LA PERSONALITÀ NELL'EDUCAZIONE DEI FANCIULLI NON VEDENTI Enrico Ceppi [abstract] Il ruolo giocato dalla minorazione nello sviluppo della personalità del non vedente porta con sé alcuni interrogativi ma anche la certezza della possibilità di una realizzazione piena [fine abstract] A più riprese e con prospettive diverse abbiamo trattato da queste colonne i problemi concernenti la psiche dei privi della vista, cercando di tener fede ad un principio ormai divenuto fondamentale per gli studi tiflopsicologici e sul quale si fondano i più validi metodi tiflopedagogici, ed il principio potrebbe così essere riassunto: la cecità è un fatto puramente e semplicemente sensoriale, essa non intacca la psiche dell'uomo, non incide sul suo potere intellettuale e, più ancora, non influisce sul suo mondo morale. Un'affermazione di principio che trova la sua motivazione nel fatto, nella pratica di vita, nella documentazione personale di numerose testimonianze autobiografiche; un principio quindi che non può intendersi come l'elaborazione di una teoria, come la conclusione dello sviluppo ideologico di un pensiero filosofico, per quanto in esso principio appunto perché tale, vi siano raccolte valide conclusioni ideologiche. Lo studioso che cercasse di formulare una teoria dell'educazione dei ciechi, partendo dal principio sopraenunciato considerato, come fonte delle applicazioni pratiche e non esso stesso come la conclusione di esperienze, cadrebbe indubbiamente in errori di impostazione e in difetti di metodologia. Una siffatta teoria dell'educazione dei ciechi rischierebbe di dare, come fatti naturali e acquisiti, quelle conquiste che sono soltanto e specificatamente le conclusioni dell'azione educativa. La psicologia del privo della vista si libera dalle conseguenze della minorazione a seguito di una sana azione educativa e pur avendo in sé le possibilità intrinseche di svolgersi su un piano di normalità, conquista la propria normalità soltanto nell'educazione, nel processo cioè che celebra l'incontro umano degli individui. Il fanciullo non vedente ha una propria intelligenza, ma non ha i mezzi per poterla far funzionare in pieno, non ha le risorse per arricchirla per irrobustirla e la funzione non si sviluppa non diviene potere vero e proprio senza un adeguato esercizio: egli ha una volontà, ma non può coordinare l'estrinsecazione nel giusto limite, e così potremmo dire di tutte le funzioni psichiche che pur permanendo integre restano come avvolte da un velo che impedisce ad esse di svolgersi, di coordinarsi, di crescere in armonia con quanto avviene fuori. Che succede 1 allorquando una pianta destinata a crescere alla luce del sole, tra i venti e la pioggia, viene costretta al buio di un innaturale rifugio? Essa langue pur crescendo, scolorisce pur assumendo una propria tenue fisionomia, sviluppa il proprio germe, la propria potenzialità, realizza la propria specie, ma tutto in modo ridotto, estremamente mortificato, quasi ristretto ai limiti della sua naturalità. Non altrimenti avviene per il fanciullo cieco non educato, lasciato a se stesso, o meglio, alla natura e alla minorazione, due forze contrastanti che finiscono per comprimere quel se stesso, che noi nel processo educativo vogliamo liberare. Fuori dal processo educativo speciale il piccolo non vedente cresce realizzando il minimo della propria caratteristica individuale, dando una pallida immagine di quello che avrebbe potuto essere, ma che non è e non sarà. L'intelligenza del fanciullo vittima della cecità continuerà a lampeggiare tra le nubi che costituiscono il pesante velario steso sul suo mondo privo di immagini e la sua volontà non avrà l'oggetto e il fine per esercitarsi; tuttavia egli sarà un fanciullo normale, forse di una normalità oscillante, tenue, spesso oscurata da improvvise crisi, sarà normale e nessuno potrà contestargli questa normalità e a nessun patto potrà essere paragonato neppure come quadro sindromatico delle manifestazioni ai minorati psichici, ai tardivi di qualsiasi genere. Egli, il fanciullo cieco, educato o privo di ogni aiuto, inserito con piena coscienza nel consesso degli altri uomini oppure chiuso in una disperata e inutile lotta contro la propria minorazione, egli il piccolo non vedente è sempre un normale. Ciò significa che integra è in lui la possibilità di formarsi una personalità psichica pienamente valida e quando a questo risultato non si può giungere, il fatto non deve essere imputato alla cecità, ma a una serie di fattori esterni, indipendenti dalle condizioni soggettive del minorato. Che cosa intediamo per personalità? Un termine usato con grande frequenza a proposito e più spesso a sproposito: un termine che per il proprio valore generale si presta a numerose interpretazioni e che raccoglie, a seconda delle sedi in cui viene applicato o usato, significati diversi. Nel linguaggio corrente la personalità è la caratteristica fondamentale di un individuo, l'insieme delle sue doti personali e particolari, per cui l'individuo uomo si differenzia da un altro. Diciamo così che un uomo ha propria personalità quando possiede in grado elevato la facoltà di evidenziare le proprie caratteristiche positive, quando si stacca dalla massa o meno amorfa, quando sa essere per tempi considerevoli compiutamente se stesso. L'interpretazione popolare del termine “personalità”, che abbiamo cercato di riassumere e di concentrare in definizioni brevi, non parte da un presupposto errato, pur non centrando nel pieno del suo valore il significato scientifico. Come sempre, l'interpretazione popolare dà una definizione fondata sul buon senso, che spesso costituisce la formula scientifica diluita; definizione comunque valida per risalire a una formulazione più precisa e più obbiettiva. Noi 2 distinguiamo tra persona e personalità, come distinguiamo tra l'atto spirituale e la reazione psichica, come distinguiamo tra l'uno e il molteplice, tra l'Entità e l'esistenza. La persona è l'unità intrinseca che costituisce l'uomo, è il suo vero volto che guarda verso l'immortalità. La “persona” è in tutti: in coloro che trionfano nella vita, in cui l'umanità celebra le proprie vette, in cui esplodono, quasi incontenibili, ingegno, forza, volontà e intelligenza; e in coloro nei quali la vita è ridotta a poche funzioni, nei quali un velo pesante e impenetrabile copre il valore, l'epifania aperta dello spirito: in tutti vi è persona, intima profonda unione di corpo e di spirito, valore supremo che trascende questo o quel fine particolare. La personalità è invece, per noi, il manifestarsi della persona, l’estrinsecarsi di questa dinamica che chiamiamo vita e che scaturisce direttamente dall'unione del corpo e dello spirito. La personalità è quanto possiamo vedere, constatare, è quanto vale sul piano sociale, è la stessa forma esteriore, assunta dalla “persona”. Essa si fonda quindi su una reazione di adattamento dell'organismo, sull'adeguamento delle funzioni all'oggetto della funzionalità, sulla differenziazione e distinzione dell'individuo o, meglio, dell'individualità. Difficilmente possono essere trovati anche nella stessa specie due individui perfettamente identici, per cui sia impossibile distinguere l'uno dall'altro; dovremmo scendere nella scala degli esseri inferiori dove il principio di differenziazione e di distinzione non è assolutamente percepibile, almeno con i nostri mezzi naturali. Pur tuttavia il fatto che un cane differisca da un altro, che chiunque saprebbe distinguere il proprio cavallo da quello di un altro, non significa che l'animale abbia realizzato la propria personalità: ad esso manca quanto di più essenziale vi possa essere alla personalità, e cioè la persona. Lo sforzo di adeguamento funzionale, la profonda reazione organica, conducono nell'animale superiore all'individualizzazione, alla realizzazione dell'individuo nella specie; nell'uomo vi è qualcosa di più e lo abbiamo già visto. Per questo suo contenuto che sorpassa i limiti del fisiologico o del fisiopsichico, la personalità umana non può intendersi frutto di naturale spontaneità, ma deve essere il risultato di una attività corale, di uno sforzo composto che nel suo iniziarsi si chiama educazione. La personalità si può affermare ed evolvere soltanto nell'umanità. A questo punto urge tornare al tema fondamentale di queste nostre rapide note psicologiche: il privo della vista, l'uomo cioè posto in una determinata condizione di vita, l'uomo privato di alcuni mezzi di manifestazione e di conquista dell'esperienza. Incominciamo subito col chiederci se l'uomo privato della vista, che ingiustamente si tende ad isolare dall'umanità, a circoscrivere con un aggettivo che ha assunto un innaturale valore di sostantivo, l'uomo cieco, cioè privo della vista, che è divenuto “il cieco”, cioè quasi una specie nella specie, quest'uomo può esprimere la propria personalità nella pienezza della sua 3 potenzialità? La personalità abbiamo detto è all'inizio un momento connesso con l'educazione, è un fattore civile e sociale che scaturisce dalla educazione, non solo per quel rapporto di integrazione tra persona e persona, tra educatore ed educando, ma anche per il fermento di vita che l'educazione stimola e orienta, potenzia e disciplina, per quanto insomma di culturale e di morale vi è nell'atto educativo. Il fanciullo non vedente può trarre dall'educazione il momento per la propria personalità? Potremmo senz'altro rispondere affermativamente all'interrogativo precedente, richiamando l'esperienza, ricordando illustri esempi di grandi uomini che hanno saputo essere tali nonostante la minorazione della vista; potremmo rispondere affermativamente, deducendo la risposta dal fatto incontestabile che continuiamo ad educare fanciulli ciechi, credendo per ciò all'efficacia della nostra opera e al valore positivo che essa ha nei confronti della personalità dei nostri educandi; ma preferiamo indugiare un attimo ancora su alcune considerazioni, prima di abbandonarci all'ottimistica affermazione, valida per l'esperienza e per tante dimostrabili ragioni estrinseche. Anzitutto chiediamoci se l'educazione del fanciullo non vedente riesce sempre a liberarlo da tutti gli effetti che la cecità provoca sull'estrinsecarsi della sua attività psichica. Ci siamo già chiesti, per puro amore di indagine, se possiamo noi affermare che quel determinato individuo privo della vista, in condizioni diverse, cioè in possesso della piena funzionalità sensoriale, sarebbe stato più o meno intelligente, cioè se la minorazione non ha portato un certo abbattimento nelle sue possibilità intellettive e ovviamente non abbiamo risposto allora e non possiamo rispondere adesso. L'interrogativo potrebbe essere esteso a tutta l'attività psichica dell'individuo che non vede, potrebbe coinvolgere tutto l'individuo stesso e concludersi in questo modo: quel determinato individuo come sarebbe stato, come avrebbe reagito alla vita sensoriale, immaginativa ecc., quale sarebbe stato nella società, se non fosse stato minorato della funzione visiva? Si prospettano quindi due tesi differenti: l'una che potrebbe essere chiamata della specificità dell'atto educativo e per la quale l'educazione dovrebbe potenziare, svolgere quell'entità che è il fanciullo cieco, così come essa si presenta senza riferimento al fanciullo normale: educare il fanciullo cieco ad essere più profondamente e più propriamente uomo privo della vista, uomo caratterizzato da una posizione particolare; l'altra, che potrebbe chiamarsi la tesi del superamento, punterebbe sul risultato di togliere il fanciullo privo della vista, dal proprio mondo fatto solo di suoni, spingerlo in un mondo comune fatto di immagini, affiancarlo agli uomini non solo come problema sociale, ma anche e maggiormente come momento di sviluppo della personalità. Due tesi che esprimono due modi di intenderli la Scuola per fanciulli ciechi e per fanciulli minorati in genere, due tesi che sintetizzano due metodi per i 4 quali potremmo discutere lungamente a favore o contro, senza probabilmente giungere a una conclusione definitiva. La prima tesi, quella della specificità dell'educazione, ha dalla sua parte la valida argomentazione che l'atto educativo tanto più risulta valido ed efficace, quanto maggiormente tiene conto della realtà del fanciullo, non si sforza di alterarla, di deformarla, ma ne rispetta la presenza qualunque essa sia: teoria indubbiamente suggestiva, che nasconde l'insidia, mal celata dal rispetto dell'autonomia del fanciullo, di una esacerbata positività la quale la personalità come atto estrinseco ha più valore della “persona”, anzi per la quale si può parlare di personalità, senza parlare di “persona”. L'altra tesi opposta è tacciata di eteronomismo nell'atto educativo appunto per quel tendere che fa l'educatore a strappare il fanciullo da un atteggiamento connaturato, da un modo di essere che sarebbe congeniale al suo stato di minorato. La disputa potrebbe non aver conclusione, se avessimo accettato per principio l'esistenza di un individuo definibile con il sostantivo di “cieco”, ma per noi il sostantivo non esiste e se vuol essere usato il termine, esso deve avere esclusivo valore aggettivale, posto dopo, e non solo come disposizione, ma più ancora come significato, il sostantivo “uomo”. La personalità è nel sostantivo, nel suo valore che trascende lo stato particolare, che va oltre la difficoltà di un momento o di una intera vita. Tuttavia occorre subito aggiungere che il potenziale umano costituente il substrato della personalità ha bisogno per liberarsi di una azione dall'esterno, di una forza, tanto per usare una espressione fisica, che possa costituirsi equilibrio a quella della minorazione e che sia a questa di senso contrario e di valore superiore. Il fulcro attivo della forza, usando sempre l'immagine fisica, non risiede fuori del soggetto, in una artificiosa realtà educativa inimmaginabile, bensì sta nel soggetto stesso, nella sua validità come persona, nella sua potenziale integrità psicologica, nello slancio che dall'interno viene e che proietta il desiderio di conoscere di volere, di essere e di vivere, verso il mondo circostante e verso la società. L'educatore rimuove gli ostacoli che sussistono a questo slancio di espansione, ne regola e ne dimensiona l'intensità, ne ordina e disciplina i tempi; l'educatore fa con il fanciullo cieco ciò che ogni educatore deve fare con ogni fanciullo. Resta sempre il nostro precedente interrogativo, teorico e di studio fin che vogliamo, ma tale da proiettare un'ombra reale sull'esistenza di chi non vede: come avrebbe potuto essere l'individuo minorato senza la minorazione? L'interrogativo, più o meno palesemente, con minore o maggiore valore scientifico, viene posto ogni qualvolta il fanciullo non vedente, o l'uomo non vedente, viene a contatto con la società e si traduce in pratica in un atteggiamento di sfiducia, di incomprensione, perché gli altri, coloro che sono integri, avrebbero voluto rivolgersi all'uomo che avrebbe potuto essere, ma che non s'è realizzato, all'uomo così come si sarebbe 5 manifestato nella sua piena libertà di esistenza. Ognuno si crea un proprio fantasma della minorazione, inconsciamente tende a fare della cecità un fattore tipizzante, profondamente tipizzante, tale da costituire per proprio conto un individuo diverso dagli altri. Il nostro interrogativo tuttavia non si esaurisce nell'aspetto più appariscente del problema, nelle conseguenze di un pregiudizio o di una situazione di fatto costituitasi per motivi sociali e storici attraverso i secoli, il nostro interrogativo deve andare ben oltre, e investire la sostanza del problema: come possiamo essere certi del normale funzionamento delle facoltà psichiche del non vedente? Come possiamo raggiungere, noi, gli educatori, la consapevolezza che la nostra opera ha liberato in pieno quell'individuo, quell'uomo che giaceva sotto il peso della minorazione ? L'intelligenza, la volontà, l'attenzione, la memoria come reagiscono alla presenza della cecità? Sino a qual punto il fanciullo che non vede può liberarsi dagli effetti negativi di un ambiente sociale antieducativo o comunque non idoneo a favorire lo sviluppo di un individuo minorato? Sono state tentate numerose risposte ai quesiti precedenti, ma per quanto noi abbiamo cercato con pazienza e con amore, nessuna è tale da soddisfarci veramente e in pieno, nessuna porta il crisma dell'obbiettività e della validità universale. Si citano casi e dai casi si risale alla norma, che può essere, e spesso è, positiva per chi non vede: si afferma che lo stato di cecità favorisce l'attenzione, potenzia la volontà, acuisce, spesso, l'intelligenza e questo perché eliminerebbe le cause della distrazione, porrebbe ostacoli che allenano costantemente la volontà, creerebbe il clima più favorevole alla meditazione. Non è insolito sentir dire: i ciechi sono più intelligenti, sono più attenti, sono, e questo è ancor più inspiegabile, buoni. Più o meno: due affermazioni opposte, eppure esistono argomenti, tratti dall'esperienza, ugualmente validi, per sostenere l'una o l'altra tesi. Così potremmo dire che l'attenzione è favorita dalla cecità, perché il particolare stato porta ad un maggior potere di concentrazione, oppure potremmo anche sostenere che l'attenzione è minore nel privo della vista, poiché in lui vi è una maggiore pressione esercitata dal fantasticare a vuoto. La scarsità delle immagini favorisce infatti il sorgere di un lavorio fantastico e astratto, il quale finisce per espandersi in tutta la personalità psichica del non vedente, attutendone o deviandone tutte le facoltà. Eppure sono fermamente convinto che la verità, anche in questo caso, sia una e una sola; e sono altresì convinto che l'educatore debba seriamente e sinceramente ricercare questa verità per perseguirne la strada con passione e con amore nella sua faticosa opera redentrice. Allo stato attuale degli studi, non è possibile dare una risposta a tutti gli interrogativi precedenti e in conclusione all'interrogativo di fondo. Sentiamo per convinzione che la risposta deve orientarsi in un determinato senso, per cui si possa affermare che al minorato 6 nonostante la minorazione resta la possibilità di affermare la propria personalità, di essere se stesso in modo completo e compiuto. Gli interrogativi tuttavia restano e ad essi soltanto una approfondita e obbiettiva ricerca psicologica potrà rispondere. La strada da percorrere è ancora lunga; possiamo affermare con sufficiente sicurezza che sulla via dell'elaborazione di un metodo per l'educazione dei ciechi noi siamo ancora alla geniale proposta di Augusto Romagnoli, il quale ha intuito, ha indicato la strada e forse l'avrebbe percorsa da sé, portandoci le risposte che noi attendiamo, se non ne fosse stato impedito, proprio nel momento della realizzazione, da un male terribile per tutti. In sostanza il metodo di Augusto Romagnoli strappa con vigore la Scuola dei ciechi dalla tesi della specificità, dal principio della accettazione della minorazione come realtà psicologica, e avvia la Scuola verso la formazione dell'uomo che prevale e assorbe in sé ogni stato particolare, dell'uomo che è prima ancora che sia il minorato, che è al di sopra del minorato e che facilmente può scoprirsi nella sua essenzialità. Spetta a noi chiarire le tappe di questo metodo, scoprirne in fondo la grande verità che esso contiene, mostrare tutto quanto in esso è semplicemente enunciato e intuito. Il lavoro psicologico, che l'istituto Romagnoli ha di recente intrapreso, si propone appunto queste mete e non vuole essere fredda e sterile ricerca, faticosa costruzione di teorie o elaborazione di dati astratti: vuole apportare un contributo alla pedagogia dei fanciulli ciechi, vuole offrire conclusioni valide alla tiflosociologia, vuole in fine chiarire gli effetti della minorazione sulla personalità di chi non vede per poter arrivare sempre più in là nel processo di liberazione. Enrico Ceppi 7