EDUCAZIONE DEL CARATTERE E DELLA PERSONALITÀ NEL
FANCIULLO CIECO*
[abstract] L’educazione morale del fanciullo cieco è educazione della personalità, alla
consapevolezza dei propri limiti, ma anche alla fiducia del loro superamento [fine abstract]
Elena Romagnoli Coletta
Affrontiamo uno dei problemi più ardui della pedagogia in genere e più ancora di quella
dei minorati della vista. Infanti la formazione del carattere e, in senso più ampio, lo sviluppo
di una personalità originale, presuppongono una visione particolare dell'atto educativo, una
visione che trascende la tecnica dell'insegnamento, per centrare lo spirito su cui l'insegnamento
stesso si fonda. Parliamo separatamente della formazione del carattere, senza per questo
preludere a una teoria che giustifichi una particolare disciplina intesa a formare esclusivamente il
carattere, a coltivare le doti morali. Sarebbe assurdo pensare che nelle scuole per ciechi — contrariamente a quanto è stato affermato dalla pedagogia di tutti i tempi, dalla sana pedagogia
che considera tutto il fanciullo come un unico e inscindibile soggetto di educazione — sarebbe
assurdo, ripetiamo, pensare che l'educazione morale abbia un suo orario, un suo posto tra le
varie discipline, una sua tecnica d'insegnamento. Tutte le discipline forniscono materia per
l'educazione morale e, anzi, presso i minorati sensoriali, più che presso i bambini normali, non
è possibile scindere l'insegnamento in compartimenti stagni. La personalità umana deve
scaturire con un atto armonico, unico e individuale; deve essere al tempo stesso nella mente e
nel sentimento, nell'intelligenza e nel cuore un individuo che cresce e si perfeziona. La
formazione religiosa dà indubbiamente un apporto notevolissimo allo sviluppo del senso morale,
ma non si può certo ritenere che tutto si concluda nell'educazione religiosa, ciò equivarrebbe a
tradire lo spirito stesso della religione, la quale opera anche in quanto è eretta a norma di vita
illuminando l'origine del precetto morale e la finalità cui tende la persona umana.
L'educazione morale è norma di vita, e la vita è fatta di un complesso di attività, quindi la
morale deve essere il tono di manifestazione di ciascuna attività.
Nell'ambito della scuola l'educazione morale si fonda sulla formazione di un carattere
fermo e lineare, aperto e sincero, e la formazione del carattere scaturisce dall'incontro tra il
maestro e lo scolaro, incontro sempre vivo e fecondo, se feconde e vive sono le intenzioni,
qualunque ne sia il momento. Anche l'aritmetica nella sua apparente arduità può offrire e offre
in effetti materia per la formazione del carattere; anche l'aritmetica, poiché anche qui il
Tratto da: Luce con luce. Rivista trimestrale dell’Istituto Statale “A. Romagnoli” di specializzazione per gli educatori
dei minorati della vista, a. 6(1962), n. 3, pp. 3-10.
*
maestro esercita il suo influsso sullo scolaro e lo scolaro trova di contro difficoltà da vincere,
ostacoli che esercitano non solo l'attenzione, come generica facoltà psichica, ma anche e
soprattutto la volontà, intesa come atto cosciente, attivo, quindi principio di formazione
morale.
Il problema comunque ha un'altra posizione di principio; si potrebbe dire che accanto
all'affermazione dell'unicità dell'atto educativo, proprio per garantire in modo assoluto tale
unicità, sia necessario affermare un postulato, su cui occorre chiarire il nostro pensiero onde
non generare confusioni che potrebbero essere nocive.
La personalità del fanciullo, e non si parla solo del fanciullo cieco pur riferendoci in
modo particolare a lui, è nostra creazione, oppure riceve dalla Scuola, da noi intesi come
Scuola, il suo indirizzo, il suo ordinamento? Siamo convinti che l'alternativa è soltanto
teorica, poiché chi con noi condivide determinati principi religiosi non può assolutamente
pensare a una attività creatrice: ciò significherebbe affermare il più grave e pericoloso degli
immanentismi. L'opera educativa apre soltanto sbocchi, che possono essere sentieri, viottoli o
grandi vie, attraverso i quali irrompe ciò che è già dentro, ciò che vi è dalla nascita del
bambino: una individualità già precisa, un temperamento determinato. Non si creda con ciò di
svilire l'opera dell'educatore, poiché tale compito di cooperazione è di per sé tanto alto, tanto
impegnativo, da non consentire mire più ambiziose.
Dal principio discende un corollario pedagogico di somma importanza e cioè: se è vero,
come è vero, che la formazione del carattere e della personalità è un atto di plasmazione di ciò
che già c'è per opera divina, l'educatore non potrà considerare una collettività o una classe, ma
dovrà necessariamente tener conto dell'individuo, di ciascun alunno; dovrà conoscere di
ciascuno il suo mondo, per cercare di renderlo migliore.
Il criterio di una educazione individuale non può essere soddisfatto nell'ambito di un
semplice insegnamento individuale. Occorre intenderci bene anzitutto sui termini che sono
rivelatori dei concetti: l'insegnamento individuale non è che una parte dell'educazione
individuale, poiché l'insegnamemto presuppone la conoscenza individuale e la conoscenza si
completa soltanto in una comunione profonda che scaturisce dal rapporto educatore educando.
Potremmo dire che l'individualizzazione dell'insegnamento ha tre gradi soprattutto nelle
scuole dei ciechi: primo, conoscenza psicologica dello alunno, conoscenza quindi dei suoi
limiti e delle sue possibilità, della sua resistenza allo sforzo, della sua abilità o destrezza
manuale, della sua attitudine generica all'applicazione; secondo, tecnica dell'insegnamento per
cui le lezioni debbono essere impostate in modo tale da tener conto delle possibilità di
ciascuno e naturalmente dei limiti di ciascuno; infine, terzo grado, conoscenza profonda del
fanciullo in tutte le sue manifestazioni, anche extrascolastiche, comprese quelle in cui il
fanciullo si sente libero (attività di giuoco, di vita, nei momenti di libertà ecc.).
I tre gradi dell'individualizzazione dell'educazione, non sarebbero tuttavia concreti se
non fossero amalgamati dallo spirito dell'educatore, se non fossero uniti nell'atto educativo.
Infatti, presi a sé, ogni grado potrebbe apparire come una fotografia particolare dell'alunno,
come una conoscenza scientifica e oggettiva; ma l'amore per l'alunno stesso, l'amore che fa
sentire l'altro come noi, e noi e l'altro amati da un Essere supremo, unifica i tre gradi e
sostanzia l'educazione.
Riportiamo il problema sull'educazione religiosa, intesa non come atto che si determina
scolasticamente,
ma
come
atteggiamento
spirituale
dell’educatore,
e
contenuto
dell'educazione.
Ciò è forse valido soltanto per le scuole dei ciechi? Diremo che è maggiormente valido
per le scuole dei ciechi, ma dovrebbe essere un principio informatore di tutta l'azione
educativa e di tutte le scuole.
L'atto educativo ha sempre un intervento non solo di sviluppo, ma anche di
perfezionamento e ciò deriva necessariamente dal concetto di normalità, così come ci è dato
ricavarlo e dalla filosofia e dalla pedagogia.
Soltanto di fronte all'uomo tipo, a Colui che realizza nella sua pienezza l'umanità,
integra, perfetta, senza divenire, senza progresso, giunta al culmine della perfezione,
potremmo sospendere perché inutile l'atto educativo; ma tale tipo umano è stato realizzato
soltanto dal Figlio di Dio, fattosi uomo, è stato realizzato una sola volta per dare a noi il modello da seguire; per il resto degli uomini il concetto di normalità è un concetto assai ampio e
vago che fluttua ai limiti dell'anormalità e si differenzia in infiniti modi. Il normale psichico
può essere anormale sensoriale; chi è normale psichicamente e sensorialmente può essere
ammalato nel corpo, e le conseguenze si diffondono; chi è sano e normale, come e su chi
misura il proprio grado di normalità? il concetto di normalità è quindi un concetto di
rendimento medio.
Sembra dunque chiaro che il fanciullo debba essere considerato come una individualità
in progresso, come un seme che germoglia, fiorisce e dà frutti, però nel seme già è rinchiusa
una potenza, sulla natura della quale soltanto Dio ha potere. Come per i fiori e i frutti, per le
gemme e le foglie, noi possiamo intervenire perché il processo sia più o meno rapido più o
meno perfetto, più ancora noi dobbiamo intervenire perché il processo si realizzi e segua una
via buona. Il seme, gettato nel terreno arido, muore senza dare gemme; il bambino cieco senza
educazione, diremo di più, senza una educazione armonica è un seme gettato in terreno non
idoneo, germoglia e si spegne o non germoglia affatto.
Perché l'atto educativo abbia efficacia è necessario che l'educatore non abbia solo la
visione delle singole mete da raggiungere, non faccia come l'agnello che scorge solo il ciuffo
d'erba che gli sta davanti senza riconoscere la strada, ma possa comprendere tutta la strada, sia
presente in lui il principio e la fine.
E la meta per i fanciulli ciechi è, come dice A. Romagnoli, in una educazione armonica,
che salvi l'individualità, potenziandone tutti i valori.
L'educazione armonica del Romagnoli va al di là di una armonia tra sentimento e
intelletto, tra visione pratica della vita e senso morale, congiunge idealisticamente, ma di un
idealismo cristiano, la sfera teorica con la pratica, attraverso quella estetica. Non si tratta di
una posizione filosofica o pedagogica posta come principio, ma di una esigenza pratica realizzata nella scuola da Romagnoli e auspicata nella vita. Il giovinetto cieco deve essere buono
e amare il bello, amare l'armonia del bello, in cui confluiscono i valori dell'intelligenza e
quelli del sentimento. Se l'educatore avrà presente questa meta, la sua opera sarà sempre tesa a
crescere nel fanciullo cieco l'amore alla bontà che è bellezza dello spirito, e al bello che
prelude alla bontà.
Il bello allontana dalle storture, dall'artefatto, dalla falsità, il bello avvicina al genuino,
al puro, soprattutto il bello possibile a chi non vede, che è libero dalla tirannia della materia,
che si nutre più d'ogni altro di quanto il soggetto dà direttamente, di una intensa
partecipazione dell’uomo.
Sui principi generali di filosofia è necessario costruire l'azione, la vita pratica, tradurre
quindi i principi stessi nella consuetudine di tutti i giorni. Ciò come viene realizzato presso
l'Istituto A. Romagnoli? Non ci si deve attendere, in questo campo, nulla di speciale, nulla di
miracolistico; ciò che è metodo scientifico, ciò che è didattica trova il suo posto preciso nella
cura obiettiva dell'intelligenza del fanciullo, e qui il metodo è uno solo, identico per tutti i
fanciulli e per tutti diverso. Identico nella sua formulazione di principio, è cioè nella
considerazione che l'uomo è anzitutto nel suo comportamento morale, nel suo carattere e nella
sua personalità. La stessa cultura per divenir tale ha bisogno di un carattere che la elabori,
altrimenti resterà sempre erudizione più o meno ampia, più o meno profonda.
Unico quindi il metodo, se di metodo si può parlare, perché unico è il fine
dell'educazione, e al tempo stesso differente perché ogni alunno ha un proprio mondo morale,
così come ha un proprio tipo di intelligenza e di temperamento. Con ciò non si vuoi sostenere
che vi siano tante morali quanti sono gli individui; sarebbe una conclusione scettica
particolarmente nociva nel campo educativo. La morale è unica e ciò è soprattutto vero per noi
che identifichiamo la legge morale con quella religiosa; tuttavia ogni individuo ha una sua
problematica morale differente dagli altri.
L'azione educativa deve quindi tener conto di questi presupposti, ma non solo deve
farne un conto di principio, bensì un conto vero, applicato giorno per giorno. Infatti da questi
principi discende, come conseguenza inevitabile, la necessità di costituire un ambiente il più
aperto possibile, che favorisca a sua volta l'apertura del ragazzo. L'educatore deve conoscere
la problematica di ciascun alunno, la deve conoscere nei suoi termini esatti, per poter effettuare
con successo la sua missione; ma il mondo psichico e morale del fanciullo si rivela soltanto a
patto che non vi siano elementi esterni che lo chiudano. Quali potrebbero essere tali elementi
esterni? Essi sono essenzialmente di due provenienze; o propri dell'ambiente, o connessi con
la vita psichica del fanciullo: quelli che il Freud chiama i complessi. Sono in questi complessi
da ricercarsi sovente le cause di tante nevrosi infantili, di tante instabilità temporanee o
permanenti del carattere.
Appare logico che il primo ordine di elementi bloccanti, può essere facilmente rimosso,
e cioè basta costituire intorno al fanciullo cieco che viene nell'istituto un ambiente per sua
natura ideale, caldo d'affetto, il più possibile vicino alla famiglia. Per quanto concerne il
secondo ordine di elementi bloccanti, il discorso si fa più complicato; spesso occorre l'intervento
del medico o dello psicologo, spesso occorre attendere con pazienza che determinate cariche
psichiche si sublimino in comportamenti adulti. Anche in questo secondo caso, e cioè quando
l'alterazione o la problematica morale deriva da una situazione di alterazione psichica,
l'ambiente ha una importanza determinante. Il fanciullo cieco, più di qualsiasi altro fanciullo,
ha bisogno di credere nella bontà dell'ambiente che lo circonda, di abbandonarsi con fiducia in
chi lo educa. La sua minorazione è tale che spesso egli è portato a diffidare, a chiudersi, a
divenire scontroso e permaloso, ostile a coloro che vedono, in cui scorge non gli amici, ma
potenziali nemici, persone fornite di armi che in ogni istante lo potrebbero offendere.
La lealtà dell'ambiente diviene fiducia nell'alunno e la fiducia è l’elemento primo che
conduce alla lealtà nel fanciullo stesso. Per nutrire la fiducia del bambino cieco è necessario che
la disciplina egli la viva come norma interiore e non l'accetti come imposizione esterna.
Con il fanciullo già si può e si deve discutere, già si può e si deve usar la parola di
convincimento, la parola che nella sua severità di contenuto si rivolge non soltanto
all'emotività del fanciullo cieco, ma alla sua intelligenza.
La fiducia è un sentimento di amicizia, di simpatia, il sentimento che per eccellenza
avvicina gli uomini, e tale fiducia negli altri maggiormente è necessaria nel privo della vista.
Agli altri, egli si deve affidare per le necessità di spostamento in luoghi sconosciuti o
trafficati, agli altri deve ricorrere per conoscere il volto delle cose, quando queste non abbiano
voci per il suo orecchio o per la sua sensibilità; agli altri, infine, si deve affidare per mantenere un
saldo e proficuo contatto con la società.
Questo continuo bisogno degli altri potrebbe ingenerare nel fanciullo cieco un senso di
inferiorità, un pessimismo nei confronti della vita, spesso una rinuncia, quando chiedere risulta
essere troppo faticoso o quando gli altri non rispondono o tardano nella risposta con silenzi
troppo significativi. Per questo la fiducia del fanciullo cieco deve essere nutrita di pazienza, di
coraggio, e di intelligenza. Nella nostra scuola, forse con un principio pedagogico che può
essere discusso da qualche pedagogista, si lascia che il fanciullo durante la giornata passi
attraverso molti contatti con vari insegnanti e ciò appunto per favorire la sua personalità. Il
contatto con diverse persone, che sappiano impedire il sorgere della sfrontatezza nel fanciullo,
porta direttamente a costituire nell'alunno una sorta di rete spirituale di protezione, di pudore
per un istintivo sentimento di difesa. L'insegnante e l'educatore in genere possono capire e
conoscere quanto vi è oltre la rete, ma non si accostano troppo; rispettano quel pudore e quella
riservatezza, principi di personalità sana.
Non solo a ciò collabora il fatto che l'alunno durante la sua giornata viene a contatto con
molti educatori che si occupano attivamente di lui, ma anche un altro elemento di
fondamentale importanza e cioè che, ove è possibile e consentito, gli alunni svolgono le loro
attività scolastiche ed extrascolastiche accanto alle alunne, con una coeducazione che serve a
dare un tono di famiglia più reale. La presenza delle compagne, in classe, in refettorio, nelle
ore di studio e di lettura, nei momenti in cui si ascolta la radio o si parla liberamente con gli
educatori, rende il giovinetto più composto, insensibilmente quasi agisce da freno a eventuale
rozzezza: l'elemento femminino fa sentire lievemente una influenza assolutamente positiva.
Gli inconvenienti registrati sin qui non sono tali da sconsigliare questa pratica, poiché essi non
vanno al di là di bigliettini insignificanti, che cessano a mano a mano che l'alunno o l'alunna
progrediscono con gli studi e con le classi.
Il privo della vista in possesso di una personalità forte non sarà tanto facilmente preda di
false valutazioni morali e di carattere, che fanno scambiare l'accettazione con l'umiliazione;
verso questa meta dobbiamo avviare immediatamente il fanciullo che non vede. Egli deve
riconoscere il proprio limite, e soprattutto abituarsi a cercare negli altri il modo di superarlo. Il
cercare non deve essere comunque la continua meditazione sulla propria inferiorità, bensì
inquadrato in quel senso umano per cui chi non vede sa che tutti abbiamo bisogno gli uni
degli altri; egli per un verso, chi vede, forse, per altro verso: tutti abbiamo bisogno dell'aiuto e
del bene di chi ne circonda e più ancora dell'aiuto costante del Padre Celeste.
Educare questo sentimento non è semplice, poiché richiede nell'educatore una profonda
e vera umiltà. L'educatore non deve nascondere mai al ragazzo non vedente i bisogni veri di
ogni uomo; non deve opprimerlo col fargli nascere il desiderio di una indipendenza assoluta,
di una perfezione tale da bastare sola a se stessa.
Chiedere la collaborazione degli alunni per lo svolgimento di determinati compiti,
cercare con loro la verità su certi fatti, studiare quasi con gli alunni, significa far sentire ad
essi la nostra umanità viva, farci sentire sulla strada della perfezione e dell'educazione, farci
sentire uomini e non prototipi inesistenti.
Non si tema che ciò possa scuotere la fiducia e la considerazione degli alunni; il maestro
che veramente sa è sempre apprezzato, poiché quanto sa basta per porlo in alto nella
considerazione del ragazzo, il quale non si lascia scuotere dalle eventuali lacune.
Errore, ed errore grave, sarebbe mascherare le lacune, fuorviando le domande,
superando le situazioni imbarazzanti con astuzia e con autorità, o, quel che è peggio, dando
risposte o assumendo un comportamento menzognero. L'alunno stima il maestro che con lui
ricerca, disprezza quello che lo mortifica, non comprende quello che lo inganna; l'inganno a
lungo andare viene alla luce e da frutti velenosi.
Se l'alunno cieco sentirà che tutti abbiamo i nostri limiti, non si umilierà del suo limite e
chiederà senza mortificarsi, senza precipitare ogni volta nello stato d'animo dell'avvilimento.
Anche qui è necessario un grande equilibrio, perché la coscienza del limite, la sfiducia non
turbino il pudore. Togliendo il pudore si possono avere sorprese veramente umilianti.
Il bisogno trasforma chi non vede e non ha pudore né senso di dignità in accattone o in
sfruttatore della propria minorazione. L'umanità ha purtroppo di questi aspetti, e non è
certamente la cecità che li possa sanare.
Perché il fanciullo riconosca il proprio limite è necessario che l'educatore sia umile;
perché il fanciullo conservi il proprio pudore senza che diventi scontrosità, è necessario che
l'educatore abbia una grande dignità e un vero rispetto di sé e degli altri.
Elena Romagnoli Coletta