani siano tutti sostanzialmente buoni. Confucio inoltre codificò lo stato del governante in
pensiero politico cinese: l’Imperatore era il Figlio del Cielo (in cinese il Cielo o il Paradiso non è un
luogo ma una forza naturale/divina) e aveva il Mandato del Cielo per governare.
Il Legismo deriva dagli insegnamenti di un altro dei discepoli di Confucio, un uomo chiamato
Xun-Zi. Xun-Zi credeva che, in generale, l’uomo guardi prima a sé stesso e poi agli altri, e che sia
fondamentalmente cattivo (ricordiamoci che questo lo diceva più 2000 anni prima che Adam Smith
sostenesse che l’interesse personale sia ciò che fa funzionare i mercati e sia quindi in sé buono). Di
conseguenza, i Legisti scrissero una serie di leggi draconiane che avrebbero reso la nazione più
semplice da controllare.
Lo scopo fondamentale sia del Confucianesimo sia del Legismo era la riunificazione della Cina,
ma avevano approcci differenti. Il Confucianesimo attraverso la virtù e l’ordine naturale, il Legismo
col pugno di ferro. Il Legismo è stato anche chiamato “super-Machiavellismo”. Il nome non è
peregrino, poiché per raggiungere lo scopo il Legismo arrivò a soffocare il dissenso bruciando libri e
seppellendo vivi i dissidenti (il maltrattamento delle opposizioni non è nuovo in Cina, in quanto il
sistema parte con l’idea che l’Imperatore sia il Figlio del Cielo e abbia il Mandato del Cielo per
governare; non c’è assolutamente il concetto di dissenso legittimo e quindi di “opposizione leale”). Il
Legismo sfruttò tecniche come il mantenimento di una polizia segreta, spingendo i cittadini a
informare il governo denunciando il vicino di casa, e la creazione di un’atmosfera di paura generale.
Molte tattiche legiste furono poi utilizzate da Hitler, Stalin e Mao.
Il periodo dei Regni Combattenti fu politicamente molto simile a quello delle Primavere e degli
Autunni; la differenza maggiore era che mentre prima gli eserciti erano piccoli e le battaglie
duravano un giorno, un po’ come le guerre prenapoleoniche, adesso la tattica militare era simile a
quella che un contemporaneo chiamerebbe “guerra totale”: armi di massa (mezzo milione di soldati
per esercito non era una rarità), battaglie lunghissime, assedi, erano cosa comune nel periodo dei
Regni Combattenti.
Il primo periodo imperiale
Qin (221 a.C – 206 a.C)
Nel 221 a.C., il primo Imperatore della Cina (così
chiamato in quanto i precedenti sovrani si facevano chiamare
solo re), Qin Shihuandi, conquistò il resto della Cina dopo
qualche centinaio d’anni di disunità. Vinse per due motivi
principali; il primo è che era un devoto legista (tanto che fece
bruciare tutti i libri della Cina, perlomeno tutti quelli che
credeva fossero rimasti). L’altro motivo è che lo stato di Qin
aveva moltissimo ferro, e conseguentemente, all’alba dell’età
del ferro, aveva molte più armi in ferro di tutti gli altri
eserciti. Qin Shihuandi concepì molti grandiosi progetti, non
ultimo il collegamento di gran parte delle vetuste mura
difensive dei vecchi principati creando così la Grande
Muraglia Cinese. Con questo non si vuol dire che fu il
costruttore di quell’imponente opera muraria oggi chiamata
Grande Muraglia: quella di oggi fu in realtà costruita duemila anni dopo, durante la dinastia Ming.
Sulla base, però, di quella di Qin, che è ancora visibile in qualche punto. È di questo periodo anche
l’Armata di Terracotta scoperta a Xi’an nel 1974. Si tratta della riproduzione in terracotta di più di
10000 fra guerrieri, arcieri, carri e soldati, messi tutti nella tomba di Qin Shihuandi.
Qin iniziò inoltre la riforma agraria: ai contadini vennero
concesse in proprietà le terre da loro coltivate. Unificò i
pesi, le misure e la lunghezza dell’asse dei carri, codificò la
scrittura dei caratteri (il primo ministro Li Si pubblicò il
primo catalogo ufficiale con 3300 caratteri).
Nel 210 a.C. Qin Shihuandi morì, e con lui la sua
dinastia. Non durò a lungo a causa di una rivoluzione partita
da un soldato che, vedendosi condannato a morte per aver
consegnato in ritardo un gruppo di coscritti (c’era stata gran
pioggia e le strade erano diventate torrenti di fango),
convinse i coscritti (condannati anch’essi) a ribellarsi con
lui. Anche se furono catturati tutti e debitamente giustiziati,
la rivolta che scatenarono, con a capo un contadino
chiamato Liu Bang, finì per distruggere la vecchia dinastia e
per preparare il campo agli Han.
Han d’Oriente (206 a.C. – 8 d.C.)
Xin – Interregno di Wang Mang (8 – 25)
Han d’Occidente (25 – 220)
La dinastia Han, il cui primo imperatore fu quel Liu Bang
che capitanò la rivolta contro Qin Shihuandi, ha un ruolo
importantissimo nella storia cinese. Prima di tutto, gli Han
codificarono il modo di raccontare la storia cinese che è
arrivata fino a noi. Inoltre, per dare l’idea del fenomeno, il
gruppo etnico tuttora predominante in Cina si chiama
proprio Han. Ma, soprattutto, gli Han svilupparono (in realtà
fu un’invenzione di Qin Shihuandi, ma fu perfezionato dagli
Han) il modello amministrativo che ogni dinastia
successiva avrebbe poi copiato in blocco.
Perché lo sviluppo della burocrazia è così importante?
Prima di tutto, perché la Cina antica era una nazione
davvero grande. Nel 206 a.C., quando la dinastia Han fu
fondata, la Cina si estendeva a nord dalla moderna Shenyang (circa 500 km a nord di Pechino) fino
a sud a Guilin; a est dall’Oceano Pacifico, fino a Ovest ben oltre Chongqing. Finché la Russia non
si appropriò della Siberia, la Cina era il paese più esteso del mondo. Era anche il più popolato (60
milioni di persone a quei tempi), e lo è ancora (sebbene probabilmente l’India supererà la Cina in
termini di popolazione nel prossimo secolo). È un affare gestionale di dimensioni tremende. Come
si possono fare cose come riscuotere imposte, mantenere la pace e mantenere un governo in un
territorio così vasto senza un efficientissimo apparato burocratico? Il sistema burocratico cinese è
basato sugli studi del Confucianesimo Classico, che fornisce un punto di vista ideologico basato
sulla buona condotta (che fu spesso ignorata, ma funzionò comunque) e sulla lealtà all’Imperatore.
Sviluppando questo sistema, gli Han riuscirono a rendere ragionevolmente efficiente la Cina.
L’imperatore era il detentore supremo del potere legislativo, esecutivo e giudiziario almeno in
teoria. Sotto di lui stavano nove ministri, preposti ai vari campi dell’amministrazione pubblica, in
cui si iniziava a verificare una diversificazione. A capo di tutta la burocrazia stava il cancelliere, che
aveva il compito di nominare i funzionari. Era una posizione molto delicata, tanto che nessun
cancelliere restò in carica più di quattro anni. Importante per i suoi sviluppi successivi era la
segreteria imperiale, in cui avranno un ruolo sempre più grande gli eunuchi, incaricati dell’harem
imperiale e per questo molto influenti presso l’imperatore stesso.
Nel periodo Han si ebbe una grande fioritura culturale, sorretta da un’invenzione
importantissima: la carta. Prima veniva usato il legno, il bambù o la seta. Nacque la poesia lirica,
che descrive situazioni familiari e sentimentali patetiche, vennero compilate delle enciclopedie.
Vediamo un po’ più in dettaglio il susseguirsi degli imperatori Han.
Uomo del popolo, appena salito al trono Liu Bang si dette da fare per abolire il rigido diritto
penale dei Qin, cosa che gli procacciò la popolarità in vasti settori. Ai suoi compagni d’arme
distribuì dei feudi, così ripristinando certe strutture politiche del passato, con la differenza che ora
c’era una nobiltà di nuovo tipo, salita al potere nella ribellione contro i Qin e senza tradizioni. Alla
morte di Liu Bang il potere cadde praticamente in mano alla sua vedova Lu, che per favorire i suoi
parenti non si astenne da stragi vere e proprie. L’influenza nefasta delle mogli degli imperatori nella
storia della Cina sarà un dato costante, uguagliata forse soltanto dal potere degli eunuchi.
Con l’avvento al trono dell’imperatore Wen (180-157 a.C.) il Paese godette di un periodo di pace
e di prosperità, in cui le ferite di lotte intestine e intrighi di palazzo poterono rimarginarsi. Durante il
suo regno furono costruite strade, furono fatti canali e ponti, in modo che il commercio fosse
incrementato. Con l’imperatore Wu (141-87 a.C.) si passò da una politica empirica ad una per così
dire sistematica e l’impero acquistò una sua consistenza interna ed una sua collocazione definita
rispetto ai popoli confinanti. È in questo periodo che ci fu la maggiore stabilità della Cina, che si
consolidarono economia e società fino ad arrivare a uno stadio che rimarrà sostanzialmente immutato
fino a oggi. Si abolirono definitivamente i feudi, soprattutto per annientare la possibilità che i grandi
signori feudali, che erano stati ripristinati da Liu Bang, facessero il bello e il cattivo tempo. Uno dei
fattori che portò maggiormente all’identità culturale dei cinesi Han fu l’inizio delle “invasioni
barbariche”: in questo periodo infatti ebbero inizio le prime incursioni del popolo Xiongnu,
conosciuto in occidente come “Unno”. L’efficacia delle incursioni cresceva con l’aumentare
dell’identità culturale degli Unni, che più si univano più riuscivano nelle loro imprese. Non fu facile
unirsi in quanto le popolazioni nomadi erano da sempre frammentate in una miriade di nuclei
culturali ed etnici spesso anche in contrasto fra loro. L’unione fu aiutata dal sentirsi molto diversi
dalle popolazioni che cercavano di attaccare. Questo processo però ottenne l’effetto di aumentare
anche l’identità culturale di chi veniva attaccato: appunto i cinesi Han. Questa identità culturale
crebbe talmente tanto da diventare il vero e proprio deterrente principale contro gli Unni, che pur
riuscendo a vincere qualche battaglia e a conquistare qualche territorio, alla lunga si vedevano
annientati dall’assimilazione culturale cinese. Tanto che nel IV secolo d.C. capiranno che è ora di
cambiare aria e attaccheranno l’Impero Romano, con le conseguenze che tutti sappiamo. I Cinesi
troveranno così la possibilità di espandersi ulteriormente, di conoscere i paesi a cui vendere i loro
prodotti, di importare la vite, il foraggio, vari prodotti agricoli, nuove specie equine e di aprire così la
“Via della Seta”.
Durante il regno di un imperatore chiamato Han Wudi visse uno storico chiamato Sima Qian. Il
suo contributo più importante alla storia cinese fu quello di scrivere un libro conosciuto come
“Documenti della Grande Storia” (disse di aver soltanto completato un libro incompiuto del padre
Sima Tan, ma in realtà sappiamo che lo scrisse quasi interamente lui). Gran parte dei libri di storia
sono molto lineari: prima si parla dei Greci, poi dei Romani, poi del Medio Evo, e così via. Quello
che fece Sima fu di strutturare il suo libro in modo che ogni capitolo trattasse di un argomento
diverso: un capitolo era sui documenti politici dei re e degli imperatori, un altro sulla letteratura, un
terzo sulla filosofia, eccetera. Ogni documento dinastico seguente copiò l’originale di Sima. In
inglese c’è solo un libro invece che segue lo stesso schema: “China’s Imperial Past”, di Charles O.
Hucker.
Fra l’8 e il 25 d.C., un uomo chiamato Wang Mang governò la Cina. Faceva parte della famiglia
reale ma di per sé non era un nobile. Fu eletto Imperatore dopo una lotta di potere nella famiglia
Han, ed era nipote dell’imperatrice che salì al trono secondo la dottrina che quando l’imperatore
non era più degno doveva essere sostituito. Le storie su di lui sono varie. Mentre sembra avesse
qualche buona qualità, qualche idea riformista (per esempio, ridare il potere al popolo), in realtà non
era portato al comando. Come se non bastasse, durante il suo interregno ci furono alcune calamità
naturali, quali lo straripamento del fiume Huanghe, che provocarono delle rivolte contadine, tra cui
importante fu quella dei Sopraccigli rossi, che ebbe largo seguito. Dopo la sua morte nel 25, la
famiglia reale Han riprese il potere, e fondò la seconda dinastia Han.
La seconda dinastia Han riuscì a non crollare per altri 200 anni, però, verso la fine del suo
governo, diventò sempre più dissoluta. Soprattutto, non fu capace di gestire due fattori: uno
spostamento di popolazione dal Fiume Giallo nel nord fino allo Yangzi nel sud, e la calata dei
barbari a cavallo provenienti dal nord, di cui abbiamo scritto più su, che erano la ragione per cui la
gente si spostava a sud.
Nella capitale Luoyang dilagava il favoritismo e le grandi famiglie erano in continua rivalità.
C’era il partito dei vecchi nobili feudali, ormai trasformati in latifondisti oziosi, e la nuova classe
dei funzionari e dei burocrati. Più vicino all’imperatore c’era la rivalità tra le famiglie delle
imperatrici e gli eunuchi. Tutto questo servì a minare irrimediabilmente il potere centrale. Nel 184
d.C. esplose la rivolta dei Turbanti gialli, che segna l’inizio del tramonto definitivo della dinastia
contemporanea all’impero romano. Nel 220, il potere centrale aveva talmente perso il controllo
sulle province che collassò, facendo piombare la Cina in 350 anni di caos e separazione.
I Tre Regni (220 – 265)
Le Dinastie del Nord e del Sud (317 – 589)
Per quanto questi periodi furono costellati di accadimenti politici, gran parte di essi, trattandosi
di guerre varie fra regni (uno dei romanzi più famosi della letteratura cinese, di epoca Ming, “Il
Romanzo dei Tre Regni”, parla di questo periodo), non sono importanti per lo sviluppo della storia
cinese. Forse il maggior contributo che questo periodo portò al pensiero cinese fu poi l’importanza
di avere “un Imperatore su tutta la Cina, come un sole unico nel cielo”.
Dal punto di vista sociale ci furono due importanti sviluppi. Il primo fu che il gruppo etnico Han
continuò a trasferirsi a sud, mentre i “barbari” si insediavano nel nord e si assimilavano alla società
cinese, o meglio venivano assimilati dalla società cinese, loro malgrado. Il secondo fu il Buddismo,
che era nato in India attorno al VI secolo a.C., quando Budda probabilmente visse. Fu introdotto in
Cina attorno alla metà del primo secolo dopo Cristo (più o meno nello stesso periodo in cui i
Cristiani stavano scrivendo i Vangeli), ma non attecchì fino alla caduta della dinastia Han.
Il Buddismo dovette competere molto col Confucianesimo, e alla fine lo eclissò. Per varie
ragioni, alcune politiche, alcune sociali, si diffuse molto rapidamente in tutta la Cina. Cambiò anche
parecchio del buddismo indiano originale, che non viene più praticato da nessuno nel mondo. Dalla
Cina, il Buddismo si sarebbe diffuso in Tibet, nel Sudest Asiatico, in Corea e in Giappone.
Il Buddismo in Cina si fuse un po’ anche col Taoismo, particolarmente fra il popolo; ma mentre
il processo all’inizio si può paragonare all’assimilazione cristiana di credenze europee indigene, il
Taoismo non fu mai completamente assorbito dal Buddismo e mantenne la sua identità.
Il secondo periodo imperiale
Sui (589 – 618)
La cosa più importante da sapere su questa dinastia è che fu molto breve (per gli standard
dinastici) e che fece un ottimo lavoro nel riunificare la Cina. Fra l’altro, l’Imperatore Yangdi
(l’ultimo dei Sui) iniziò i lavori del Canale Imperiale, che avrebbe in futuro unito il nord al sud.
Essendo la base del potere situata nel nord, fu una dinastia in parte barbara. Ma nonostante la
dinastia Sui e la successiva Tang non fossero costituite da cinesi Han, entrambe le dinastie sono
considerate cinesi, in opposizione a quelle, che vedremo, dei Mongoli e dei Manciù.
Tang (618 – 907)
Quella Tang è considerata una delle più grandi dinastie
della storia cinese; molti storici la mettono appena dietro la
Han. I Tang estesero i confini cinesi a nord fino in Siberia, a
est fino in Corea, e a sud fino nel Vietnam. Estesero anche
un corridoio di controllo della Via della Seta nell’odierno
Afghanistan.
Ci sono due fatti storici interessanti sui Tang. Il primo è
l’imperatrice Wu, l’unica donna che ebbe effettivamente il
titolo di “Imperatrice”. Il secondo è la rivolta di An Lushan,
che segnò l’inizio della fine dei Tang.
Ma andiamo con ordine.
Nel corso della grande rivoluzione contadina contro i
Sui, il nobile Li Yuan, capo militare dello Shaanxi,
divenne l’imperatore dei Tang. Egli era un bravo e onesto governatore e pertanto era indeciso se
appoggiare o meno la rivolta contro l’imperatore Yangdi, ma il figlio Li Shimin, con uno
stratagemma, lo fece schierare dalla parte dei ribelli. Dopo due anni di guerra Li Yuan diventò
padrone di un vasto territorio, si impadronì della capitale Chang’an e nel 618 dopo l’assassinio di
Yangdi si proclamò imperatore e diede inizio alla gloriosa dinastia dei Tang. Dodici pretendenti gli
contesero il potere aiutati anche da truppe dei turchi orientali. L’esercito Tang, agli ordini del
principe Li Shimin, sbaragliò le forze degli avversari ed estese il potere della Cina costituendo un
impero più potente e prospero di quello degli Han.
Nel 626 l’imperatore Li Yuan abdicò e gli successe Taizong, che regnò fino al 649. Egli decise
una riforma agraria con un’equa distribuzione delle terre, senza però toccare le proprietà dei grandi
proprietari e dei monasteri; diminuì le imposte, abrogò le leggi troppo dure, riformò i codici e
soppresse molte pene. Nell’organizzazione dell’amministrazione dell’impero introdusse delle novità
collocando un governatore militare al di sopra di quello civile; per il reclutamento dei funzionari
mise a punto un sistema di esami, nei quali, accanto alla conoscenza dei classici confuciani, erano
richieste conoscenze scientifiche, matematiche, giuridiche, storiche e calligrafiche. Per i gradi
superiori istituì una prova di poesia ed un saggio, e ciò gli valse il favore dei letterati. Dal punto di
vista della struttura militare egli rafforzò l’esercito potenziando la cavalleria, che diventò l’elemento
determinante nelle conquiste territoriali della Cina di quest’epoca.
I turchi orientali, sconfitti, vennero a inchinarsi davanti a lui e ne accettarono il protettorato. Con
lunghe campagne di cavalleria sottomise anche i turchi occidentali del bacino del Tarim e ristabilì il
protettorato cinese sulla regione. La sua potenza si estese, venne accettato oltre il Pamir fino al
Caspio, fino a quando nel 751 le armate cinesi vennero sconfitte dagli arabi a Talas. Il Tibet gli inviò
tributi; gli ambasciatori dell’India, di Ceylon e della Persia si successero nella capitale cinese.
Il buddismo era florido, il monaco Xuanzang partì in pellegrinaggio per l’India, passando
dall’Asia centrale. Dopo sedici anni di viaggio e di studi, tornò con una documentazione
straordinaria sui paesi visitati, sui loro abitanti, sulla loro economia, sul loro modo di pensare;
raccolse anche i testi classici del buddismo e dedicò il resto della sua vita alla loro traduzione dal
sanscrito in cinese. Nella capitale cinese tutte le religioni erano ammesse: quella di Zoroastro, quella
manichea, il nestorianesimo, il giudaismo e l’islamismo; preti, mercanti e studenti stranieri
affollavano la ricca capitale cinese.
Alla sua morte gli successe un figlio, da lui prescelto, che prese l’appellativo di Gaozong (650683), giovane pieno di buona volontà, ma succube dell’affascinante e ambiziosa imperatrice Zetian,
una concubina di Taizong, di nome Wu. Molto influente a partire dal 654, diventa imperatrice
consorte nel 655.
L’imperatrice Wu Zetian non era una personcina
raccomandabile. Quando era ancora una concubina della casa reale
Tang, Wu uccise suo figlio e diede la colpa alla sua rivale, che venne
così ripudiata ed esiliata. Da quel momento divenne padrona della
volontà dell’imperatore. Continuarono le sue macchinazioni per
sbarazzarsi dei possibili rivali al trono, indusse l’imperatore a mettere
a morte persino i figli, di cui due erano suoi.
Nel 683 morì l’imperatore. Wu aveva sessant’anni e pose sul trono
suo figlio; ma dopo appena 54 giorni lo detronizzò e nominò
imperatore il suo secondogenito, che imprigionò nel palazzo. Scoppiò
una rivolta di 100.000 ribelli, ma Wu riuscì a soffocarla nel sangue.
Volle fondare una dinastia che portasse il suo nome. I principi della
famiglia Tang si rivoltarono e allora lei ne approfittò per far
scomparire tutta la famiglia imperiale giustiziando o mandando in
esilio uomini, donne e bambini: le purghe durarono due anni.
Wu Zetian era una fervente buddista e la sua scalata al potere fu appoggiata dai buddisti, che
finirono per riconoscerla come reincarnazione del bodhisattva Maitreya. Per sfuggire al controllo
delle grandi famiglie trasferì la capitale a Luoyang e si proclamò imperatrice di una nuova dinastia
Zhou. La sua condotta fece scoppiare un complotto che la costrinse ad abdicare. Morì dopo pochi
mesi.
L’imperatrice Wu, nel suo maligno, spietato, geniale modo di governare e di vivere rimane una
figura estremamente emblematica nella storia dell’umanità. Se Machiavelli l’avesse conosciuta,
avrebbe scritto “La Principessa”.
Le successe il figlio, un debole che amava intrattenersi con il monaco Yijing e i santi bonzi; il
potere era nelle mani della moglie, l’imperatrice Wei, che, avendo un amante della famiglia Zhou,
avvelenò il marito, ma finì decapitata, dopo un complotto capeggiato dal principe Li Longji.
Costui era figlio dell’imperatore Ruizong, detronizzato dall’imperatrice Wu nel 690. Dapprima
pose suo padre nuovamente sul trono nel 710, ma dopo due anni prese personalmente il potere
assumendo il nome di Xuanzong. La Cina visse sotto questo sovrano il suo periodo d’oro sia per le
dimensioni dei domini che per il fiorire delle arti e della letteratura. Era letterato egli stesso ed è più
noto con l’appellativo di Minghuang (imperatore illuminato). Egli rimise ordine nelle finanze,
nell’amministrazione e nei costumi politici.
Verso la fine della sua vita si disinteressò del governo, tutto preso dall’amore per la concubina
Yang Yuhuan, nota con l’appellativo di Yang “Guifei” (= consorte Yang). In balia della volontà di
questa donna assegnò incarichi di prestigio ai membri della famiglia di lei. Tutto ciò provocò il
malcontento di un governatore, An Lushan, appartenente ad una tribù turca, che aspirava alla
carica di primo ministro, dopo la morte del titolare Li Linfu nel 752. L’incarico venne affidato
invece a Yang Guozong, cugino della favorita. Ciò provocò la ribellione di An Lushan nel 755, che
riuscì ad occupare la capitale, costringendo l’imperatore a scappare. Durante la sua fuga, una
guardia imperiale accusando Yang Guifei di essere responsabile di tutti i problemi che avevano
minato la dinastia (siamo gentili, non fu solo colpa sua: ci furono forze politiche ed economiche
parecchio oltre il controllo di qualsiasi singolo essere umano), la strangolò e gettò il cadavere in un
fosso. Una leggenda dice che la donna era in realtà una contadina, un sosia, procurata
dall’imperatore, ma per quanto ne sappiamo è solo una leggenda. La ribellione continuò dopo la
morte di An Lushan, sotto la guida di Shi Siming suo luogotenente, e venne infine domata dalle
truppe imperiali nel 763.
Questo episodio segnò l’inizio della decadenza dell’impero Tang. Le guarnigioni di frontiera si
trasformarono in forze regionali autonome e si impossessarono delle imposte destinate allo Stato. I
governatori proclamarono ereditarie le loro cariche e alcuni dichiararono la loro autonomia
dall’autorità centrale. Il potere centrale cadde nelle mani degli eunuchi, che controllavano la nomina
dei generali e dei funzionari. Giunsero anche a porre sul trono o a deporre gli imperatori.
Ormai la Cina dei Tang era avviata verso un nuovo stadio di decadenza a causa delle lotte
intestine della classe dominante e non riuscì più a esercitare il suo potere nelle regioni occidentali.
Venne attaccata dagli Uighur e dai Tufan che avanzando da nord e da sud la serrarono in una morsa;
l’impero era quindi tagliato fuori dalle regioni occidentali e il bacino del Tarim cadde in mano ai
Tufan, che fondarono uno Stato potente, lo Xizang (Tibet).
I tentativi del potere centrale di limitare lo strapotere dei monasteri buddisti, dei funzionari, dei
mercanti e dei proprietari fondiari fallirono: si impossessarono senza scrupoli delle terre, riducendo i
contadini alla miseria e alla disperazione. Scoppiarono così diverse rivolte contadine. La prima fu
dell’860 e fu capeggiata da Qiu Fu; seguì poi l’ammutinamento di soldati capeggiati da Pang Xun
nell’869.
Alla fine la grande rivoluzione contadina dell’874 fu guidata prima da Wang Xianzhi e continuata
da Huang Chao. Tale rivolta sconvolse la Cina: truppe di ribelli partirono dallo Shandong,
attraversarono Henan, Anhui, Hubei, il fiume Yangzi, raggiunsero a sud la regione litoranea del
Guangdong e del Guangxi, e poi di nuovo verso nord nel Jiangxi e Jiangsu, Anhui e Henan. Nell’880
occuparono Chang’an. La rivolta si protrasse fino all’884, quando la ribellione fu stroncata dalle
truppe Tang con l’apporto delle truppe turche della tribù Shato.
Dopo la pacificazione, il potere era nominalmente nelle mani dell’imperatore, ma continuava la
lotta fra il capo dei turchi, alleato dei Tang, e l’ex ribelle pacificato Zhu Quanzhong già luogotenente
di Huang Chao. Costui si impadronì dell’imperatore e lo mise a morte assieme agli eunuchi e alla
corte imperiale. Obbedendo ad un ultimo scrupolo, collocò sul trono un giovane principe Ai dei
Tang, che però fece abdicare due anni dopo, nel 907, e si proclamò imperatore fondando la dinastia
dei Liang posteriori, concludendo così l’epoca Tang.
La Cina conobbe sotto questa dinastia un periodo di grande progresso in tutti i campi. La poesia,
anche perché favorita dalla corte, raggiunse il massimo splendore con più di 2.000 poeti, dei quali ci
sono stati conservati più di 50.000 componimenti. I poeti maggiori furono Li Bai (Li Po) e Du Fu,
che vissero sotto il regno di Xuanzong. Un altro grande poeta e pittore fu Wang Wei. Di
quest’epoca fu l’invenzione della stampa (VIII sec.) e l’introduzione dell’uso della carta moneta.
Si sviluppò il commercio interno ed esterno; l’industria della seta, della terracotta, del broccato,
quella mineraria conobbero una grande espansione. Si imparò a estrarre lo zucchero dalla canna e
il tè che un tempo era riservato ai signori diventò una bevanda nazionale.
Nel campo della ceramica la dinastia Tang è conosciuta soprattutto per le sue figurine di
terracotta di stile realistico. Ma quest’arte produsse anche pezzi rari; si ottenne la porcellana, grazie
ad un’argilla speciale portata a più di 1.300 gradi; comparirono i “céladon” verde-azzurri.
Nel campo delle istituzioni giuridiche troviamo il codice Tang, redatto nella sua prima forma nel
624, rivisto nel 627 e 637 e seguito da un commento nel 653. Questo fu il primo codice cinese
pervenutoci; si tratta di un’opera ammirevole per la sua logicità, contava 500 articoli divisi in 12
sezioni.
Song del Nord (960 – 1125)
Song del Sud (1127 – 1279)
La dinastia Song è fra le più importanti, con la Tang e la
Han. Cinquant’anni dopo la fine ufficiale dei Tang, un
esercito imperiale riunificò la Cina e stabilì la dinastia Song.
Furono tempi di eccezionale progresso tecnologico, culturale
ed economico. I Song, nonostante il sostanziale fallimento
politico, fondarono le basi per tutto il resto dell’era
imperiale. Lo sviluppo più importante fu quello della
tecnologia agricola, favorita dall’importazione di una specie
di riso dal Vietnam, molto resistente e di crescita veloce.
L’imperatore Huizong (1101-1125) riportò al primitivo
splendore l’Accademia della pittura mettendola sotto la
protezione imperiale. Fra le grandi invenzioni di quest’epoca
ci sono la polvere da sparo, la stampa a caratteri mobili e
la bussola.
Lo sviluppo fu tale che il sistema di approvvigionamento alimentare forniva cibo quasi a tutti e
non c’era bisogno di sviluppo ulteriore, tanto che rimase sostanzialmente immutato dai Song
(dodicesimo secolo) fino a oggi. Infatti, a tutt’oggi in molte zone rurali in via di sviluppo del sud-est
asiatico, i contadini coltivano il riso ancora con le tecniche della dinastia Song.
L’efficienza del sistema non solo lo rese economicamente autosufficiente, ma rinforzò
ulteriormente la struttura sociale esistente. Conseguentemente, società ed economia rimasero quasi
completamente immutate dalla dinastia Song fino al collasso del sistema dinastico nel ventesimo
secolo. Questo è molto importante, in quanto uno dei fattori principali che portarono la Rivoluzione
Industriale in Europa fu che non c’era abbastanza mano d’opera per lavorare i campi. Ci fu
incentivo nel costruire tecnologia migliore in Europa; non ci fu in Cina, che invece aveva addirittura
surplus di lavoro umano.
Sebbene la dinastia Song fu un periodo di grande progresso, dal punto di vista politico e militare
fu un fallimento. La metà settentrionale della Cina fu conquistata dai barbari, costringendo la
dinastia a lasciare la capitale del nord nei primi anni del dodicesimo secolo. Quindi, 150 anni dopo,
i Mongoli, appena dopo aver conquistato tutto quello che c’era da conquistare fra la Manciuria e
l’Austria, invasero e occuparono la Cina.
Yuan (Mongoli) (1279 – 1368)
Anche se il periodo mongolo è chiamato dinastia, fu in realtà un governo di occupazione.
Usarono il sistema governativo e le strutture esistenti, ma la lingua era mongola, e molti degli
ufficiali non erano cinesi. I Mongoli, gli Uighur dall’Asia centrale, qualche Arabo e persino un
Italiano chiamato Marco Polo servirono il governo mongolo come ufficiali. Non furono i primi
barbari a conquistare la Cina e a imporre una qualche breve dinastia, ma furono i primi a
conquistarla tutta, anche il sud, e a insediarvi un secolo di dinastia. La conquista fu realizzata grazie
alla schiacciante superiorità data dagli arcieri a cavallo. Essi, poggiando il piede sulla staffa
metallica, scoccavano le loro frecce all’indietro dalla groppa del cavallo in corsa, e restarono
durante questi secoli il simbolo dell’invincibilità dei guerrieri nomadi, terrore di tutto quanto c’era
di civilizzato, sia in Cina sia in Occidente.
Uno dei meriti principali del governo mongolo fu la conservazione della Cina, al contrario di
quello che ci si aspetterebbe da un popolo che usava ridurre le terre conquistate in pascoli per i loro
pony .
Sebbene per molte cose l’amministrazione mongola fu un disastro, la riluttanza per l’impiego di
cinesi colti nella gestione del sistema portò a una crescita eccezionale della cultura. Per esempio,
l’Opera Cinese è un’invenzione di quest’epoca. Inoltre, il tentativo di spiegare come mai la
dinastia Song non era riuscita ad arginare i barbari portò alla crescita e al predominio del
Neoconfucianesimo, una branca del Confucianesimo nata durante la dinastia Song e notoriamente
conservatrice (se non spiccatamente reazionaria).
La storia della dinastia Yuan ruotò attorno alla figura di Khubilai Khan, figlio del celeberrimo
Gengis Khan.
La morte di Gengis Khan avvenne nel 1227, di ritorno da una
spedizione nell’India. Aveva condotto una prima campagna contro
l’impero fin nel periodo 1211-15, giungendo a distruggere la capitale e a
devastare i territori. Per il momento, egli comunque decise di rivolgersi
verso ovest, dove molti erano ancora i nemici che gli insidiavano il potere.
Dopo la sua morte l’impero venne diviso in quattro Khanati, quello del
Turkestan, quello della Persia, quello della Russia e infine quello dell’Asia
orientale, che spettò al suo terzo figlio Ogodai. Sotto costui fu iniziata
l’organizzazione delle zone conquistate nel settentrione, valorizzando il
talento di elementi che però non erano più nomadi.
Fu questo il caso di Yelii Chucai, il quale seppe con la sua opera
convincere il Khan che i metodi di distruzione e rapina applicati sino ad allora dai mongoli non erano
più validi in una società sedentaria. Tutta la Cina settentrionale infatti era stata ridotta in uno stato
pietoso dalle continue rapine e requisizioni che i capi mongoli attuavano senza ritegno. La tendenza
dei mongoli a trasformare i campi coltivati in pascoli per il bestiame a lungo andare avrebbe
condotto alla rovina le popolazioni, che già cominciavano a vagare in bande senza controllo per le
campagne. Yelii seppe mostrare che si poteva fare qualcosa di più redditizio dal punto di vista
mongolo che non la riduzione a pascoli delle fertili vallate del Fiume Giallo.
Di fatto a questo punto la rapina assunse forme più civilizzate, in quanto i prelievi avvennero per
via legale, attraverso le tasse, le imposte e l’istituzione di monopoli statali del sale, dell’aceto, del
vino e dei minerali. I mercanti venivano tassati sul volume degli affari, mentre i sacerdoti e i templi
venivano esentati da qualsiasi pagamento e prestazione. L’amministrazione venne centralizzata con
l’istituzione di un organo centrale presieduto dal Khan. Era quindi stato realizzato il primo
compromesso tra i due modi di vita completamente differenti. I Jin furono definitivamente sconfitti
nel 1234, con la morte del loro ultimo sovrano, grazie ad un’alleanza tra i mongoli e i Song
meridionali. Dopo di ciò però i rapporti tra mongoli e cinesi peggiorarono e molte delle riforme di
Yelii vennero abrogate. La corruzione divampò a causa della riscossione delle tasse che veniva
affidata ai mercanti, in maggioranza musulmani, i quali nulla avevano da invidiare in fatto di
rapacità. Il risultato fu che la situazione interna peggiorò decisamente e l’inimicizia tra conquistatori
e conquistati si accrebbe notevolmente.
Mongka, succeduto a Ogodai, intraprese nuove campagne di conquista verso il sud,
sottomettendo il regno Dai di Nanchao la cui popolazione emigrò andando a fondare l’attuale
Tailandia. I mongoli, all’apice della loro forza espansiva, si spinsero fino al Vietnam settentrionale.
Di fatto ora il regno dei Song meridionali si trovava di fronte dei vicini ben più pericolosi dei Jin. I
mongoli con le loro campagne verso sud avevano ormai accerchiato lo Stato.
La conquista vera e propria dei Song fu differita solo per motivi di successione, in quanto il
fratello minore di Mongka, che si trovava al sud, dovette correre a Karakorum per affermare la sua
successione al trono vacante di suo fratello. Egli si chiamava Khubilai (si
trova con grafie diverse a seconda del metodo di traslitterazione) e sarebbe
diventato uno degli imperatori più potenti della storia cinese.
Già da tempo il sud della Cina, governata dai Song meridionali, da zona
quasi incolta e poco popolata si era trasformata in un vero giardino, con belle
città e una popolazione colta e intraprendente. C’era un contrasto significativo
tra il nord spopolato e ridotto in miseria e questa parte, in cui si coltivava il riso
e si potevano ottenere più raccolti all’anno.
Ma anche qui si palesava quel problema innato alla civiltà sedentaria: la
difficoltà di governo e la corruzione dell’apparato statale. La guerra contro i
mongoli aveva richiesto molti fondi, spremuti dai sudditi dell’impero. Per di più l’evasione fiscale da
parte dei grandi proprietari era la norma; tanto che si dovette ricorrere all’esproprío forzato di gran
parte di essi. Queste riforme furono applicate soprattutto nella ricca provincia del Zhejiang. Queste
riforme però provocarono grande impopolarità al governo e gli alienarono le simpatie della classe
dirigente, sia tra i grandi proprietari che tra i militari. Una grossa emissione di carta moneta, a cui
non corrispondeva più una ricchezza effettiva, servì a provocare un’inflazione e un’insicurezza senza
pari.
Khubilai, una volta eletto Gran Khan, si trovò di fronte uno Stato pieno di contraddizioni
politiche ed economiche, che non era neppure in grado di cogliere l’occasione di un’alleanza, che
egli era in un primo momento disposto a concedere. Ma nonostante queste debolezze la conquista
della Cina meridionale non fu affare da poco per i nomadi mongoli, i quali dovettero aver a che fare
con la rigogliosa vegetazione e gli acquitrini meridionali, dove il cavallo era di ben poca utilità.
Nonostante la Cina meridionale fosse molto più vicina al centro della potenza mongola degli imperi
dell’Asia occidentale, ci vollero parecchi decenni prima che fosse ridotta all’impotenza.
Nel 1276 Hangzhou, capitale dell’Impero Song, fu conquistata dal generale mongolo Bayan e
membri della corte furono portati prigionieri a Pechino. Più tardi anche Canton venne sottomessa e la
flotta fatta prigioniera. Gli ultimi superstiti cercarono inutilmente salvezza nel mare. Una fine tragica
di una dinastia brillante, sebbene non scevra da debolezza e corruzione.
Intanto già del 1271 Khubilai aveva assunto il titolo dinastico di Yuan, che significa «principio
primo» o «origine».
Contrariamente ai suoi predecessori, Khubilai Khan cercò di instaurare una politica di intesa nei
confronti della popolazione cinese, circondandosi di consiglieri e di amministratori non mongoli,
sia cinesi che musulmani, i quali per l’amministrazione erano senz’altro più capaci dei suoi
connazionali. Ci volle del tempo prima che i mongoli prendessero familiarità con i principi
elementari dell’amministrazione, anche se bisogna dire che essi dimostrarono senz’altro un grande
talento pure in questo campo. Essi dovettero alla fine convincersi che se l’impero era stato
conquistato a cavallo, non poteva continuare ad essere governato a cavallo.
Non poterono che ereditare il sistema amministrativo istituito dai Tang e dai Song. Le attività
governative vennero ripartite in sei ministeri, con una Cancelleria centrale che costituiva il vertice
della amministrazione civile, affiancata da un Ufficio per gli affari militari e da un Ufficio dei
censori. Le province vennero subordinate alla Cancelleria centrale e vennero fatte corrispondere a
delle regioni naturali. In ogni provincia c’erano dei distaccamenti militari mongoli che servivano a
far rispettare le direttive centrali.
La frattura etnica e culturale esistente tra i due popoli era praticamente insanabile, nonostante gli
sforzi della corte di Khubilai. I mongoli continuavano ad avere le loro preferenze culturali, si
vestivano di pelli, si cibavano principalmente di latte, di formaggio ed erano ghiotti del latte
fermentato, il kumys. Non usavano lavarsi, come retaggio della vita della steppa, dove l’acqua è
scarsa e preziosa, o tutt’al più si lavavano con l’urina. La donna presso di loro aveva una maggiore
libertà, il che scandalizzava i cinesi. Dal meridione più evoluto e colto veniva un disprezzo
particolare per i barbari mongoli; un disprezzo che non si estinse mai e che fu la causa di molte
sedizioni e rivolte (tutt’ora la cucina cinese, che pure è la più varia del mondo, è praticamente priva
di formaggi e latticini, che vengono ancora concepiti come un cibo primitivo, barbaro).
I mongoli dovettero ricorrere ai servigi degli stranieri, che in questo periodo raggiunsero in Cina
un numero considerevole. Ciò contribuì non poco a quel sentimento di xenofobia che sarà d’ora in
poi caratteristica cinese. Si vennero così a creare delle stratificazioni sociali rigidamente delimitate,
alla cui sommità stavano ovviamente i mongoli conquistatori. Il fatto stesso che potessero circolare
dei libercoli in cinese, dove gli oppressori venivano disprezzati e derisi era segno non già di una
possibilità di critica quanto di un totale disinteresse della classe dominante nei confronti dei cinesi.
Si cercò di ripristinare gli esami di Stato, basati sui classici confuciani; ma l’iniziativa non
riscosse molto successo. Ai meridionali veniva attribuito un testo più difficile che al nord, e dopo
tutto nessun letterato confuciano riuscì a raggiungere cariche molto importanti. In religione, i
mongoli furono molto tolleranti. Inizialmente avevano seguito la predicazione nestoriana; ma poi
furono conquistati dal buddismo nella elaborazione tibetana lamaista, che presentava tratti in comune
con le forme religiose mongole originarie sciamaniste, ma ammisero per gli altri qualunque tipo di
religione. Favorirono per i cinesi una rinascita taoista e lo sviluppo del buddismo Cha’an (Zen).
Di questo periodo è lo sviluppo in Cina del teatro e del romanzo (letteratura). Seppero creare un
regime culturale cosmopolita. Il commercio ebbe grande incremento sotto gli Yuan, grazie anche ai
commercianti musulmani. La capitale venne ingrandita e diventò l’attuale Pechino, per rifornire la
quale venne esteso il sistema fluviale del Gran Canale dal Fiume Giallo fino a Pechino, chiamata
anche Khanbaligh, la Cambalik di Marco Polo.
Dopo la morte di Khubilai, avvenuta nel 1294, si incominciano a scorgere i segni del declino di
questa gloriosa e movimentata dinastia: lotte e intrighi di corte; inflazione causata da troppa
emissione di carta moneta; calamità e devastazione nell’area agricola settentrionale e del fiume
Yangzi.
Nel periodo mongolo, come in parte durante i Tang e i Song, la Cina si aprì
all’influenza delle grandi civiltà occidentali. Durante questo periodo molti
viaggiatori occidentali poterono viaggiare con relativa sicurezza negli immensi
territori dominati dai mongoli. Dall’Occidente ci furono parecchie strade che
portavano in Cina, una dalla Russia, una dalla Persia e una dall’India. Il più
famoso di questi viaggiatori fu l’italiano Marco Polo, che seppe raccogliere le
cose che aveva visto nel suo famoso libro Il Milione. Altri viaggiatori europei
furono i missionari mandati dal Papa per convertire i cinesi. Fra essi abbiamo
Giovanni dal Pian dei Carpini, Giovanni da Montecorvino, Odorico da
Pordenone e Giovanni dei Marignolli. Probabilmente comunque furono i
musulmani coloro che più a fondo conobbero la Cina: il racconto di viaggio più
diffuso è quello di Ibn Batuta nel 1325-’35. Per i viaggiatori da parte cinese non abbiamo molte
notizie, anche se è probabile che molti siano stati i vagabondi spinti da curiosità nelle contrade
dell’impero mongolo.
In questo periodo molte conquiste tecniche della civiltà cinese raggiunsero l’Occidente, quali la
porcellana, la polvere da sparo, la stampa, la carta moneta, i tessuti, le carte da gioco. Il servizio
postale mongolo, che poteva esercitarsi da un punto nell’Estremo Oriente fino all’Europa tramite un
sistema puntualissimo di cavalli da posta con ricambi e stazioni, fu una delle istituzioni più rinomate
del periodo.
Nonostante questo cosmopolitismo, la cultura tradizionale conservò gelosamente il suo retaggio e
le sue caratteristiche, tanto da attirare nel suo ambito letterati di provenienza straniera che ne vollero
imitare i modi e le tecniche. Fu un periodo di trapasso, in cui si affermarono delle tendenze decisive.
Il teatro fiorì nelle maggiori città, destinato ad un pubblico più colto, ed i suoi temi trattano il
contrasto, tra le passioni umane e i sentimenti di pietà filiale o di fedeltà coniugale. Lo svolgimento
dell’azione teatrale era accompagnato dalla musica; mentre gli atti e i movimenti diventarono
simbolici e stereotipati.
A causa dell’emarginazione dei letterati, i quali si vedevano preclusa ogni possibilità di carriera
pubblica, andò sviluppandosi un nuovo tipo di espansione artistica: il romanzo. Il linguaggio
adoperato era meno elevato che nelle opere d’arte del passato, anche in considerazione della
destinazione sociale di esso. Il letterato cercava ormai di usare la propria cultura per dilettare una
cerchia più o meno ampia di conoscenti, che non era più la corte imperiale. La stessa condizione
sociale dei protagonisti dei romanzi è significativa; si tratta di uomini di bassa estrazione, di militari.
L’anonimato era una regola di tali romanzi, anche perché si aveva vergogna di manifestare la propria
identità. Possiamo quindi dire che in questo periodo i letterati si avvicinano di più al popolo cinese, a
causa della loro emarginazione dalla cerchia della classe dominante.
Nell’arte si affermò un genere di pittura che possiamo definire letterario e i paesaggi erano un
oggetto preferito. In questo periodo si affermarono i maggiori paesaggisti cinesi, come Ni Zan.
Nel 1368, con la conquista di Pechino da parte di Zhu Yuanzhang fondatore della dinastia Ming,
terminò la dinastia Yuan.
A partire dal 1340 le rivolte antimongole si erano moltiplicate in tutte le province cinesi. Come
accadde in tutti i periodi interdinastici, i pretendenti al trono si combattevano tra di loro, mentre
lottavano contro i mongoli. Ma anche i generali mongoli si facevano la guerra l’un l’altro
indebolendosi a vicenda. La dinastia Yuan non resistette all’urto delle forze di Zhu, animato dal
nazionalismo.
Ming (1368 – 1644)
E quindi vennero i Ming.
I Ming si distinsero dalla media degli altri regnanti per
essere più grassi, più pigri e più cattivi. Dopo che il primo
imperatore Ming scoprì che il suo Primo Ministro
complottava contro di lui, non fu decapitato solo il Primo
Ministro, ma anche la sua intera famiglia e tutti quelli anche
remotamente in connessione con lui. Solo in relazione a
questo caso furono decapitate 40.000 persone (no, non è un
errore di stampa). Erano anche dei virulenti neoconfuciani.
Per dar giustizia ai Ming, comunque, bisogna dire che
fecero anche cose positive. Fra tutte, spostarono la capitale
a Pechino, e inoltre edificarono la Grande Muraglia
(quella che si vede nelle cartoline e nelle foto infatti è stata
costruita, se si esclude qualche ritocco in era comunista, quasi completamente sotto i Ming). Poi,
costruirono la Città Proibita, e diedero Macao ai Portoghesi..
Le due figure storiche più importanti furono l’imperatore Yongle e il navigatore Zheng He: di
entrambi parliamo più sotto
I mongoli, che occupavano la Cina del nord dal 1234, si erano impadroniti della totalità del sud
soltanto nel 1279. Dalla metà del XIV secolo ebbero luogo svariate sommosse e, dal 1368, uno dei
capi ribelli, Zhu Yuanzhang fondò a Nanchino, nella regione liberata, il nuovo Impero Ming. Per la
prima volta un’insurrezione popolare portava alla creazione di una dinastia.
Ma la Cina era sconvolta dalle guerre e dalla precedente occupazione mongola. Adottando il
nome di regno di Hongwu, il fondatore intraprese una gigantesca opera di ricostruzione economica;
fece creare un catasto generale dell’Impero e censire la popolazione.
Questo straordinario contadino era diventato monaco per necessità, poi capo di una banda di
briganti, con il nome di Zhu Yuanzhang. Alla fine, questo malandrino finì per far crollare la dinastia
mongola Yuan per salire lui stesso al trono di Nanchino.
Il suo regno fu caratterizzato da grandi purghe e processi politici. D’altronde Hongwu inaugurò
un tipo di potere rigido, autoritario e dispotico. Ormai il governo centrale agiva in segreto, aveva
rotto i ponti con la popolazione; questa scissione sarà ulteriormente accentuata quando il potere
centrale si trasferirà a Pechino (1409), una città decentrata, nel nord, mentre invece la parte più
importante delle attività economiche e umane del paese aveva come nucleo il basso Yangzi.
In vita, Hongwu aveva trascurato e ignorato il figlio più giovane - il futuro Yongle - e designato
come successore al trono il figlio del suo primogenito, il giovane Jianwen. Tre anni dopo il suo
avvento al trono, nel 1402, Jianwen venne spodestato dallo zio, Yongle. Il giovane sovrano decaduto
fuggì cercando rifugio tra i boschi, e non fu mai ritrovato dalla polizia imperiale. Per sicurezza,
Yongle sterminò intere famiglie di sostenitori del nipote, i legittimisti.
Yongle merita di essere annoverato tra i più grandi sovrani, perché il
suo nome resta strettamente legato alla città di Pechino, che gli deve
molto. Ovunque, nella capitale e nei dintorni, spunta il suo nome.
D’altronde, questo sovrano guerriero ebbe una concezione ampia e
ambiziosa del proprio ruolo, e si rivelò anche un ottimo amministratore,
oltre che un abile capo militare, anche se in effetti era una specie di
usurpatore, essendo figlio secondogenito di quel terribile “parvenu”
Hongwu, di cui abbiamo parlato prima.
Nel giro di alcuni anni di regno a Nanchino, intorno al 1409, Yongle
decise di trasferire la capitale a Pechino. Ne fissò e disegnò lui stesso
il piano grandioso. La costruzione della città imperiale richiese un
intero decennio (1410-1420) e si sviluppò intorno alla “Città
Proibita”, ovvero il Palazzo imperiale. Yongle fece anche ampliare i laghi che sono disposti a
rosario immediatamente a ovest di tale complesso. La collina artificiale, detta del Carbone, fu
costruita con i materiali di sterro provenienti dai chilometri di fossati scavati intorno alla Città
proibita. Sono opera sua anche vari giardini, nonché il Tempio del Cielo e dell’Agricoltura.
Tutta Pechino reca il suo sigillo. Le famose ed enormi statue monolitiche di
marmo bianco della celebre “Via Sacra”, il viale situato all’entrata della necropoli
Ming, a nord di Pechino, sono sempre datate nel periodo del suo regno. Il vigore e
la forza dei mandarini civili o guerrieri che si affrontano al termine di questo viale
trionfale, suppliscono all’assenza di spiritualità e di interiorità che li caratterizza.
E insediandosi a Pechino, una città vulnerabile e fredda, lontana dal fiume
Giallo e all’immediata portata dei barbari delle steppe, città che del resto
inizialmente era stata fondata e costruita da questi ultimi - i Kitat, i Djurtchet, poi i
Mongoli di Khubilai e gli Yuan - Yongle intendeva far precisamente sapere che a
sua volta, e in senso opposto, anche lui aveva delle pretese nei loro riguardi, genti
delle steppe, e che intendeva ricostituire l’impero mongolo per il proprio tornaconto. Ed
effettivamente avrà una politica aggressiva ed espansionistica nei loro riguardi. In cinque riprese
invierà spedizioni fin nel cuore della Mongolia, contro i Tartari a oriente, contro gli Oirati più a
occidente, o contro i nomadi delle regioni dell’Amur. Ma di fatto si trattò di iniziative senza futuro.
Tuttavia alimentò sapientemente le rivalità che opponevano i vari clan mongoli. D’altronde spinse le
sue attività diplomatiche fino in Giappone, in Asia centrale e nell’Asia sud orientate. Durante il
regno di Yongle, la Cina riacquistò i confini dell’epoca Yuan e si estese in buona parte dell’attuale
Vietnam (Annam del nord e Tonchino). Ma una guerriglia estenuante e costosa, tra il 1406 e il 1427,
lo costringerà a mollare l’osso e a ritirarsi (1428).
Per quanto riguarda la politica interna, Yongle istituì un codice penale e affidò incarichi di
ambasciatori o soprintendenti dell’esercito a un numero considerevole di eunuchi. Buddista convinto,
protesse e incoraggiò gli studi dei confuciani. Tra il 1403 e il 1407, fu iniziata la stesura di una
enciclopedia che compilava 11.095 opere antiche di ogni genere.
Durante il periodo in cui Yongle era imperatore, ebbero luogo i
famosi viaggi marittimi dell’ammiraglio Zeng He, un eunuco
musulmano dello Yunnan che solcò i mari del sud fino al 1433,
bordando le coste dell’India, dell’Indonesia, del Mar Rosso (Aden,
Hormuz) e navigando fino e quelle dell’Africa orientale. Con 62 navi
che trasportavano 28.000 uomini, la prima delle sue sette spedizioni, nel
1405, aveva come scopo, oltre al raggiungimento di obiettivi
diplomatici, culturali e commerciali, quello di “raccogliere curiosità
destinate a divertire la corte”, come le zebre, le giraffe e gli struzzi che
furono portati. Con un secolo di anticipo sui portoghesi che
giungeranno a Canton nel 1516, i cinesi dimostravano quanto fossero
progrediti in materia di navigazione. Un anticipo reso possibile grazie
alla costruzione di giunche di alto mare con attrezzatura e velature che
permettevano di navigare di bolina. Tali avventure restano un caso
isolato, perché i cinesi non ebbero mai una vocazione marittima sebbene fossero eccellenti marinai - e la politica “universalistica” di Yongle restò senza futuro. Gli
studiosi conservatori della corte non videro l’importanza di tali viaggi. Per la prima volta nella
storia, la Cina tornava indietro, aggrappandosi a una scorretta interpretazione di una filosofia fuori
moda.
Tuttavia il periodo di Yongle fu l’apogeo della potenza marittima cinese
Dopo di lui, la dinastia Ming resterà al potere ancora per 220 anni, senza che si distinguano forti
personalità tra i suoi successori. “La cricca degli eunuchi generò sovrani mediocri - scrive lo storico
René Grousset - e governò a loro nome”. Per la maggior parte si trattò di furfanti, di debilitati
depravati, vittime degli eunuchi e degli intrighi di palazzo.
Nel corso del XV secolo, davanti a una nuova pressione mongola, venne rafforzata la Grande
Muraglia, ma a partire dal 1573 si trovò un “modus vivendi” con i mongoli. A quel tempo la
minaccia della pirateria giapponese era ben più grave; imperversava sulle coste fino alla stessa isola
di Hainan e diventò un vero e proprio flagello al quale del resto contribuirono molti cinesi.
Nel XVI secolo vennero introdotte nuove piante (alcune di origine americana): l’arachide, il
granoturco, la patata dolce, che modificarono un po’ le abitudini alimentari della popolazione.
Questa sperimentò un relativo miglioramento nella propria esistenza, in particolare nel XVI secolo,
ma la situazione si aggraverà nel secolo seguente. Una grande crisi politica tra i funzionari e gli
eunuchi scosse il regno di Tianqi (1620-1627), mentre lo Stato andava in fallimento a causa delle
folli spese della Corte e dei pesanti salari versati a eserciti pletorici di mercenari. Grandi insurrezioni
furono il risultato dell’aumento disumano delle imposte. Da nord-est spuntò un nuovo pericolo: tribù
Jurchen si infiltrarono in Manciuria e iniziarono ad assumere un atteggiamento minaccioso.
Comunque è soltanto nel 1635 che comparirono sotto il nome di Mancesi e cominciarono ben presto
la conquista dell’Impero Ming.
I grandi romanzi risalgono alla dinastia Ming. “Sul bordo dell’acqua”, il “Romanzo dei tre
regni”, il “Viaggio in occidente” di Xi you ji (che narra le celeberrime storie di una scimmia divina
e di un monaco: da allora in poi una costante del folklore cinese e giapponese, anche ai nostri
giorni), il satirico ed erotico “Jin Ping Mei” (così intitolato per i nomi di tre personaggi femminili),
e altri romanzi lunghi, riabilitano letterariamente l’epoca Ming, generalmente screditata perché
piuttosto ricca di romanzi edificanti e all’”acqua di rose”.
Anche la pittura ha fama di essere eclettica, manierata; imitava le opere ispirate dei pittori della
dinastia Song, con tecnica perfetta e virtuosismo strabiliante. In difesa dell’epoca Ming citeremo
tuttavia l’arte dei giardini privati; si trattò inoltre del loro periodo migliore. Pechino, Yangzhou,
Hangzhou e soprattutto Suzhou hanno conservato qualche ritaglio esemplare di questi meravigliosi
giardini, pezzetti di natura miniaturizzata, veri e propri microcosmi, oasi di pace, creazioni fragili ed
effimere che esemplificano la raffinatezza dei loro creatori e dei loro proprietari.
Infine, non si può parlare dei Ming senza ricordare le ceramiche “Blu e bianche”, porcellane
prodotte in gran parte a Jingdezhen, nel Jiangxi, vera a propria metropoli della ceramica. Durante la
dinastia Ming comparirono i primi segni della decadenza dell’arte cinese, ma si trovavano ancora
perle rare e meravigliose creazioni, più spesso nelle arti minori.
La nascita della Cina moderna
Qing (Manciù) (1644 – 1911)
Nel 1644, i Manciù presero il controllo della Cina e
fondarono la dinastia Qing. Come gli Yuan, anche i Qing
non erano cinesi, e all’inizio fecero persino pesare questa
diversità, arrivando a imporre il codino a tutta la
popolazione, pratica che in seguito svanì divenendo solo
simbolo di appartenenza all’etnia Manciù o alla corte
imperiale. Un esempio cinematografico: nel film western
“Pallottole cinesi” Jackie Chan infatti, da servitore
dell’imperatore manciù, ha un rapporto di sacralità col suo
codino.
Il famoso “Ultimo Imperatore”, le
cui vicende sono state narrate
nell’omonimo capolavoro di Bernardo
Bertolucci, fu quel bimbo salito sul
trono a due anni, Pu Yi, che concluse la dinastia mancese dei Qing.
I fatti storici più importanti di questo periodo furono la rivolta dei Taiping,
quella dei Boxer, e la Guerra dell’Oppio, di cui parleremo più diffusamente.
I Qing non furono i peggiori governanti; sotto il loro governo le arti e la
cultura fiorirono (il più famoso romanzo cinese, “Il sogno della camera
rossa”, fu scritto in questo periodo). In particolare, cercarono di copiare le
istituzioni cinesi con un’estensione maggiore degli Yuan. Però, nel loro emulare la cinesità,
divennero ancora più conservatori e inflessibili dei Ming. Il loro approccio alla politica estera, che
consisteva nell’imporre a tutti la visione dell’imperatore come Figlio del Cielo e di non permettere
alle altre nazioni di essere alla pari della Cina, fu sempre stigmatizzato dall’Occidente, anche
quando era la Cina a non essere in torto (come durante la Guerra dell’Oppio, che coinvolse La Gran
Bretagna, Hong Kong e Kowloon).
Vivere durante la dinastia Qing significava vivere in un’era alquanto interessante. Prima di tutto,
il mondo occidentale cercò di prendere contatto su una base governo-governo e, almeno all’inizio,
fallì. I Cinesi (o meglio i Manciù ultraconservatori) non avevano posto, nel loro modo di vedere il
mondo, per l’idea di nazioni egualitarie e indipendenti (e questa visione, da un certo punto di vista,
persiste anche oggi). C’era il resto del mondo, e quindi c’era la Cina. Non che i Qing rifiutassero
l’idea di una comunità di nazioni; semplicemente non riuscivano a concepirla. Era come cercare di
spiegare a un monaco buddista il Padre il Figlio e lo Spirito Santo. Questa mentalità era talmente
radicata che i pochi riformisti che osarono stringere accordi con l’Occidente furono accusati di
essere “Occidentali con faccia Cinese”.
Gli altri problemi che afflissero la tarda dinastia Qing (dal 1840 in poi) includevano corruzione
rampante, un’immobile decentralizzazione del potere, e il fatto sfortunato che i Qing stavano
perdendo il controllo su troppi fronti contemporaneamente. Le ribellioni spuntavano come funghi
dopo un acquazzone, culti apocalittici minavano quel poco di autorità ufficiale che era rimasta.
Molte delle ribellioni, come quella dei Taiping, si avvicendarono a brevissima distanza. Come se
non bastasse, c’era anche l’accapigliarsi dei vari riformatori su come meglio combattere il caos e
l’Occidente (non necessariamente in quest’ordine); col senno di poi, era chiaro che tutto il sistema
stava lentamente collassando.
Il comportamento delle potenze occidentali verso la Cina (Inghilterra, Russia, Germania,
Francia, e gli Stati Uniti furono, più o meno, i comprimari) fu stranamente ambiguo.
Da una parte, fecero del loro meglio per abolire tutto ciò che ritenevano restrittivo per lo scambio
commerciale e le regole governative; il migliore (o il peggiore, secondo i punti di vista) esempio di
questo fu il contrabbando inglese dell’oppio nel sud della Cina. Su questo interessantissimo
periodo storico consiglio la lettura dell’appassionante romanzo “Tai Pan”, capolavoro di James
Clavell, che narra la nascita di Hong Kong. Altri esempi includevano il diritto per le navi straniere
di navigare i fiumi cinesi, e l’extraterritorialità (ossia se un cittadino britannico commetteva un
crimine nella Cina Qing, doveva essere sottoposto a un processo in un tribunale inglese sotto leggi
inglesi). Tutta questa serie di “diritti” fu sancita in alcuni trattati che finirono per essere conosciuti,
giustamente, come “Trattati Iniqui”.
Dall’altra parte, fecero di tutto per alleviare le sofferenze dei Qing, aiutandoli a sedare svariate
rivolte, soprattutto quelle dei Taiping e dei Boxer.
Tra le molte insurrezioni, la formidabile rivolta dei Taiping produsse un’epoca stranissima: il
governo pseudo comunista di parte della Cina sotto il nome di “Regno celeste della Grande Pace”,
negli anni 1850-1864. Questo periodo lasciò un’impressione profonda sui cinesi. Da allora gli
storici continuarono ad appassionarsi a quest’epopea sanguinosa e a quest’esperienza socialista
eccessivamente precoce, che finì male.
Nel maggio-giugno 1979, non meno di 260 esperti, tra cui alcuni stranieri, si sono riuniti a
Nanchino - effimera capitale dei Taiping - per discutere, in un convegno, i meriti comparati dei vari e
principali protagonisti di questo movimento rivoluzionario fallito. D’altronde, non dimentichiamo
che tale scossone interferì con altri gravi avvenimenti che si tradussero tutti nella disgregazione della
dinastia e del potere Manciù; lo Stato, verso la fine dell’episodio, venne “raccolto” da una
concubina, la futura imperatrice Cixi.
Nel corso di quegli anni, infatti, le guerre dell’Oppio ebbero come conseguenza l’intervento
armato degli inglesi e dei francesi, intervento caratterizzato dallo scontro sul ponte di Palikao e del
sacco del Palazzo d’Estate (1860). Nel corso di quegli anni, attraverso questa breccia aperta, le
potenze occidentali e giapponese si precipitarono letteralmente a confiscare gran parte dell’economia
del paese. È necessario ricordare tali avvenimenti, se si vuole capire lo straordinario movimento
rivoluzionario dei Taiping, che con circa sessant’anni d’anticipo riuscì quasi a rovesciare la dinastia
manciù dei Qing.
Con l’approssimarsi del 1850, la Cina stava attraversando una grave crisi: uno sviluppo
demografico galoppante, calamità naturali, una miseria straziante, la corruzione dei mandarini, e
l’influenza smobilitante e insidiosa dei missionari cristiani; tutto ciò fece il gioco delle molteplici
società segrete.
Tuttavia, la famosa rivolta dei Taiping, che riprendeva il mito millenarista del II secolo che
annunciava l’avvento del Regno della Grande Pace - o Taiping - non fu la diretta conseguenza
dell’opera delle società segrete. Fu dovuta a un illuminato, inizialmente solo, che seppe trascinare
dietro di sé una folla di sfortunati e di disperati.
Il capo dei Taiping era Hong Xiuquan, messia, taumaturgo e annunciatore di un nuovo
“millennio”. Era impastato di un cristianesimo sommario e approssimativo, mescolato al taoismo e
a certi aspetti del buddismo. Sognatore, ma sicuro del fatto suo, nutriva una certa diffidenza nei
confronti delle società segrete (oggi le chiamiamo “Triadi”). Tuttavia queste cercheranno il suo
appoggio, una dopo l’altra, man mano che il suo movimento si allargherà, abbracciando gran parte
della Cina. Queste società segrete non avevano intenzione di lasciarsi “sorpassare” da un mistico
avventuriero che riusciva laddove loro avevano tutte fallito. Si solleveranno, ma in ordine sparso.
Nella corrente degli anni 1850, molte di loro tentarono di legarsi al movimento Taiping, a questi
Adoratori di Dio che volevano instaurare in Cina il rigido “Regno Celeste”. Ma, per mancanza di
un’intesa reale e di una buona coordinazione, tutti questi movimenti fallirono e, dopo aver retto per
undici anni nella sua capitale, Nanchino, Hong Xiuquan, il “Fratellino più giovane di Gesù” come si
faceva chiamare, finì per suicidarsi, a 51 anni, ingerendo delle lamine d’oro.
In un paese rovinato, ridotto all’osso, in preda al dubbio, la rivoluzione fu affogata nel sangue e
l’esperienza si chiuse con varie decine di milioni di morti. Tuttavia, questo scossone dei Taiping
sarà il punto di partenza dei movimenti rivoluzionari cinesi del nostro secolo, e Mao stesso
ammetteva di esservisi ispirato.
Chi era questo Hong Xiuquan? Come riuscì a sollevare nel sud una vera e propria Crociata di
pezzenti che infervorò quasi tutta la Cina? Gli storici sostengono che il movimento si sarebbe
impadronito di circa 600 città. Certamente aveva di fronte un giovane imperatore, appena salito al
trono (1851), Xianfeng. Questi venne cacciato dalla propria capitale (1860) dalle truppe francoinglesi a morì a Jehol-Chengde, il 22 agosto 1861, a soli trent’anni. Marcio a pieno di vizi, sembra.
Hong Xiuquan, il ribelle, era un Hakka della regione Cantonese, rimasto profondamente turbato
dai ripetuti fallimenti agli esami per accedere alla carica di mandarino. Soffriva di crisi con sintomi
nevrotici, ed era gravemente addolorato per essere stato respinto dal sistema confuciano a cui si era
dedicato completamente. Nel corso di queste crisi sembra che abbia avuto due visioni. Nel 1837, a
24 anni (in pieno periodo romantico, in Europa), ebbe una rivelazione: sosteneva che in Cielo, dove
si era recato (!), gli avessero sostituito tutti gli organi interni. Là, il Padre celeste l’aveva incaricato
di combattere l’idolatria e di instaurare il Regno della Salvezza sulla Terra, e gli aveva consegnato
una spada e un sigillo, intimandogli di cacciare i Manciù. Da quel momento si presentò
pubblicamente come l’inviato di Dio, “nuovo Salvatore”, e “Fratellino più giovane di Gesù Cristo”.
Gli erano capitati tra le mani volantini di propaganda protestanti e opuscoli, mediocri traduzioni dei
due Testamenti. Queste letture lo spingeranno a recarsi a Canton nel 1846, per studiare la Bibbia più
da vicino. Un missionario battista americano, Issachar Roberts, si spaventerà di fronte allo spirito
esaltato del suo allievo e rifiuterà di battezzarlo.
Ma nel frattempo, dopo un quarto fallimento agli esami (1843), aveva iniziato ad atteggiarsi a
Messia. Al tempo stesso apostolo e militante, sosteneva di essere in grado di guarire
miracolosamente, e garantiva ai suoi compatrioti del Guanxi orientate, a ovest di Canton, che i
cristiani erano i discepoli del vero Dio, la divinità cinese (Shangdi), il Sovrano Supremo, l’Antenato
Universale che dà all’imperatore il suo mandato celeste e che è anche noto per il fatto di comparire
in sogno ai mortali. Nulla accade o può essere fatto senza il volere di Shangdii. Quindi Hong lo fece
coincidere, con la massima naturalezza, con il Dio dei cristiani.
Predicando così la Buona Novella, Hong aveva radunato in tre anni circa 30.000 adepti, contadini
miserabili, battellieri e portatori disoccupati, disertori, briganti, Hakka e altri membri delle
minoranze aborigene del Guangdong (provincia il cui capoluogo è Canton) e del Guangxi, la
provincia vicina, a ponente, e a partire dalle quali il movimento si sarebbe esteso rapidamente verso
est, nelle province del Medio e del Basso Yangzi (fiume Azzurro). Al suo ritorno da Canton, tornò a
occuparsi dell’associazione che aveva fondato con i suoi discepoli, gli “Adoratori di Dio”. Questa
comunità religiosa iconoclasta se la prendeva con il “culto degli idoli”, vera e propria
“manifestazione demoniaca”.
Le autorità cominciavano a inquietarsi per le loro azioni da commando nei templi, ma ormai la
setta aveva preso il via e passò all’insurrezione. Nel 1851, Hong Xiuquan instaurava il Regno celeste
e fondava la propria dinastia, proclamandosi Re del Cielo! Nel 1852, la regione di Guilin, poi
Hankou (l’attuale Wuhan), Changsha a tutto il MedioYangzi erano in mano ai Taiping.
L’anno dopo cadeva Nanchino, che venne battezzata Tianjing, la “Capitale del Cielo”, e che
sarebbe rimasta loro capitale per circa dodici anni. Quindi venne annesso anche il Basso Yangzi.
A Nanchino Hong Xiuquan costruì dei palazzi e stabilì la propria corte, in cui spesso i giovani
fratelli avranno un ruolo nefasto. I ministri e i generali, spesso uomini notevoli e di talento, erano
gelosi l’uno dell’altro e si odiavano. Hong conferì loro il titolo di “Figli di Dio”, e fissò per ciascuno,
a seconda del rango, il numero di spose e di concubine che poteva avere. Insomma, ricreò a
Nanchino l’organizzazione imperiale di Pechino.
Tuttavia la poligamia e il concubinaggio erano proibiti al popolo e l’adulterio, il divorzio e la
prostituzione erano puniti con la morte!
Dall’ottobre del 1853 il suo esercito di accattoni, i “banditi dai capelli lunghi”, raggiunse Tianjin
e ben presto minacciò Pechino, ma per la mancanza della cavalleria e di una certa decisione dovette
ritirarsi e tornare indietro. Lo spavento fu notevole. Per dieci anni, Hong si sforzerà di fare applicare
il proprio programma rivoluzionario, di tendenze socialiste, egualitario e mistico (spesso
d’ispirazione protestante), puritano, nazionalista e antimancese. Esaminiamolo più da vicino.
Stranamente, la morale comunitaria predicata da Hong si riferiva al tempo stesso ai Dieci
Comandamenti del cristianesimo monoteista, ai suoi dogmi e ai suoi concetti riguardanti il peccato, il
pentimento e la remissione, nonché alle idee egualitarie ma feudali della Grande Armonia di
Confucio. Con pugno di ferro, Hong tentava d’imporre uno Stato teocratico e militarizzato, e riforme
sociali, importanti per la loro portata e audacia.
Furono così condannati lo schiavismo, la proprietà fondiaria, la poligamia (tranne per i capi), il
concubinaggio, il commercio privato e il mercantilismo, la divinazione, la geomanzia, la stregoneria,
i giochi d’azzardo, l’alcool, il tabacco e l’oppio. Inoltre, Hong proclamò l’uguaglianza tra i sessi, sia
al lavoro che in guerra. L’usanza di atrofizzare i piedi delle bambine venne abolita, e le giovanette
vennero irreggimentate in eserciti femminili, comandati da donne. Del resto, fu l’intera popolazione
che venne organizzata in falansteri, in raggruppamenti paramilitari, all’interno dei quali ci si
chiamava “fratello” e “sorella”, come oggi viene usato il titolo di “compagno”. In questa specie di
comunismo agrario ante litteram, i beni di consumo, le terre, le ricchezze furono messe in comune,
ma i sessi, invece, erano... rigorosamente separati. Il matrimonio monogamo dipendeva interamente
dal benestare delle autorità. Così, questo movimento era al tempo stesso rivoluzionario, puritano,
austero, virtuoso, femminista, comunista – nessuno poteva possedere beni in proprio – collettivista e
tuttavia religioso, dato che gli individui dovevano obbligatoriamente partecipare alle funzioni
religiose settimanali, e in tal modo ormai erano severamente inquadrati. Non scordiamo che il potere
conservava una base teocratica, dato che Hong aveva ereditato da Shangdi il mandato Celeste.
D’ispirazione al tempo stesso cristiana, comunista e confuciana, il movimento fu anche
notevolmente nazionalista, anti-mancese e anti-mandarini. I capelli venivano portati lunghi e sciolti,
non più raccolti nell’odiosa treccia che era stata imposta dai Manciù dal XVII secolo. E si assistette
al risveglio del nazionalismo Han, diretto contro l’occupante. Si tentò di organizzare militarmente
l’intero paese in drappelli, pattuglie, battaglioni, reggimenti, divisioni (di 2.500 uomini per 13.156
famiglie!) ed eserciti di 125.000 uomini. Di fatto, soltanto la regione intorno a Nanchino venne
sottoposta a questa formidabile mutazione delle strutture sociali e culturali. Ma si sarà capito che un
secolo più tardi, Mao attinse moltissimo dai temi dei Taiping.
Indubbiamente la stupefacente rapidità dell’avanzata dei Taiping, l’espansione repentina e
trionfante di questa ribellione, si spiegano con la grande miseria del popolo, le umiliazioni subite, le
grandi inondazioni del fiume Giallo che, ancore una volta, aveva appena cambiato il corso del suo
letto e ormai si gettava a nord della penisola dello Shandong e non più a sud, creando al suo
passaggio terribili devastazioni e portando con sé milioni di cadaveri. Contemporaneamente il potere
languiva e perdeva la propria dignità di fronte alle potenze europee che accorsero a spartirsi la preda
indebolita. Il paese scricchiolava e ben presto si assisterà a sommosse su vari fronti: a ovest i
musulmani e nel nord della Cina i ribelli Nian, fomentati dalla società segreta del Loto Bianco.
Quando morì nel 1861 l’imperatore lasciò un figlio che aveva appena quattro o cinque anni, nato
dalla concubina Yehonala, figlia di un membro della piccola nobiltà Manciù. Questa si proclamerà
imperatrice (Cixi) e si accaparrerà il potere. Lo conserverà per circa cinquant’anni, fino alla sua
morte, nel 1908.
Ma, dopo il successo degli anni Cinquanta, il vento cambierà direzione per i Taiping. A partire
dal 1860 le truppe governative partirono alla riconquista dei territori insorti, che del resto sono le
province più ricche dell’Impero. Di fatto, questo sussulto del potere non era affatto partito
dall’occupante Manciù, fortemente criticato e minacciato, né dal governo centrale di Pechino, ma
della classe dei mandarini, dei letterati, i sostenitori dell’amministrazione delle province che erano
spaventati dai saccheggi, dalle distruzioni, dagli attentati all’ordine stabilito e soprattutto
dall’audacia delle riforme. I mandarini vedevano con stupore crollare la totalità del loro universo.
Per di più, il paese cominciava ad essere stanco della distruzioni sistematiche, dato che molti templi,
ricchi d’opere d’arte, erano stati rasi al suolo. E la guerra civile mieteva ogni giorno nuove vittime.
Sostenuto dalla piccola nobiltà provinciale e dai mandarini, il generale e letterato Zeng Guofan
(1811-1872), alla testa di un esercito confuciano dello Hunan, partì per primo alla riconquista del
paese. La svolta venne effettuata nel 1862, quando i Taiping minacciarono Shanghai, diventata la
principale città magazzino delle potenze internazionali, un porto che i ribelli fino a quel momento
avevano volutamente “ignorato”. Anche gli occidentali finora avevano finto d’ignorare la guerra
civile e Hong, l’agitatore, che tuttavia pretendeva di instaurare un certo “cristianesimo” nel paese.
Aveva perfino lanciato loro degli appelli. Alcuni avventurieri, mercenari come gli americani Ward e
Burgevine, erano arrivati al punto di raggiungere l’esaltato Hong.
Ma l’occidente optò per i propri interessi particolari e prestò man forte alle truppe governative;
truppe francesi e inglesi, dal 1860, furono messe a disposizione del potere manciù. Il colonnello
Gordon (1833-1885), detto “il cinese” e, più tardi, in Egitto, “Gordon Pacha”, si contraddistinse in
questa spedizione.
Nanchino, cinta d’assedio, cadde il 19 luglio 1864. I suoi 100.000 difensori furono massacrati
senza pietà. Davanti allo sfacelo, Hong si suicidò (come si è detto, ingerendo lamine d’oro), ma il
suo cadavere verrà riesumato, tagliato a pezzi e bruciato. Nel corso delle ultime settimane, i suoi
disordini mentali si erano aggravati e, come Sardanapalo, viveva in reclusione, nell’harem, in mezzo
alle sue donne. In quanto ai collaboratori, discordia, lotte intestine e litigi li avevano neutralizzati e
paralizzati. Del resto, anche loro vivevano nel lusso mentre imponevano sobrietà a indigenza ai
propri “sudditi”. Per di più, le loro truppe si trovavano in svantaggio per l’assenza della cavalleria.
Tuttavia, per due anni, nel Fujian continueranno ancora dei combattimenti nelle retroguardie, e
alcuni Taiping, sfuggiti ai massacri, costituiranno i famosi Padiglioni Neri che si batterono contro i
Francesi in occasione della conquista di Tonkino.
Bilancio: varie decine di milioni di morti. La provincia del Jiangsu, quella di cui Nanchino è
capoluogo, dovette venir ripopolata con emigranti dall’Hubei, tanto era stato dissanguata
totalmente. Incalcolabili distruzioni. Centinaia di città distrutte. Un paese esangue e rovinato,
sollevazioni che si diffondevano come un contagio in tutto il paese. Ma anche fermenti
rivoluzionari che, dopo qualche decennio di torpore risorgeranno all’inizio del nostro secolo e
porteranno all’attuale regime che presenta tante similitudini con quello dei Taiping.
Un’altra rivolta fu anche il più famoso esempio di collaborazione fra Occidente e Cina: quello
del soffocamento della ribellione dei Boxer nel 1900 da parte degli occidentali.
Il nome dei Boxer comparve in Occidente alla fine del 1899. Veniva usato per designare i
membri di una società segreta, nata dalla famosa società del Loto bianco, che reclutava milizie dalle
campagne, nel nordest della Cina, principalmente nella regione del Hebei-Shandong. Veniva anche
chiamata Società per la Giustizia e l’Armonia, ma esistono anche altre designazioni o traduzioni,
come “Il Pugno della Giustizia e della Concordia”, “la Società del Pugilato giusto e armonioso”, o
ancora “le Milizie della Giustizia e della Concordia”. Tra di loro si chiamavano Yi hetuan.
Rifiutavano di usare le armi da fuoco, preferendo le armi bianche, e si dedicavano a un’arte
marziale fondata su esercizi di scherma e di lotta tradizionale, una boxe rituale, sacra, da cui
derivava il loro nome.
Sottoposti all’autorità di giovani medium o maghi, si allenavano e, ingenuamente, si erano
lasciati convincere che la loro boxe e i loro amuleti li avessero resi invincibili e refrattari alle
pallottole. La grande maggioranza veniva reclutata tra i contadini o i battellieri: da quando si era
diffusa la navigazione a vapore, migliaia di piccoli proprietari di giunche erano stati rovinati e
stavano vivendo un dramma. Avevano inoltre iniziato a odiare il potere mancese, che accusavano di
essere in combutta con gli occidentali, quei “demoni stranieri”, o di sottomettersi a loro per
debolezza, fatto che ai loro occhi risultava altrettanto offensivo.
I più deleteri, secondo loro, erano i missionari che convertivano al cristianesimo alcuni di loro,
ma provavano un odio ancora maggiore nei confronti dei rinnegati fratelli cinesi.
Solidamente stabiliti nel nordest della Cina, come abbiamo già detto, fino dal 1899 i Boxer
iniziarono a prendersela con le missioni straniere. Nel giugno 1900 le potenze occidentali reagirono
organizzando a Tianjin una spedizione di quasi 2.000 uomini. Comandata dall’ammiraglio inglese
Seymour, partì in treno il 10 giugno, diretta a Pechino; la spedizione avrebbe dovuto garantire la
sicurezza dei residenti stranieri in quella città.
Il 13 giugno, alcuni contingenti di Boxer entrarono a Pechino e si unirono ai gruppi che si erano
già formati nella città. La sera stessa, in seguito a delle provocazioni dei soldati americani,
incendiarono alcune chiese e massacrarono dei cristiani. Pechino diventò il centro del movimento.
Ma i Boxer erano padroni anche di Tianjin; irruppero Nello Henan, nello Shanxi, in Mongolia
Interna, nel Nord-Est.
Terrificata dall’ampiezza del movimento, l’imperatrice Cixi supplicò il corpo diplomatico di
fermare la marcia di Seymour, assicurando che le truppe imperiali avrebbero protetto le legazioni
contro i Boxer; d’altro lato, inviò alcuni dignitari fedeli perché convincessero i Boxer a disperdersi
tranquillamente. Il 16 giugno gli ammiragli europei, che da due giorni avevano perso i contatti con
Seymour a causa dell’interruzione della linea telegrafica e temevano che i dispositivi militari cinesi a
Dagu potessero impedire loro di inviargli soccorsi, ingiunsero ai comandanti dei forti di Dagu di
arrendersi nelle ventiquattro ore successive. L’indomani gli alleati attaccavano i forti e li
conquistavano. L’operazione, assolutamente inutile perché gli alleati avrebbero potuto far sbarcare
altrove le truppe, aggravò la situazione. Nonostante gli ordini ricevuti, l’esercito cinese si schierò
contro gli stranieri: la sera stessa la guarnigione di Tianjin attaccò le concessioni straniere; le truppe
imperiali sbarrarono la strada a Seymour, che fu costretto a rientrare a Tianjin.
Quando il 19 giunse a Pechino la notizia della cattura dei forti, l’emozione popolare si fece
intensa. A Corte, la fazione conservatrice dei Manciù guidata dal principe Duan, il cui figlio era stato
appena nominato principe ereditario, ne approfittò per far presente a Cixi che gli stranieri volevano
metterla da parte e restituire il potere a Guangxu (l’imperatore “deposto”). I dignitari che ella aveva
incaricato di negoziare con i Boxer l’incoraggiarono ad aver fiducia in questi. L’imperatrice allora
invitò i ministri stranieri a lasciare Pechino nelle ventiquattro ore, garantendo loro la sicurezza fino a
Tianjin. Il corpo diplomatico perse però ogni fiducia allorché, la mattina del 20 giugno, venne ucciso
il ministro tedesco barone von Ketteler. Nel pomeriggio, le truppe cinesi aprirono il fuoco contro le
legazioni. L’indomani, il 21 giugno, con un editto di Cixi venne dichiarata la guerra contro le
potenze.
Ritiratisi nel quartiere delle Legazioni, a sudest della Città proibita, i residenti stranieri
organizzarono la propria difesa con i pochi soldati incaricati della sicurezza delle Legazioni, e con
l’aiuto di un vecchio cannone che risaliva ancora al tempo dei gesuiti. Resistettero accanitamente per
varie settimane e si salvarono soltanto grazie all’arrivo, il 14 agosto, di un secondo contingente
internazionale, questa volta più nutrito.
Per due mesi, a Pechino il quartiere delle legazioni, dove, insieme ai 473 civili stranieri (di cui
149 donne e 79 bambini), si erano rifugiati oltre 3000 cristiani cinesi con i loro servitori, fu difeso da
451 guardie straniere (un gruppo proveniente da Tianjin era riuscito ad arrivare poco prima: 75
francesi, 75 britannici, 75 russi, 50 americani, 40 italiani e 25 giapponesi).All’angolo opposto della
Città proibita, a nordovest, a ponente del parco Beihai, ci fu un altro focolaio di resistenza, ancora
più eroico, quello della cattedrale cattolica di Beitang, dove Monseigneur Alphonse Favier, vicario
apostolico di Pechino, si trincerò con alcuni membri della comunità cristiana cinese (circa 3.500
persone), sotto la protezione di 43 marinai francesi e italiani, comandati dal sottotenente di vascello
Paul Henry, di 23 anni. Avevano da difendere un perimetro di 1.360 m, e lo fecero quotidianamente,
per due mesi!
Bisogna dire che, per quanto terribili possano essere il fuoco continuo, il completo isolamento dal
mondo esterno, le condizioni igieniche deplorevoli e la penuria di viveri e munizioni, gli assediati di
Pechino vennero in un certo senso risparmiati. Ronglu, che aveva il comando supremo di tutte le
forze armate della Cina settentrionale ed era convinto che la politica della Corte portasse alla rovina,
rifiutò agli assedianti l’uso delle armi moderne, in particolare l’artiglieria, la quale avrebbe
polverizzato ogni resistenza. Nell’assedio persero la vita 76 combattenti e 6 bambini stranieri e
qualche centinaio di cristiani cinesi; le perdite furono ben più gravi per gli assedianti. Ma nelle
province del Nord-Est vennero sterminati dai Boxer, in modo spesso atroce, più di 200 missionari
cattolici e protestanti e 32.000 cristiani cinesi. Per tutta la durata dell’assedio, i diplomatici della
Corte di Pechino rassicurarono i governi stranieri sulla sorte delle legazioni, facendo comprendere
che Cixi era prigioniera dei Boxer.
Tuttavia, le notizie allarmistiche che giungevano dalla Cina del Nord, la pressione dell’opinione
pubblica sobillata dalla stampa e dalle comunità religiose, il timore di veder annullati, senza alcun
compenso per l’avvenire, i risultati acquisiti in mezzo secolo di penetrazione economica e politica,
indussero i governi stranieri a mettere da parte le rivalità e a unirsi per un intervento armato
Questa volta il corpo di spedizione fu costituito per l’intervento di Guglielmo II e affidato al
maresciallo tedesco von Waldersee; vi presero parte truppe europee (tedesche, austriache, italiane,
inglesi, francesi e russe), ma anche americane e giapponesi. Ai primi di agosto, i contingenti
internazionali (16000 uomini) si concentrarono a Tianjin e il 14 agosto entrarono a Pechino,
liberando le legazioni e la cattedrale di Beitang, mentre Cixi, travestita da contadina, con la sua
corte, fuggì fino a Xi’an (nello Shaanxi). Da li negò la propria responsabilità e tentò di accreditare la
tesi di un’insurrezione popolare spontanea e incontrollabile. Nel settembre 1901, sarà costretta a
firmare il pesante “Protocollo dei Boxer”.
All’entrata del contingente a Pechino ebbe inizio una carneficina e un saccheggio sistematici che
superarono di gran lunga tutti gli eccessi commessi dai Boxer. Gli edifici reali, i templi più maestosi,
i più sontuosi palazzi furono saccheggiati e divennero alloggio per le truppe. Le banche e i
numerosissimi Monti di Pietà furono ripuliti dai reparti che conoscevano meglio la città, e quindi
sapevano bene dove mettere le mani. Per molti giorni Pechino fu solo un gran traffico di carretti
pieni di argento e mercanzie pregiate. La moneta cinese si svalutò così tanto che per una sola sterlina
i soldati davano 40 e anche 50 taels d’argento, dato che non si potevano trasportare i pesanti sacchi
d’argento. Gli stupri e le violenze varie e donne e ragazze non si contavano neppure. Sembrava il
sacco di Roma.
Un’analoga situazione si produsse a Tianjin e a Baoding. Spedizioni “punitive” vennero
intraprese nelle zone rurali dello Zhili, dove i missionari erano stati attaccati; i soldati stranieri
bruciarono interi villaggi e non risparmiano nulla.
Tale cieca repressione sarà un terrore per il futuro nazionalismo cinese, a cui conferì i primi
martiri.
II Protocollo dei Boxer impose alla Cina una pesante indennità (450 milioni di tael, pagabili in
oro in trentanove annualità), garanzia per il ripristino delle dogane, che del resto erano già in mano
agli occidentali dal 1859. Le somme venivano prelevate alle dogane, direttamente dagli occidentali;
la dipendenza della Cina nei riguardi degli occidentali era completa. Il quartiere delle legazioni, al
centro della capitale, venne ingrandito e vietato ai residenti cinesi; esso fu posto sotto il controllo
permanente delle truppe straniere, al pari di dodici punti sulle vie di accesso da Pechino al mare.
Inoltre il principe Duan fu mandato in esilio nel più profondo della Cina, a 4.000 chilometri dalla
capitale, nella zona di Kashgar.
Vari responsabili del massacro di Pechino furono “autorizzati dall’imperatrice a suicidarsi”. Qua
a là caddero altre teste.
Comunque, piuttosto impressionate dalle insurrezioni dei Boxer e dagli avvenimenti precedenti,
le potenze straniere moderarono ormai le loro pretese territoriali sulle province cinesi, ma non certo i
propri appetiti commerciali, sebbene le loro esigenze si facessero più discrete. Perché, bisogna
ammetterlo, a parte il fallimento dei battellieri, a cui si è già accennato, la rivolta dei Boxer ebbe
comunque delle cause più profonde, anche se relativamente recenti. Non erano stati risparmiati gli
abusi e le umiliazioni a questo popolo fiero che da alcuni decenni stava attraversando una grave crisi
economica e terribili carestie.
Nell’agosto 1884, l’ammiraglio Courbet bombardò l’arsenale di Fuzhou, bloccò Formosa, mentre
la Francia confiscava l’Indocina, un protettorato cinese.
Nell’aprile del 1895, persero la Corea, e Formosa venne ceduta ai Giapponesi.
Tra il 1896 e il 1902, la Germania, la Russia, l’Inghilterra e la Francia si insediarono
autoritariamente nella maggior parte delle città attive dell’Impero e formarono delle “aree
d’influenza”, protette e difese da contingenti militari, solidamente stanziati in “territori in affitto”. La
Francia si riservò le tre province sud occidentali (Sichuan, Yunnan e Guangdong) vicine al
Tonchino, e disponeva inoltre del porto di Guangzhouwan.
Nei quattro angoli della Cina vennero prese in concessione miniere, messe in cantiere ferrovie. Il
commercio principale, le fabbriche, le banche, le dogane erano per lo più in mano agli europei. Si
capisce quindi il soprassalto di orgoglio nazionale di un popolo consapevole della grandezza della
sua civiltà, e il suo smarrimento, la sua collera, davanti a questo smembramento in piena regola,
definito dagli storici inglesi “Break-up of China”.
Lo scrittore Pierre Loti fu testimone della seconda incursione militare, quella che, nel bel mezzo
del 1900, volò a soccorrere gli assediati di Pechino. Ci ha lasciato una specie di reportage
estremamente vivace del suo soggiorno in Cina, tra il settembre del 1900 e il maggio del 1901, nel
libro “Gli ultimi giorni di Pechino”. Scrive a nome dei sopravvissuti all’assedio, e racconta
l’episodio della morte eroica del giovane sottotenente di vascello Paul Henry, già citato a proposito
della difesa del settore della cattedrale Beitang: “È rimasto in piedi a lungo, con due ferite mortali,
sempre al comando, correggeva il tiro dei suoi uomini. Alla fine del combattimento è lentamente
disceso dalla breccia, ed è venuto ad accasciarsi tra le braccia di due dei nostri preti; tutti noi
piangevamo, in quel momento”. Più avanti Loti racconta le circostanze della morte del generale
tedesco Schwarzhof, nell’incendio accidentale dei suo palazzo, a Pechino: “Non è bruciato tutto il
palazzo, ma soltanto la parte superba, quella in cui abitavano lui e il maresciallo (von Waldersee), gli
appartamenti dagli innumerevoli rivestimenti in legno d’ebano e la sala dei trono, piena di capolavori
d’arte antica”.
Fu in occasione della guerra dei Boxer che si diffuse in Europa la celebre idea acquisita del
“pericolo giallo”, frase coniata dall’imperatore tedesco Guglielmo II.
In fin dei conti i vincitori di questa guerra furono i Russi. Si piazzarono in Manciuria e fecero
orecchi da mercante quando i cinesi li invitarono a ritirarsi. Sfruttarono il paese, e in particolare le
foreste. Ma i Giapponesi si affrettarono a farli parzialmente sloggiare, mentre a Pechino, impotente,
la dinastia manciù stava a guardare, come uno spettatore, mentre questi stranieri smembravano la
loro provincia d’origine.
Al di là dei motivi immanenti, l’aiuto degli occidentali ai Manciù per combattere prima i Taiping
poi i boxer si spiega quindi tenendo conto del fatto che in generale, quello che volevano fare gli
occidentali era spezzare la Cina per i propri propositi, e questo, paradossalmente, richiedeva di
tenere la Cina unita
Se fosse continuata così, la storia avrebbe presumibilmente portato a un completo smembrarsi
della Cina in staterelli dipendenti dall’Occidente. Ma due fatti accaddero e prevennero tutto ciò.
Primo, nel 1911, la dinastia Qing collassò e la Cina sprofondò a capofitto nel caos. Secondo, nel
1914, l’Arciduca Ferdinando disse al suo autista di imboccare una strada di Sarajevo che non
avrebbe mai dovuto imboccare, e l’Europa sprofondò a capofitto nel caos.
La Cina repubblicana (1911 – 1949)
Il periodo che va dalla caduta dell’ultimo imperatore fino alla costituzione del regime comunista,
vede protagonisti Chiang Kai-Shek e Mao Zedong, e i loro rispettivi partiti, il Partito
Nazionalista e il Partito Comunista, nonché una guerra contro i Giapponesi. Alla fine, come
tutti sappiamo, i Giapponesi furono sconfitti soprattutto a causa dell’epilogo della Seconda Guerra
Mondiale, e i Comunisti prevalsero sui Nazionalisti, instaurando il regime tutt’ora in carica. Non
prevalsero ovunque: Chiang Kai-Shek e i Nazionalisti si rifugiarono a Formosa e, citando le parole
della canzone “Watching TV” di Roger Waters, “la trasformarono in una fabbrica di scarpe
chiamata Taiwan”. Tutt’ora Taiwan è, per la Cina, una provincia rinnegata; per il resto del mondo è
una provincia cinese molto autonoma, e per i taiwanesi è uno stato sovrano indipendente (se
comprate un mappamondo a Taiwan noterete che l’isola è, al contrario delle nostre cartine, di un
colore diverso da quello della Cina).
Durante questo periodo accaddero svariati e importantissimi fatti, essenziali per capire la
mentalità, la politica e la tradizione della Cina odierna: la “Lunga marcia” dei Comunisti, il
“Movimento 4 maggio”, le persecuzioni giapponesi... Raccontiamoli brevemente:
Durante la Prima Guerra Mondiale, il governo cinese stava con gli Alleati. In cambio, essi gli
avevano promesso che le concessioni tedesche nella provincia dello Shangdong sarebbero state
restituite alla fine della guerra. Non lo fecero. E, per aggiungere al danno la beffa, il Trattato di
Versailles le assegnò al Giappone. Il 4 maggio del 1919, circa 3000 studenti provenienti da svariate
università di Pechino si radunarono in piazza Tienanmen per una protesta di massa. Il movimento
nato in quel frangente (chiamato appunto il “Movimento 4 Maggio”) fu il primo vero movimento
nazionalista cinese e perciò fu di ispirazione a tutti i patrioti, ideologi, partiti cinesi di lì a venire. Gli
studenti della “Primavera di Pechino” del 1989 fecero intenzionalmente un parallelo col Movimento
4 Maggio: è tutto più ironico e tragico sapere che il 4 giugno 1989 vivrà invece nell’infamia come il
giorno in cui i carri armati entrarono in Piazza Tienanmen.
Nel 1920, il dottor Sun Yatsen, leader del Partito Nazionalista
(Kwomingtang, detto KMT) accettò l’aiuto dell’Unione Sovietica. Con
l’aiuto dei Comunisti, Sun Yatsen riuscì a stringere un’alleanza con l’appena
nato Partito Comunista Cinese (CCP), e cominciò a riunificare una Cina
assediata dai signori della guerra. Sfortunatamente, Sun morì di cancro nel
1925. La leadership del Partito Nazionalista fu presa
da Chiang Kai-Shek.
Una volta preso il comando del Partito
Nazionalista, Chiang Kai-Shek lanciò la sua famosa
“Marcia verso il Nord”, dal Guangzhou a Shanghai. Questa unificò il sud
della Cina e, soprattutto, lasciò ai Nazionalisti il controllo dello Yangzi
meridionale. Una volta presa Shanghai, Chiang Kai-Shek, a cui non erano
mai piaciuti i Comunisti, lanciò il massacro dei membri del CCP. Fra quelli
che riuscirono a scampare alla carneficina c’era un giovane comunista
chiamato Mao Zedong.
I Comunisti furono costretti ad abbandonare le loro basi urbane e trovarono rifugio nelle
campagne. Là, le forze nazionaliste (aiutate e coperte da “Consiglieri” tedeschi) cercarono di
stanarli, o, con le parole di Chiang, di “eliminare il cancro del Comunismo”. Nel 1934 i Nazionalisti
erano sul punto di chiudere il capitolo Comunismo quando, con le tenebre della notte, i Comunisti
evasero e cominciarono a correre. Non si fermarono per un anno.
Questa fu la “Lunga Marcia”. Quando partirono erano in 100.000. Un anno dopo, quando alla
fine si fermarono, avevano attraversato 6000 miglia ed erano rimasti fra 4 e 8000.
Parte del problema era che non sapevano dove stavano andando. Partirono dalla provincia del
Jiangxi, circa 400km a nordest di Guangzhou. Quindi si diressero ad est, passarono Guilin e
arrivarono nella provincia del Yunnan, nel sudovest della Cina. Si sarebbero fermati lì, ma i signori
della guerra non erano così felici di averli fra i piedi. Così da Kunming, la capitale del Yunnan,
tornarono a nord, passarono Chengdu nella provincia del Sichuan e alla fine si fermarono a Shaanxi,
vicino a Yan’an. Da allora, aver fatto la Lunga Marcia fu segno di aristocrazia nel CCP. Deng
Xiaoping, fu uno di loro. Dopo la sua morte non sono rimasti in molti nel CCP a essere stati nella
Lunga Marcia.
Mentre era a Yan’an, alla periferia del potere dei Nazionalisti, Mao Zedong consolidò la sua
posizione (aumentata durante la Lunga Marcia) di leader unico della Rivoluzione.
Mentre tutto questo stava accadendo, i Giapponesi erano occupati a invadere la Manciuria (da
qui infatti ha inizio la cosiddetta “guerra sino-giapponese”). Ciò giovò ai Comunisti, poiché le truppe
mandate dai Nazionalisti al nord per contenere e magari eliminare il CCP preferirono di gran lunga
impiegare il loro tempo per combattere i Giapponesi. Alla fine del 1936, Chiang Kai-Shek fu rapito
dai suoi stessi generali che lo tennero sequestrato finché accettò di dare precedenza alla battaglia coi
Giapponesi piuttosto che a quella contro i Comunisti.
Nel 1937 i Giapponesi, dalle loro basi in Manciuria, attaccarono la Cina, usando come pretesto il
famoso caso “Marco Polo”, una battaglia combattuta sul ponte omonimo (tutt’ora visitabile). I
Giapponesi non ci misero molto a occupare le maggiori città costiere e a compiere una serie di
atrocità indicibili, persino peggiori di quelle compiute dal Terzo Reich sugli ebrei. Un solo film,
realizzato dai cinesi nel 1988, dà una vaga idea di quello che accadde: “Men behind the sun”. Se lo
riuscite a trovare (a Hong Kong si può trovare un DVD di buona fattura, senza censure), sappiate
che la visione è riservata soltanto a chi ha lo stomaco molto forte. Quando la Seconda Guerra
Mondiale finì, nel 1945, 20 milioni di Cinesi erano morti nelle mani dei Giapponesi. Tutt’ora in
Cina, e in Asia in generale, è diffusissima un’ostilità incredibile nei confronti dei Giapponesi,
sebbene questi negli anni, soprattutto dopo la terribile bomba atomica che li annientò, siano
cambiati moltissimo, diventando un popolo molto pacifico e adorabilmente rispettoso. Ad
alimentare questo risentimento, che alle nostre orecchie suona come vero e proprio razzismo, ha
contribuito moltissimo sia l’isolamento mediatico che insieme alla propaganda comunista cinese
non ha fatto altro che accusare i Giapponesi per tutti i problemi della Cina e ha sostanzialmente
censurato tutto ciò che di buono e di diverso è venuto dal Giappone dal dopoguerra a oggi, sia il
fatto inconfutabile che, mentre gli orrori nazisti sono stati ampiamente e giustamente ricordati ed
esecrati da tutti, sui disumani e abominevoli crimini giapponesi è calato un colpevolissimo silenzio
da parte di noi occidentali.
Sfuggendo dai Giapponesi, il governo nazionalista si spostò da Chongqing fino a Nanchino,
navigando il fiume Yangzi.
Nel 1939 la Seconda Guerra Mondiale cominciò. All’inizio ebbe poco effetto sulla Cina, visto
che i Giapponesi non erano coinvolti nella guerra europea. Ma dopo l’attacco dei Giapponesi a Pearl
Harbour nel 1941, i loro sforzi maggiori furono mirati a combattere gli Statunitensi più che i Cinesi.
Dopo che gli Americani entrarono in guerra, i Comunisti cominciarono a consolidare il loro
controllo sul nord della Cina, preparandosi furbamente all’inevitabile guerra civile che sarebbe
ricominciata qualora i Giapponesi fossero stati sconfitti.
I Nazionalisti, al contrario dei Comunisti, erano disorganizzati e corrotti, problemi che a guerra
finita si sarebbero solo intensificati. Soprattutto, i loro sforzi nel combattere i Giapponesi furono del
tutto inutili. Addirittura il Generale americano Stillwell, che era stato mandato in Cina a combattere i
Giapponesi, chiese (inutilmente) a Washington di spedire dei rinforzi per i Comunisti. Non che a
Stillwell fossero simpatici i Comunisti: semplicemente il CCP, avendo sviluppato tecniche di
guerriglia durante la guerra civile, stava solamente facendo un lavoro molto migliore nel combattere
i Giapponesi.
Come previsto, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la guerra fra Nazionalisti e Comunisti
riprese. I Comunisti erano ostacolati dal fatto che i Giapponesi avevano l’ordine di arrendersi solo ai
Nazionalisti e non ai Comunisti. Questo comunque non fece una gran differenza: nel 1949, il Partito
Nazionalista si sfaldò sotto il peso dell’incredibile corruzione e degli enormi debiti; cercarono di
pagare il debito stampando più carta moneta, ottenendo ovviamente l’unico risultato di far arrivare
alle stelle l’inflazione. Un errore di un’ingenuità curiosamente grande, lo stesso che i Manciù fecero
cinquant’anni prima.
Poco prima, nel 1947, l’Italia aveva rinunciato alle sue concessioni cinesi, con il Trattato di pace
di Parigi.
Nell’ottobre dello stesso 1949, i Nazionalisti (compreso Chiang Kai-Shek) si rifugiarono a
Taiwan e Mao Zedong proclamò la creazione della Repubblica Popolare Cinese. Curiosamente,
mentre l’Armata Rossa era intenta a riunificare il sud, nessuno si prese la briga di riannettere né
Macao né Hong Kong. Eppure sarebbe stato molto facile, e né l’Inghilterra né il Portogallo
avrebbero avuto voce in capitolo per protestare.
La Repubblica Popolare Cinese (1949 – oggi)
Questo periodo, l’ultimo in ordine di tempo, non è semplice da narrare. Prima di tutto, è troppo
recente e le ripercussioni sul futuro sono ancora nell’aria, tanto che uno storico non ne ricaverebbe
mai un trattato. Poi, c’è il problema della censura: di ciò che è successo in Cina dal ’50 al ’90, più o
meno, abbiamo solo una visione distorta dalla propaganda del CCP. Il poco che si sa di certo è
soltanto frutto di temerari dissidenti e giornalisti.
Certamente di questo periodo dobbiamo isolare almeno quattro avvenimenti fondamentali: la
campagna dei “Cento fiori”, il “Grande Balzo in Avanti”, la “Rivoluzione culturale”, la strage di
Piazza Tienanmen e infine l’apertura all’Occidente e al capitalismo.
Tutto ebbe inizio quando, cacciato Chiang Kai-Shek a Formosa, poi ribattezzata Taiwan, Mao
Zedong proclamò la nascita della Repubblica Popolare Cinese, nell’ottobre del ’49, sotto la guida
unica del Partito Comunista Cinese. Gli Americani riconobbero la nuova Nazione.
Ma l’anno seguente, gli Americani impedirono alla Cina di entrare nell’ONU, che così si rivolse
all’Unione Sovietica, firmando un accordo di mutua assistenza e collaborazione, e intervenendo
contro gli Americani nella guerra di Corea, che finirà tre anni dopo.
A questo punto ebbero inizio le grandi riforme: la legge sulla famiglia, la riforma agraria che
distribuiva le terre dei grandi proprietari ai piccoli e medi contadini, la nazionalizzazione del
commercio e delle banche, e il primo piano quinquennale, che assegnava priorità all’industria
pesante. In questi anni ci fu una grande collaborazione fra URSS e Cina, tanto che gli studenti e i
lavoratori andavano a formarsi in Unione Sovietica, che dava alla Cina impianti, aiuti tecnici e
finanziari. L’aspetto sovietico anni ’50 di molta della Cina odierna è un retaggio di questi anni. Nel
1954 poi fu approvata la prima Costituzione della Repubblica Popolare Cinese, e nella conferenza
afro-asiatica dell’anno successivo, fu la Cina a proporre la coesistenza e il miglioramento delle
relazioni con gli Stati Uniti.
Tutto quindi pareva andare per il meglio, nel pieno svolgersi dell’utopia comunista, fin quando ci
fu il primo scontro con la realtà. Nella primavera del 1956 infatti, il potere stesso avviò una
campagna di libera critica, la “campagna dei Cento Fiori”, che però in alcune settimane assunse
proporzioni tali da far sì che fosse necessario porvi termine e perfino prendere severi
provvedimenti, perché l'ondata contestataria e la denuncia politica del Partito avevano assunto
dimensioni e virulenza notevoli. Questo tentativo di liberalizzazione si risolse quindi in un
fallimento per il CCP, presto seguito da una delle purghe più spietate attraversate dal paese. Dopo
tutto, i sostenitori dell'ortodossia maoista ne uscirono rafforzati, perché il Grande Timoniere non
aveva nascosto la propria ostilità nei riguardi di questa liberalizzazione riformista, che aveva
scatenato, ma di cui gli era sfuggito di mano il controllo.
Con l'immagine dei Cento Fiori si indica un'ardua battaglia, un grande fraintendimento tra il
potere e il popolo - e più in particolare gli intellettuali - un episodio d'apertura liberale che fallì.
Il 26 maggio 1956, il responsabile del Dipartimento della Propaganda, Lu Dingyi pronunciò,
davanti a un'assemblea di scrittori, dei discorsi dalle risonanze liberali, nuove, sul tema che veniva
chiamato dei Cento Fiori e che riprendeva l'antico slogan: "Che cento fiori sboccino, che cento
scuole rivaleggino", una formula che all'inizio della nostra era aveva avuto molto successo. Tre
settimane prima Mao aveva riportato in auge questa allusione storica lanciata dal grande filosofo
taoista Zhuangzi (IV - III secolo a.C.) a proposito delle varie scuole filosofiche che fiorivano alla sua
epoca, durante il periodo dei Regni Combattenti. Questo discorso liberale e liberatore del 1956
avrebbe avuto una notevole risonanza. Sostenuti da artisti, scrittori e studenti, i piccoli partiti non
comunisti che erano stati tenuti a freno, in una sorta di libertà vigilata, per salvare una parvenza di
dialogo democratico, "uscirono allo scoperto" e intrapresero una campagna denigratoria che
guadagnava una forza sempre maggiore e si diffondeva nell'intero paese.
Di fronte a quello che sembrava essere un allentamento nuovo e "inedito" delle pratiche
coercitive del potere, agitate riunioni di giornalisti, intellettuali e studenti denunciarono a loro volta
gli abusi e gli errori del Partito, abbandonandosi a una critica radicale della gestione economica.
D'altronde ognuno denunciò l'assenza di libertà di opinione e di una vera legislazione civile e penale,
nonché gli abusi e gli eccessi della "nuova classe dirigente". Mao stesso non venne risparmiato: "le
sue collere, il suo orgoglio e la sua impulsività" iniziavano a stancare. Stranamente innescata dal
Partito, questa campagna voleva sottolineare tre dei suoi errori: il settarismo, il burocratismo e il
soggettivismo. Mao aveva detto, forse un po’ affrettatamente, che "il marxismo è una verità
scientifica; non teme la critica e la critica non potrebbe trionfare su di esso". Parole imprudenti; ci si
aspettavano delle critiche, certamente, ma sotto forma di "una dolce pioggerella e una brezza
leggera" (!). Di fatto si trattò di una marea di biasimo e di ostilità, un diluvio di rimproveri e di forti
rimostranze. Un vero e proprio scossone politico che inizialmente lasciò i dirigenti sbalorditi e
sorpresi.
Nella primavera del 1957 le recriminazioni si fecero sentire in ogni ambiente. All'interno delle
amministrazioni, nei giornali, sui dazibao murali, si avvicendavano appelli e manifesti; l'università di
Pechino, vera e propria sede dei contestatori, era in fermento, e influenzò ben presto le facoltà di
provincia, tra cui quella di Wuhan (nello Hubei), che si distinse in modo particolare per una
campagna di dazibao estremamente critica. I dirigenti non si trovavano più ad affrontare una
denuncia del dirigismo intellettuale e artistico del partito, vennero proprio messe in discussione la
sua stessa autorità e le sue capacità di governo. Davanti a questa rumorosa ondata di ostilità che si
infranse contro di loro, le autorità inizialmente non si espressero, immerse in un evidente
smarrimento; queste sei settimane deliranti le avevano turbate. Ma la contro offensiva e la reazione
non tardarono ad arrivare. Se Mao, il 25 maggio denunciò qualsiasi allontanamento dal socialismo
come uno sbaglio e un grave errore, l'8 giugno l'archeologo e storico Guo Moruo se la prese con i
"fiori velenosi" di cui bisognava liberarsi, e li contrappose ai "fiori profumati" del socialismo.
Dicevano che: "Letteratura e arte, ingranaggi e dadi del meccanismo generale, devono sottomettersi
e dare il proprio apporto per concorrere alla realizzazione del compito della rivoluzione". II criterio
politico, socialista e collettivista, doveva sempre prevalere sul criterio artistico. E aggiungevano: 'In
questo tipo di civiltà non è possibile tollerare l'individualismo, fonte di tutti i mali... I fiori che
devono sbocciare sono i fiori del socialismo". Cento fiori, sì, ma "cento fiori socialisti"!
II contrattacco, la reazione "contro la destra", fu quindi messa in atto; ai contestatori venne
intimato di ritrattare, e perfino di umiliarsi e di chiedere di venir puniti. A centinaia di migliaia, i
comunisti e i non comunisti che si erano comportati da "nemici di classe, borghesi di destra",
vennero mandati nelle campagne per essere rieducati e per sentire il polso della vita contadina.
Centomila persone furono arrestate e venne lanciata un'ampia campagna di rettifica; l'epurazione
comportò revoche, sventure e rieducazioni. Tre dei responsabili del delirio all’università di Wuhan
furono fucilati.
Così, paradossalmente, questo movimento che andava alla ricerca di una liberalizzazione, di fatto
aveva come risultato un rafforzamento dell'autorità e della dittatura del Partito, all’interno del quale i
“puri e duri”, gli intransigenti, riprendevano in mano le redini meglio di prima. E sarà su basi
“risanate” (!) che l'arte e la letteratura dei vent'anni seguenti dovranno svilupparsi. Qualsiasi opera
sarà intesa come elemento che concorre all’edificazione del socialismo, e quindi a esaltare e
diffondere il materialismo dialettico marxista. Un quadro esaltante... Identificandosi con la massa e
con il popolo, l'artista "si sente quindi all'unisono con il Partito e attinge una forza illimitata dalla
collettività". Poiché, precisava Lu Dingyi, già citato, "l’arte per l’arte è un errore di destra".
Le motivazioni di questa campagna dei Cento Fiori possono essere spiegate dal fatto che si
inseriva nel contesto ideologico e politico della destalinizzazione che aveva colto totalmente di
sorpresa le autorità cinesi, nonché dal fatto che all'interno esisteva un'effettiva corrente di
malcontento generale, del proletariato delle città, dei contadini e anche dell'intellighenzia, dato che
da vari anni tutti erano stati intensamente sollecitati e mobilitati dalla collettivizzazione. Deng
Xiaoping, che soprintese a questa operazione, ne trasse la morale: "Nel grande problema dei Cento
Fiori abbiamo acceso un focolaio per incenerire al tempo stesso i nostri nemici e le nostre
debolezze". Significava riconoscere la strana contraddizione e l'equivoco di questo episodio; forse
questa risoluzione drastica è stata montata di tutto punto per smascherare meglio gli scontenti o gli
oppositori o forse i dirigenti hanno sottovalutato la portata delle critiche di cui erano oggetto, e che
per alcune settimane sono stati scavalcati dalla violenza di queste.
Ma i grandi errori non erano finiti. Anzi, erano solo cominciati: finito
il primo piano quinquennale, ci si stava ancora pian piano riavendo dalla
campagna dei “Cento Fiori” quando nel 1958 Mao, che si stava
allontanando sempre più da Mosca, lanciò il “Grande Balzo in Avanti”.
L’idea era quella di mobilitare le grandi masse contadine per
incrementare il raccolto attraverso la collettivizzazione delle fattorie e
l’uso del lavoro in eccesso per la produzione di acciaio. Quello che ne
risultò fu la più apocalittica carestia creata dall’uomo nella storia. Dal
1958 al 1960, scarsa programmazione e cattiva gestione portarono alla
morte per fame di 30 milioni di persone. Ufficialmente, il governo accusò
le “avverse condizioni atmosferiche”.
Mao Zedong
Il "Grande Balzo in Avanti" fu un gigantesco sforzo di produzione collettivo, volto a trasformare
l'intera economia del paese e allo stesso tempo a rivoluzionare gli animi, che secondo Mao erano
troppo legati al passato. Quest'esperienza doveva mobilitare tutte le risorse e l'intera manodopera del
paese, nonché smuovere ogni settore d'attività. Come i grandi stati moderni, la Cina sperava, tramite
un terribile sforzo e spinta da un grande slancio ideologico, di sottrarsi alla sua situazione medievale,
e alle sue strutture mentali sorpassate, per entrare ormai in un'era di rapida crescita e di prosperità
continua. Lo spirito di tale crociata fu definito a Wuhan (nello Hubei), in occasione dell'VIII
congresso, nell'inverno 1958, ma il misticismo che l'animava si era sviluppato già dall'inizio
dell'anno.
Per due anni (1958-1959), l'intera attività fu imposta al ritmo di slogan e di frasi del tipo:
"Qualche anno di sforzi a di lavoro per diecimila anni di felicità", oppure "Avanzare con entrambe le
gambe", per preconizzare attività abbinate e simultanee. La gerarchia delle priorità economiche
venne quindi sconvolta; la prima parola d'ordine fu: “producete acciaio”. Così si assistette
all'edificazione, ovunque e fin nel più piccolo villaggio, di migliaia di “altiforni rustici”. Questa
campagna fu l'elemento più assurdo di quello che si rivelerà un errore gigantesco, un'aberrazione
collettiva che in molti casi allontanò i contadini dalle campagne, dato che quasi tutti erano impegnati
a produrre un acciaio che ormai non si sapeva più come utilizzare. E, viceversa, gli abitanti delle
città e gli studenti venivano mandati nei campi sotto la parvenza di una pretesa "esaltazione
spontanea". Di fatto nella maggior parte dei casi vi venivano condotti militarmente. Nelle comuni si
partiva al lavoro con tamburi e ottoni in testa, con vessilli al vento, slogan continuamente recitati
pappagallescamente da altoparlanti disseminati fin nelle più piccole risaie. L'esodo degli abitanti
delle città verso i campi aveva come obiettivo riconosciuto la correzione di una certa “distorsione
socioeconomica”: lo sviluppo della classe dei tecnici, piuttosto frondista, staccata dai contadini, e
tuttavia sempre massicciamente maggioritaria, in Cina, indispettiva i puri del Partito. Ritenevano che
un'immersione nella vita di campagna non potesse che fare loro del bene.
È nell'agosto del 1958 che furono create le famose Comuni popolari: 26.000 di queste unità (nel
1980 se ne contavano esattamente il doppio) furono incaricate di sostituire, previo raggruppamento,
730.000 cooperative giudicate troppo deboli e inefficaci; diventarono delle “Squadre di produzione”.
La Comune popolare doveva essere la struttura, la leva e l'agente principale di questa auspicata
trasformazione dei mezzi di produzione, ma anche degli animi e del modo di vita.
Fu necessario un ridimensionamento. Dopo i prime notiziari che cantavano vittoria, nel 1958, si
palesò rapidamente la delusione e si dovette ammettere che l’intero apparato produttivo era
disorganizzato e traballante. Tanto più che, effettivamente, questo periodo rivoluzionario coinciderà,
tra il 1959 e il 1961, con calamità naturali (invasioni di cavallette, inondazioni, siccità, ma che
comunque non furono di certo la causa prima del disastro), e con il ritiro dell'aiuto economico e
tecnico dei sovietici, dai quali la Cina si stava nel frattempo allontanando. Fu una catastrofe. Le vie
ferrate erano bloccate da convogli di carbone e di minerali alla ricerca di un normale scorrimento.
Neppure la produzione d'acciaio trovava un mercato o un equilibrio armonico. La popolazione,
spossata e cotta dal dubbio, si interrogava sulla sensatezza di quest'orgia di attività, di questa frenesia
produttiva da cui risultava ormai chiaro come si stesse girando a vuoto. La produzione cerealicola
precipitò pericolosamente: 205 milioni di tonnellate nel 1958; 150 nel 1960, mentre nel 1980 è stata
di 320 milioni di tonnellate e nel 1985 di 380 milioni di tonnellate. Si morì di fame a milioni.
Ben presto venne inoltre dato ordine di frenare i ritmi di lavoro, insopportabili o inopportuni, o
ancora di concedere ai contadini alcuni "stimoli materiali", come diritti sull'ambiente, la concessione
di piccoli terreni individuali, e l'autorizzazione ad allevare qualche capo di bestiame minuto a livello
domestico, per esempio. Si trattava di una rinuncia lacerante e dell'ammissione di un fallimento
perché, come abbiamo già detto, il Grande Balzo in avanti oltre ad ambizioni di decollo economico,
aveva l'obiettivo di strappare i cinesi alla loro mentalità millenaria, ai gusti, alle tradizioni e alle
abitudini ancestrali. Si era creduto di cambiare i presupposti stessi della società: il regime era
convinto che le strutture familiari e paesane, troppo radicate nel passato ed eccessivamente limitate,
frenassero il progresso e quindi il decollo economico.
Indubbiamente quest'esperienza fu preparata male e intrapresa con eccessiva precipitazione, ma
l'autorità carismatica di Mao Zedong si mantenne enorme e non venne intaccata. Il fatto è che questa
impreparazione avrà come conseguenza la durevole disorganizzazione del paese e che l'intera vita
nazionale ne risulterà perturbata per alcuni anni.
A partire dal 1962, dopo l'inizio dei riordinamento del 1960-1961, si accettò di riconoscere il
fallimento di quest'esperienza comunale; ma non tutti furono autorizzati a dirlo e alcuni, per questo
motivo, persero il posto o il grado, come il prestigioso e scomodo maresciallo Peng Dehuai, che
aveva espresso dei dubbi sull'efficacia dell'esperienza, a Lushan, nell'agosto del 1959. “Il capofila
degli esponenti di destra perse il suo mandarinato”, scrive Jacques Guillermaz e Mao Zedong stesso,
di fronte al fallimento, nel dicembre 1958 dovette cedere la Presidenza della Repubblica a Liu
Shaoqi.
Fra le vittime illustri del Balzo ricordiamo il Dalai Lama,
costretto a rifugiarsi in India nel ’59.
Dal ’62 in poi il protagonista fu lo sgretolarsi dei rapporti con
l’Unione Sovietica e il lento riaversi dal “Grande Balzo in avanti”.
La Cina sembrava stesse per riprendersi: diventò autosufficiente per
il petrolio, fece orgogliosamente a meno degli aiuti sovietici
dichiarando che l’agricoltura era la base dell’economia, si buttò in un
conflitto di frontiera con l’India, fece esplodere la sua prima bomba
atomica, e pubblicò il celeberrimo “Libretto Rosso dei Pensieri di
Mao”.
Naturalmente, non fece a tempo a riaversi, che un’altra “meravigliosa” idea stava per abbattersi
sul povero, martoriato popolo cinese: nel 1966, spinto dalla sua quarta moglie, Mao lanciò la
“Grande Rivoluzione Culturale Proletaria”.
Le origini della Rivoluzione Culturale sono vaghe, ma probabilmente scaturite, in parte, dal
crescente dissidio fra Mao e il resto del CCP. Mao ordinò agli studenti di sradicare usi e mentalità
borghesi, e gli studenti lo fecero: le Università e le scuole vennero chiuse, furono istituite le "Scuole
del 7 maggio" per una rieducazione dei funzionari attraverso studio-lavoro, nacque il Movimento
delle Guardie Rosse. La Cina piombò nell’anarchia. Non solo le scuole chiudevano: anche gli uffici
e i trasporti furono smembrati. Le vestigia del passato e le monumentali opere d’arte della Cina
imperiale vennero colpite da furia iconoclasta (ora le cose più importanti sono state restaurate, ma
moltissimo è andato perduto in quegli anni). Fu un periodo tremendo, tanto che a tutt’oggi siamo
ben lontani dal sapere esattamente che cosa accadde. In termini di caos, sangue e distruzione si può
paragonare alla Rivoluzione Francese; le unità di Guardie Rosse finirono per combattersi l’un l’altra
per avere la supremazia. Nell’estate del 1967, ci furono rivolte di massa anche a Macao e a Hong
Kong (se ne può vedere una buona rappresentazione all’inizio del famosissimo “Bullet in the head”
di John Woo).
Una delle ragioni per cui Mao fu capace di concepire e di attuare una cosa come la Rivoluzione
Culturale, fu che ormai Mao stava diventando un Imperatore. Anzi, Mao stesso si paragonava
spesso al Primo Imperatore della Cina. Un’altra ragione fu il supporto dell’Esercito di Liberazione
Popolare, capitanato da un generale chiamato Lin Bao. Durante gli anni gloriosi della Rivoluzione
Culturale, Lin divenne molto vicino a Mao e fu designato come legittimo discendente. Lin era
inoltre incaricato della costruzione del “culto della personalità” di Mao. Ma dopo il 1969 la
posizione di Lin cominciò a deteriorarsi, e svanì nel 1971. Lin morì probabilmente in un incidente
aereo in Mongolia, mentre la versione ufficiale dice che stava volando in Russia. Molti pensano che
in realtà fu fatto assassinare da Mao. Probabilmente nessuno saprà mai che cosa accadde veramente,
in quanto i due interessati principali della vicenda (Lin e Mao) si sono portati i loro segreti nella
tomba.
Mentre la Rivoluzione Culturale chiudeva i battenti “ufficialmente” nel
1969, e con lei i peggiori abusi, l’atmosfera politica generale non cambiò fino
alla morte di Mao nel 1976. Deng Xiaoping, che fu epurato per ben due volte
durante la Rivoluzione Culturale (la prima all’inizio, l’altra poco prima della
morte di Mao); alla fine emerse come capo supremo nel 1978, e lanciò
prontamente il suo programma di riforma economica.
Le azioni di Deng, inizialmente si limitarono a riforme agricole, partite
prima in poche aree e poi allargate pian piano al resto della Cina. Uno dei suoi
motti preferiti era “Non importa se il gatto è bianco o nero, l’importante è come
cattura i topi”. Questo era in diretto contrasto con l’ideologia degli anni di Mao,
in cui uno degli slogan era “Meglio Rosso che Esperto” che significa, in
pratica, che ideologi assolutamente incompetenti venivano messi a capo di progetti che
richiedevano tecnici esperti.
Nel 1982 Margaret Tatcher, allora Primo Ministro britannico, andò a Pechino per incontrare
Deng Xiaoping. Parlarono soprattutto di Hong Kong. Quando la Tatcher se ne andò, il Regno Unito
e la Repubblica Popolare Cinese avevano firmato un accordo che restituiva Hong Kong alla Cina.
Nel 1984 fu firmato un trattato ufficiale che prende il nome di “Joint Declaration”. Il popolo di
Hong Kong non fu mai consultato sul proprio futuro.
Hong Kong è luogo di molti fatti ironici, e la sua restituzione alla Cina è certamente uno di
questi. Gran parte della gente che fece divenire Hong Kong l’incredibile città che è oggi, era in quei
territori perché scappava dai Comunisti. E adesso si ritrovava con lo spettro di dover ritornare sotto
il loro governo. Gli Hongkonghesi così fortunati da avere la cittadinanza britannica non avevano
comunque il diritto di vivere in Gran Bretagna. E quelli che avevano il passaporto speciale per
Hong Kong (BNO, British National Overseas) avrebbero dovuto cambiarlo in passaporto della
Repubblica Popolare Cinese nel 1997. In fondo, ci sarebbe stata una qualche perversamente poetica
giustizia nel fatto che Hong Kong, che nacque grazie a iniqui trattati, sarebbe morta a causa di un
altro iniquo trattato.
Per fortuna le cose non andarono così tragicamente: nel 2001 si era già creato il passaporto
speciale “Hong Kong S.A.R.” (S.A.R. sta per “Special Administrative Region”) e il sistema
economico, sociale e soprattutto politico di Hong Kong rimase sostanzialmente immutato. Hong
Kong acquisì una specie di indipendenza controllata e
soprattutto mantenne la libertà di opinione e di
stampa, nonché i diritti umani.
Ma torniamo alla Cina: come le riforme partirono,
il problema delle riforme politiche cominciò a venire
a galla, sospinto dagli eventi che stavano accadendo
in Unione Sovietica e nell’Est Europeo. I nodi
vennero al pettine in Piazza Tienanmen, in maggio,
nel 1989. I leader del Partito Comunista videro la
manifestazione degli studenti come un attacco al loro potere, e il 4 giugno decisero di annientarla.
Ufficialmente, morirono 200 dimostranti. Il bilancio reale fu molto più alto, ed è probabile che non
si saprà mai quanti morirono quel 4 giugno.
Dopo il 4 giugno, il progresso e le riforme in Cina si fermarono per tre anni. Ma nel 1993 Deng
Xiaoping, in una delle sue maggiori apparizioni pubbliche, fece un giro nella “Zona Speciale
Economica dello ShenZhen” (la zona del sud della Cina confinante con Hong Kong) ed
enfaticamente diede la sua approvazione. Dopodiché, la Cina ebbe un’esplosione economica senza
precedenti nella storia dell’umanità.
Uno degli sviluppi recenti più significativi è stata la morte di Deng Xiaoping, il 19 febbraio del
1997, proprio l’anno del passaggio di Hong Kong alla Cina. Anche se Xiaoping era molto tempo
che non svolgeva attività politica e anche se non appariva in pubblico da tre anni, le morti dei
grandi capi della Rivoluzione hanno sempre avuto un impatto sconvolgente nella politica cinese. È
ancora troppo presto per giudicare il suo successore, ma per ora si nota un clima di indubbia
tendenza all’apertura, lenta e graduale, anche ai diritti umani e alla libertà.
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