LIVIO ANDRONICO --- Taranto III sec. A.C. --Vita. Primo intellettuale e letterato romano. I limiti cronologici esatti della vita di L. ci sono sconosciuti: sappiamo soltanto che era un ex schiavo, probabilmente di Taranto (Svetonio lo chiamerà semigraecus), e che partecipò alla guerra tra Taranto e Roma al seguito del suo protettore, il senatore Livio Salinatore, il quale lo affrancò e gli concesse il praenomen, dopo avergli affidato l'educazione dei figli (a Roma L. è grammaticus, professore di scuola). Due sono, comunque, le tappe importanti a noi note della sua carriera: 240, quando una sua opera fu il primo testo drammatico rappresentato a Roma (è da questo momento che tradizionalmente si fa cominciare la storia della letteratura latina); 207, quando compose un partenio in onore di Giunone, ovvero un carmen propiziatorio cantato in una solenne processione per le vie di Roma, durante la II guerra punica. Riconosciuta, infine, fu la sua associazione professionale, il collegium scribarum histrionumque, la corporazione di scrittori ed attori, con sede nel tempio di Minerva, sull'Aventino. Opere e considerazioni. Opere minori. L., dunque, si può giudicare, a buon diritto, l'iniziatore della letteratura latina: di lui, abbiamo 9 titoli di tragedie dedicate alla guerra di Troia, mito eziologicamente caro ai Romani (Achilles, Aiax mastigophorus [la follia e il suicidio di Aiace armato di frusta], Equos troianus [Il cavallo di Troia], Aegisthus [adulterio di Critennestra con Egisto e uccisione di Agamennone], Hermiona [Ermione, figlia di Menelao e di Elena: Neottolemo, suo promesso sposo e uccisore di Priamo, è ucciso da Oreste], Andromeda, Tereus, Danae e Ino); una palliata (Gladiolus, ovvero “Sciaboletta”, una sorta di soldato ammazzatutti), cioè una commedia d'ambientazione greca (con modelli in Menandro e Filemone), genere di cui può ben dirsi l' inventor (egli fu anche attore delle sue rappresentazioni); il già citato partenio (= canto per un coro di vergini), di cui però nulla conserviamo. Di questa intensa produzione, di cui ci restano pochissimi frammenti se non addirittura solo i titoli, è difficile dire quanto si trattasse di semplici traduzioni, di adattamenti o di riduzioni di opere greche, e quanto fosse invece il contributo della farsa italica. Odusia, traduzione artistica. Ma il suo capolavoro è certamente la traduzione - o forse è più esatto dire l’ adattamento artistico, letterario - in lingua latina e in versi saturni, dell'Odissea di Omero (Odyssia o Odusia), fatica che ebbe una importanza storica enorme. L'operazione aveva infatti finalità sia letterarie che culturali: l'Odissea rappresentava un testo fondamentale della cultura greca ed è per questo che la traduzione di L. non rimase solamente in ambito scolastico. Essa, inoltre, appariva più moderna dell'Iliade, più vicina alla sensibilità del mondo ellenistico (cosmopolitismo, viaggi ed avventure, passioni e sofferenze umane), dal quale lo stesso L. proveniva, e più legata all'Occidente ed al gusto dei Romani, tra l'altro oramai già abituati a solcare i mari. Difficoltà da battistrada. Ma essere il primo a tentare un esperimento simile comportava una miriade di difficoltà; in specie, non avendo una tradizione epica alle spalle, L. cercò di dare per altre vie solennità e intensità al suo linguaggio letterario: all'inizio della traduzione egli rende, ad es., la Musa di Omero con l'antichissima Camena, divinità italica delle acque; ancora, alcuni dei passi scritti da Omero non erano concepibili per i Romani e L. si trovò così a dover modificare e tradire spesso il testo originale dell'Odissea (tipicamente romana, ad es., è la considerazione dell'eroe che si evince dall'opera, reso quasi pari agli dei). Ideologia. In effetti, di questa Odyssia, noi non possediamo che pochi frammenti isolati e molto brevi, ma la scelta del soggetto lascia intravedere lo scopo che L. si proponeva: dietro la sua epopea, infatti, possiamo indovinare i racconti leggendari diffusi nel Lazio etrusco che coinvolgevano figure della mitologia greca, e che d’altro lato legittimavano il diritto romano all’ingerenza nel mondo greco. Solennità dello stile. Infine, tipica della sua poesia è pure la ricerca del pathos, della tensione drammatica, della solennità: non disdegna, così, arcaismi, o di ricorrere al formulario religioso. I modelli tragici cui s’ispirò, a tal proposito, furono verosimilmente testi attici del V sec. (soprattutto Sofocle ed Euripide). Meriti di L. Ora, il merito di L. non fu tanto di introdurre a Roma la letteratura greca, o di coniugare il momento dell'oralità con quello della scrittura, quanto piuttosto di concepire la possibilità stessa di una letteratura in lingua latina sul modello delle opere greche, e di nobilitare al tempo stesso la lingua e la metrica latine. Egli, come visto, compose - su questa riga - paritempo tragedie, commedie e un'epopea, fondando così tre generi che avrebbero dato origine, molto presto, ad una straordinaria fioritura. Gneo Nevio --- Campania? 270 ca - Utica 201 a.C. --Vita. Intellettuale-scrittore politicizzato. N. è il primo letterato latino di nazionalità romana, e ci appare anche come il primo letterato latino vivacemente inserito nelle vicende contemporanee. Fece recitare la sua prima opera teatrale nel 235 a. C.. Civis romanus, ma sine iure suffragii (ovvero, senza diritto di voto nelle assemblee di Roma, e ciò in quanto propriamente campano, e non romano), N. combatté nella I guerra punica (264241). Probabilmente era un plebeo di nascita e questo spiega il fatto delle sue frequenti sortite politiche antinobiliari: non abbiamo inoltre indizi che si appoggiasse a protettori aristocratici, come invece nel caso dei rapporti Ennio-Nobiliore ed Andronico-Salinatore. Si sospetta che fosse stato incarcerato per certe allusioni contenute nei suoi drammi, soprattutto contro la potente famiglia dei Metelli: famosissimo, a riguardo, l'aneddoto del suo famoso, ambiguo saturnio fato Metelli Romae fiunt consules (traducibile sia in “Per destino a Roma i Metelli diventano consoli” che in Per la sventura di Roma…); ad esso, i Metelli avrebbero risposto con un saturnio divenuto altrettanto famoso: dabunt malum (“mela”, ma anche “male”) Metelli Naevio poetae. Morì durante l'esilio, forse volontario, in Africa (dove ebbe anche occasione di trarre materiale per il suo capolavoro epico). Opere minori. Titoli e trame. Di N. conosciamo: 2 praetextae (tragedie di ambientazione romana), il Romulus (sulla mitica fondazione di Roma) e il Clastidium (celebrazione di Marco Claudio Marcello, vincitore degl'Insubri nella decisiva battaglia omonima, nella guerra di Gallia); almeno 6 tragedie mitologiche: Equos troianus (l'argomento piaceva ai romani), Hesiona (altra leggenda relativa alle catastrofi troiane), Hector proficiscens, Iphigenia (probabilmente un'Ifigenia in Tauride), Danae e Lycurgus, (rappresentazione dionisiaca senza alcun dubbio in rapporto col diffondersi del culto di Bacco nell'Italia meridionale e nel Lazio durante gli ultimi decenni del III sec.); 1 commedia, la Tarentilla (La ragazza di Taranto), ossia il ritratto di una ragazza civettona; ma ci rimangono almeno altri 27 titoli, purtroppo con soltanto un'ottantina di frammenti, per un totale di 125 versi, non pochi incompleti. N. comico e tragico. Nel teatro N. fu un innovatore: introdusse per primo la novità delle praetextae (tragedie di ambientazione romana, che celebravano la storia e gli eroi patrii equiparandone la gloria alle vicende del mito greco) e alla sua famigerata libertà di parola e di pensiero aggiunse, sempre per primo, e in modo sistematico, l'espediente della contaminatio (commedie ibride di elementi o scene desunte da più modelli greci), che tanta fortuna avrà nella successiva produzione teatrale latina. E' un peccato, poi, aver perso le opere comiche di N.: egli, molto probabilmente fu, infatti, poeta più grande nella commedia che nella tragedia: usò, nei suoi intrecci e soprattutto nel suo linguaggio, una fantasia tale che gli antichi - nel loro particolare canone - gli conferirono, in quel genere, la palma del terzo posto, dopo Plauto e Cecilio Stazio. Bellum Poenicum. Ma il capolavoro è, ovviamente, il Carmen belli Poenici, meglio conosciuto come Bellum Poenicum (Guerra punica), scritto in saturni, probabilmente durante la vecchiaia, intorno al 209 (nel momento in cui l'Italia era per gran parte occupata dalle truppe di Annibale o, quanto meno, minacciata dalle imprese del cartaginese) e comprendente circa 4000/5000 versi, aventi come argomento appunto la I guerra punica: in origine era un lungo carme, e solo in seguito (II sec. a.C.) venne diviso in 7 libri. I frammenti che possediamo dell’opera sono brevi, ma relativamente numerosi (una settantina), e consentono comunque di farsi una qualche idea d'insieme di questo, ch'è il primo esempio di epica storica romana. Il poeta non si limita a trattare in poesia le vicende della guerra cartaginese, ma, con un salto temporale non indifferente, affonda nella preistoria di Roma: N. ad es. parla, nei primi canti (l'archeologia del poema, come viene denominata), con certa ampiezza dell'impresa di Enea, considerato il fondatore di Roma, e dei suoi amori con la regina Didone, la fondatrice di Cartagine. Il nostro utilizzò questa storia drammatica per spiegare la rivalità mortale che opponeva Roma a Cartagine. Il suo scopo è di mostrare che il fato è dalla parte di Roma; ciò assumeva grande importanza negli anni oscuri della II guerra punica: Roma riceveva così dal suo poeta una duplice certezza: che gli dèi erano con lei, e che le passate vittorie su Cartagine garantivano il successo finale. Pur mantenendo di fondo un'ispirazione nazionale al poema, N. non si stacca troppo dalla tradizione letteraria greca: nel Bellum Poenicum si intrecciano, come visto, una storia di viaggi e una storia di guerra, quasi a simboleggiare l'Odissea e l'Iliade. Sicuro è che non vi era, però, narrazione continua: mito di fondazione e storia contemporanea si fronteggiavano dunque in blocchi distinti. Anche certi aspetti, come ad es. le figure di suono, presuppongono un'originale mescolanza di cultura romana e greca nel testo. Ma mentre l' Odyssia di Livio era a suo modo ispirata dalla tradizione italica, il Bellum Poenicum è più profondamente romano. Sono cambiate le circostanze: Roma non è più l'arbitro dell'Italia, ma una città che lotta per la sua stessa esistenza, e questo restringimento dei suoi orizzonti provoca un accesso di nazionalismo, di cui l'esaltazione storica degli eroi nazionali è una manifestazione palese. E’ non a caso anche il momento, come abbiamo visto, in cui si forma - anche e soprattutto per opera del nostro autore - la tragedia praetexta, simbolo quasi di una nuova orgogliosa consapevolezza della propria identità nazionale. Dunque, la storia recente diventava, per la prima volta, con N., materia di poesia in un'opera originale, nuova ma non primitiva (presenta, come visto, complessità di struttura, ricercatezza stilistica e significativi punti di contatto con la produzione alessandrina), mediante la stilizzazione epica e la presenza dell'elemento mitico-religioso: questi elementi fanno a buon diritto di N. epico il precursore di Virgilio epico, ammirato ancora da Cicerone. QUINTO ENNIO --- 239 a.C. Rudiae vicino Lecce, Messapia --Vita. E. nacque in una città non greca ma messapica: tutta la zona era comunque ellenizzata ed E. si vantava di possedere in definitiva tria corda, tre cuori, per la sua conoscenza di ben tre lingue: latino, greco e osco. Combattè nella II guerra punica, e nel 204 a.C. era in Sardegna negli ausiliari romani, dove incontrò Catone il censore, che notò il suo spessore culturale e lo condusse a Roma, pensando forse di farne il cantore delle gesta nazionali. Giuntovi, E. entrerà in contatto con Scipione l’Africano: sarà anzi uno dei massimi esponenti del cosiddetto circolo scipionico. La sua posizione diviene subito di grande prestigio: egli è a capo del collegium scribarum histrionumque, quell'associazione fondata da Andronico e che già dal 207 aveva un ruolo ufficiale nella vita religiosa e letteraria romana. Nel 186 a.C., E. seguirà Marco Fulvio Nobiliore contro gli Etoli e assisterà alla conquista di Ambracia. L’intento era quello di narrare ed esaltare le sue imprese (usanza questa tipicamente greca). Nel 184 a.C. il figlio di Nobiliore, Quinto Fulvio, fondò la colonia di Pesaro e concesse ad E. delle terre e la cittadinanza. Con grande orgoglio, egli scriverà: Nos sumus Romani qui fuimus ante Rudini. Nell'ultima parte della sua vita, infine, si dedicò completamente alla fatica degli Annales. Morì, pare, di gotta, dopo aver sopportato serenamente la povertà e la vecchiaia. Opere: titoli e contenuti. Opere teatrali. - tragedie ci rimangono almeno 22 titoli (per soli 400 frammenti circa): tra queste, il ciclo troiano comprendeva i seguenti titoli: Achilles, Aiax, Alexander (era il soprannome dato a Paride fra i pastori), Hectoris lytra (“Il riscatto di Ettore”), Iphigenia, Hecuba, Andromacha aechmalotis (“Andromaca prigioniera di guerra”), Telamo e Telephus; aveva, inoltre, trattato leggende di origini diverse: Alcmeo, Andromeda, Athamas, Cresphontes, Erechtheus, Eumenides, Medea exul, Melanippa, Nemea, Phoenix e Thyestes, rassegna nella quale si riconoscono titoli (e senza dubbio i soggetti) ripresi da Euripide; 2 praetextae (tragedie, cioè, di ambientazione romana): l' Ambracia, dedicata a Fulvio Nobiliore, conquistatore dell'omonima città; le Sabinae, sulla nota leggenda del ratto; - commedie: in verità, in questo campo E. non ebbe molta fortuna, sia evidentemente perché il genere non gli era proprio congeniale, sia perché (forse più verosimilmente) doveva misurasi con l'enorme successo di Plauto; comunque ci rimangono 2 titoli (Caupuncula, “La ragazza dell'osteria” e Pancratiastes, “L'atleta del pancrazio”, una disciplina ibrida tra pugilato e lotta) e un minimo numero di frammenti, tale da non consentire comunque un ponderato giudizio sulla sua produzione comica (ma invero, già gli antichi consideravano i suoi intrecci e la sua vis comica piuttosto mediocri); Opere minori - 3 operette di carattere filosofico, di cui ci rimane davvero molto poco: l’ Epicharmus, in settenari trocaici, il Protrèpticus, come recita il titolo, evidentemente un' esortazione alla filosofia o una raccolta di precetti morali, ancora in settenari trocaici, l’ Heuhemerus , che tratta della dottrina dell’omonimo filosofo in prosa; - Saturae, 4 libri in versi polimetri, di cui soltanto 70 conservati, probabilmente una miscellanea di filosofia e letteratura. A queste, secondo alcuni, apparterrebbe pure lo Scipio, un carmen encomiastico dedicato a Scipione l’Africano, vincitore a Zama; - alcuni epigrammi, praticamente perduti (la satira e l'epigramma sono due generi poetici che proprio Ennio deve aver introdotto comunque per primo nella letteratura latina); - scritti di evasione: un Hediphagetica (il mangiar bene, poemetto gastronomico in esametri); il Sota, raccolta di facezie in metro sotadeo [dal poeta Sotade, III sec. a.C.]; Il capolavoro: gli Annales. Tuttavia, la sua opera più importante, una delle pochissime scritte in età mediorepubblicana, è un poema epico di 18 libri e di ca 30000 versi (ce ne restano solo 600 ca), gli Annales, titolo che indubbiamente si rifà agli Annales Maximi, ossia alle registrazioni degli eventi secondo una scansione annuale. Gli ultimi 3 libri furono aggiunti successivamente dall'autore al piano originale, che ne prevedeva solo 15. Ecco, in breve, di cosa parlano i libri di cui possiamo, in base ai frammenti, ricostruire la trama: I libro: Romolo contro Remo per la fondazione di Roma; II: altri re di Roma; III: passaggio dalla monarchia alla repubblica e guerra contro Pirro; VII: un secondo proemio, con dichiarazioni di poetica; VIII: guerre puniche, contro la Macedonia, la Siria e gli Etoli. Considerazioni. Tragedie e commedie. Come visto, E. compose molte sceneggiature sia drammatiche che comiche; fu, anzi, l'ultimo poeta latino a coltivare assieme commedia e tragedia. Nella produzione drammatica, in particolare, egli puntava sulla tensione stilistica dei suoi versi e sulla ricerca del pathos. Il modello indiscusso era Euripide: la rielaborazione dei modelli classici permetteva di creare effetti di scena e di rafforzare gli elementi drammatici della rappresentazione. Un altro punto su cui E. fondava la propria forza era la partecipazione emotiva degli spettatori: le sue tragedia dovevano suscitare nel pubblico processi psicologici di forte identificazione con i personaggi. Lo stesso rapporto con i modelli (e con quello preferito di Euripide) non è di semplice translitterazione: certo, si trovano esempi di traduzione letterale, ma accanto a questi abbondano altrettanti casi di manipolazione, soprattutto di riduzione libera dell'originale, che egli praticò eliminando versi, pensieri, collegamenti, per sostituire come una sorta di riassunto della parte soppressa: si produsse anche nella contaminatio, fondendo ed innestando parti e scene di tragedie diverse. L'epica storica. E., come Nevio, coltiva anche (anzi, soprattutto) l’epica storica; la poesia che cerca di creare è cioè poesia celebrativa di gesta eroiche: si rifaceva così sia ad Omero, sia alla più recente tradizione ellenistica. Scritta dopo la vittoria che pose fine alla II guerra punica, la sua opera epica tuttavia non è più mera opera di combattimenti, ma soprattutto di meditazione sulla grandezza e sulla missione storica di Roma (apparteneva, insomma, alla generazione successiva a quella di Livio e di Nevio). La storia di Roma è narrata senza stacchi e in ordine cronologico, privilegiando tuttavia alcuni periodi ad altri. Particolarmente sacrificata è, in questo senso, la I guerra punica, già trattata dal suo battistrada Nevio (che, quindi, a sua differenza, s’era limitato ad esaltare - della storia di Roma - un solo episodio). Anche dal punto di vista concettuale E. non fu totalmente equilibrato: si occupò maggiormente di avvenimenti legati, come dire, alla politica estera che di vita politica interna. Lo stesso tono tende progressivamente ad inaridirsi (forse anche in coincidenza al mutare del clima culturale-politico, ovvero col subentrare della politica filocatoniana all'entusiasmo imperialistico ed espansionistico degli Scipioni): esso viene sempre più a corrispondere al significato prosastico del titolo, al mito e alla mistica ispirazione dei canti iniziali subentra la cronaca degli ultimi, fino a profilarsi - l'opera tutta - come una sorta di “rapsodia nazionale”. Altra differenza con Nevio è, infine, l’utilizzo dell’esametro dattilico, che da E. in poi diverrà tipico della poesia epica. Infine, innovativa fu anche la stessa raccolta della storia in libri, concepiti come unità narrative comprese in un’architettura complessiva. Per tutte queste ragioni, E. è spesso - a buon diritto - considerato dai romani come il vero padre della loro letteratura (il che non mancò di provocare l'ironia soprattutto di Ovidio). Alter Homerus. Ci è pervenuto l’inizio del poema degli Annales, in cui E. non fa l’invocazione alle Camenae romane, come fece ad es. Andronico, bensì alle muse greche (e questo è già indicativo…). Seguiva all’invocazione il proemio, con un sogno (nei proemi sono enunciate, in forma programmatica, le idee di poetica del nostro autore): l’anima di Omero apparsagli appunto in sogno gli illustra la dottrina pitagorica della metempsicosi (l'autore stesso era un adepto delle dottrine pitagoriche, che restavano vitali nei dintorni di Taranto e contavano seguaci nell'aristocrazia romana), secondo cui l’anima di Omero si era incarnata prima in un pavone e successivamente in E. stesso, l’ alter Homerus o Omero Romano. L'ideologia. Grazie a Cicerone ci è pervenuto poi un frammento in cui è espressa l’ideologia dell’intera opera: Moribus antiquis res stat Romana virisque in cui si giustifica l’espansione romana sulla base della sua virtus. I mores erano quelli dei grandi uomini antichi a cui si deve la potenza romana. Pur parlando di guerra, E. non esalta tuttavia la violenza, bensì la saggezza politica e la dedizione allo stato. Nella guerra fra Roma e Cartagine, ad es., Roma corrispondeva a pace e concordia e Cartagine a discordia e violenza: per tal ragione, quest'ultima era, sin dall'inizio, destinata a soccombere. Così, l’autore tenta di fissare negli Annales non solo racconti di gesta, ma anche valori, insegnamenti, esempi di comportamento e modelli culturali. La visione del mondo che viene comunicata è, comunque, il trionfo dell'ideologia aristocratica del suo tempo, quella degli Scipioni, nel segno dei suoi più alti ideali: la magnanimità e la gloria. La filosofia. Dunque, la poesia di E. è nutrita di idee [I. Lana] ed egli è certamente più filosofo che teologo, insiste cioè di più sui valori strettamente umani. Due dei suoi poemi, l'Epicharmus e l'Euhemerus, lo rivelano altresì occupato in speculazioni cosmogoniche e morali molto lontane dall'atteggiamento religioso tradizionale dei romani, e al contrario molto vicine al neopitagorismo proprio delle sue zone native. Nel secondo poema, in particolare, egli espone, con singolare congenialità, la dottrina di Evemero di Messene (III sec. a.C.), secondo il quale gli dèi e le dee del pantheon tradizionale altro non sono che re e principesse del tempo antico, divinizzati dopo la morte per i servizi resi all'umanità. Ciò consentiva naturalmente di esaltare maggiormente i condottieri romani, le cui imprese dominavano sempre più la storia umana (ma questa valorizzazione delle personalità d'eccezione, tipicamente greca, doveva essere - secondo il nostro autore - opportunamente corretta e conciliata con la tradizione nazionale - collettiva - romana) Lingua e stile. Infine, riguardo allo stile e al linguaggio, è da dire che E. è raffigurato come il primo poeta filologo, elegante cultore della parola, l'unico capace di stare alla pari con la raffinata cultura greca. Nel già citato II proemio degli Annales, egli - a riprova di ciò - sottolinea la sua distanza dal rozzo Nevio, che parlò di Saturno, e si autodefinisce dicti studiosus, esperto di lingua e arte (E. contesta anche Livio Andronico per l'uso dei versi saturni nella traduzione dell'Odissea: egli infatti riteneva questi versi adatti solamente alle divinità campestri). In un passo in particolare, poi, consegnatoci da un lungo frammento, contenuto nel I libro degli Annales, dove si racconta un sogno di Ilia (figlia di Enea e futura madre di Romolo e Remo), il nostro autore rivela anche uno stile profondamente profetico e drammatico, giocato con grande maestria.. Egli, infine, si può a buon diritto definire anche poeta sperimentale per l'immissione di numerosi grecismi nelle sue composizioni, nonché per l'uso abbastanza frequente e spregiudicato di pause sintattiche, allitterazioni e altre figure di suono, fin allora quasi del tutto sconosciute alla produzione letteraria latina. MARCO PACUVIO --- Brindisi 220 – Taranto 130 a.C. --Vita Nipote di Ennio, venne con lo zio a Roma, dove esercitò dapprima la pittura (Plinio il Vecchio ricorda infatti i suoi dipinti nel tempio di Ercole) e, già in età matura, avviò la produzione, quantitivamente non estesissima, di tragedie. Fu amico e ospite di C. Lelio, e frequentò il circolo di Scipione Emiliano. Ancora a ottant'anni fece rappresentare una sua tragedia, ma poco dopo si ritirò a Taranto, dove visse gli ultimi anni. Opere. Di lui ci restano dodici titoli sicuri di tragedie e in tutto circa trecento frammenti, per poco più di quattrocento versi. P. sembra che abbia imitato più Sofocle che Euripide, forse sotto l'influsso dei suoi amici romani, il cui gusto si volgeva verso il classicismo attico. Ecco i titoli delle sue fabulae cothurnatae (cioè, tragedie d'ambientazione greca) che ci sono stati tramandati: Antiopa, Armorum iudicium (la contesa tra Aiace e Ulisse per le armi di Achille), Atalanta, Chryses, Dulorestes (L'Oreste schiavo), Hermiona, Iliona, Medus (storia del figlio di Medea, avuto da Egeo, re di Atene), Niptra (Il bagno, tragedia in cui Telègono, figlio di Ulisse, aveva involontariamente ucciso il padre). Sua è anche una praetexta (tragedia cioè d'ambientazione romana), Paulus, allestita forse in occasione del trionfo di Paolo Emilio su Perseo a Pidna (160 a.C.). Fu anche autore di Saturae, in vario metro, purtroppo perdute. Assai poco sappiamo della tecnica poetica e drammatica di P., che pare componesse anche la musica dei suoi drammi (grande impressione negli spettatori suscitava, secondo Cicerone, la musica del canticum dell'ombra di Difilo nella Iliona). Pur abilissimo nella varietà dei metri, P. ebbe uno stile piuttosto duro, ma le sue tragedie conseguirono grande fortuna e furono assai apprezzate nella latinità; esse producevano un grande effetto per il loro pathos, per la forza dell'espressione, per la complessità dell'intreccio. Nella serie dei giudizi tradizionali dati al tempo di Orazio sugli antichi tragici romani, P. passava per un vecchio sapiente: forse per il fatto che si era sforzato di rinnovare le ispirazioni del suo teatro, ricorrendo a modelli meno ritriti. In ogni caso, le sue opere riscossero un successo notevole, vennero riprese ancora molto tempo dopo la sua morte, e persino il pubblico popolare ne conosceva a memoria lunghi brani. I frammenti (450 ca) abbastanza lunghi che ce ne fa conoscere Cicerone lasciano intravedere, in P., un grande vigore di stile, un senso del patetico moderato dalla preoccupazione per la dignità che conviene agli eroi, un senso tutto romano della virtus, una conseguente spiccata sentenziosità, una certa predilezione per il macabro (che ne fanno una sorta di precursore di Seneca). Di conseguenza, lo stesso linguaggio è volentieri solenne, pensoso e magniloquente, spesso contraddistinto da parole strane, forme insolite, conii artificiosi. Lucio Accio --- Pesaro, 170 ca – 90 ? a.C. --Vita. Figlio di un liberto, A. ben presto s'impose come un poeta a suo modo moderno e dotto. In viaggio a Pergamo, nel momento in cui il regno di Attalo III diventava provincia romana (133 a.C.), era stato iniziato ai metodi della filologia pergamena. I suoi interessi si erano rivolti alla storia del teatro a Roma e anche in Grecia. Opere. Le opere minori. A. ci ha lasciato titoli e minimi frammenti di alcuni suoi scritti minori - Didascalica (prosimetro, su questioni di storia letteraria); Pragmatica (di tecnica teatrale); Annales (almeno 27 libri su storie e miti connessi alle festività), Sotadica (poesie erotiche) - la cui varietà dimostra la vivace curiosità del suo intelletto e l'estensione della sua cultura. Le tragedie d'ispirazione greca: i cicli. Ma egli è soprattutto autore di numerose tragedie, delle quali ci sono noti circa 45 titoli. Dei testi di queste opere, però, possediamo anche qui solo alcuni frammenti (700 versi circa), che non possono darci che un'idea molto generale della sua arte. Le tragedie di A. trattano in genere di leggende greche già più volte portate sulla scena: i suoi soggetti preferiti sembrano essere quelli che comportano episodi violenti o atroci. La sua fama cominciò verso il 130, con la messa in scena di un Tereus (storia del bambino che la madre fa divorare dal marito infedele). A. trattò in seguito praticamente l'intero ciclo dei Pelopidi, con una tragedia dallo stesso titolo, a cui si aggiungevano un Atreus (la vicenda della vendetta di Atreo contro il fratello Tieste), un Chrysippus, una Clytaemnestra, un Aegisthus e una tragedia dal titolo Agamemnonidae, che sviluppavano tutta intera la serie delle atroci violenze che avevano caratterizzato ogni generazione di quella dinastia. Al ciclo troiano, invece, appartenevano l'Achilles, l'Epinausimache (la ripresa dei combattimenti nei pressi delle navi, un celebre episodio dell'Iliade), l'Armorum iudicium (la controversia fra Ulisse e Aiace sull'attribuzione delle armi di Achille), la Nyctegresia (la spedizione notturna di Diomede e Ulisse nel campo troiano), Troades, Astyanax, Deiphobus, ecc. Alcune di queste opere si ricollegano direttamente all'Iliade, altre alla Piccola Iliade e ad altri poemi ciclici. I soggetti tratti, invece, dal ciclo tebano erano rappresentati da Phoenissae, Thebais, Antigona ed Epigoni. I miti dionisiaci erano largamente ricordati con Athamas, Bacchae, Tropaeum Liberi e probabilmente Erigona. Altri soggetti celebri (Medea, Alcestis, Alcmeo, Andromeda, Meleager, Prometheus, ecc.) completavano infine il repertorio tradizionale al quale A. si ispirava. Le tragedie d'ispirazione romana. Ma la celebrità di A. si deve anche, se non soprattutto, a 2 tragedie praetextae (cioè, di ambientazione romana): il Decius o Aeneadae e il Brutus. La prima ricordava le devozioni dei Decii, i tre eroi che avevano sacrificato la vita alla causa romana (295 a.C.). Conosciamo però molto meglio la seconda, scritta in seguito alla vittoria del console Decio Bruto sui Lusitani: essa portava in scena la caduta della monarchia e l'avvento della repubblica, con la cacciata dei Tarquini; il protagonista è appunto Decio Giunio Bruto, che riesce a liberare Roma dalla tirannide, fingendosi folle. Considerazioni. E’ stata avanzata l'ipotesi che il poeta - scrittore, come si arguisce, prolifico - non avesse scelto i suoi soggetti senza una qualche finalità recondita e che, in una certa misura, tenesse conto dei problemi dell'attualità romana, ad es. della questione sociale nel periodo dei Gracchi. Anche se la cosa è difficilmente dimostrabile nei particolari, in se stessa, tuttavia, l'idea è ben lungi dall'essere inverosimile. Di sicuro c'è che i romani (e in particolare Cicerone, grande ammiratore di A., e al quale dobbiamo importanti citazioni) trovavano sempre, nelle sue opere, materiali per inattese applicazioni e attualizzazioni. Il che era agevolato dall'abbondanza delle massime morali e degli sviluppi di idee comuni, come la tirannide, l'esilio, eccetera. Importante testimonianza è anche il senso di gravitas religiosa e di presenza del divino che traspare dalle opere, e che sembra smentire le affermazioni dei moderni, troppo propensi a considerare la religione nazionale, in quell'epoca, solo come un'accozzaglia di leggende obsolete. Lo stile macabro e sublime. La ricchezza oratoria di A., come traspare anche dai frammenti rimasti, prelude già allo stile delle tragedie di Seneca: il linguaggio ha un tono magniloquente e ridondante, ricco di giochi allitterativi e di composti eruditi. Si è poi spesso rimproverato all'autore l'eccessiva violenza e ricercatezza del suo stile, quella sua volontà di rimanere nel sublime ad ogni costo che, se non impedì il successo delle sue opere, segnò tuttavia l'inizio del declino cui andò incontro il genere tragico dopo di lui. I meriti. Fatto sta che la conseguenza più importante della carriera di A. (come, del resto, di quella di Pacuvio) fu forse, in definitiva, che la tragedia salì di classe e di tono: di conseguenza, la sua pratica, pur continuando a godere del successo popolare, divenne sempre più cosa da gentiluomini.