Le origini Xia (2200 a.C. – 1750 a.C.) Non si sa molto della prima dinastia cinese, infatti, fino a poco tempo fa, gran parte degli storici pensava che si trattasse soltanto di leggenda. Ma recenti scavi e documenti hanno provato che gli storici in gran parte si sbagliavano. Il poco che si è scoperto indica che gli Xia discendevano da una cultura neolitica diffusa nell’ampia valle del Fiume Giallo, conosciuta come cultura Longshan, famosa per le terrecotte laccate di nero. Sebbene non ci siano pervenuti esempi di scrittura Xia, è molto probabile che ci fosse già un sistema di scrittura, precursore di quello degli “oracoli d’osso” degli Shang Shang (1750 a.C. – 1040 a.C.) Bisogna sapere tre cose della dinastia Shang: la prima, che erano la società del bronzo più evoluta del mondo; la seconda, che le rovine Shang ci mostrano l’esistenza delle più antiche e più complete testimonianze di scrittura cinese (precedentemente, c’è un po’ di vasellame neolitico con qualche pittogramma scolpito, ma pochi caratteri non fanno un sistema di scrittura), incise sulle ossa piatte delle spalle dei suini, sul bronzo, sulla corazza delle tartarughe; e la terza, che molto probabilmente era la civiltà antica più assetata di sangue. Amavano i sacrifici umani, e molto. Se un re moriva, cento schiavi lo seguivano nella tomba. Alcuni, per loro fortuna, venivano prima decapitati, altri erano gettati nella tomba vivi. Le dinastie seguenti rimpiazzarono gli esseri umani con figure di terracotta, come nella famosa armata di terracotta ritrovata nel 1974 a Xi’an. Facevano sacrifici umani anche per consacrare edifici e per altri eventi cerimoniali. Gli Shang erano caratterizzati anche da un sistema di successione davvero bizzarro: invece di una linea patriarcale, in cui il potere si passa da padre a figlio, la successione avveniva da fratello maggiore a fratello minore, e quando non c’erano più fratelli allora si ricorreva al maggiore dei nipoti materni. Zhou occidentali (1100 a.C. – 771 a.C.) Molti studiosi pensano che gli Zhou fossero molto più “cinesi” degli Shang. Innanzitutto, avevano un sistema di successione padre-figlio. Inoltre, non erano così accaniti coi sacrifici umani. Però non erano evoluti come gli Shang nella lavorazione del bronzo, anche se bisogna dire che ci vorranno secoli perché gli occidentali raggiungano la tecnica anche solo degli Zhou. In questo periodo abbiamo anche le prime testimonianze di caratteri cinesi originali, quelli che si usano ancora oggi. Alcuni studiosi, ma non tutti, sostengono che gli Xia, gli Shang e gli Zhou siano stati in realtà tre culture diverse che emersero più o meno contemporaneamente in diverse zone della valle del Fiume Giallo. E i documenti storici dimostrano che gli Shang furono conquistati dagli Zhou, così come gli Xia furono conquistati dagli Shang. In realtà gli Zhou non dominarono tutta la Cina, che a quei tempi era costituita da una serie di principati. Comunque, quello degli Zhou era il principato più potente e svolse un ruolo di egemonia in quella regione. Geograficamente, erano al centro dei principati: ecco perché i cinesi chiamano la Cina “Regno di Mezzo”. Gli Zhou furono capaci di mantenere pace e stabilità per pochi secoli, dopodiché, nel 771 a.C., la capitale fu saccheggiata dai barbari che venivano da occidente. Zhou orientali (771 a.C. – 256 a.C.) Periodo delle Primavere e degli Autunni (722 a.C. – 481 a.C) Periodo dei Regni Combattenti (403 a.C. – 221 a.C.) Dopo che la capitale fu saccheggiata dai barbari che venivano dall’ovest, gli Zhou si trasferirono a oriente, dividendo così nettamente la dinastia nel periodo occidentale e orientale. Naturalmente, in questo periodo il potere degli Zhou ebbe un certo declino. Il cosiddetto periodo delle Primavere e degli Autunni, che prende il nome da un libro che narrava la storia di quei tempi (“Annali delle Primavere e degli Autunni”), è caratterizzato dal proliferare di nuovi ideali e filosofie. Le tre correnti più importanti dal punto di vista storico sono Taoismo, Confucianesimo e Legismo. Il Taoismo è basato sullo studio del Tao (letteralmente, “la Via”). Per chi fosse completamente a digiuno di Taoismo consiglio la lettura del “Dao de Jing, la Via e la Virtù” (o “Tao te Ching”, secondo la traslitterazione classica), il libro più grande e antico sul Taoismo. Si dice scritto da un filosofo chiamato Lao-Zi., ma non sappiamo realmente se Lao-Zi sia effettivamente il nome dell’autore, o se Lao-Zi sia mai veramente esistito, o se il libro non sia invece una raccolta di autori vari. La prima riga del Dao de Jing si può tradurre come “La Via più diritta non è quella più duratura e immutabile”. Ma si può anche tradurre con “La Via che si può conoscere non è la vera Via”. Si può anche tradurre in altri modi, tutti comunque con lo stesso significato paradossale e quindi tutti con interpretazioni molto diverse. Il libro è fitto di moltissimi altri paradossi, come “Più il saggio spende per il prossimo, più possiede. Più dà agli altri, più ha per sé stesso”. I Taoisti amano questo genere di cose; la famosa storia dell’uomo che sogna di essere farfalla e che poi si sveglia e si chiede se è veramente un uomo oppure una farfalla che sogna di essere un uomo, è un classico del Taoismo. Il Taoismo ha profondamente influenzato il Buddismo Cha’an (detto anche Zen) e in qualche modo anche molti artisti odierni, da Borges a Tarkovskij (non a caso, nel suo film Stalker, Tarkovskij fa citare al protagonista ampi stralci del Dao de Jing). Confucio (Kong Fu Zi), che visse circa 500 anni prima di Cristo, credeva essenzialmente che gli uomini con moralità fossero anche dei buoni governanti, e che la virtù sia la proprietà più importante che un ufficiale deve avere. Credeva anche che la virtù si possa ottenere seguendo la giusta condotta, e quindi mise in gran risalto la rispettabilità. Gran parte di ciò che si conosce come “Confucianesimo” fu scritto in realtà da Mencio, un discepolo di Confucio, che pensava che gli esseri umani siano tutti sostanzialmente buoni. Confucio inoltre codificò lo stato del governante in pensiero politico cinese: l’Imperatore era il Figlio del Cielo (in cinese il Cielo o il Paradiso non è un luogo ma una forza naturale/divina) e aveva il Mandato del Cielo per governare. Il Legismo deriva dagli insegnamenti di un altro dei discepoli di Confucio, un uomo chiamato Xun-Zi. Xun-Zi credeva che, in generale, l’uomo guardi prima a sé stesso e poi agli altri, e che sia fondamentalmente cattivo (ricordiamoci che questo lo diceva più 2000 anni prima che Adam Smith sostenesse che l’interesse personale sia ciò che fa funzionare i mercati e sia quindi in sé buono). Di conseguenza, i Legisti scrissero una serie di leggi draconiane che avrebbero reso la nazione più semplice da controllare. Lo scopo fondamentale sia del Confucianesimo sia del Legismo era la riunificazione della Cina, ma avevano approcci differenti. Il Confucianesimo attraverso la virtù e l’ordine naturale, il Legismo col pugno di ferro. Il Legismo è stato anche chiamato “super-Machiavellismo”. Il nome non è peregrino, poiché per raggiungere lo scopo il Legismo arrivò a soffocare il dissenso bruciando libri e seppellendo vivi i dissidenti (il maltrattamento delle opposizioni non è nuovo in Cina, in quanto il sistema parte con l’idea che l’Imperatore sia il Figlio del Cielo e abbia il Mandato del Cielo per governare; non c’è assolutamente il concetto di dissenso legittimo e quindi di “opposizione leale”). Il Legismo sfruttò tecniche come il mantenimento di una polizia segreta, spingendo i cittadini a informare il governo denunciando il vicino di casa, e la creazione di un’atmosfera di paura generale. Molte tattiche legiste furono poi utilizzate da Hitler, Stalin e Mao. Il periodo dei Regni Combattenti fu politicamente molto simile a quello delle Primavere e degli Autunni; la differenza maggiore era che mentre prima gli eserciti erano piccoli e le battaglie duravano un giorno, un po’ come le guerre prenapoleoniche, adesso la tattica militare era simile a quella che un contemporaneo chiamerebbe “guerra totale”: armi di massa (mezzo milione di soldati per esercito non era una rarità), battaglie lunghissime, assedi, erano cosa comune nel periodo dei Regni Combattenti. Il primo periodo imperiale Qin (221 a.C – 206 a.C) Nel 221 a.C., il primo Imperatore della Cina (così chiamato in quanto i precedenti sovrani si facevano chiamare solo re), Qin Shihuandi, conquistò il resto della Cina dopo qualche centinaio d’anni di disunità. Vinse per due motivi principali; il primo è che era un devoto legista (tanto che fece bruciare tutti i libri della Cina, perlomeno tutti quelli che credeva fossero rimasti). L’altro motivo è che lo stato di Qin aveva moltissimo ferro, e conseguentemente, all’alba dell’età del ferro, aveva molte più armi in ferro di tutti gli altri eserciti. Qin Shihuandi concepì molti grandiosi progetti, non ultimo il collegamento di gran parte delle vetuste mura difensive dei vecchi principati creando così la Grande Muraglia Cinese. Con questo non si vuol dire che fu il costruttore di quell’imponente opera muraria oggi chiamata Grande Muraglia: quella di oggi fu in realtà costruita duemila anni dopo, durante la dinastia Ming. Sulla base, però, di quella di Qin, che è ancora visibile in qualche punto. È di questo periodo anche l’Armata di Terracotta scoperta a Xi’an nel 1974. Si tratta della riproduzione in terracotta di più di 10000 fra guerrieri, arcieri, carri e soldati, messi tutti nella tomba di Qin Shihuandi. Qin iniziò inoltre la riforma agraria: ai contadini vennero concesse in proprietà le terre da loro coltivate. Unificò i pesi, le misure e la lunghezza dell’asse dei carri, codificò la scrittura dei caratteri (il primo ministro Li Si pubblicò il primo catalogo ufficiale con 3300 caratteri). Nel 210 a.C. Qin Shihuandi morì, e con lui la sua dinastia. Non durò a lungo a causa di una rivoluzione partita da un soldato che, vedendosi condannato a morte per aver consegnato in ritardo un gruppo di coscritti (c’era stata gran pioggia e le strade erano diventate torrenti di fango), convinse i coscritti (condannati anch’essi) a ribellarsi con lui. Anche se furono catturati tutti e debitamente giustiziati, la rivolta che scatenarono, con a capo un contadino chiamato Liu Bang, finì per distruggere la vecchia dinastia e per preparare il campo agli Han. Han d’Oriente (206 a.C. – 8 d.C.) Xin – Interregno di Wang Mang (8 – 25) Han d’Occidente (25 – 220) La dinastia Han, il cui primo imperatore fu quel Liu Bang che capitanò la rivolta contro Qin Shihuandi, ha un ruolo importantissimo nella storia cinese. Prima di tutto, gli Han codificarono il modo di raccontare la storia cinese che è arrivata fino a noi. Inoltre, per dare l’idea del fenomeno, il gruppo etnico tuttora predominante in Cina si chiama proprio Han. Ma, soprattutto, gli Han svilupparono (in realtà fu un’invenzione di Qin Shihuandi, ma fu perfezionato dagli Han) il modello amministrativo che ogni dinastia successiva avrebbe poi copiato in blocco. Perché lo sviluppo della burocrazia è così importante? Prima di tutto, perché la Cina antica era una nazione davvero grande. Nel 206 a.C., quando la dinastia Han fu fondata, la Cina si estendeva a nord dalla moderna Shenyang (circa 500 km a nord di Pechino) fino a sud a Guilin; a est dall’Oceano Pacifico, fino a Ovest ben oltre Chongqing. Finché la Russia non si appropriò della Siberia, la Cina era il paese più esteso del mondo. Era anche il più popolato (60 milioni di persone a quei tempi), e lo è ancora (sebbene probabilmente l’India supererà la Cina in termini di popolazione nel prossimo secolo). È un affare gestionale di dimensioni tremende. Come si possono fare cose come riscuotere imposte, mantenere la pace e mantenere un governo in un territorio così vasto senza un efficientissimo apparato burocratico? Il sistema burocratico cinese è basato sugli studi del Confucianesimo Classico, che fornisce un punto di vista ideologico basato sulla buona condotta (che fu spesso ignorata, ma funzionò comunque) e sulla lealtà all’Imperatore. Sviluppando questo sistema, gli Han riuscirono a rendere ragionevolmente efficiente la Cina. L’imperatore era il detentore supremo del potere legislativo, esecutivo e giudiziario almeno in teoria. Sotto di lui stavano nove ministri, preposti ai vari campi dell’amministrazione pubblica, in cui si iniziava a verificare una diversificazione. A capo di tutta la burocrazia stava il cancelliere, che aveva il compito di nominare i funzionari. Era una posizione molto delicata, tanto che nessun cancelliere restò in carica più di quattro anni. Importante per i suoi sviluppi successivi era la segreteria imperiale, in cui avranno un ruolo sempre più grande gli eunuchi, incaricati dell’harem imperiale e per questo molto influenti presso l’imperatore stesso. Nel periodo Han si ebbe una grande fioritura culturale, sorretta da un’invenzione importantissima: la carta. Prima veniva usato il legno, il bambù o la seta. Nacque la poesia lirica, che descrive situazioni familiari e sentimentali patetiche, vennero compilate delle enciclopedie. Vediamo un po’ più in dettaglio il susseguirsi degli imperatori Han. Uomo del popolo, appena salito al trono Liu Bang si dette da fare per abolire il rigido diritto penale dei Qin, cosa che gli procacciò la popolarità in vasti settori. Ai suoi compagni d’arme distribuì dei feudi, così ripristinando certe strutture politiche del passato, con la differenza che ora c’era una nobiltà di nuovo tipo, salita al potere nella ribellione contro i Qin e senza tradizioni. Alla morte di Liu Bang il potere cadde praticamente in mano alla sua vedova Lu, che per favorire i suoi parenti non si astenne da stragi vere e proprie. L’influenza nefasta delle mogli degli imperatori nella storia della Cina sarà un dato costante, uguagliata forse soltanto dal potere degli eunuchi. Con l’avvento al trono dell’imperatore Wen (180-157 a.C.) il Paese godette di un periodo di pace e di prosperità, in cui le ferite di lotte intestine e intrighi di palazzo poterono rimarginarsi. Durante il suo regno furono costruite strade, furono fatti canali e ponti, in modo che il commercio fosse incrementato. Con l’imperatore Wu (141-87 a.C.) si passò da una politica empirica ad una per così dire sistematica e l’impero acquistò una sua consistenza interna ed una sua collocazione definita rispetto ai popoli confinanti. È in questo periodo che ci fu la maggiore stabilità della Cina, che si consolidarono economia e società fino ad arrivare a uno stadio che rimarrà sostanzialmente immutato fino a oggi. Si abolirono definitivamente i feudi, soprattutto per annientare la possibilità che i grandi signori feudali, che erano stati ripristinati da Liu Bang, facessero il bello e il cattivo tempo. Uno dei fattori che portò maggiormente all’identità culturale dei cinesi Han fu l’inizio delle “invasioni barbariche”: in questo periodo infatti ebbero inizio le prime incursioni del popolo Xiongnu, conosciuto in occidente come “Unno”. L’efficacia delle incursioni cresceva con l’aumentare dell’identità culturale degli Unni, che più si univano più riuscivano nelle loro imprese. Non fu facile unirsi in quanto le popolazioni nomadi erano da sempre frammentate in una miriade di nuclei culturali ed etnici spesso anche in contrasto fra loro. L’unione fu aiutata dal sentirsi molto diversi dalle popolazioni che cercavano di attaccare. Questo processo però ottenne l’effetto di aumentare anche l’identità culturale di chi veniva attaccato: appunto i cinesi Han. Questa identità culturale crebbe talmente tanto da diventare il vero e proprio deterrente principale contro gli Unni, che pur riuscendo a vincere qualche battaglia e a conquistare qualche territorio, alla lunga si vedevano annientati dall’assimilazione culturale cinese. Tanto che nel IV secolo d.C. capiranno che è ora di cambiare aria e attaccheranno l’Impero Romano, con le conseguenze che tutti sappiamo. I Cinesi troveranno così la possibilità di espandersi ulteriormente, di conoscere i paesi a cui vendere i loro prodotti, di importare la vite, il foraggio, vari prodotti agricoli, nuove specie equine e di aprire così la “Via della Seta”. Durante il regno di un imperatore chiamato Han Wudi visse uno storico chiamato Sima Qian. Il suo contributo più importante alla storia cinese fu quello di scrivere un libro conosciuto come “Documenti della Grande Storia” (disse di aver soltanto completato un libro incompiuto del padre Sima Tan, ma in realtà sappiamo che lo scrisse quasi interamente lui). Gran parte dei libri di storia sono molto lineari: prima si parla dei Greci, poi dei Romani, poi del Medio Evo, e così via. Quello che fece Sima fu di strutturare il suo libro in modo che ogni capitolo trattasse di un argomento diverso: un capitolo era sui documenti politici dei re e degli imperatori, un altro sulla letteratura, un terzo sulla filosofia, eccetera. Ogni documento dinastico seguente copiò l’originale di Sima. In inglese c’è solo un libro invece che segue lo stesso schema: “China’s Imperial Past”, di Charles O. Hucker. Fra l’8 e il 25 d.C., un uomo chiamato Wang Mang governò la Cina. Faceva parte della famiglia reale ma di per sé non era un nobile. Fu eletto Imperatore dopo una lotta di potere nella famiglia Han, ed era nipote dell’imperatrice che salì al trono secondo la dottrina che quando l’imperatore non era più degno doveva essere sostituito. Le storie su di lui sono varie. Mentre sembra avesse qualche buona qualità, qualche idea riformista (per esempio, ridare il potere al popolo), in realtà non era portato al comando. Come se non bastasse, durante il suo interregno ci furono alcune calamità naturali, quali lo straripamento del fiume Huanghe, che provocarono delle rivolte contadine, tra cui importante fu quella dei Sopraccigli rossi, che ebbe largo seguito. Dopo la sua morte nel 25, la famiglia reale Han riprese il potere, e fondò la seconda dinastia Han. La seconda dinastia Han riuscì a non crollare per altri 200 anni, però, verso la fine del suo governo, diventò sempre più dissoluta. Soprattutto, non fu capace di gestire due fattori: uno spostamento di popolazione dal Fiume Giallo nel nord fino allo Yangzi nel sud, e la calata dei barbari a cavallo provenienti dal nord, di cui abbiamo scritto più su, che erano la ragione per cui la gente si spostava a sud. Nella capitale Luoyang dilagava il favoritismo e le grandi famiglie erano in continua rivalità. C’era il partito dei vecchi nobili feudali, ormai trasformati in latifondisti oziosi, e la nuova classe dei funzionari e dei burocrati. Più vicino all’imperatore c’era la rivalità tra le famiglie delle imperatrici e gli eunuchi. Tutto questo servì a minare irrimediabilmente il potere centrale. Nel 184 d.C. esplose la rivolta dei Turbanti gialli, che segna l’inizio del tramonto definitivo della dinastia contemporanea all’impero romano. Nel 220, il potere centrale aveva talmente perso il controllo sulle province che collassò, facendo piombare la Cina in 350 anni di caos e separazione. I Tre Regni (220 – 265) Le Dinastie del Nord e del Sud (317 – 589) Per quanto questi periodi furono costellati di accadimenti politici, gran parte di essi, trattandosi di guerre varie fra regni (uno dei romanzi più famosi della letteratura cinese, di epoca Ming, “Il Romanzo dei Tre Regni”, parla di questo periodo), non sono importanti per lo sviluppo della storia cinese. Forse il maggior contributo che questo periodo portò al pensiero cinese fu poi l’importanza di avere “un Imperatore su tutta la Cina, come un sole unico nel cielo”. Dal punto di vista sociale ci furono due importanti sviluppi. Il primo fu che il gruppo etnico Han continuò a trasferirsi a sud, mentre i “barbari” si insediavano nel nord e si assimilavano alla società cinese, o meglio venivano assimilati dalla società cinese, loro malgrado. Il secondo fu il Buddismo, che era nato in India attorno al VI secolo a.C., quando Budda probabilmente visse. Fu introdotto in Cina attorno alla metà del primo secolo dopo Cristo (più o meno nello stesso periodo in cui i Cristiani stavano scrivendo i Vangeli), ma non attecchì fino alla caduta della dinastia Han. Il Buddismo dovette competere molto col Confucianesimo, e alla fine lo eclissò. Per varie ragioni, alcune politiche, alcune sociali, si diffuse molto rapidamente in tutta la Cina. Cambiò anche parecchio del buddismo indiano originale, che non viene più praticato da nessuno nel mondo. Dalla Cina, il Buddismo si sarebbe diffuso in Tibet, nel Sudest Asiatico, in Corea e in Giappone. Il Buddismo in Cina si fuse un po’ anche col Taoismo, particolarmente fra il popolo; ma mentre il processo all’inizio si può paragonare all’assimilazione cristiana di credenze europee indigene, il Taoismo non fu mai completamente assorbito dal Buddismo e mantenne la sua identità. Il secondo periodo imperiale Sui (589 – 618) La cosa più importante da sapere su questa dinastia è che fu molto breve (per gli standard dinastici) e che fece un ottimo lavoro nel riunificare la Cina. Fra l’altro, l’Imperatore Yangdi (l’ultimo dei Sui) iniziò i lavori del Canale Imperiale, che avrebbe in futuro unito il nord al sud. Essendo la base del potere situata nel nord, fu una dinastia in parte barbara. Ma nonostante la dinastia Sui e la successiva Tang non fossero costituite da cinesi Han, entrambe le dinastie sono considerate cinesi, in opposizione a quelle, che vedremo, dei Mongoli e dei Manciù. Tang (618 – 907) Quella Tang è considerata una delle più grandi dinastie della storia cinese; molti storici la mettono appena dietro la Han. I Tang estesero i confini cinesi a nord fino in Siberia, a est fino in Corea, e a sud fino nel Vietnam. Estesero anche un corridoio di controllo della Via della Seta nell’odierno Afghanistan. Ci sono due fatti storici interessanti sui Tang. Il primo è l’imperatrice Wu, l’unica donna che ebbe effettivamente il titolo di “Imperatrice”. Il secondo è la rivolta di An Lushan, che segnò l’inizio della fine dei Tang. Ma andiamo con ordine. Nel corso della grande rivoluzione contadina contro i Sui, il nobile Li Yuan, capo militare dello Shaanxi, divenne l’imperatore dei Tang. Egli era un bravo e onesto governatore e pertanto era indeciso se appoggiare o meno la rivolta contro l’imperatore Yangdi, ma il figlio Li Shimin, con uno stratagemma, lo fece schierare dalla parte dei ribelli. Dopo due anni di guerra Li Yuan diventò padrone di un vasto territorio, si impadronì della capitale Chang’an e nel 618 dopo l’assassinio di Yangdi si proclamò imperatore e diede inizio alla gloriosa dinastia dei Tang. Dodici pretendenti gli contesero il potere aiutati anche da truppe dei turchi orientali. L’esercito Tang, agli ordini del principe Li Shimin, sbaragliò le forze degli avversari ed estese il potere della Cina costituendo un impero più potente e prospero di quello degli Han. Nel 626 l’imperatore Li Yuan abdicò e gli successe Taizong, che regnò fino al 649. Egli decise una riforma agraria con un’equa distribuzione delle terre, senza però toccare le proprietà dei grandi proprietari e dei monasteri; diminuì le imposte, abrogò le leggi troppo dure, riformò i codici e soppresse molte pene. Nell’organizzazione dell’amministrazione dell’impero introdusse delle novità collocando un governatore militare al di sopra di quello civile; per il reclutamento dei funzionari mise a punto un sistema di esami, nei quali, accanto alla conoscenza dei classici confuciani, erano richieste conoscenze scientifiche, matematiche, giuridiche, storiche e calligrafiche. Per i gradi superiori istituì una prova di poesia ed un saggio, e ciò gli valse il favore dei letterati. Dal punto di vista della struttura militare egli rafforzò l’esercito potenziando la cavalleria, che diventò l’elemento determinante nelle conquiste territoriali della Cina di quest’epoca. I turchi orientali, sconfitti, vennero a inchinarsi davanti a lui e ne accettarono il protettorato. Con lunghe campagne di cavalleria sottomise anche i turchi occidentali del bacino del Tarim e ristabilì il protettorato cinese sulla regione. La sua potenza si estese, venne accettato oltre il Pamir fino al Caspio, fino a quando nel 751 le armate cinesi vennero sconfitte dagli arabi a Talas. Il Tibet gli inviò tributi; gli ambasciatori dell’India, di Ceylon e della Persia si successero nella capitale cinese. Il buddismo era florido, il monaco Xuanzang partì in pellegrinaggio per l’India, passando dall’Asia centrale. Dopo sedici anni di viaggio e di studi, tornò con una documentazione straordinaria sui paesi visitati, sui loro abitanti, sulla loro economia, sul loro modo di pensare; raccolse anche i testi classici del buddismo e dedicò il resto della sua vita alla loro traduzione dal sanscrito in cinese. Nella capitale cinese tutte le religioni erano ammesse: quella di Zoroastro, quella manichea, il nestorianesimo, il giudaismo e l’islamismo; preti, mercanti e studenti stranieri affollavano la ricca capitale cinese. Alla sua morte gli successe un figlio, da lui prescelto, che prese l’appellativo di Gaozong (650683), giovane pieno di buona volontà, ma succube dell’affascinante e ambiziosa imperatrice Zetian, una concubina di Taizong, di nome Wu. Molto influente a partire dal 654, diventa imperatrice consorte nel 655. L’imperatrice Wu Zetian non era una personcina raccomandabile. Quando era ancora una concubina della casa reale Tang, Wu uccise suo figlio e diede la colpa alla sua rivale, che venne così ripudiata ed esiliata. Da quel momento divenne padrona della volontà dell’imperatore. Continuarono le sue macchinazioni per sbarazzarsi dei possibili rivali al trono, indusse l’imperatore a mettere a morte persino i figli, di cui due erano suoi. Nel 683 morì l’imperatore. Wu aveva sessant’anni e pose sul trono suo figlio; ma dopo appena 54 giorni lo detronizzò e nominò imperatore il suo secondogenito, che imprigionò nel palazzo. Scoppiò una rivolta di 100.000 ribelli, ma Wu riuscì a soffocarla nel sangue. Volle fondare una dinastia che portasse il suo nome. I principi della famiglia Tang si rivoltarono e allora lei ne approfittò per far scomparire tutta la famiglia imperiale giustiziando o mandando in esilio uomini, donne e bambini: le purghe durarono due anni. Wu Zetian era una fervente buddista e la sua scalata al potere fu appoggiata dai buddisti, che finirono per riconoscerla come reincarnazione del bodhisattva Maitreya. Per sfuggire al controllo delle grandi famiglie trasferì la capitale a Luoyang e si proclamò imperatrice di una nuova dinastia Zhou. La sua condotta fece scoppiare un complotto che la costrinse ad abdicare. Morì dopo pochi mesi. L’imperatrice Wu, nel suo maligno, spietato, geniale modo di governare e di vivere rimane una figura estremamente emblematica nella storia dell’umanità. Se Machiavelli l’avesse conosciuta, avrebbe scritto “La Principessa”. Le successe il figlio, un debole che amava intrattenersi con il monaco Yijing e i santi bonzi; il potere era nelle mani della moglie, l’imperatrice Wei, che, avendo un amante della famiglia Zhou, avvelenò il marito, ma finì decapitata, dopo un complotto capeggiato dal principe Li Longji. Costui era figlio dell’imperatore Ruizong, detronizzato dall’imperatrice Wu nel 690. Dapprima pose suo padre nuovamente sul trono nel 710, ma dopo due anni prese personalmente il potere assumendo il nome di Xuanzong. La Cina visse sotto questo sovrano il suo periodo d’oro sia per le dimensioni dei domini che per il fiorire delle arti e della letteratura. Era letterato egli stesso ed è più noto con l’appellativo di Minghuang (imperatore illuminato). Egli rimise ordine nelle finanze, nell’amministrazione e nei costumi politici. Verso la fine della sua vita si disinteressò del governo, tutto preso dall’amore per la concubina Yang Yuhuan, nota con l’appellativo di Yang “Guifei” (= consorte Yang). In balia della volontà di questa donna assegnò incarichi di prestigio ai membri della famiglia di lei. Tutto ciò provocò il malcontento di un governatore, An Lushan, appartenente ad una tribù turca, che aspirava alla carica di primo ministro, dopo la morte del titolare Li Linfu nel 752. L’incarico venne affidato invece a Yang Guozong, cugino della favorita. Ciò provocò la ribellione di An Lushan nel 755, che riuscì ad occupare la capitale, costringendo l’imperatore a scappare. Durante la sua fuga, una guardia imperiale accusando Yang Guifei di essere responsabile di tutti i problemi che avevano minato la dinastia (siamo gentili, non fu solo colpa sua: ci furono forze politiche ed economiche parecchio oltre il controllo di qualsiasi singolo essere umano), la strangolò e gettò il cadavere in un fosso. Una leggenda dice che la donna era in realtà una contadina, un sosia, procurata dall’imperatore, ma per quanto ne sappiamo è solo una leggenda. La ribellione continuò dopo la morte di An Lushan, sotto la guida di Shi Siming suo luogotenente, e venne infine domata dalle truppe imperiali nel 763. Questo episodio segnò l’inizio della decadenza dell’impero Tang. Le guarnigioni di frontiera si trasformarono in forze regionali autonome e si impossessarono delle imposte destinate allo Stato. I governatori proclamarono ereditarie le loro cariche e alcuni dichiararono la loro autonomia dall’autorità centrale. Il potere centrale cadde nelle mani degli eunuchi, che controllavano la nomina dei generali e dei funzionari. Giunsero anche a porre sul trono o a deporre gli imperatori. Ormai la Cina dei Tang era avviata verso un nuovo stadio di decadenza a causa delle lotte intestine della classe dominante e non riuscì più a esercitare il suo potere nelle regioni occidentali. Venne attaccata dagli Uighur e dai Tufan che avanzando da nord e da sud la serrarono in una morsa; l’impero era quindi tagliato fuori dalle regioni occidentali e il bacino del Tarim cadde in mano ai Tufan, che fondarono uno Stato potente, lo Xizang (Tibet). I tentativi del potere centrale di limitare lo strapotere dei monasteri buddisti, dei funzionari, dei mercanti e dei proprietari fondiari fallirono: si impossessarono senza scrupoli delle terre, riducendo i contadini alla miseria e alla disperazione. Scoppiarono così diverse rivolte contadine. La prima fu dell’860 e fu capeggiata da Qiu Fu; seguì poi l’ammutinamento di soldati capeggiati da Pang Xun nell’869. Alla fine la grande rivoluzione contadina dell’874 fu guidata prima da Wang Xianzhi e continuata da Huang Chao. Tale rivolta sconvolse la Cina: truppe di ribelli partirono dallo Shandong, attraversarono Henan, Anhui, Hubei, il fiume Yangzi, raggiunsero a sud la regione litoranea del Guangdong e del Guangxi, e poi di nuovo verso nord nel Jiangxi e Jiangsu, Anhui e Henan. Nell’880 occuparono Chang’an. La rivolta si protrasse fino all’884, quando la ribellione fu stroncata dalle truppe Tang con l’apporto delle truppe turche della tribù Shato. Dopo la pacificazione, il potere era nominalmente nelle mani dell’imperatore, ma continuava la lotta fra il capo dei turchi, alleato dei Tang, e l’ex ribelle pacificato Zhu Quanzhong già luogotenente di Huang Chao. Costui si impadronì dell’imperatore e lo mise a morte assieme agli eunuchi e alla corte imperiale. Obbedendo ad un ultimo scrupolo, collocò sul trono un giovane principe Ai dei Tang, che però fece abdicare due anni dopo, nel 907, e si proclamò imperatore fondando la dinastia dei Liang posteriori, concludendo così l’epoca Tang. La Cina conobbe sotto questa dinastia un periodo di grande progresso in tutti i campi. La poesia, anche perché favorita dalla corte, raggiunse il massimo splendore con più di 2.000 poeti, dei quali ci sono stati conservati più di 50.000 componimenti. I poeti maggiori furono Li Bai (Li Po) e Du Fu, che vissero sotto il regno di Xuanzong. Un altro grande poeta e pittore fu Wang Wei. Di quest’epoca fu l’invenzione della stampa (VIII sec.) e l’introduzione dell’uso della carta moneta. Si sviluppò il commercio interno ed esterno; l’industria della seta, della terracotta, del broccato, quella mineraria conobbero una grande espansione. Si imparò a estrarre lo zucchero dalla canna e il tè che un tempo era riservato ai signori diventò una bevanda nazionale. Nel campo della ceramica la dinastia Tang è conosciuta soprattutto per le sue figurine di terracotta di stile realistico. Ma quest’arte produsse anche pezzi rari; si ottenne la porcellana, grazie ad un’argilla speciale portata a più di 1.300 gradi; comparirono i “céladon” verde-azzurri. Nel campo delle istituzioni giuridiche troviamo il codice Tang, redatto nella sua prima forma nel 624, rivisto nel 627 e 637 e seguito da un commento nel 653. Questo fu il primo codice cinese pervenutoci; si tratta di un’opera ammirevole per la sua logicità, contava 500 articoli divisi in 12 sezioni. Song del Nord (960 – 1125) Song del Sud (1127 – 1279) La dinastia Song è fra le più importanti, con la Tang e la Han. Cinquant’anni dopo la fine ufficiale dei Tang, un esercito imperiale riunificò la Cina e stabilì la dinastia Song. Furono tempi di eccezionale progresso tecnologico, culturale ed economico. I Song, nonostante il sostanziale fallimento politico, fondarono le basi per tutto il resto dell’era imperiale. Lo sviluppo più importante fu quello della tecnologia agricola, favorita dall’importazione di una specie di riso dal Vietnam, molto resistente e di crescita veloce. L’imperatore Huizong (1101-1125) riportò al primitivo splendore l’Accademia della pittura mettendola sotto la protezione imperiale. Fra le grandi invenzioni di quest’epoca ci sono la polvere da sparo, la stampa a caratteri mobili e la bussola. Lo sviluppo fu tale che il sistema di approvvigionamento alimentare forniva cibo quasi a tutti e non c’era bisogno di sviluppo ulteriore, tanto che rimase sostanzialmente immutato dai Song (dodicesimo secolo) fino a oggi. Infatti, a tutt’oggi in molte zone rurali in via di sviluppo del sud-est asiatico, i contadini coltivano il riso ancora con le tecniche della dinastia Song. L’efficienza del sistema non solo lo rese economicamente autosufficiente, ma rinforzò ulteriormente la struttura sociale esistente. Conseguentemente, società ed economia rimasero quasi completamente immutate dalla dinastia Song fino al collasso del sistema dinastico nel ventesimo secolo. Questo è molto importante, in quanto uno dei fattori principali che portarono la Rivoluzione Industriale in Europa fu che non c’era abbastanza mano d’opera per lavorare i campi. Ci fu incentivo nel costruire tecnologia migliore in Europa; non ci fu in Cina, che invece aveva addirittura surplus di lavoro umano. Sebbene la dinastia Song fu un periodo di grande progresso, dal punto di vista politico e militare fu un fallimento. La metà settentrionale della Cina fu conquistata dai barbari, costringendo la dinastia a lasciare la capitale del nord nei primi anni del dodicesimo secolo. Quindi, 150 anni dopo, i Mongoli, appena dopo aver conquistato tutto quello che c’era da conquistare fra la Manciuria e l’Austria, invasero e occuparono la Cina. Yuan (Mongoli) (1279 – 1368) Anche se il periodo mongolo è chiamato dinastia, fu in realtà un governo di occupazione. Usarono il sistema governativo e le strutture esistenti, ma la lingua era mongola, e molti degli ufficiali non erano cinesi. I Mongoli, gli Uighur dall’Asia centrale, qualche Arabo e persino un Italiano chiamato Marco Polo servirono il governo mongolo come ufficiali. Non furono i primi barbari a conquistare la Cina e a imporre una qualche breve dinastia, ma furono i primi a conquistarla tutta, anche il sud, e a insediarvi un secolo di dinastia. La conquista fu realizzata grazie alla schiacciante superiorità data dagli arcieri a cavallo. Essi, poggiando il piede sulla staffa metallica, scoccavano le loro frecce all’indietro dalla groppa del cavallo in corsa, e restarono durante questi secoli il simbolo dell’invincibilità dei guerrieri nomadi, terrore di tutto quanto c’era di civilizzato, sia in Cina sia in Occidente. Uno dei meriti principali del governo mongolo fu la conservazione della Cina, al contrario di quello che ci si aspetterebbe da un popolo che usava ridurre le terre conquistate in pascoli per i loro pony . Sebbene per molte cose l’amministrazione mongola fu un disastro, la riluttanza per l’impiego di cinesi colti nella gestione del sistema portò a una crescita eccezionale della cultura. Per esempio, l’Opera Cinese è un’invenzione di quest’epoca. Inoltre, il tentativo di spiegare come mai la dinastia Song non era riuscita ad arginare i barbari portò alla crescita e al predominio del Neoconfucianesimo, una branca del Confucianesimo nata durante la dinastia Song e notoriamente conservatrice (se non spiccatamente reazionaria). La storia della dinastia Yuan ruotò attorno alla figura di Khubilai Khan, figlio del celeberrimo Gengis Khan. La morte di Gengis Khan avvenne nel 1227, di ritorno da una spedizione nell’India. Aveva condotto una prima campagna contro l’impero fin nel periodo 1211-15, giungendo a distruggere la capitale e a devastare i territori. Per il momento, egli comunque decise di rivolgersi verso ovest, dove molti erano ancora i nemici che gli insidiavano il potere. Dopo la sua morte l’impero venne diviso in quattro Khanati, quello del Turkestan, quello della Persia, quello della Russia e infine quello dell’Asia orientale, che spettò al suo terzo figlio Ogodai. Sotto costui fu iniziata l’organizzazione delle zone conquistate nel settentrione, valorizzando il talento di elementi che però non erano più nomadi. Fu questo il caso di Yelii Chucai, il quale seppe con la sua opera convincere il Khan che i metodi di distruzione e rapina applicati sino ad allora dai mongoli non erano più validi in una società sedentaria. Tutta la Cina settentrionale infatti era stata ridotta in uno stato pietoso dalle continue rapine e requisizioni che i capi mongoli attuavano senza ritegno. La tendenza dei mongoli a trasformare i campi coltivati in pascoli per il bestiame a lungo andare avrebbe condotto alla rovina le popolazioni, che già cominciavano a vagare in bande senza controllo per le campagne. Yelii seppe mostrare che si poteva fare qualcosa di più redditizio dal punto di vista mongolo che non la riduzione a pascoli delle fertili vallate del Fiume Giallo. Di fatto a questo punto la rapina assunse forme più civilizzate, in quanto i prelievi avvennero per via legale, attraverso le tasse, le imposte e l’istituzione di monopoli statali del sale, dell’aceto, del vino e dei minerali. I mercanti venivano tassati sul volume degli affari, mentre i sacerdoti e i templi venivano esentati da qualsiasi pagamento e prestazione. L’amministrazione venne centralizzata con l’istituzione di un organo centrale presieduto dal Khan. Era quindi stato realizzato il primo compromesso tra i due modi di vita completamente differenti. I Jin furono definitivamente sconfitti nel 1234, con la morte del loro ultimo sovrano, grazie ad un’alleanza tra i mongoli e i Song meridionali. Dopo di ciò però i rapporti tra mongoli e cinesi peggiorarono e molte delle riforme di Yelii vennero abrogate. La corruzione divampò a causa della riscossione delle tasse che veniva affidata ai mercanti, in maggioranza musulmani, i quali nulla avevano da invidiare in fatto di rapacità. Il risultato fu che la situazione interna peggiorò decisamente e l’inimicizia tra conquistatori e conquistati si accrebbe notevolmente. Mongka, succeduto a Ogodai, intraprese nuove campagne di conquista verso il sud, sottomettendo il regno Dai di Nanchao la cui popolazione emigrò andando a fondare l’attuale Tailandia. I mongoli, all’apice della loro forza espansiva, si spinsero fino al Vietnam settentrionale. Di fatto ora il regno dei Song meridionali si trovava di fronte dei vicini ben più pericolosi dei Jin. I mongoli con le loro campagne verso sud avevano ormai accerchiato lo Stato. La conquista vera e propria dei Song fu differita solo per motivi di successione, in quanto il fratello minore di Mongka, che si trovava al sud, dovette correre a Karakorum per affermare la sua successione al trono vacante di suo fratello. Egli si chiamava Khubilai (si trova con grafie diverse a seconda del metodo di traslitterazione) e sarebbe diventato uno degli imperatori più potenti della storia cinese. Già da tempo il sud della Cina, governata dai Song meridionali, da zona quasi incolta e poco popolata si era trasformata in un vero giardino, con belle città e una popolazione colta e intraprendente. C’era un contrasto significativo tra il nord spopolato e ridotto in miseria e questa parte, in cui si coltivava il riso e si potevano ottenere più raccolti all’anno. Ma anche qui si palesava quel problema innato alla civiltà sedentaria: la difficoltà di governo e la corruzione dell’apparato statale. La guerra contro i mongoli aveva richiesto molti fondi, spremuti dai sudditi dell’impero. Per di più l’evasione fiscale da parte dei grandi proprietari era la norma; tanto che si dovette ricorrere all’esproprío forzato di gran parte di essi. Queste riforme furono applicate soprattutto nella ricca provincia del Zhejiang. Queste riforme però provocarono grande impopolarità al governo e gli alienarono le simpatie della classe dirigente, sia tra i grandi proprietari che tra i militari. Una grossa emissione di carta moneta, a cui non corrispondeva più una ricchezza effettiva, servì a provocare un’inflazione e un’insicurezza senza pari. Khubilai, una volta eletto Gran Khan, si trovò di fronte uno Stato pieno di contraddizioni politiche ed economiche, che non era neppure in grado di cogliere l’occasione di un’alleanza, che egli era in un primo momento disposto a concedere. Ma nonostante queste debolezze la conquista della Cina meridionale non fu affare da poco per i nomadi mongoli, i quali dovettero aver a che fare con la rigogliosa vegetazione e gli acquitrini meridionali, dove il cavallo era di ben poca utilità. Nonostante la Cina meridionale fosse molto più vicina al centro della potenza mongola degli imperi dell’Asia occidentale, ci vollero parecchi decenni prima che fosse ridotta all’impotenza. Nel 1276 Hangzhou, capitale dell’Impero Song, fu conquistata dal generale mongolo Bayan e membri della corte furono portati prigionieri a Pechino. Più tardi anche Canton venne sottomessa e la flotta fatta prigioniera. Gli ultimi superstiti cercarono inutilmente salvezza nel mare. Una fine tragica di una dinastia brillante, sebbene non scevra da debolezza e corruzione. Intanto già del 1271 Khubilai aveva assunto il titolo dinastico di Yuan, che significa «principio primo» o «origine». Contrariamente ai suoi predecessori, Khubilai Khan cercò di instaurare una politica di intesa nei confronti della popolazione cinese, circondandosi di consiglieri e di amministratori non mongoli, sia cinesi che musulmani, i quali per l’amministrazione erano senz’altro più capaci dei suoi connazionali. Ci volle del tempo prima che i mongoli prendessero familiarità con i principi elementari dell’amministrazione, anche se bisogna dire che essi dimostrarono senz’altro un grande talento pure in questo campo. Essi dovettero alla fine convincersi che se l’impero era stato conquistato a cavallo, non poteva continuare ad essere governato a cavallo. Non poterono che ereditare il sistema amministrativo istituito dai Tang e dai Song. Le attività governative vennero ripartite in sei ministeri, con una Cancelleria centrale che costituiva il vertice della amministrazione civile, affiancata da un Ufficio per gli affari militari e da un Ufficio dei censori. Le province vennero subordinate alla Cancelleria centrale e vennero fatte corrispondere a delle regioni naturali. In ogni provincia c’erano dei distaccamenti militari mongoli che servivano a far rispettare le direttive centrali. La frattura etnica e culturale esistente tra i due popoli era praticamente insanabile, nonostante gli sforzi della corte di Khubilai. I mongoli continuavano ad avere le loro preferenze culturali, si vestivano di pelli, si cibavano principalmente di latte, di formaggio ed erano ghiotti del latte fermentato, il kumys. Non usavano lavarsi, come retaggio della vita della steppa, dove l’acqua è scarsa e preziosa, o tutt’al più si lavavano con l’urina. La donna presso di loro aveva una maggiore libertà, il che scandalizzava i cinesi. Dal meridione più evoluto e colto veniva un disprezzo particolare per i barbari mongoli; un disprezzo che non si estinse mai e che fu la causa di molte sedizioni e rivolte (tutt’ora la cucina cinese, che pure è la più varia del mondo, è praticamente priva di formaggi e latticini, che vengono ancora concepiti come un cibo primitivo, barbaro). I mongoli dovettero ricorrere ai servigi degli stranieri, che in questo periodo raggiunsero in Cina un numero considerevole. Ciò contribuì non poco a quel sentimento di xenofobia che sarà d’ora in poi caratteristica cinese. Si vennero così a creare delle stratificazioni sociali rigidamente delimitate, alla cui sommità stavano ovviamente i mongoli conquistatori. Il fatto stesso che potessero circolare dei libercoli in cinese, dove gli oppressori venivano disprezzati e derisi era segno non già di una possibilità di critica quanto di un totale disinteresse della classe dominante nei confronti dei cinesi. Si cercò di ripristinare gli esami di Stato, basati sui classici confuciani; ma l’iniziativa non riscosse molto successo. Ai meridionali veniva attribuito un testo più difficile che al nord, e dopo tutto nessun letterato confuciano riuscì a raggiungere cariche molto importanti. In religione, i mongoli furono molto tolleranti. Inizialmente avevano seguito la predicazione nestoriana; ma poi furono conquistati dal buddismo nella elaborazione tibetana lamaista, che presentava tratti in comune con le forme religiose mongole originarie sciamaniste, ma ammisero per gli altri qualunque tipo di religione. Favorirono per i cinesi una rinascita taoista e lo sviluppo del buddismo Cha’an (Zen). Di questo periodo è lo sviluppo in Cina del teatro e del romanzo (letteratura). Seppero creare un regime culturale cosmopolita. Il commercio ebbe grande incremento sotto gli Yuan, grazie anche ai commercianti musulmani. La capitale venne ingrandita e diventò l’attuale Pechino, per rifornire la quale venne esteso il sistema fluviale del Gran Canale dal Fiume Giallo fino a Pechino, chiamata anche Khanbaligh, la Cambalik di Marco Polo. Dopo la morte di Khubilai, avvenuta nel 1294, si incominciano a scorgere i segni del declino di questa gloriosa e movimentata dinastia: lotte e intrighi di corte; inflazione causata da troppa emissione di carta moneta; calamità e devastazione nell’area agricola settentrionale e del fiume Yangzi. Nel periodo mongolo, come in parte durante i Tang e i Song, la Cina si aprì all’influenza delle grandi civiltà occidentali. Durante questo periodo molti viaggiatori occidentali poterono viaggiare con relativa sicurezza negli immensi territori dominati dai mongoli. Dall’Occidente ci furono parecchie strade che portavano in Cina, una dalla Russia, una dalla Persia e una dall’India. Il più famoso di questi viaggiatori fu l’italiano Marco Polo, che seppe raccogliere le cose che aveva visto nel suo famoso libro Il Milione. Altri viaggiatori europei furono i missionari mandati dal Papa per convertire i cinesi. Fra essi abbiamo Giovanni dal Pian dei Carpini, Giovanni da Montecorvino, Odorico da Pordenone e Giovanni dei Marignolli. Probabilmente comunque furono i musulmani coloro che più a fondo conobbero la Cina: il racconto di viaggio più diffuso è quello di Ibn Batuta nel 1325-’35. Per i viaggiatori da parte cinese non abbiamo molte notizie, anche se è probabile che molti siano stati i vagabondi spinti da curiosità nelle contrade dell’impero mongolo. In questo periodo molte conquiste tecniche della civiltà cinese raggiunsero l’Occidente, quali la porcellana, la polvere da sparo, la stampa, la carta moneta, i tessuti, le carte da gioco. Il servizio postale mongolo, che poteva esercitarsi da un punto nell’Estremo Oriente fino all’Europa tramite un sistema puntualissimo di cavalli da posta con ricambi e stazioni, fu una delle istituzioni più rinomate del periodo. Nonostante questo cosmopolitismo, la cultura tradizionale conservò gelosamente il suo retaggio e le sue caratteristiche, tanto da attirare nel suo ambito letterati di provenienza straniera che ne vollero imitare i modi e le tecniche. Fu un periodo di trapasso, in cui si affermarono delle tendenze decisive. Il teatro fiorì nelle maggiori città, destinato ad un pubblico più colto, ed i suoi temi trattano il contrasto, tra le passioni umane e i sentimenti di pietà filiale o di fedeltà coniugale. Lo svolgimento dell’azione teatrale era accompagnato dalla musica; mentre gli atti e i movimenti diventarono simbolici e stereotipati. A causa dell’emarginazione dei letterati, i quali si vedevano preclusa ogni possibilità di carriera pubblica, andò sviluppandosi un nuovo tipo di espansione artistica: il romanzo. Il linguaggio adoperato era meno elevato che nelle opere d’arte del passato, anche in considerazione della destinazione sociale di esso. Il letterato cercava ormai di usare la propria cultura per dilettare una cerchia più o meno ampia di conoscenti, che non era più la corte imperiale. La stessa condizione sociale dei protagonisti dei romanzi è significativa; si tratta di uomini di bassa estrazione, di militari. L’anonimato era una regola di tali romanzi, anche perché si aveva vergogna di manifestare la propria identità. Possiamo quindi dire che in questo periodo i letterati si avvicinano di più al popolo cinese, a causa della loro emarginazione dalla cerchia della classe dominante. Nell’arte si affermò un genere di pittura che possiamo definire letterario e i paesaggi erano un oggetto preferito. In questo periodo si affermarono i maggiori paesaggisti cinesi, come Ni Zan. Nel 1368, con la conquista di Pechino da parte di Zhu Yuanzhang fondatore della dinastia Ming, terminò la dinastia Yuan. A partire dal 1340 le rivolte antimongole si erano moltiplicate in tutte le province cinesi. Come accadde in tutti i periodi interdinastici, i pretendenti al trono si combattevano tra di loro, mentre lottavano contro i mongoli. Ma anche i generali mongoli si facevano la guerra l’un l’altro indebolendosi a vicenda. La dinastia Yuan non resistette all’urto delle forze di Zhu, animato dal nazionalismo. Ming (1368 – 1644) E quindi vennero i Ming. I Ming si distinsero dalla media degli altri regnanti per essere più grassi, più pigri e più cattivi. Dopo che il primo imperatore Ming scoprì che il suo Primo Ministro complottava contro di lui, non fu decapitato solo il Primo Ministro, ma anche la sua intera famiglia e tutti quelli anche remotamente in connessione con lui. Solo in relazione a questo caso furono decapitate 40.000 persone (no, non è un errore di stampa). Erano anche dei virulenti neoconfuciani. Per dar giustizia ai Ming, comunque, bisogna dire che fecero anche cose positive. Fra tutte, spostarono la capitale a Pechino, e inoltre edificarono la Grande Muraglia (quella che si vede nelle cartoline e nelle foto infatti è stata costruita, se si esclude qualche ritocco in era comunista, quasi completamente sotto i Ming). Poi, costruirono la Città Proibita, e diedero Macao ai Portoghesi.. Le due figure storiche più importanti furono l’imperatore Yongle e il navigatore Zheng He: di entrambi parliamo più sotto I mongoli, che occupavano la Cina del nord dal 1234, si erano impadroniti della totalità del sud soltanto nel 1279. Dalla metà del XIV secolo ebbero luogo svariate sommosse e, dal 1368, uno dei capi ribelli, Zhu Yuanzhang fondò a Nanchino, nella regione liberata, il nuovo Impero Ming. Per la prima volta un’insurrezione popolare portava alla creazione di una dinastia. Ma la Cina era sconvolta dalle guerre e dalla precedente occupazione mongola. Adottando il nome di regno di Hongwu, il fondatore intraprese una gigantesca opera di ricostruzione economica; fece creare un catasto generale dell’Impero e censire la popolazione. Questo straordinario contadino era diventato monaco per necessità, poi capo di una banda di briganti, con il nome di Zhu Yuanzhang. Alla fine, questo malandrino finì per far crollare la dinastia mongola Yuan per salire lui stesso al trono di Nanchino. Il suo regno fu caratterizzato da grandi purghe e processi politici. D’altronde Hongwu inaugurò un tipo di potere rigido, autoritario e dispotico. Ormai il governo centrale agiva in segreto, aveva rotto i ponti con la popolazione; questa scissione sarà ulteriormente accentuata quando il potere centrale si trasferirà a Pechino (1409), una città decentrata, nel nord, mentre invece la parte più importante delle attività economiche e umane del paese aveva come nucleo il basso Yangzi. In vita, Hongwu aveva trascurato e ignorato il figlio più giovane - il futuro Yongle - e designato come successore al trono il figlio del suo primogenito, il giovane Jianwen. Tre anni dopo il suo avvento al trono, nel 1402, Jianwen venne spodestato dallo zio, Yongle. Il giovane sovrano decaduto fuggì cercando rifugio tra i boschi, e non fu mai ritrovato dalla polizia imperiale. Per sicurezza, Yongle sterminò intere famiglie di sostenitori del nipote, i legittimisti. Yongle merita di essere annoverato tra i più grandi sovrani, perché il suo nome resta strettamente legato alla città di Pechino, che gli deve molto. Ovunque, nella capitale e nei dintorni, spunta il suo nome. D’altronde, questo sovrano guerriero ebbe una concezione ampia e ambiziosa del proprio ruolo, e si rivelò anche un ottimo amministratore, oltre che un abile capo militare, anche se in effetti era una specie di usurpatore, essendo figlio secondogenito di quel terribile “parvenu” Hongwu, di cui abbiamo parlato prima. Nel giro di alcuni anni di regno a Nanchino, intorno al 1409, Yongle decise di trasferire la capitale a Pechino. Ne fissò e disegnò lui stesso il piano grandioso. La costruzione della città imperiale richiese un intero decennio (1410-1420) e si sviluppò intorno alla “Città Proibita”, ovvero il Palazzo imperiale. Yongle fece anche ampliare i laghi che sono disposti a rosario immediatamente a ovest di tale complesso. La collina artificiale, detta del Carbone, fu costruita con i materiali di sterro provenienti dai chilometri di fossati scavati intorno alla Città proibita. Sono opera sua anche vari giardini, nonché il Tempio del Cielo e dell’Agricoltura. Tutta Pechino reca il suo sigillo. Le famose ed enormi statue monolitiche di marmo bianco della celebre “Via Sacra”, il viale situato all’entrata della necropoli Ming, a nord di Pechino, sono sempre datate nel periodo del suo regno. Il vigore e la forza dei mandarini civili o guerrieri che si affrontano al termine di questo viale trionfale, suppliscono all’assenza di spiritualità e di interiorità che li caratterizza. E insediandosi a Pechino, una città vulnerabile e fredda, lontana dal fiume Giallo e all’immediata portata dei barbari delle steppe, città che del resto inizialmente era stata fondata e costruita da questi ultimi - i Kitat, i Djurtchet, poi i Mongoli di Khubilai e gli Yuan - Yongle intendeva far precisamente sapere che a sua volta, e in senso opposto, anche lui aveva delle pretese nei loro riguardi, genti delle steppe, e che intendeva ricostituire l’impero mongolo per il proprio tornaconto. Ed effettivamente avrà una politica aggressiva ed espansionistica nei loro riguardi. In cinque riprese invierà spedizioni fin nel cuore della Mongolia, contro i Tartari a oriente, contro gli Oirati più a occidente, o contro i nomadi delle regioni dell’Amur. Ma di fatto si trattò di iniziative senza futuro. Tuttavia alimentò sapientemente le rivalità che opponevano i vari clan mongoli. D’altronde spinse le sue attività diplomatiche fino in Giappone, in Asia centrale e nell’Asia sud orientate. Durante il regno di Yongle, la Cina riacquistò i confini dell’epoca Yuan e si estese in buona parte dell’attuale Vietnam (Annam del nord e Tonchino). Ma una guerriglia estenuante e costosa, tra il 1406 e il 1427, lo costringerà a mollare l’osso e a ritirarsi (1428). Per quanto riguarda la politica interna, Yongle istituì un codice penale e affidò incarichi di ambasciatori o soprintendenti dell’esercito a un numero considerevole di eunuchi. Buddista convinto, protesse e incoraggiò gli studi dei confuciani. Tra il 1403 e il 1407, fu iniziata la stesura di una enciclopedia che compilava 11.095 opere antiche di ogni genere. Durante il periodo in cui Yongle era imperatore, ebbero luogo i famosi viaggi marittimi dell’ammiraglio Zeng He, un eunuco musulmano dello Yunnan che solcò i mari del sud fino al 1433, bordando le coste dell’India, dell’Indonesia, del Mar Rosso (Aden, Hormuz) e navigando fino e quelle dell’Africa orientale. Con 62 navi che trasportavano 28.000 uomini, la prima delle sue sette spedizioni, nel 1405, aveva come scopo, oltre al raggiungimento di obiettivi diplomatici, culturali e commerciali, quello di “raccogliere curiosità destinate a divertire la corte”, come le zebre, le giraffe e gli struzzi che furono portati. Con un secolo di anticipo sui portoghesi che giungeranno a Canton nel 1516, i cinesi dimostravano quanto fossero progrediti in materia di navigazione. Un anticipo reso possibile grazie alla costruzione di giunche di alto mare con attrezzatura e velature che permettevano di navigare di bolina. Tali avventure restano un caso isolato, perché i cinesi non ebbero mai una vocazione marittima sebbene fossero eccellenti marinai - e la politica “universalistica” di Yongle restò senza futuro. Gli studiosi conservatori della corte non videro l’importanza di tali viaggi. Per la prima volta nella storia, la Cina tornava indietro, aggrappandosi a una scorretta interpretazione di una filosofia fuori moda. Tuttavia il periodo di Yongle fu l’apogeo della potenza marittima cinese Dopo di lui, la dinastia Ming resterà al potere ancora per 220 anni, senza che si distinguano forti personalità tra i suoi successori. “La cricca degli eunuchi generò sovrani mediocri - scrive lo storico René Grousset - e governò a loro nome”. Per la maggior parte si trattò di furfanti, di debilitati depravati, vittime degli eunuchi e degli intrighi di palazzo. Nel corso del XV secolo, davanti a una nuova pressione mongola, venne rafforzata la Grande Muraglia, ma a partire dal 1573 si trovò un “modus vivendi” con i mongoli. A quel tempo la minaccia della pirateria giapponese era ben più grave; imperversava sulle coste fino alla stessa isola di Hainan e diventò un vero e proprio flagello al quale del resto contribuirono molti cinesi. Nel XVI secolo vennero introdotte nuove piante (alcune di origine americana): l’arachide, il granoturco, la patata dolce, che modificarono un po’ le abitudini alimentari della popolazione. Questa sperimentò un relativo miglioramento nella propria esistenza, in particolare nel XVI secolo, ma la situazione si aggraverà nel secolo seguente. Una grande crisi politica tra i funzionari e gli eunuchi scosse il regno di Tianqi (1620-1627), mentre lo Stato andava in fallimento a causa delle folli spese della Corte e dei pesanti salari versati a eserciti pletorici di mercenari. Grandi insurrezioni furono il risultato dell’aumento disumano delle imposte. Da nord-est spuntò un nuovo pericolo: tribù Jurchen si infiltrarono in Manciuria e iniziarono ad assumere un atteggiamento minaccioso. Comunque è soltanto nel 1635 che comparirono sotto il nome di Mancesi e cominciarono ben presto la conquista dell’Impero Ming. I grandi romanzi risalgono alla dinastia Ming. “Sul bordo dell’acqua”, il “Romanzo dei tre regni”, il “Viaggio in occidente” di Xi you ji (che narra le celeberrime storie di una scimmia divina e di un monaco: da allora in poi una costante del folklore cinese e giapponese, anche ai nostri giorni), il satirico ed erotico “Jin Ping Mei” (così intitolato per i nomi di tre personaggi femminili), e altri romanzi lunghi, riabilitano letterariamente l’epoca Ming, generalmente screditata perché piuttosto ricca di romanzi edificanti e all’”acqua di rose”. Anche la pittura ha fama di essere eclettica, manierata; imitava le opere ispirate dei pittori della dinastia Song, con tecnica perfetta e virtuosismo strabiliante. In difesa dell’epoca Ming citeremo tuttavia l’arte dei giardini privati; si trattò inoltre del loro periodo migliore. Pechino, Yangzhou, Hangzhou e soprattutto Suzhou hanno conservato qualche ritaglio esemplare di questi meravigliosi giardini, pezzetti di natura miniaturizzata, veri e propri microcosmi, oasi di pace, creazioni fragili ed effimere che esemplificano la raffinatezza dei loro creatori e dei loro proprietari. Infine, non si può parlare dei Ming senza ricordare le ceramiche “Blu e bianche”, porcellane prodotte in gran parte a Jingdezhen, nel Jiangxi, vera a propria metropoli della ceramica. Durante la dinastia Ming comparirono i primi segni della decadenza dell’arte cinese, ma si trovavano ancora perle rare e meravigliose creazioni, più spesso nelle arti minori. La nascita della Cina moderna Qing (Manciù) (1644 – 1911) Nel 1644, i Manciù presero il controllo della Cina e fondarono la dinastia Qing. Come gli Yuan, anche i Qing non erano cinesi, e all’inizio fecero persino pesare questa diversità, arrivando a imporre il codino a tutta la popolazione, pratica che in seguito svanì divenendo solo simbolo di appartenenza all’etnia Manciù o alla corte imperiale. Un esempio cinematografico: nel film western “Pallottole cinesi” Jackie Chan infatti, da servitore dell’imperatore manciù, ha un rapporto di sacralità col suo codino. Il famoso “Ultimo Imperatore”, le cui vicende sono state narrate nell’omonimo capolavoro di Bernardo Bertolucci, fu quel bimbo salito sul trono a due anni, Pu Yi, che concluse la dinastia mancese dei Qing. I fatti storici più importanti di questo periodo furono la rivolta dei Taiping, quella dei Boxer, e la Guerra dell’Oppio, di cui parleremo più diffusamente. I Qing non furono i peggiori governanti; sotto il loro governo le arti e la cultura fiorirono (il più famoso romanzo cinese, “Il sogno della camera rossa”, fu scritto in questo periodo). In particolare, cercarono di copiare le istituzioni cinesi con un’estensione maggiore degli Yuan. Però, nel loro emulare la cinesità, divennero ancora più conservatori e inflessibili dei Ming. Il loro approccio alla politica estera, che consisteva nell’imporre a tutti la visione dell’imperatore come Figlio del Cielo e di non permettere alle altre nazioni di essere alla pari della Cina, fu sempre stigmatizzato dall’Occidente, anche quando era la Cina a non essere in torto (come durante la Guerra dell’Oppio, che coinvolse La Gran Bretagna, Hong Kong e Kowloon). Vivere durante la dinastia Qing significava vivere in un’era alquanto interessante. Prima di tutto, il mondo occidentale cercò di prendere contatto su una base governo-governo e, almeno all’inizio, fallì. I Cinesi (o meglio i Manciù ultraconservatori) non avevano posto, nel loro modo di vedere il mondo, per l’idea di nazioni egualitarie e indipendenti (e questa visione, da un certo punto di vista, persiste anche oggi). C’era il resto del mondo, e quindi c’era la Cina. Non che i Qing rifiutassero l’idea di una comunità di nazioni; semplicemente non riuscivano a concepirla. Era come cercare di spiegare a un monaco buddista il Padre il Figlio e lo Spirito Santo. Questa mentalità era talmente radicata che i pochi riformisti che osarono stringere accordi con l’Occidente furono accusati di essere “Occidentali con faccia Cinese”. Gli altri problemi che afflissero la tarda dinastia Qing (dal 1840 in poi) includevano corruzione rampante, un’immobile decentralizzazione del potere, e il fatto sfortunato che i Qing stavano perdendo il controllo su troppi fronti contemporaneamente. Le ribellioni spuntavano come funghi dopo un acquazzone, culti apocalittici minavano quel poco di autorità ufficiale che era rimasta. Molte delle ribellioni, come quella dei Taiping, si avvicendarono a brevissima distanza. Come se non bastasse, c’era anche l’accapigliarsi dei vari riformatori su come meglio combattere il caos e l’Occidente (non necessariamente in quest’ordine); col senno di poi, era chiaro che tutto il sistema stava lentamente collassando. Il comportamento delle potenze occidentali verso la Cina (Inghilterra, Russia, Germania, Francia, e gli Stati Uniti furono, più o meno, i comprimari) fu stranamente ambiguo. Da una parte, fecero del loro meglio per abolire tutto ciò che ritenevano restrittivo per lo scambio commerciale e le regole governative; il migliore (o il peggiore, secondo i punti di vista) esempio di questo fu il contrabbando inglese dell’oppio nel sud della Cina. Su questo interessantissimo periodo storico consiglio la lettura dell’appassionante romanzo “Tai Pan”, capolavoro di James Clavell, che narra la nascita di Hong Kong. Altri esempi includevano il diritto per le navi straniere di navigare i fiumi cinesi, e l’extraterritorialità (ossia se un cittadino britannico commetteva un crimine nella Cina Qing, doveva essere sottoposto a un processo in un tribunale inglese sotto leggi inglesi). Tutta questa serie di “diritti” fu sancita in alcuni trattati che finirono per essere conosciuti, giustamente, come “Trattati Iniqui”. Dall’altra parte, fecero di tutto per alleviare le sofferenze dei Qing, aiutandoli a sedare svariate rivolte, soprattutto quelle dei Taiping e dei Boxer. Tra le molte insurrezioni, la formidabile rivolta dei Taiping produsse un’epoca stranissima: il governo pseudo comunista di parte della Cina sotto il nome di “Regno celeste della Grande Pace”, negli anni 1850-1864. Questo periodo lasciò un’impressione profonda sui cinesi. Da allora gli storici continuarono ad appassionarsi a quest’epopea sanguinosa e a quest’esperienza socialista eccessivamente precoce, che finì male. Nel maggio-giugno 1979, non meno di 260 esperti, tra cui alcuni stranieri, si sono riuniti a Nanchino - effimera capitale dei Taiping - per discutere, in un convegno, i meriti comparati dei vari e principali protagonisti di questo movimento rivoluzionario fallito. D’altronde, non dimentichiamo che tale scossone interferì con altri gravi avvenimenti che si tradussero tutti nella disgregazione della dinastia e del potere Manciù; lo Stato, verso la fine dell’episodio, venne “raccolto” da una concubina, la futura imperatrice Cixi. Nel corso di quegli anni, infatti, le guerre dell’Oppio ebbero come conseguenza l’intervento armato degli inglesi e dei francesi, intervento caratterizzato dallo scontro sul ponte di Palikao e del sacco del Palazzo d’Estate (1860). Nel corso di quegli anni, attraverso questa breccia aperta, le potenze occidentali e giapponese si precipitarono letteralmente a confiscare gran parte dell’economia del paese. È necessario ricordare tali avvenimenti, se si vuole capire lo straordinario movimento rivoluzionario dei Taiping, che con circa sessant’anni d’anticipo riuscì quasi a rovesciare la dinastia manciù dei Qing. Con l’approssimarsi del 1850, la Cina stava attraversando una grave crisi: uno sviluppo demografico galoppante, calamità naturali, una miseria straziante, la corruzione dei mandarini, e l’influenza smobilitante e insidiosa dei missionari cristiani; tutto ciò fece il gioco delle molteplici società segrete. Tuttavia, la famosa rivolta dei Taiping, che riprendeva il mito millenarista del II secolo che annunciava l’avvento del Regno della Grande Pace - o Taiping - non fu la diretta conseguenza dell’opera delle società segrete. Fu dovuta a un illuminato, inizialmente solo, che seppe trascinare dietro di sé una folla di sfortunati e di disperati. Il capo dei Taiping era Hong Xiuquan, messia, taumaturgo e annunciatore di un nuovo “millennio”. Era impastato di un cristianesimo sommario e approssimativo, mescolato al taoismo e a certi aspetti del buddismo. Sognatore, ma sicuro del fatto suo, nutriva una certa diffidenza nei confronti delle società segrete (oggi le chiamiamo “Triadi”). Tuttavia queste cercheranno il suo appoggio, una dopo l’altra, man mano che il suo movimento si allargherà, abbracciando gran parte della Cina. Queste società segrete non avevano intenzione di lasciarsi “sorpassare” da un mistico avventuriero che riusciva laddove loro avevano tutte fallito. Si solleveranno, ma in ordine sparso. Nella corrente degli anni 1850, molte di loro tentarono di legarsi al movimento Taiping, a questi Adoratori di Dio che volevano instaurare in Cina il rigido “Regno Celeste”. Ma, per mancanza di un’intesa reale e di una buona coordinazione, tutti questi movimenti fallirono e, dopo aver retto per undici anni nella sua capitale, Nanchino, Hong Xiuquan, il “Fratellino più giovane di Gesù” come si faceva chiamare, finì per suicidarsi, a 51 anni, ingerendo delle lamine d’oro. In un paese rovinato, ridotto all’osso, in preda al dubbio, la rivoluzione fu affogata nel sangue e l’esperienza si chiuse con varie decine di milioni di morti. Tuttavia, questo scossone dei Taiping sarà il punto di partenza dei movimenti rivoluzionari cinesi del nostro secolo, e Mao stesso ammetteva di esservisi ispirato. Chi era questo Hong Xiuquan? Come riuscì a sollevare nel sud una vera e propria Crociata di pezzenti che infervorò quasi tutta la Cina? Gli storici sostengono che il movimento si sarebbe impadronito di circa 600 città. Certamente aveva di fronte un giovane imperatore, appena salito al trono (1851), Xianfeng. Questi venne cacciato dalla propria capitale (1860) dalle truppe francoinglesi a morì a Jehol-Chengde, il 22 agosto 1861, a soli trent’anni. Marcio a pieno di vizi, sembra. Hong Xiuquan, il ribelle, era un Hakka della regione Cantonese, rimasto profondamente turbato dai ripetuti fallimenti agli esami per accedere alla carica di mandarino. Soffriva di crisi con sintomi nevrotici, ed era gravemente addolorato per essere stato respinto dal sistema confuciano a cui si era dedicato completamente. Nel corso di queste crisi sembra che abbia avuto due visioni. Nel 1837, a 24 anni (in pieno periodo romantico, in Europa), ebbe una rivelazione: sosteneva che in Cielo, dove si era recato (!), gli avessero sostituito tutti gli organi interni. Là, il Padre celeste l’aveva incaricato di combattere l’idolatria e di instaurare il Regno della Salvezza sulla Terra, e gli aveva consegnato una spada e un sigillo, intimandogli di cacciare i Manciù. Da quel momento si presentò pubblicamente come l’inviato di Dio, “nuovo Salvatore”, e “Fratellino più giovane di Gesù Cristo”. Gli erano capitati tra le mani volantini di propaganda protestanti e opuscoli, mediocri traduzioni dei due Testamenti. Queste letture lo spingeranno a recarsi a Canton nel 1846, per studiare la Bibbia più da vicino. Un missionario battista americano, Issachar Roberts, si spaventerà di fronte allo spirito esaltato del suo allievo e rifiuterà di battezzarlo. Ma nel frattempo, dopo un quarto fallimento agli esami (1843), aveva iniziato ad atteggiarsi a Messia. Al tempo stesso apostolo e militante, sosteneva di essere in grado di guarire miracolosamente, e garantiva ai suoi compatrioti del Guanxi orientate, a ovest di Canton, che i cristiani erano i discepoli del vero Dio, la divinità cinese (Shangdi), il Sovrano Supremo, l’Antenato Universale che dà all’imperatore il suo mandato celeste e che è anche noto per il fatto di comparire in sogno ai mortali. Nulla accade o può essere fatto senza il volere di Shangdii. Quindi Hong lo fece coincidere, con la massima naturalezza, con il Dio dei cristiani. Predicando così la Buona Novella, Hong aveva radunato in tre anni circa 30.000 adepti, contadini miserabili, battellieri e portatori disoccupati, disertori, briganti, Hakka e altri membri delle minoranze aborigene del Guangdong (provincia il cui capoluogo è Canton) e del Guangxi, la provincia vicina, a ponente, e a partire dalle quali il movimento si sarebbe esteso rapidamente verso est, nelle province del Medio e del Basso Yangzi (fiume Azzurro). Al suo ritorno da Canton, tornò a occuparsi dell’associazione che aveva fondato con i suoi discepoli, gli “Adoratori di Dio”. Questa comunità religiosa iconoclasta se la prendeva con il “culto degli idoli”, vera e propria “manifestazione demoniaca”. Le autorità cominciavano a inquietarsi per le loro azioni da commando nei templi, ma ormai la setta aveva preso il via e passò all’insurrezione. Nel 1851, Hong Xiuquan instaurava il Regno celeste e fondava la propria dinastia, proclamandosi Re del Cielo! Nel 1852, la regione di Guilin, poi Hankou (l’attuale Wuhan), Changsha a tutto il MedioYangzi erano in mano ai Taiping. L’anno dopo cadeva Nanchino, che venne battezzata Tianjing, la “Capitale del Cielo”, e che sarebbe rimasta loro capitale per circa dodici anni. Quindi venne annesso anche il Basso Yangzi. A Nanchino Hong Xiuquan costruì dei palazzi e stabilì la propria corte, in cui spesso i giovani fratelli avranno un ruolo nefasto. I ministri e i generali, spesso uomini notevoli e di talento, erano gelosi l’uno dell’altro e si odiavano. Hong conferì loro il titolo di “Figli di Dio”, e fissò per ciascuno, a seconda del rango, il numero di spose e di concubine che poteva avere. Insomma, ricreò a Nanchino l’organizzazione imperiale di Pechino. Tuttavia la poligamia e il concubinaggio erano proibiti al popolo e l’adulterio, il divorzio e la prostituzione erano puniti con la morte! Dall’ottobre del 1853 il suo esercito di accattoni, i “banditi dai capelli lunghi”, raggiunse Tianjin e ben presto minacciò Pechino, ma per la mancanza della cavalleria e di una certa decisione dovette ritirarsi e tornare indietro. Lo spavento fu notevole. Per dieci anni, Hong si sforzerà di fare applicare il proprio programma rivoluzionario, di tendenze socialiste, egualitario e mistico (spesso d’ispirazione protestante), puritano, nazionalista e antimancese. Esaminiamolo più da vicino. Stranamente, la morale comunitaria predicata da Hong si riferiva al tempo stesso ai Dieci Comandamenti del cristianesimo monoteista, ai suoi dogmi e ai suoi concetti riguardanti il peccato, il pentimento e la remissione, nonché alle idee egualitarie ma feudali della Grande Armonia di Confucio. Con pugno di ferro, Hong tentava d’imporre uno Stato teocratico e militarizzato, e riforme sociali, importanti per la loro portata e audacia. Furono così condannati lo schiavismo, la proprietà fondiaria, la poligamia (tranne per i capi), il concubinaggio, il commercio privato e il mercantilismo, la divinazione, la geomanzia, la stregoneria, i giochi d’azzardo, l’alcool, il tabacco e l’oppio. Inoltre, Hong proclamò l’uguaglianza tra i sessi, sia al lavoro che in guerra. L’usanza di atrofizzare i piedi delle bambine venne abolita, e le giovanette vennero irreggimentate in eserciti femminili, comandati da donne. Del resto, fu l’intera popolazione che venne organizzata in falansteri, in raggruppamenti paramilitari, all’interno dei quali ci si chiamava “fratello” e “sorella”, come oggi viene usato il titolo di “compagno”. In questa specie di comunismo agrario ante litteram, i beni di consumo, le terre, le ricchezze furono messe in comune, ma i sessi, invece, erano... rigorosamente separati. Il matrimonio monogamo dipendeva interamente dal benestare delle autorità. Così, questo movimento era al tempo stesso rivoluzionario, puritano, austero, virtuoso, femminista, comunista – nessuno poteva possedere beni in proprio – collettivista e tuttavia religioso, dato che gli individui dovevano obbligatoriamente partecipare alle funzioni religiose settimanali, e in tal modo ormai erano severamente inquadrati. Non scordiamo che il potere conservava una base teocratica, dato che Hong aveva ereditato da Shangdi il mandato Celeste. D’ispirazione al tempo stesso cristiana, comunista e confuciana, il movimento fu anche notevolmente nazionalista, anti-mancese e anti-mandarini. I capelli venivano portati lunghi e sciolti, non più raccolti nell’odiosa treccia che era stata imposta dai Manciù dal XVII secolo. E si assistette al risveglio del nazionalismo Han, diretto contro l’occupante. Si tentò di organizzare militarmente l’intero paese in drappelli, pattuglie, battaglioni, reggimenti, divisioni (di 2.500 uomini per 13.156 famiglie!) ed eserciti di 125.000 uomini. Di fatto, soltanto la regione intorno a Nanchino venne sottoposta a questa formidabile mutazione delle strutture sociali e culturali. Ma si sarà capito che un secolo più tardi, Mao attinse moltissimo dai temi dei Taiping. Indubbiamente la stupefacente rapidità dell’avanzata dei Taiping, l’espansione repentina e trionfante di questa ribellione, si spiegano con la grande miseria del popolo, le umiliazioni subite, le grandi inondazioni del fiume Giallo che, ancore una volta, aveva appena cambiato il corso del suo letto e ormai si gettava a nord della penisola dello Shandong e non più a sud, creando al suo passaggio terribili devastazioni e portando con sé milioni di cadaveri. Contemporaneamente il potere languiva e perdeva la propria dignità di fronte alle potenze europee che accorsero a spartirsi la preda indebolita. Il paese scricchiolava e ben presto si assisterà a sommosse su vari fronti: a ovest i musulmani e nel nord della Cina i ribelli Nian, fomentati dalla società segreta del Loto Bianco. Quando morì nel 1861 l’imperatore lasciò un figlio che aveva appena quattro o cinque anni, nato dalla concubina Yehonala, figlia di un membro della piccola nobiltà Manciù. Questa si proclamerà imperatrice (Cixi) e si accaparrerà il potere. Lo conserverà per circa cinquant’anni, fino alla sua morte, nel 1908. Ma, dopo il successo degli anni Cinquanta, il vento cambierà direzione per i Taiping. A partire dal 1860 le truppe governative partirono alla riconquista dei territori insorti, che del resto sono le province più ricche dell’Impero. Di fatto, questo sussulto del potere non era affatto partito dall’occupante Manciù, fortemente criticato e minacciato, né dal governo centrale di Pechino, ma della classe dei mandarini, dei letterati, i sostenitori dell’amministrazione delle province che erano spaventati dai saccheggi, dalle distruzioni, dagli attentati all’ordine stabilito e soprattutto dall’audacia delle riforme. I mandarini vedevano con stupore crollare la totalità del loro universo. Per di più, il paese cominciava ad essere stanco della distruzioni sistematiche, dato che molti templi, ricchi d’opere d’arte, erano stati rasi al suolo. E la guerra civile mieteva ogni giorno nuove vittime. Sostenuto dalla piccola nobiltà provinciale e dai mandarini, il generale e letterato Zeng Guofan (1811-1872), alla testa di un esercito confuciano dello Hunan, partì per primo alla riconquista del paese. La svolta venne effettuata nel 1862, quando i Taiping minacciarono Shanghai, diventata la principale città magazzino delle potenze internazionali, un porto che i ribelli fino a quel momento avevano volutamente “ignorato”. Anche gli occidentali finora avevano finto d’ignorare la guerra civile e Hong, l’agitatore, che tuttavia pretendeva di instaurare un certo “cristianesimo” nel paese. Aveva perfino lanciato loro degli appelli. Alcuni avventurieri, mercenari come gli americani Ward e Burgevine, erano arrivati al punto di raggiungere l’esaltato Hong. Ma l’occidente optò per i propri interessi particolari e prestò man forte alle truppe governative; truppe francesi e inglesi, dal 1860, furono messe a disposizione del potere manciù. Il colonnello Gordon (1833-1885), detto “il cinese” e, più tardi, in Egitto, “Gordon Pacha”, si contraddistinse in questa spedizione. Nanchino, cinta d’assedio, cadde il 19 luglio 1864. I suoi 100.000 difensori furono massacrati senza pietà. Davanti allo sfacelo, Hong si suicidò (come si è detto, ingerendo lamine d’oro), ma il suo cadavere verrà riesumato, tagliato a pezzi e bruciato. Nel corso delle ultime settimane, i suoi disordini mentali si erano aggravati e, come Sardanapalo, viveva in reclusione, nell’harem, in mezzo alle sue donne. In quanto ai collaboratori, discordia, lotte intestine e litigi li avevano neutralizzati e paralizzati. Del resto, anche loro vivevano nel lusso mentre imponevano sobrietà a indigenza ai propri “sudditi”. Per di più, le loro truppe si trovavano in svantaggio per l’assenza della cavalleria. Tuttavia, per due anni, nel Fujian continueranno ancora dei combattimenti nelle retroguardie, e alcuni Taiping, sfuggiti ai massacri, costituiranno i famosi Padiglioni Neri che si batterono contro i Francesi in occasione della conquista di Tonkino. Bilancio: varie decine di milioni di morti. La provincia del Jiangsu, quella di cui Nanchino è capoluogo, dovette venir ripopolata con emigranti dall’Hubei, tanto era stato dissanguata totalmente. Incalcolabili distruzioni. Centinaia di città distrutte. Un paese esangue e rovinato, sollevazioni che si diffondevano come un contagio in tutto il paese. Ma anche fermenti rivoluzionari che, dopo qualche decennio di torpore risorgeranno all’inizio del nostro secolo e porteranno all’attuale regime che presenta tante similitudini con quello dei Taiping. Un’altra rivolta fu anche il più famoso esempio di collaborazione fra Occidente e Cina: quello del soffocamento della ribellione dei Boxer nel 1900 da parte degli occidentali. Il nome dei Boxer comparve in Occidente alla fine del 1899. Veniva usato per designare i membri di una società segreta, nata dalla famosa società del Loto bianco, che reclutava milizie dalle campagne, nel nordest della Cina, principalmente nella regione del Hebei-Shandong. Veniva anche chiamata Società per la Giustizia e l’Armonia, ma esistono anche altre designazioni o traduzioni, come “Il Pugno della Giustizia e della Concordia”, “la Società del Pugilato giusto e armonioso”, o ancora “le Milizie della Giustizia e della Concordia”. Tra di loro si chiamavano Yi hetuan. Rifiutavano di usare le armi da fuoco, preferendo le armi bianche, e si dedicavano a un’arte marziale fondata su esercizi di scherma e di lotta tradizionale, una boxe rituale, sacra, da cui derivava il loro nome. Sottoposti all’autorità di giovani medium o maghi, si allenavano e, ingenuamente, si erano lasciati convincere che la loro boxe e i loro amuleti li avessero resi invincibili e refrattari alle pallottole. La grande maggioranza veniva reclutata tra i contadini o i battellieri: da quando si era diffusa la navigazione a vapore, migliaia di piccoli proprietari di giunche erano stati rovinati e stavano vivendo un dramma. Avevano inoltre iniziato a odiare il potere mancese, che accusavano di essere in combutta con gli occidentali, quei “demoni stranieri”, o di sottomettersi a loro per debolezza, fatto che ai loro occhi risultava altrettanto offensivo. I più deleteri, secondo loro, erano i missionari che convertivano al cristianesimo alcuni di loro, ma provavano un odio ancora maggiore nei confronti dei rinnegati fratelli cinesi. Solidamente stabiliti nel nordest della Cina, come abbiamo già detto, fino dal 1899 i Boxer iniziarono a prendersela con le missioni straniere. Nel giugno 1900 le potenze occidentali reagirono organizzando a Tianjin una spedizione di quasi 2.000 uomini. Comandata dall’ammiraglio inglese Seymour, partì in treno il 10 giugno, diretta a Pechino; la spedizione avrebbe dovuto garantire la sicurezza dei residenti stranieri in quella città. Il 13 giugno, alcuni contingenti di Boxer entrarono a Pechino e si unirono ai gruppi che si erano già formati nella città. La sera stessa, in seguito a delle provocazioni dei soldati americani, incendiarono alcune chiese e massacrarono dei cristiani. Pechino diventò il centro del movimento. Ma i Boxer erano padroni anche di Tianjin; irruppero Nello Henan, nello Shanxi, in Mongolia Interna, nel Nord-Est. Terrificata dall’ampiezza del movimento, l’imperatrice Cixi supplicò il corpo diplomatico di fermare la marcia di Seymour, assicurando che le truppe imperiali avrebbero protetto le legazioni contro i Boxer; d’altro lato, inviò alcuni dignitari fedeli perché convincessero i Boxer a disperdersi tranquillamente. Il 16 giugno gli ammiragli europei, che da due giorni avevano perso i contatti con Seymour a causa dell’interruzione della linea telegrafica e temevano che i dispositivi militari cinesi a Dagu potessero impedire loro di inviargli soccorsi, ingiunsero ai comandanti dei forti di Dagu di arrendersi nelle ventiquattro ore successive. L’indomani gli alleati attaccavano i forti e li conquistavano. L’operazione, assolutamente inutile perché gli alleati avrebbero potuto far sbarcare altrove le truppe, aggravò la situazione. Nonostante gli ordini ricevuti, l’esercito cinese si schierò contro gli stranieri: la sera stessa la guarnigione di Tianjin attaccò le concessioni straniere; le truppe imperiali sbarrarono la strada a Seymour, che fu costretto a rientrare a Tianjin. Quando il 19 giunse a Pechino la notizia della cattura dei forti, l’emozione popolare si fece intensa. A Corte, la fazione conservatrice dei Manciù guidata dal principe Duan, il cui figlio era stato appena nominato principe ereditario, ne approfittò per far presente a Cixi che gli stranieri volevano metterla da parte e restituire il potere a Guangxu (l’imperatore “deposto”). I dignitari che ella aveva incaricato di negoziare con i Boxer l’incoraggiarono ad aver fiducia in questi. L’imperatrice allora invitò i ministri stranieri a lasciare Pechino nelle ventiquattro ore, garantendo loro la sicurezza fino a Tianjin. Il corpo diplomatico perse però ogni fiducia allorché, la mattina del 20 giugno, venne ucciso il ministro tedesco barone von Ketteler. Nel pomeriggio, le truppe cinesi aprirono il fuoco contro le legazioni. L’indomani, il 21 giugno, con un editto di Cixi venne dichiarata la guerra contro le potenze. Ritiratisi nel quartiere delle Legazioni, a sudest della Città proibita, i residenti stranieri organizzarono la propria difesa con i pochi soldati incaricati della sicurezza delle Legazioni, e con l’aiuto di un vecchio cannone che risaliva ancora al tempo dei gesuiti. Resistettero accanitamente per varie settimane e si salvarono soltanto grazie all’arrivo, il 14 agosto, di un secondo contingente internazionale, questa volta più nutrito. Per due mesi, a Pechino il quartiere delle legazioni, dove, insieme ai 473 civili stranieri (di cui 149 donne e 79 bambini), si erano rifugiati oltre 3000 cristiani cinesi con i loro servitori, fu difeso da 451 guardie straniere (un gruppo proveniente da Tianjin era riuscito ad arrivare poco prima: 75 francesi, 75 britannici, 75 russi, 50 americani, 40 italiani e 25 giapponesi).All’angolo opposto della Città proibita, a nordovest, a ponente del parco Beihai, ci fu un altro focolaio di resistenza, ancora più eroico, quello della cattedrale cattolica di Beitang, dove Monseigneur Alphonse Favier, vicario apostolico di Pechino, si trincerò con alcuni membri della comunità cristiana cinese (circa 3.500 persone), sotto la protezione di 43 marinai francesi e italiani, comandati dal sottotenente di vascello Paul Henry, di 23 anni. Avevano da difendere un perimetro di 1.360 m, e lo fecero quotidianamente, per due mesi! Bisogna dire che, per quanto terribili possano essere il fuoco continuo, il completo isolamento dal mondo esterno, le condizioni igieniche deplorevoli e la penuria di viveri e munizioni, gli assediati di Pechino vennero in un certo senso risparmiati. Ronglu, che aveva il comando supremo di tutte le forze armate della Cina settentrionale ed era convinto che la politica della Corte portasse alla rovina, rifiutò agli assedianti l’uso delle armi moderne, in particolare l’artiglieria, la quale avrebbe polverizzato ogni resistenza. Nell’assedio persero la vita 76 combattenti e 6 bambini stranieri e qualche centinaio di cristiani cinesi; le perdite furono ben più gravi per gli assedianti. Ma nelle province del Nord-Est vennero sterminati dai Boxer, in modo spesso atroce, più di 200 missionari cattolici e protestanti e 32.000 cristiani cinesi. Per tutta la durata dell’assedio, i diplomatici della Corte di Pechino rassicurarono i governi stranieri sulla sorte delle legazioni, facendo comprendere che Cixi era prigioniera dei Boxer. Tuttavia, le notizie allarmistiche che giungevano dalla Cina del Nord, la pressione dell’opinione pubblica sobillata dalla stampa e dalle comunità religiose, il timore di veder annullati, senza alcun compenso per l’avvenire, i risultati acquisiti in mezzo secolo di penetrazione economica e politica, indussero i governi stranieri a mettere da parte le rivalità e a unirsi per un intervento armato Questa volta il corpo di spedizione fu costituito per l’intervento di Guglielmo II e affidato al maresciallo tedesco von Waldersee; vi presero parte truppe europee (tedesche, austriache, italiane, inglesi, francesi e russe), ma anche americane e giapponesi. Ai primi di agosto, i contingenti internazionali (16000 uomini) si concentrarono a Tianjin e il 14 agosto entrarono a Pechino, liberando le legazioni e la cattedrale di Beitang, mentre Cixi, travestita da contadina, con la sua corte, fuggì fino a Xi’an (nello Shaanxi). Da li negò la propria responsabilità e tentò di accreditare la tesi di un’insurrezione popolare spontanea e incontrollabile. Nel settembre 1901, sarà costretta a firmare il pesante “Protocollo dei Boxer”. All’entrata del contingente a Pechino ebbe inizio una carneficina e un saccheggio sistematici che superarono di gran lunga tutti gli eccessi commessi dai Boxer. Gli edifici reali, i templi più maestosi, i più sontuosi palazzi furono saccheggiati e divennero alloggio per le truppe. Le banche e i numerosissimi Monti di Pietà furono ripuliti dai reparti che conoscevano meglio la città, e quindi sapevano bene dove mettere le mani. Per molti giorni Pechino fu solo un gran traffico di carretti pieni di argento e mercanzie pregiate. La moneta cinese si svalutò così tanto che per una sola sterlina i soldati davano 40 e anche 50 taels d’argento, dato che non si potevano trasportare i pesanti sacchi d’argento. Gli stupri e le violenze varie e donne e ragazze non si contavano neppure. Sembrava il sacco di Roma. Un’analoga situazione si produsse a Tianjin e a Baoding. Spedizioni “punitive” vennero intraprese nelle zone rurali dello Zhili, dove i missionari erano stati attaccati; i soldati stranieri bruciarono interi villaggi e non risparmiano nulla. Tale cieca repressione sarà un terrore per il futuro nazionalismo cinese, a cui conferì i primi martiri. II Protocollo dei Boxer impose alla Cina una pesante indennità (450 milioni di tael, pagabili in oro in trentanove annualità), garanzia per il ripristino delle dogane, che del resto erano già in mano agli occidentali dal 1859. Le somme venivano prelevate alle dogane, direttamente dagli occidentali; la dipendenza della Cina nei riguardi degli occidentali era completa. Il quartiere delle legazioni, al centro della capitale, venne ingrandito e vietato ai residenti cinesi; esso fu posto sotto il controllo permanente delle truppe straniere, al pari di dodici punti sulle vie di accesso da Pechino al mare. Inoltre il principe Duan fu mandato in esilio nel più profondo della Cina, a 4.000 chilometri dalla capitale, nella zona di Kashgar. Vari responsabili del massacro di Pechino furono “autorizzati dall’imperatrice a suicidarsi”. Qua a là caddero altre teste. Comunque, piuttosto impressionate dalle insurrezioni dei Boxer e dagli avvenimenti precedenti, le potenze straniere moderarono ormai le loro pretese territoriali sulle province cinesi, ma non certo i propri appetiti commerciali, sebbene le loro esigenze si facessero più discrete. Perché, bisogna ammetterlo, a parte il fallimento dei battellieri, a cui si è già accennato, la rivolta dei Boxer ebbe comunque delle cause più profonde, anche se relativamente recenti. Non erano stati risparmiati gli abusi e le umiliazioni a questo popolo fiero che da alcuni decenni stava attraversando una grave crisi economica e terribili carestie. Nell’agosto 1884, l’ammiraglio Courbet bombardò l’arsenale di Fuzhou, bloccò Formosa, mentre la Francia confiscava l’Indocina, un protettorato cinese. Nell’aprile del 1895, persero la Corea, e Formosa venne ceduta ai Giapponesi. Tra il 1896 e il 1902, la Germania, la Russia, l’Inghilterra e la Francia si insediarono autoritariamente nella maggior parte delle città attive dell’Impero e formarono delle “aree d’influenza”, protette e difese da contingenti militari, solidamente stanziati in “territori in affitto”. La Francia si riservò le tre province sud occidentali (Sichuan, Yunnan e Guangdong) vicine al Tonchino, e disponeva inoltre del porto di Guangzhouwan. Nei quattro angoli della Cina vennero prese in concessione miniere, messe in cantiere ferrovie. Il commercio principale, le fabbriche, le banche, le dogane erano per lo più in mano agli europei. Si capisce quindi il soprassalto di orgoglio nazionale di un popolo consapevole della grandezza della sua civiltà, e il suo smarrimento, la sua collera, davanti a questo smembramento in piena regola, definito dagli storici inglesi “Break-up of China”. Lo scrittore Pierre Loti fu testimone della seconda incursione militare, quella che, nel bel mezzo del 1900, volò a soccorrere gli assediati di Pechino. Ci ha lasciato una specie di reportage estremamente vivace del suo soggiorno in Cina, tra il settembre del 1900 e il maggio del 1901, nel libro “Gli ultimi giorni di Pechino”. Scrive a nome dei sopravvissuti all’assedio, e racconta l’episodio della morte eroica del giovane sottotenente di vascello Paul Henry, già citato a proposito della difesa del settore della cattedrale Beitang: “È rimasto in piedi a lungo, con due ferite mortali, sempre al comando, correggeva il tiro dei suoi uomini. Alla fine del combattimento è lentamente disceso dalla breccia, ed è venuto ad accasciarsi tra le braccia di due dei nostri preti; tutti noi piangevamo, in quel momento”. Più avanti Loti racconta le circostanze della morte del generale tedesco Schwarzhof, nell’incendio accidentale dei suo palazzo, a Pechino: “Non è bruciato tutto il palazzo, ma soltanto la parte superba, quella in cui abitavano lui e il maresciallo (von Waldersee), gli appartamenti dagli innumerevoli rivestimenti in legno d’ebano e la sala dei trono, piena di capolavori d’arte antica”. Fu in occasione della guerra dei Boxer che si diffuse in Europa la celebre idea acquisita del “pericolo giallo”, frase coniata dall’imperatore tedesco Guglielmo II. In fin dei conti i vincitori di questa guerra furono i Russi. Si piazzarono in Manciuria e fecero orecchi da mercante quando i cinesi li invitarono a ritirarsi. Sfruttarono il paese, e in particolare le foreste. Ma i Giapponesi si affrettarono a farli parzialmente sloggiare, mentre a Pechino, impotente, la dinastia manciù stava a guardare, come uno spettatore, mentre questi stranieri smembravano la loro provincia d’origine. Al di là dei motivi immanenti, l’aiuto degli occidentali ai Manciù per combattere prima i Taiping poi i boxer si spiega quindi tenendo conto del fatto che in generale, quello che volevano fare gli occidentali era spezzare la Cina per i propri propositi, e questo, paradossalmente, richiedeva di tenere la Cina unita Se fosse continuata così, la storia avrebbe presumibilmente portato a un completo smembrarsi della Cina in staterelli dipendenti dall’Occidente. Ma due fatti accaddero e prevennero tutto ciò. Primo, nel 1911, la dinastia Qing collassò e la Cina sprofondò a capofitto nel caos. Secondo, nel 1914, l’Arciduca Ferdinando disse al suo autista di imboccare una strada di Sarajevo che non avrebbe mai dovuto imboccare, e l’Europa sprofondò a capofitto nel caos. La Cina repubblicana (1911 – 1949) Il periodo che va dalla caduta dell’ultimo imperatore fino alla costituzione del regime comunista, vede protagonisti Chiang Kai-Shek e Mao Zedong, e i loro rispettivi partiti, il Partito Nazionalista e il Partito Comunista, nonché una guerra contro i Giapponesi. Alla fine, come tutti sappiamo, i Giapponesi furono sconfitti soprattutto a causa dell’epilogo della Seconda Guerra Mondiale, e i Comunisti prevalsero sui Nazionalisti, instaurando il regime tutt’ora in carica. Non prevalsero ovunque: Chiang Kai-Shek e i Nazionalisti si rifugiarono a Formosa e, citando le parole della canzone “Watching TV” di Roger Waters, “la trasformarono in una fabbrica di scarpe chiamata Taiwan”. Tutt’ora Taiwan è, per la Cina, una provincia rinnegata; per il resto del mondo è una provincia cinese molto autonoma, e per i taiwanesi è uno stato sovrano indipendente (se comprate un mappamondo a Taiwan noterete che l’isola è, al contrario delle nostre cartine, di un colore diverso da quello della Cina). Durante questo periodo accaddero svariati e importantissimi fatti, essenziali per capire la mentalità, la politica e la tradizione della Cina odierna: la “Lunga marcia” dei Comunisti, il “Movimento 4 maggio”, le persecuzioni giapponesi... Raccontiamoli brevemente: Durante la Prima Guerra Mondiale, il governo cinese stava con gli Alleati. In cambio, essi gli avevano promesso che le concessioni tedesche nella provincia dello Shangdong sarebbero state restituite alla fine della guerra. Non lo fecero. E, per aggiungere al danno la beffa, il Trattato di Versailles le assegnò al Giappone. Il 4 maggio del 1919, circa 3000 studenti provenienti da svariate università di Pechino si radunarono in piazza Tienanmen per una protesta di massa. Il movimento nato in quel frangente (chiamato appunto il “Movimento 4 Maggio”) fu il primo vero movimento nazionalista cinese e perciò fu di ispirazione a tutti i patrioti, ideologi, partiti cinesi di lì a venire. Gli studenti della “Primavera di Pechino” del 1989 fecero intenzionalmente un parallelo col Movimento 4 Maggio: è tutto più ironico e tragico sapere che il 4 giugno 1989 vivrà invece nell’infamia come il giorno in cui i carri armati entrarono in Piazza Tienanmen. Nel 1920, il dottor Sun Yatsen, leader del Partito Nazionalista (Kwomingtang, detto KMT) accettò l’aiuto dell’Unione Sovietica. Con l’aiuto dei Comunisti, Sun Yatsen riuscì a stringere un’alleanza con l’appena nato Partito Comunista Cinese (CCP), e cominciò a riunificare una Cina assediata dai signori della guerra. Sfortunatamente, Sun morì di cancro nel 1925. La leadership del Partito Nazionalista fu presa da Chiang Kai-Shek. Una volta preso il comando del Partito Nazionalista, Chiang Kai-Shek lanciò la sua famosa “Marcia verso il Nord”, dal Guangzhou a Shanghai. Questa unificò il sud della Cina e, soprattutto, lasciò ai Nazionalisti il controllo dello Yangzi meridionale. Una volta presa Shanghai, Chiang Kai-Shek, a cui non erano mai piaciuti i Comunisti, lanciò il massacro dei membri del CCP. Fra quelli che riuscirono a scampare alla carneficina c’era un giovane comunista chiamato Mao Zedong. I Comunisti furono costretti ad abbandonare le loro basi urbane e trovarono rifugio nelle campagne. Là, le forze nazionaliste (aiutate e coperte da “Consiglieri” tedeschi) cercarono di stanarli, o, con le parole di Chiang, di “eliminare il cancro del Comunismo”. Nel 1934 i Nazionalisti erano sul punto di chiudere il capitolo Comunismo quando, con le tenebre della notte, i Comunisti evasero e cominciarono a correre. Non si fermarono per un anno. Questa fu la “Lunga Marcia”. Quando partirono erano in 100.000. Un anno dopo, quando alla fine si fermarono, avevano attraversato 6000 miglia ed erano rimasti fra 4 e 8000. Parte del problema era che non sapevano dove stavano andando. Partirono dalla provincia del Jiangxi, circa 400km a nordest di Guangzhou. Quindi si diressero ad est, passarono Guilin e arrivarono nella provincia del Yunnan, nel sudovest della Cina. Si sarebbero fermati lì, ma i signori della guerra non erano così felici di averli fra i piedi. Così da Kunming, la capitale del Yunnan, tornarono a nord, passarono Chengdu nella provincia del Sichuan e alla fine si fermarono a Shaanxi, vicino a Yan’an. Da allora, aver fatto la Lunga Marcia fu segno di aristocrazia nel CCP. Deng Xiaoping, fu uno di loro. Dopo la sua morte non sono rimasti in molti nel CCP a essere stati nella Lunga Marcia. Mentre era a Yan’an, alla periferia del potere dei Nazionalisti, Mao Zedong consolidò la sua posizione (aumentata durante la Lunga Marcia) di leader unico della Rivoluzione. Mentre tutto questo stava accadendo, i Giapponesi erano occupati a invadere la Manciuria (da qui infatti ha inizio la cosiddetta “guerra sino-giapponese”). Ciò giovò ai Comunisti, poiché le truppe mandate dai Nazionalisti al nord per contenere e magari eliminare il CCP preferirono di gran lunga impiegare il loro tempo per combattere i Giapponesi. Alla fine del 1936, Chiang Kai-Shek fu rapito dai suoi stessi generali che lo tennero sequestrato finché accettò di dare precedenza alla battaglia coi Giapponesi piuttosto che a quella contro i Comunisti. Nel 1937 i Giapponesi, dalle loro basi in Manciuria, attaccarono la Cina, usando come pretesto il famoso caso “Marco Polo”, una battaglia combattuta sul ponte omonimo (tutt’ora visitabile). I Giapponesi non ci misero molto a occupare le maggiori città costiere e a compiere una serie di atrocità indicibili, persino peggiori di quelle compiute dal Terzo Reich sugli ebrei. Un solo film, realizzato dai cinesi nel 1988, dà una vaga idea di quello che accadde: “Men behind the sun”. Se lo riuscite a trovare (a Hong Kong si può trovare un DVD di buona fattura, senza censure), sappiate che la visione è riservata soltanto a chi ha lo stomaco molto forte. Quando la Seconda Guerra Mondiale finì, nel 1945, 20 milioni di Cinesi erano morti nelle mani dei Giapponesi. Tutt’ora in Cina, e in Asia in generale, è diffusissima un’ostilità incredibile nei confronti dei Giapponesi, sebbene questi negli anni, soprattutto dopo la terribile bomba atomica che li annientò, siano cambiati moltissimo, diventando un popolo molto pacifico e adorabilmente rispettoso. Ad alimentare questo risentimento, che alle nostre orecchie suona come vero e proprio razzismo, ha contribuito moltissimo sia l’isolamento mediatico che insieme alla propaganda comunista cinese non ha fatto altro che accusare i Giapponesi per tutti i problemi della Cina e ha sostanzialmente censurato tutto ciò che di buono e di diverso è venuto dal Giappone dal dopoguerra a oggi, sia il fatto inconfutabile che, mentre gli orrori nazisti sono stati ampiamente e giustamente ricordati ed esecrati da tutti, sui disumani e abominevoli crimini giapponesi è calato un colpevolissimo silenzio da parte di noi occidentali. Sfuggendo dai Giapponesi, il governo nazionalista si spostò da Chongqing fino a Nanchino, navigando il fiume Yangzi. Nel 1939 la Seconda Guerra Mondiale cominciò. All’inizio ebbe poco effetto sulla Cina, visto che i Giapponesi non erano coinvolti nella guerra europea. Ma dopo l’attacco dei Giapponesi a Pearl Harbour nel 1941, i loro sforzi maggiori furono mirati a combattere gli Statunitensi più che i Cinesi. Dopo che gli Americani entrarono in guerra, i Comunisti cominciarono a consolidare il loro controllo sul nord della Cina, preparandosi furbamente all’inevitabile guerra civile che sarebbe ricominciata qualora i Giapponesi fossero stati sconfitti. I Nazionalisti, al contrario dei Comunisti, erano disorganizzati e corrotti, problemi che a guerra finita si sarebbero solo intensificati. Soprattutto, i loro sforzi nel combattere i Giapponesi furono del tutto inutili. Addirittura il Generale americano Stillwell, che era stato mandato in Cina a combattere i Giapponesi, chiese (inutilmente) a Washington di spedire dei rinforzi per i Comunisti. Non che a Stillwell fossero simpatici i Comunisti: semplicemente il CCP, avendo sviluppato tecniche di guerriglia durante la guerra civile, stava solamente facendo un lavoro molto migliore nel combattere i Giapponesi. Come previsto, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la guerra fra Nazionalisti e Comunisti riprese. I Comunisti erano ostacolati dal fatto che i Giapponesi avevano l’ordine di arrendersi solo ai Nazionalisti e non ai Comunisti. Questo comunque non fece una gran differenza: nel 1949, il Partito Nazionalista si sfaldò sotto il peso dell’incredibile corruzione e degli enormi debiti; cercarono di pagare il debito stampando più carta moneta, ottenendo ovviamente l’unico risultato di far arrivare alle stelle l’inflazione. Un errore di un’ingenuità curiosamente grande, lo stesso che i Manciù fecero cinquant’anni prima. Poco prima, nel 1947, l’Italia aveva rinunciato alle sue concessioni cinesi, con il Trattato di pace di Parigi. Nell’ottobre dello stesso 1949, i Nazionalisti (compreso Chiang Kai-Shek) si rifugiarono a Taiwan e Mao Zedong proclamò la creazione della Repubblica Popolare Cinese. Curiosamente, mentre l’Armata Rossa era intenta a riunificare il sud, nessuno si prese la briga di riannettere né Macao né Hong Kong. Eppure sarebbe stato molto facile, e né l’Inghilterra né il Portogallo avrebbero avuto voce in capitolo per protestare. La Repubblica Popolare Cinese (1949 – oggi) Questo periodo, l’ultimo in ordine di tempo, non è semplice da narrare. Prima di tutto, è troppo recente e le ripercussioni sul futuro sono ancora nell’aria, tanto che uno storico non ne ricaverebbe mai un trattato. Poi, c’è il problema della censura: di ciò che è successo in Cina dal ’50 al ’90, più o meno, abbiamo solo una visione distorta dalla propaganda del CCP. Il poco che si sa di certo è soltanto frutto di temerari dissidenti e giornalisti. Certamente di questo periodo dobbiamo isolare almeno quattro avvenimenti fondamentali: la campagna dei “Cento fiori”, il “Grande Balzo in Avanti”, la “Rivoluzione culturale”, la strage di Piazza Tienanmen e infine l’apertura all’Occidente e al capitalismo. Tutto ebbe inizio quando, cacciato Chiang Kai-Shek a Formosa, poi ribattezzata Taiwan, Mao Zedong proclamò la nascita della Repubblica Popolare Cinese, nell’ottobre del ’49, sotto la guida unica del Partito Comunista Cinese. Gli Americani riconobbero la nuova Nazione. Ma l’anno seguente, gli Americani impedirono alla Cina di entrare nell’ONU, che così si rivolse all’Unione Sovietica, firmando un accordo di mutua assistenza e collaborazione, e intervenendo contro gli Americani nella guerra di Corea, che finirà tre anni dopo. A questo punto ebbero inizio le grandi riforme: la legge sulla famiglia, la riforma agraria che distribuiva le terre dei grandi proprietari ai piccoli e medi contadini, la nazionalizzazione del commercio e delle banche, e il primo piano quinquennale, che assegnava priorità all’industria pesante. In questi anni ci fu una grande collaborazione fra URSS e Cina, tanto che gli studenti e i lavoratori andavano a formarsi in Unione Sovietica, che dava alla Cina impianti, aiuti tecnici e finanziari. L’aspetto sovietico anni ’50 di molta della Cina odierna è un retaggio di questi anni. Nel 1954 poi fu approvata la prima Costituzione della Repubblica Popolare Cinese, e nella conferenza afro-asiatica dell’anno successivo, fu la Cina a proporre la coesistenza e il miglioramento delle relazioni con gli Stati Uniti. Tutto quindi pareva andare per il meglio, nel pieno svolgersi dell’utopia comunista, fin quando ci fu il primo scontro con la realtà. Nella primavera del 1956 infatti, il potere stesso avviò una campagna di libera critica, la “campagna dei Cento Fiori”, che però in alcune settimane assunse proporzioni tali da far sì che fosse necessario porvi termine e perfino prendere severi provvedimenti, perché l'ondata contestataria e la denuncia politica del Partito avevano assunto dimensioni e virulenza notevoli. Questo tentativo di liberalizzazione si risolse quindi in un fallimento per il CCP, presto seguito da una delle purghe più spietate attraversate dal paese. Dopo tutto, i sostenitori dell'ortodossia maoista ne uscirono rafforzati, perché il Grande Timoniere non aveva nascosto la propria ostilità nei riguardi di questa liberalizzazione riformista, che aveva scatenato, ma di cui gli era sfuggito di mano il controllo. Con l'immagine dei Cento Fiori si indica un'ardua battaglia, un grande fraintendimento tra il potere e il popolo - e più in particolare gli intellettuali - un episodio d'apertura liberale che fallì. Il 26 maggio 1956, il responsabile del Dipartimento della Propaganda, Lu Dingyi pronunciò, davanti a un'assemblea di scrittori, dei discorsi dalle risonanze liberali, nuove, sul tema che veniva chiamato dei Cento Fiori e che riprendeva l'antico slogan: "Che cento fiori sboccino, che cento scuole rivaleggino", una formula che all'inizio della nostra era aveva avuto molto successo. Tre settimane prima Mao aveva riportato in auge questa allusione storica lanciata dal grande filosofo taoista Zhuangzi (IV - III secolo a.C.) a proposito delle varie scuole filosofiche che fiorivano alla sua epoca, durante il periodo dei Regni Combattenti. Questo discorso liberale e liberatore del 1956 avrebbe avuto una notevole risonanza. Sostenuti da artisti, scrittori e studenti, i piccoli partiti non comunisti che erano stati tenuti a freno, in una sorta di libertà vigilata, per salvare una parvenza di dialogo democratico, "uscirono allo scoperto" e intrapresero una campagna denigratoria che guadagnava una forza sempre maggiore e si diffondeva nell'intero paese. Di fronte a quello che sembrava essere un allentamento nuovo e "inedito" delle pratiche coercitive del potere, agitate riunioni di giornalisti, intellettuali e studenti denunciarono a loro volta gli abusi e gli errori del Partito, abbandonandosi a una critica radicale della gestione economica. D'altronde ognuno denunciò l'assenza di libertà di opinione e di una vera legislazione civile e penale, nonché gli abusi e gli eccessi della "nuova classe dirigente". Mao stesso non venne risparmiato: "le sue collere, il suo orgoglio e la sua impulsività" iniziavano a stancare. Stranamente innescata dal Partito, questa campagna voleva sottolineare tre dei suoi errori: il settarismo, il burocratismo e il soggettivismo. Mao aveva detto, forse un po’ affrettatamente, che "il marxismo è una verità scientifica; non teme la critica e la critica non potrebbe trionfare su di esso". Parole imprudenti; ci si aspettavano delle critiche, certamente, ma sotto forma di "una dolce pioggerella e una brezza leggera" (!). Di fatto si trattò di una marea di biasimo e di ostilità, un diluvio di rimproveri e di forti rimostranze. Un vero e proprio scossone politico che inizialmente lasciò i dirigenti sbalorditi e sorpresi. Nella primavera del 1957 le recriminazioni si fecero sentire in ogni ambiente. All'interno delle amministrazioni, nei giornali, sui dazibao murali, si avvicendavano appelli e manifesti; l'università di Pechino, vera e propria sede dei contestatori, era in fermento, e influenzò ben presto le facoltà di provincia, tra cui quella di Wuhan (nello Hubei), che si distinse in modo particolare per una campagna di dazibao estremamente critica. I dirigenti non si trovavano più ad affrontare una denuncia del dirigismo intellettuale e artistico del partito, vennero proprio messe in discussione la sua stessa autorità e le sue capacità di governo. Davanti a questa rumorosa ondata di ostilità che si infranse contro di loro, le autorità inizialmente non si espressero, immerse in un evidente smarrimento; queste sei settimane deliranti le avevano turbate. Ma la contro offensiva e la reazione non tardarono ad arrivare. Se Mao, il 25 maggio denunciò qualsiasi allontanamento dal socialismo come uno sbaglio e un grave errore, l'8 giugno l'archeologo e storico Guo Moruo se la prese con i "fiori velenosi" di cui bisognava liberarsi, e li contrappose ai "fiori profumati" del socialismo. Dicevano che: "Letteratura e arte, ingranaggi e dadi del meccanismo generale, devono sottomettersi e dare il proprio apporto per concorrere alla realizzazione del compito della rivoluzione". II criterio politico, socialista e collettivista, doveva sempre prevalere sul criterio artistico. E aggiungevano: 'In questo tipo di civiltà non è possibile tollerare l'individualismo, fonte di tutti i mali... I fiori che devono sbocciare sono i fiori del socialismo". Cento fiori, sì, ma "cento fiori socialisti"! II contrattacco, la reazione "contro la destra", fu quindi messa in atto; ai contestatori venne intimato di ritrattare, e perfino di umiliarsi e di chiedere di venir puniti. A centinaia di migliaia, i comunisti e i non comunisti che si erano comportati da "nemici di classe, borghesi di destra", vennero mandati nelle campagne per essere rieducati e per sentire il polso della vita contadina. Centomila persone furono arrestate e venne lanciata un'ampia campagna di rettifica; l'epurazione comportò revoche, sventure e rieducazioni. Tre dei responsabili del delirio all’università di Wuhan furono fucilati. Così, paradossalmente, questo movimento che andava alla ricerca di una liberalizzazione, di fatto aveva come risultato un rafforzamento dell'autorità e della dittatura del Partito, all’interno del quale i “puri e duri”, gli intransigenti, riprendevano in mano le redini meglio di prima. E sarà su basi “risanate” (!) che l'arte e la letteratura dei vent'anni seguenti dovranno svilupparsi. Qualsiasi opera sarà intesa come elemento che concorre all’edificazione del socialismo, e quindi a esaltare e diffondere il materialismo dialettico marxista. Un quadro esaltante... Identificandosi con la massa e con il popolo, l'artista "si sente quindi all'unisono con il Partito e attinge una forza illimitata dalla collettività". Poiché, precisava Lu Dingyi, già citato, "l’arte per l’arte è un errore di destra". Le motivazioni di questa campagna dei Cento Fiori possono essere spiegate dal fatto che si inseriva nel contesto ideologico e politico della destalinizzazione che aveva colto totalmente di sorpresa le autorità cinesi, nonché dal fatto che all'interno esisteva un'effettiva corrente di malcontento generale, del proletariato delle città, dei contadini e anche dell'intellighenzia, dato che da vari anni tutti erano stati intensamente sollecitati e mobilitati dalla collettivizzazione. Deng Xiaoping, che soprintese a questa operazione, ne trasse la morale: "Nel grande problema dei Cento Fiori abbiamo acceso un focolaio per incenerire al tempo stesso i nostri nemici e le nostre debolezze". Significava riconoscere la strana contraddizione e l'equivoco di questo episodio; forse questa risoluzione drastica è stata montata di tutto punto per smascherare meglio gli scontenti o gli oppositori o forse i dirigenti hanno sottovalutato la portata delle critiche di cui erano oggetto, e che per alcune settimane sono stati scavalcati dalla violenza di queste. Ma i grandi errori non erano finiti. Anzi, erano solo cominciati: finito il primo piano quinquennale, ci si stava ancora pian piano riavendo dalla campagna dei “Cento Fiori” quando nel 1958 Mao, che si stava allontanando sempre più da Mosca, lanciò il “Grande Balzo in Avanti”. L’idea era quella di mobilitare le grandi masse contadine per incrementare il raccolto attraverso la collettivizzazione delle fattorie e l’uso del lavoro in eccesso per la produzione di acciaio. Quello che ne risultò fu la più apocalittica carestia creata dall’uomo nella storia. Dal 1958 al 1960, scarsa programmazione e cattiva gestione portarono alla morte per fame di 30 milioni di persone. Ufficialmente, il governo accusò le “avverse condizioni atmosferiche”. Mao Zedong Il "Grande Balzo in Avanti" fu un gigantesco sforzo di produzione collettivo, volto a trasformare l'intera economia del paese e allo stesso tempo a rivoluzionare gli animi, che secondo Mao erano troppo legati al passato. Quest'esperienza doveva mobilitare tutte le risorse e l'intera manodopera del paese, nonché smuovere ogni settore d'attività. Come i grandi stati moderni, la Cina sperava, tramite un terribile sforzo e spinta da un grande slancio ideologico, di sottrarsi alla sua situazione medievale, e alle sue strutture mentali sorpassate, per entrare ormai in un'era di rapida crescita e di prosperità continua. Lo spirito di tale crociata fu definito a Wuhan (nello Hubei), in occasione dell'VIII congresso, nell'inverno 1958, ma il misticismo che l'animava si era sviluppato già dall'inizio dell'anno. Per due anni (1958-1959), l'intera attività fu imposta al ritmo di slogan e di frasi del tipo: "Qualche anno di sforzi a di lavoro per diecimila anni di felicità", oppure "Avanzare con entrambe le gambe", per preconizzare attività abbinate e simultanee. La gerarchia delle priorità economiche venne quindi sconvolta; la prima parola d'ordine fu: “producete acciaio”. Così si assistette all'edificazione, ovunque e fin nel più piccolo villaggio, di migliaia di “altiforni rustici”. Questa campagna fu l'elemento più assurdo di quello che si rivelerà un errore gigantesco, un'aberrazione collettiva che in molti casi allontanò i contadini dalle campagne, dato che quasi tutti erano impegnati a produrre un acciaio che ormai non si sapeva più come utilizzare. E, viceversa, gli abitanti delle città e gli studenti venivano mandati nei campi sotto la parvenza di una pretesa "esaltazione spontanea". Di fatto nella maggior parte dei casi vi venivano condotti militarmente. Nelle comuni si partiva al lavoro con tamburi e ottoni in testa, con vessilli al vento, slogan continuamente recitati pappagallescamente da altoparlanti disseminati fin nelle più piccole risaie. L'esodo degli abitanti delle città verso i campi aveva come obiettivo riconosciuto la correzione di una certa “distorsione socioeconomica”: lo sviluppo della classe dei tecnici, piuttosto frondista, staccata dai contadini, e tuttavia sempre massicciamente maggioritaria, in Cina, indispettiva i puri del Partito. Ritenevano che un'immersione nella vita di campagna non potesse che fare loro del bene. È nell'agosto del 1958 che furono create le famose Comuni popolari: 26.000 di queste unità (nel 1980 se ne contavano esattamente il doppio) furono incaricate di sostituire, previo raggruppamento, 730.000 cooperative giudicate troppo deboli e inefficaci; diventarono delle “Squadre di produzione”. La Comune popolare doveva essere la struttura, la leva e l'agente principale di questa auspicata trasformazione dei mezzi di produzione, ma anche degli animi e del modo di vita. Fu necessario un ridimensionamento. Dopo i prime notiziari che cantavano vittoria, nel 1958, si palesò rapidamente la delusione e si dovette ammettere che l’intero apparato produttivo era disorganizzato e traballante. Tanto più che, effettivamente, questo periodo rivoluzionario coinciderà, tra il 1959 e il 1961, con calamità naturali (invasioni di cavallette, inondazioni, siccità, ma che comunque non furono di certo la causa prima del disastro), e con il ritiro dell'aiuto economico e tecnico dei sovietici, dai quali la Cina si stava nel frattempo allontanando. Fu una catastrofe. Le vie ferrate erano bloccate da convogli di carbone e di minerali alla ricerca di un normale scorrimento. Neppure la produzione d'acciaio trovava un mercato o un equilibrio armonico. La popolazione, spossata e cotta dal dubbio, si interrogava sulla sensatezza di quest'orgia di attività, di questa frenesia produttiva da cui risultava ormai chiaro come si stesse girando a vuoto. La produzione cerealicola precipitò pericolosamente: 205 milioni di tonnellate nel 1958; 150 nel 1960, mentre nel 1980 è stata di 320 milioni di tonnellate e nel 1985 di 380 milioni di tonnellate. Si morì di fame a milioni. Ben presto venne inoltre dato ordine di frenare i ritmi di lavoro, insopportabili o inopportuni, o ancora di concedere ai contadini alcuni "stimoli materiali", come diritti sull'ambiente, la concessione di piccoli terreni individuali, e l'autorizzazione ad allevare qualche capo di bestiame minuto a livello domestico, per esempio. Si trattava di una rinuncia lacerante e dell'ammissione di un fallimento perché, come abbiamo già detto, il Grande Balzo in avanti oltre ad ambizioni di decollo economico, aveva l'obiettivo di strappare i cinesi alla loro mentalità millenaria, ai gusti, alle tradizioni e alle abitudini ancestrali. Si era creduto di cambiare i presupposti stessi della società: il regime era convinto che le strutture familiari e paesane, troppo radicate nel passato ed eccessivamente limitate, frenassero il progresso e quindi il decollo economico. Indubbiamente quest'esperienza fu preparata male e intrapresa con eccessiva precipitazione, ma l'autorità carismatica di Mao Zedong si mantenne enorme e non venne intaccata. Il fatto è che questa impreparazione avrà come conseguenza la durevole disorganizzazione del paese e che l'intera vita nazionale ne risulterà perturbata per alcuni anni. A partire dal 1962, dopo l'inizio dei riordinamento del 1960-1961, si accettò di riconoscere il fallimento di quest'esperienza comunale; ma non tutti furono autorizzati a dirlo e alcuni, per questo motivo, persero il posto o il grado, come il prestigioso e scomodo maresciallo Peng Dehuai, che aveva espresso dei dubbi sull'efficacia dell'esperienza, a Lushan, nell'agosto del 1959. “Il capofila degli esponenti di destra perse il suo mandarinato”, scrive Jacques Guillermaz e Mao Zedong stesso, di fronte al fallimento, nel dicembre 1958 dovette cedere la Presidenza della Repubblica a Liu Shaoqi. Fra le vittime illustri del Balzo ricordiamo il Dalai Lama, costretto a rifugiarsi in India nel ’59. Dal ’62 in poi il protagonista fu lo sgretolarsi dei rapporti con l’Unione Sovietica e il lento riaversi dal “Grande Balzo in avanti”. La Cina sembrava stesse per riprendersi: diventò autosufficiente per il petrolio, fece orgogliosamente a meno degli aiuti sovietici dichiarando che l’agricoltura era la base dell’economia, si buttò in un conflitto di frontiera con l’India, fece esplodere la sua prima bomba atomica, e pubblicò il celeberrimo “Libretto Rosso dei Pensieri di Mao”. Naturalmente, non fece a tempo a riaversi, che un’altra “meravigliosa” idea stava per abbattersi sul povero, martoriato popolo cinese: nel 1966, spinto dalla sua quarta moglie, Mao lanciò la “Grande Rivoluzione Culturale Proletaria”. Le origini della Rivoluzione Culturale sono vaghe, ma probabilmente scaturite, in parte, dal crescente dissidio fra Mao e il resto del CCP. Mao ordinò agli studenti di sradicare usi e mentalità borghesi, e gli studenti lo fecero: le Università e le scuole vennero chiuse, furono istituite le "Scuole del 7 maggio" per una rieducazione dei funzionari attraverso studio-lavoro, nacque il Movimento delle Guardie Rosse. La Cina piombò nell’anarchia. Non solo le scuole chiudevano: anche gli uffici e i trasporti furono smembrati. Le vestigia del passato e le monumentali opere d’arte della Cina imperiale vennero colpite da furia iconoclasta (ora le cose più importanti sono state restaurate, ma moltissimo è andato perduto in quegli anni). Fu un periodo tremendo, tanto che a tutt’oggi siamo ben lontani dal sapere esattamente che cosa accadde. In termini di caos, sangue e distruzione si può paragonare alla Rivoluzione Francese; le unità di Guardie Rosse finirono per combattersi l’un l’altra per avere la supremazia. Nell’estate del 1967, ci furono rivolte di massa anche a Macao e a Hong Kong (se ne può vedere una buona rappresentazione all’inizio del famosissimo “Bullet in the head” di John Woo). Una delle ragioni per cui Mao fu capace di concepire e di attuare una cosa come la Rivoluzione Culturale, fu che ormai Mao stava diventando un Imperatore. Anzi, Mao stesso si paragonava spesso al Primo Imperatore della Cina. Un’altra ragione fu il supporto dell’Esercito di Liberazione Popolare, capitanato da un generale chiamato Lin Bao. Durante gli anni gloriosi della Rivoluzione Culturale, Lin divenne molto vicino a Mao e fu designato come legittimo discendente. Lin era inoltre incaricato della costruzione del “culto della personalità” di Mao. Ma dopo il 1969 la posizione di Lin cominciò a deteriorarsi, e svanì nel 1971. Lin morì probabilmente in un incidente aereo in Mongolia, mentre la versione ufficiale dice che stava volando in Russia. Molti pensano che in realtà fu fatto assassinare da Mao. Probabilmente nessuno saprà mai che cosa accadde veramente, in quanto i due interessati principali della vicenda (Lin e Mao) si sono portati i loro segreti nella tomba. Mentre la Rivoluzione Culturale chiudeva i battenti “ufficialmente” nel 1969, e con lei i peggiori abusi, l’atmosfera politica generale non cambiò fino alla morte di Mao nel 1976. Deng Xiaoping, che fu epurato per ben due volte durante la Rivoluzione Culturale (la prima all’inizio, l’altra poco prima della morte di Mao); alla fine emerse come capo supremo nel 1978, e lanciò prontamente il suo programma di riforma economica. Le azioni di Deng, inizialmente si limitarono a riforme agricole, partite prima in poche aree e poi allargate pian piano al resto della Cina. Uno dei suoi motti preferiti era “Non importa se il gatto è bianco o nero, l’importante è come cattura i topi”. Questo era in diretto contrasto con l’ideologia degli anni di Mao, in cui uno degli slogan era “Meglio Rosso che Esperto” che significa, in pratica, che ideologi assolutamente incompetenti venivano messi a capo di progetti che richiedevano tecnici esperti. Nel 1982 Margaret Tatcher, allora Primo Ministro britannico, andò a Pechino per incontrare Deng Xiaoping. Parlarono soprattutto di Hong Kong. Quando la Tatcher se ne andò, il Regno Unito e la Repubblica Popolare Cinese avevano firmato un accordo che restituiva Hong Kong alla Cina. Nel 1984 fu firmato un trattato ufficiale che prende il nome di “Joint Declaration”. Il popolo di Hong Kong non fu mai consultato sul proprio futuro. Hong Kong è luogo di molti fatti ironici, e la sua restituzione alla Cina è certamente uno di questi. Gran parte della gente che fece divenire Hong Kong l’incredibile città che è oggi, era in quei territori perché scappava dai Comunisti. E adesso si ritrovava con lo spettro di dover ritornare sotto il loro governo. Gli Hongkonghesi così fortunati da avere la cittadinanza britannica non avevano comunque il diritto di vivere in Gran Bretagna. E quelli che avevano il passaporto speciale per Hong Kong (BNO, British National Overseas) avrebbero dovuto cambiarlo in passaporto della Repubblica Popolare Cinese nel 1997. In fondo, ci sarebbe stata una qualche perversamente poetica giustizia nel fatto che Hong Kong, che nacque grazie a iniqui trattati, sarebbe morta a causa di un altro iniquo trattato. Per fortuna le cose non andarono così tragicamente: nel 2001 si era già creato il passaporto speciale “Hong Kong S.A.R.” (S.A.R. sta per “Special Administrative Region”) e il sistema economico, sociale e soprattutto politico di Hong Kong rimase sostanzialmente immutato. Hong Kong acquisì una specie di indipendenza controllata e soprattutto mantenne la libertà di opinione e di stampa, nonché i diritti umani. Ma torniamo alla Cina: come le riforme partirono, il problema delle riforme politiche cominciò a venire a galla, sospinto dagli eventi che stavano accadendo in Unione Sovietica e nell’Est Europeo. I nodi vennero al pettine in Piazza Tienanmen, in maggio, nel 1989. I leader del Partito Comunista videro la manifestazione degli studenti come un attacco al loro potere, e il 4 giugno decisero di annientarla. Ufficialmente, morirono 200 dimostranti. Il bilancio reale fu molto più alto, ed è probabile che non si saprà mai quanti morirono quel 4 giugno. Dopo il 4 giugno, il progresso e le riforme in Cina si fermarono per tre anni. Ma nel 1993 Deng Xiaoping, in una delle sue maggiori apparizioni pubbliche, fece un giro nella “Zona Speciale Economica dello ShenZhen” (la zona del sud della Cina confinante con Hong Kong) ed enfaticamente diede la sua approvazione. Dopodiché, la Cina ebbe un’esplosione economica senza precedenti nella storia dell’umanità. Uno degli sviluppi recenti più significativi è stata la morte di Deng Xiaoping, il 19 febbraio del 1997, proprio l’anno del passaggio di Hong Kong alla Cina. Anche se Xiaoping era molto tempo che non svolgeva attività politica e anche se non appariva in pubblico da tre anni, le morti dei grandi capi della Rivoluzione hanno sempre avuto un impatto sconvolgente nella politica cinese. È ancora troppo presto per giudicare il suo successore, ma per ora si nota un clima di indubbia tendenza all’apertura, lenta e graduale, anche ai diritti umani e alla libertà.