7. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale Edmund Husserl 1959 – 1938 L’opera di riferimento: Husserl Edmund 1959, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1961 e Husserl Edmund 1913, 1950, 1952 Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 2002 Husserl Edmund 1950 L’idea della fenomenologia, il Saggiatore, Milano 1988 Husserl Edmund 1966 Lezioni sulla sintesi passiva, Guerini e associati, Milano 1993 1. La crisi delle scienze europee: una diagnosi 2. Alla fonte del significato: il mondo della vita 3. Esplorazione delle possibilità: fenomenologia trascendentale e intenzionalità 4. L’intenzione culturale del fare scienza nel tempo e il suo rilancio «Quella “crisi dell’esistenza europea” di cui oggi tanto si parla, e che è documentata da innumerevoli sintomi di dissoluzione, non è un oscuro destino, non è una situazione impenetrabile; essa diventa comprensibile e trasparente sullo sfondo di quella teleologia della storia europea che la filosofia è in grado di illuminare. Ma la premessa di questa comprensione è che si riesca innanzitutto a cogliere il nucleo essenziale e centrale del fenomeno “Europa”. Per penetrare il groviglio della “crisi” attuale, era indispensabile elaborare il concetto Europa in quanto teleologia storica di fini razionali infiniti; era indispensabile mostrare come il mondo europeo sia nato da idee razionali, cioè dallo spirito della filosofia. La crisi poté così rivelarsi come un apparente fallimento del razionalismo. Ma la causa del fallimento di una cultura razionale sta — come abbiamo detto — non nell’essenza del razionalismo stesso ma soltanto nella sua manifestazione esteriore, nel suo decadere a “naturalismo” e a “obiettivismo”. La crisi dell’esistenza europea ha solo due sbocchi: il tramonto dell’Europa, nell’estraniazione rispetto al senso razionale della propria vita, la caduta nell’ostilità allo spirito e nella barbarie, oppure la rinascita dell’Europa dallo spirito della filosofia, attraverso un eroismo della ragione capace di superare definitivamente il naturalismo. Il maggior pericolo dell’Europa è la stanchezza. Combattiamo contro questo pericolo estremo, in quanto “buoni europei”, in quella vigorosa disposizione d'animo che non teme nemmeno una lotta destinata a durare in eterno; allora dall’incendio distruttore dell’incredulità, dal fuoco soffocato della disperazione per la missione dell’Occidente, dalla cenere della grande stanchezza, rinascerà la fenice di una nuova interiorità di vita e di una nuova spiritualità, il primo annuncio di un grande e remoto futuro dell’umanità: perché soltanto lo spirito è immortale.» Con questo invito a contrastare la crisi spirituale che ha investito l’Occidente, Edmund Husserl conclude la conferenza che ha tenuto il 7 maggio 1935 in un centro culturale di Vienna sulla crisi dell’Europa e che sarà pubblicata nel 1937 col titolo La crisi dell’umanità europea e la filosofia tra i Testi integrativi: Dissertazioni, alla fine dell’opera: Husserl Edmund, 1959, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, (il Saggiatore, Milano 1961, 357-358) 1. La crisi delle scienze europee: una diagnosi La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale è l’ultima grande opera, incompiuta, di Edmund Husserl (1859-1938). L’occasione per comporre questo testo (alla cui stesura il filosofo tedesco lavorò dal 1935 sino al 1937) venne dall’invito a tenere una conferenza (pronunciata a Vienna, nel 1935, e riproposta qualche mese dopo, con grande successo, a Praga) sul tema: la filosofia nella crisi dell'umanità europea. In essa Husserl indicava come causa del 1 disorientamento culturale e spirituale dell’Europa, e più in generale dell’Occidente, la progressiva perdita da parte della filosofia e delle scienze (che per Husserl sono rami, diramazioni della filosofia) della capacità di dare risposta ai quesiti che l’uomo si pone sul senso dell'esistenza, sul significato della vita e della storia. L’ideale di filosofia universale, che aveva preso consistenza nell’ambito del pensiero greco, sembra a Husserl essersi dissolto portando con sé «il crollo della fede in una filosofia universale capace di guidare l'uomo nuovo... il crollo della fede nella ragione intesa nel senso in cui gli antichi contrapponevano l’epistéme alla dóxa». «È questa ragione — spiega Husserl nella Crisi delle scienze europee — che in definitiva conferisce un senso a tutto ciò che si suppone essente, a tutte le cose, ai valori, ai fini, che conferisce loro un riferimento normativo con ciò che dagli inizi della filosofia è indicato dal termine verità, verità in sé, e correlativamente dal termine essente»; la perdita da parte della filosofia di quelle prerogative e di quelle finalità che ne avevano segnato il sorgere, impone pertanto un’indagine che ricostruisca la genesi dell’attuale crisi del sapere e della società e indichi la direzione che il pensiero filosofico dovrà percorrere per recuperare l’originario valore universale. 1.01. La diagnosi di Husserl sula crisi dell’Europa è specifica. Si deve al fatto che il razionalismo (l’uso della ragione) si consegna ed esiste «soltanto nella sua manifestazione esteriore, nel suo decadere a “naturalismo” e a “obiettivismo”». I termini “naturalismo” e “obiettivismo” indicano il processo secondo cui la ragione si definisce solo nei suoi risultati, si consegna alla sua produzione. Si annulla così la distanza tra pensiero e realtà di fatto; una loro coincidenza crea una ragione e una scienza al servizio del fatto, dedite alla sua reiterazione, in abbandono di progetto e di consapevolezza. Si inaugura così la fine delle possibilità, ma è la perdita contemporanea di ragione e realtà. «Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto.» Ripetitori impauriti e resi sordi dalle proprie abitudini e dalla loro venerazione e difesa. È la stanchezza del pensiero. Contro questa deriva prende avvio una filosofia nelle forme della fenomenologia trascendentale. 1.02. La consapevolezza di metodo messa a disposizione dalla “fenomenologia” come metodo di indagine filosofica: [1] nessuna visione, percezione e teoria sistematica del mondo può presentarsi come ragione del mondo, o sua definitiva essenza razionale, con una coincidenza di logica, scienza e metafisica (o ontologia); [2] nessuna visione del mondo può prescindere, ignorare gli strumenti o le facoltà con cui l’uomo percepisce e reagisce al mondo e li rimodella nelle forme di un processo evolutivo di adattamento (un adattamento pratico conoscitivo); [3] ogni atto di coscienza è un processo di relazione intenzionale della mente (intesa in accezione vasta) con il mondo; la coscienza è sempre “coscienza di”, altrimenti non è un atto di coscienza, non è un vissuto; [4] la filosofia non preliminarmente o in astratto (come accade alla ragion critica kantiana) ma in re o nell’atto stesso di agire in relazione diventa indagine dei modi con cui la mente o una soggettività autopercipiente, si rapporta al mondo, è un vissuto d’esperienza. Occorre dunque stare in questa “tensione essenziale” tra, da una parte, l’urgenza di stare nel mondo e starvi secondo un processo di adattamento pratico conoscitivo all’insegna della oggettività e, dall’altra, la consapevolezza della dipendenza del mondo, del nostro mondo, del mondo di cui si parla, dai modi con cui il soggetto può rapportarsi ad esso, una dipendenza, quindi, dalla soggettività. 1.1. la crisi della ragione scientifica nell’età moderna (o al suo nascere “moderno”) Husserl indica nella rivoluzione scientifica seicentesca il momento in cui furono poste le premesse della crisi che ancora investe le scienze. 1.1.1. A partire da Galilei si impone la convinzione che il mondo sia assolutamente autonomo rispetto al soggetto che lo percepisce e lo conosce e che la «verità obiettiva» del mondo sia esprimibile in puri termini matematico-geometrici. Dimenticando il ruolo essenziale della coscienza, del soggetto che si volge verso il mondo per dargli ordine e senso, la scienza galileiana non pensa che a «sussumere» i dati empirici entro gli schemi ideali della matematica, rinunciando a cogliere la realtà nella sua pienezza e varietà; in tal modo, anziché indagare il nesso che sussiste tra la coscienza e il mondo, e invece di approfondire il ruolo svolto dalla soggettività nel costituire la natura, la scienza moderna, e in particolare la fisica galileiana, impostano la ricerca su una presunta 2 verità oggettiva del mondo, esprimibile mediante indici matematici. Galileo diventa nell’interpretazione husserliana il «genio che scopre e insieme occulta. Egli scopre la natura matematica, l’idea metodica e apre la strada a un’infinità di scopritori e di scoperte fisiche» (Husserl, 1959, La crisi, 81); ma nello stesso tempo è responsabile di quella matematizzazione del mondo che proietta sulla realtà le forme categoriali, ideali e simboliche, della geometria e della matematica. «Già con Galilei comincia la sovrapposizione della natura idealizzata a quella intuitiva pre-scientifica.» (Husserl, 1959, La crisi, 79) 1.1.2. A giudizio di Husserl anche Descartes vive un destino analogo: scopre e al tempo stesso occulta; mentre infatti mette in luce il ruolo centrale della coscienza, del cogito, è condotto dalla sua rivoluzionaria scoperta a separare inopportunamente res cogitans e res extensa, soggetto pensante ed estensione fisica, aprendo la strada a una tradizione filosofica incapace di spiegare l’inscindibile legame tra la coscienza e il mondo delle sue rappresentazioni. 1.2. «sottoporre a una critica seria e peraltro estremamente necessaria la scientificità di tutte le scienze». Diagnosi e terapia per la crisi delle scienze europee L’indagine di Husserl sulla crisi delle scienze è costruita secondo uno schema «clinico» che si articola in tre momenti: l’individuazione dei segni della malattia «morale» dei saperi (semeiotica); la ricerca delle cause (eziologia); la proposta di un rimedio (terapia). Poiché la crisi costituisce il momento risolutivo della malattia, il preludio alla guarigione, uno studio completo della crisi dei saperi dovrà connettere tra loro i tre momenti di indagine. Il testo di Husserl si apre con una analitica descrizione delle condizioni in cui versano le scienze del Novecento, prosegue con la ricostruzione delle origini storiche del male che le affligge, si conclude con la proposta di una strategia che consenta alla comunità dei filosofi il pieno recupero dell’originario progetto filosofico greco e della filosofia intesa come «compito infinito». 1.2.1. Una “mera scienza di fatti”, appiattita in apparente scrupolosa registrazione dei fatti, dimentica il soggetto da cui parte la domanda e con esso dimentica l’umanità. «Tuttavia può darsi che, procedendo da un altro ordine di considerazioni, cioè dalle diffuse lamentele sulla crisi della nostra cultura e sul ruolo che in questa crisi viene attribuito alle scienze, ci vengano incontro motivi che ci inducano a sottoporre a una critica seria e peraltro estremamente necessaria la scientificità di tutte le scienze, senza pertanto rinunciare al primo senso della loro scientificità, quel senso che è inattaccabile data la legittimità delle sue operazioni metodiche. […] Adottiamo come punto di partenza il rivolgimento, avvenuto allo scadere del secolo scorso, nella valutazione generale delle scienze. Esso non investe la loro scientificità bensì ciò che esse, le scienze in generale, hanno significato e possono significare per l'esistenza umana. L’esclusività con cui, nella seconda metà del XIX secolo, la visione del mondo complessiva dell'uomo moderno accettò di venir determinata dalle scienze positive e con cui si lasciò abbagliare dalla «prosperity» che ne derivava, significò un allontanamento da quei problemi che sono decisivi per un'umanità autentica. Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto. […] In definitiva essi concernono l'uomo nel suo comportamento di fronte al mondo circostante umano ed extraumano, l'uomo che deve liberamente scegliere, l'uomo che è libero di plasmare razionalmente se stesso e il mondo che lo circonda. Che cos'ha da dire questa scienza sulla ragione e sulla non-ragione, che cos'ha da dire su noi uomini in quanto soggetti di questa libertà? Ovviamente, la mera scienza di fatti non ha nulla da dirci a questo proposito: essa astrae appunto da qualsiasi soggetto.» (Husserl, 1959, La crisi, 3536) 1.2.2. «L'origine della nuova idea dell’universalità e della scienza nella riforma della matematica.» o il ruolo della matematica nel rilancio e nella crisi della scienza, nell’età moderna. La “matematizzazione della natura”: la matematica da ideale, cui la realtà partecipa (e la relazione qui richiama la filosofia di Platone: il mondo visibile è immagine e partecipazione del mondo formale ideale, delle forme geometriche pure), diventa reale, costituisce l’essenza del reale; e la realtà che conta viene ridotta a matematica: solo ciò che viene letto e notato matematicamente è reale e oggettivo, il resto è illusione, soggettivo e inganno. «Innanzitutto occorre ora comprendere 3 quell'essenziale mutamento dell'idea e dei compiti della filosofia, che avvenne all'inizio dell'epoca moderna al momento della riadozione dell'idea antica. A partire da Cartesio quest'idea rinnovata orienta l'andamento complessivo dello sviluppo dei movimenti filosofici e diventa il motivo interno di tutte le loro tensioni. […] Non si deve però trascurare la poderosa trasformazione di senso, per cui ora vengono posti, innanzitutto alla matematica (in quanto geometria e in quanto dottrina formale-astratta dei numeri e delle grandezze), compiti universali in un senso di principio nuovo, completamente estraneo agli antichi. […] Ma ciò non vale soltanto per quanto riguarda lo spazio ideale. Ancora più estranea agli antichi era la concezione di un'idea analoga ma (in quanto sorta da un’astrazione formalizzante) più generale, l'idea di una matematica formale. Soltanto agli inizi dell'epoca moderna comincia la vera conquista e la scoperta degli infiniti orizzonti della matematica. Siamo così agli inizi dell'algebra, della matematica dei continui, della geometria analitica. L'ardimento e l’originalità che è propria della nuova umanità anticipa ben presto, su queste basi, il grande ideale di una scienza razionale e onnicomprensiva in un senso nuovo, cioè l'idea che la totalità infinita di ciò che è sia in sé una totalità razionale e che, correlativamente, essa possa essere dominata, e dominata completamente, da una scienza universale. […] Per il platonismo il reale aveva una metessi [partecipazione] più o meno perfetta all'ideale. Ciò fornì alla geometria antica la possibilità di una rudimentale applicazione alla realtà. Nella matematizzazione galileiana della natura questa stessa realtà viene idealizzata sotto la guida della nuova matematica; in termini moderni: essa diventa a sua volta una molteplicità matematica. Qual è il senso di questa matematizzazione della natura, come possiamo ricostruire il processo di pensiero che ne costituì la motivazione?» (Husserl, 1959, La crisi, 51-53) 1.2.2.1. «il concetto fondamentale della fisica galileiana: la natura come universo matematico», o come la matematica ha formalmente ridotto o ridefinito il sensibile primo intuitivo e pieno, non ancora formalizzato, dell’elementare e primario “mondo-della-vita” o “mondo vitale”. «Frattanto tutta questa matematica pura ha a che fare con i corpi e col mondo corporeo in una mera astrazione, cioè soltanto con le forme astratte nella spazio-temporalità e, oltretutto, soltanto in quanto esse sono forme-limite puramente «ideali». Ma concretamente le forme empiriche reali o possibili ci sono date, dapprima, nell'intuizione empirica sensibile, soltanto come «forme» di una «materia», di un plenum (Fülle) sensibile; cioè con ciò che si rappresenta nelle cosiddette qualità specifiche di senso, colore, suono, odore e simili, e secondo peculiari gradualità. […] Della forma indeterminata e generale del mondo-della-vita, della forma spazio-temporale, con la molteplicità di forme empirico-intuitive che noi dobbiamo rappresentarci in esso, la matematica ha fatto un mondo obiettivo in senso proprio, cioè una totalità infinita di oggettualità ideali determinabili metodicamente, generalmente e per chiunque. Così essa ha mostrato per la prima volta come un'infinità di oggetti soggettivi-relativi e pensati soltanto in una vaga rappresentazione generale siano realmente pensabili mediante un metodo onnicomprensivo a priori, come siano obiettivamente determinabili e in sé determinati; più precisamente: come quest’infinità sia un'infinità preliminarmente definita, determinata in tutti i suoi oggetti e in tutte le sue proprietà e relazioni di proprietà. […] In secondo luogo: entrando in contatto con l'arte della misurazione e guidandola, la matematica — ridiscesa dal mondo delle idealità a quello empiricamente intuitivo, — ha mostrato che delle cose del mondo reale-intuitivo, di quelli tra i loro aspetti che la interessano in quanto matematica delle forme (a cui le cose partecipano necessariamente), si può attingere universalmente una conoscenza obiettivamente reale di un genere completamente nuovo, una conoscenza cioè riferita per approssimazione alle idealità che le sono proprie. Tutte le cose del mondo empiricamente intuitivo hanno, conformemente allo stile del mondo, una corporeità, sono «res extensae»… […] La difficoltà sta nel fatto che appunto quei piena materiali che integrano concretamente i momenti spazio-temporali delle forme del mondo corporeo – le «specifiche» qualità di senso — nelle loro gradualità proprie non possono venir trattati direttamente come le forme stesse. […] Il problema è ora di sapere quale possa essere il significato di una matematizzazione indiretta. Riflettiamo innanzitutto alla ragione più profonda che rende impossibile di principio una matematizzazione diretta (o qualcosa di analogo ad una costruzione 4 approssimativa) delle qualità specificamente sensibili dei corpi.» (Husserl, 1959, La crisi, 59,61-62, 62-63) «La matematica come regno della conoscenza autentica e obiettiva (e la tecnica sotto la sua guida), ciò costituiva per Galileo e anche per i suoi predecessori il punto focale dell'interesse proprio dell'uomo «moderno» per la conoscenza filosofica del mondo e per una prassi razionale. Devono esistere metodi di misura per tutto ciò che la geometria e la matematica delle forme comprendono nella loro idealità e nel loro a-priori. L'intiero mondo concreto deve dimostrarsi matematizzabile-obiettivo, purché si risalga alle singole esperienze, e si misuri realmente tutto ciò che di esse si deve presupporre subordinato alla geometria applicata, se si elaborano cioè adeguati metodi di misura. Se si fa questo, il lato degli eventi specificamente qualitativi deve matematizzarsi indirettamente.» (Husserl, 1959, La crisi, 67) 1.2.2.2. Le ragioni di una matematizzazione indiretta (che porta ad una lettura scientifica matematica dell’esperienza) e l’impossibilità di una matematizzazione diretta (che porta alla identificazione delle forme geometriche pure con la percezione empirica intuitiva immediata, annullando questa in quelle o riducendo l’esperienza alle forme pure ideali, in tal modo oggettivate o rese fisiche). «Il commercio tra la teoria a priori e l’empiria ci è tanto familiare, che noi abitualmente tendiamo a non distinguere lo spazio e le figure spaziali di cui parla la geometria dallo spazio e dalle figure spaziali della realtà sperimentale, quasi si trattasse della stessa cosa. Ma se la geometria dev’essere intesa come il fondamento di senso della fisica esatta, su questo punto, come del resto in generale, dobbiamo essere molto precisi. Perciò, al fine di chiarire la formazione del pensiero galileiano, non dobbiamo ricostruire soltanto ciò che motivava coscientemente Galileo. Piuttosto sarà molto istruttivo chiarire ciò che comportava implicitamente il modello matematico che lo guidava; anche se, data la direzione dei suoi interessi, ciò doveva restare per lui oscuro e doveva naturalmente penetrare nella sua fisica in quanto ne costituiva il nascosto presupposto di senso. Nel mondo circostante intuitivo, nella considerazione astrattiva delle forme spaziotemporali, noi esperiamo innanzitutto «corpi» — non i corpi geometrico-ideali, bensì quei corpi che noi realmente esperiamo, provvisti di quel contenuto che è il reale contenuto dell’esperienza. Certo noi possiamo riplasmarli arbitrariamente nella fantasia; ma le libere possibilità, in un certo senso «ideali», che noi così attingiamo non sono affatto possibilità geometrico-ideali, non sono affatto forme «pure» geometricamente delimitabili nello spazio ideale — corpi «puri», rette «pure», piani «puri», figure «pure», bensì movimenti e deformazioni che tendono a trasformarsi in figure «pure». Lo spazio geometrico non è dunque qualcosa come lo spazio fantastico o, in generale, lo spazio di un mondo sempre riplasmabile fantasticamente (pensabile) in genere. La fantasia non può che trasformare le forme sensibili in altre forme sensibili.» (Husserl, 1959, La crisi, 54) 1.3. Le origini (dal punto di vista filosofico) della crisi delle scienze europee, l’abbandono del progetto di epistéme e dell’originario (e perenne) progetto di filosofia. La matematizzazione del mondo. L’affermarsi dell’ideale di scienza proposto dai filosofi moderni (come Galilei) costituisce, a giudizio di Husserl, un vero e proprio tradimento del progetto originario di filosofia come scienza universale. Elevando a criterio di scientificità la traducibilità dell’esperienza in termini matematici o in rapporti quantitativi, gli autori moderni hanno allontanato dall’orizzonte delle scienze tutto ciò che non poteva essere espresso secondo parametri numerici (come i valori, la felicità, il destino umano), oppure hanno cercato di ricondurre anche questi temi ai rigidi e riduttivi schemi della ragione geometrica. Relegate le questioni metafisiche al di fuori della scientificità, lo studioso moderno si è dedicato al perfezionamento del suo metodo di indagine; in questo modo ha però avviato l’umanità verso una crisi di valori nella quale sono coinvolti tutti i saperi. «La filosofia, dal tempo della sua origine, nell’Antichità, voleva essere «scienza», conoscenza universale dell’universo di ciò che è; non conoscenza quotidiana vaga e relativa — dóxa — bensì conoscenza razionale: epistéme. Ma l’antica filosofia non raggiunge ancora la vera idea della razionalità e quindi la vera idea della scienza universale — era questa almeno la convinzione dei fondatori dell’epoca moderna. Il nuovo ideale era possibile soltanto sull’esempio della nuova 5 matematica e delle nuove scienze naturali. Esso dimostrò le sue vere possibilità nel ritmo entusiasmante della sua realizzazione. Ora, una scienza universale che aderisca a questa nuova idea, e al livello della sua compiutezza ideale, che cos'è se non onniscienza? Si tratta dunque realmente di un fine che, per quanto disposto all’infinito, è realizzabile, non da parte del singolo e delle singole comunità di scienziati, bensì nell’infinita vicenda delle generazioni e nelle sue ricerche sistematiche. Il mondo è in sé, così almeno si crede di poter apoditticamente affermare, un’unità sistematica razionale, in cui tutti i particolari devono poter essere determinati razionalmente fino all’ultimo. La sua forma sistematica (cioè la sua struttura essenziale universale) può essere attinta, anzi è già preliminarmente nota e definita in quanto è in ogni modo puramente matematica. Occorre soltanto determinarla nella sua particolarità, il che è disgraziatamente possibile soltanto per vie induttive. È questa la via — infinita — che porta all'onniscienza. Si vive quindi nella tranquillizzante certezza di una via che procede da ciò che è più vicino a ciò che è più lontano, da ciò che è più o meno noto a ciò che è ignoto, nella certezza di un metodo infallibile di ampliamento della conoscenza, di un metodo realmente capace di portare alla conoscenza del pieno «essere insé» di tutto ciò che rientra nella totalità dell’essere — in un progresso infinito. Ma questo costante progresso ne implica anche un altro: quello dell’avvicinamento per approssimazione di ciò che è dato sensibilmente-intuitivamente nel mondo circostante della vita all’ideale matematico, il perfezionamento della «sussunzione», che è sempre soltanto approssimata, dei dati empirici sotto i corrispondenti concetti ideali, l’elaborazione di una metodica adeguata a questo scopo, l’affinamento delle misurazioni, il perfezionamento della capacità di prestazione degli strumenti ecc. Con la progressiva e sempre più perfetta capacità di conoscere il tutto, l'uomo consegue anche un dominio sempre più perfetto sul suo mondo pratico circostante, un dominio che si amplifica attraverso un progresso infinito. Ciò implica anche il dominio sull'umanità che rientra nel mondo reale circostante, e quindi anche il dominio su se stessi e sugli altri uomini, un dominio sempre maggiore sul proprio destino, e così una «felicità» sempre più perfetta, quella felicità che gli uomini possono in generale concepire razionalmente. Perché anche nell’ambito dei valori e del bene si può giungere a conoscere il vero in sé. Tutto ciò rientra nell’orizzonte di questo razionalismo, ne è una conseguenza ovvia. Così l'uomo diventa veramente l’immagine di dio. In un senso analogo a quello in cui la matematica parla di punti infinitamente lontani, di rette ecc. si può dire, ricorrendo a una similitudine, che dio è l’uomo infinitamente lontano. Il filosofo infatti, matematizzando il mondo e la filosofia, ha correlativamente idealizzato se stesso e insieme dio.» (Husserl, 1959, La crisi, 9495) 1.4. Matematica e filosofia: lo specifico ruolo e il cammino per uscire dalla crisi delle scienze. Husserl non intende affatto né misconoscere né invitare ad abbandonare la funzione della matematica nella definizione della scienza e nel suo successo tecnico applicativo; il suo progetto filosofico è quello di indicarne il reale fondamento e la portata di senso o di significazione. Si tratta di un progetto di analisi con intenti di rifondazione il cui esito infatti non è per nulla di indebolimento ma di rilancio della matematica e della sua funzione culturale. Solo sganciata da un immediato obiettivismo, storicamente funzionale forse, ma teoreticamente mortale, la matematica può riacquistare quella libertà ideale di progetto che la caratterizza come disciplina e avviare un processo di formalizzazione scientifica della realtà libera dall’impianto positivistico che la condanna ad essere un semplice strumento di lettura e di misura di dati di fatto o di una realtà di fatto considerata in sé definitiva e vera. 1.4.1. Il ruolo della matematica per la scienza (un doppio bilancio storico: “scopre… occulta”). «Galileo, lo scopritore della fisica e della natura fisica — oppure, per rendere giustizia ai suoi predecessori: colui che aveva portato a compimento le scoperte precedenti — è un genio che scopre e insieme occulta. Egli scopre la natura matematica, l'idea metodica, egli apre la strada a un'infinità di scopritori e di scoperte fisiche. Egli scopre, di fronte alla causalità universale del mondo intuitivo, ciò che da allora in poi si chiamerà senz'altro (in quanto sua forma invariante) legge causale, la «forma a priori» del «vero» mondo (idealizzato e matematico), la «legge della legalità 6 esatta», secondo la quale qualsiasi accadimento della «natura» — della natura idealizzata — deve sottostare a leggi esatte. Tutto ciò è una scoperta e insieme un occultamento, anche se fino ad oggi l'abbiamo considerato una pura e semplice verità. La critica, che si dice filosoficamente rivoluzionaria, «della legge classica di causalità» da parte della fisica atomica non rappresenta un mutamento di principio. Perché nonostante tutte le novità rimane, mi pare, il principio essenziale: la natura in sé matematica, la natura che si dà nelle formule e che soltanto in base alle formule può essere interpretata. Certo io pongo in tutta serietà Galileo alla testa dei grandi scopritori dell'epoca moderna, e cosi naturalmente ammiro in tutta serietà i grandi scopritori della fisica classica e postclassica, le loro attuazioni teoretiche che non sono affatto meramente meccaniche, che sono, anzi, sbalorditive.» (Husserl, 1959, La crisi, 81-82) «È tuttavia indubbio che il massimo progresso dell'ideale dell’universalità e della razionalità della conoscenza avviene nella sua sede originaria: nella matematica e nella fisica. Naturalmente ciò presuppone che, come risulta dalle nostre precedenti analisi, tutto ciò venga portato a una vera autocomprensione e che venga liberato da qualsiasi travisamento di senso.» (Husserl, 1959, La crisi, 95). 1.4.2. Il ruolo della filosofia. L’uscita dall’obiettivismo diventa un compito di chiarificazione e di rilancio di «tutte quelle attività mediante le quali erano state elaborate le nuove teorie, quelle formazioni spirituali che come tali, recavano in sé il senso ultimo della verità del mondo»; e fra queste «rientrano anche le attività conoscitive e le nozioni dei filosofi, dei matematici, degli studiosi della natura ecc.» (Husserl, 1959, La crisi, 96) E, più globalmente, si traduce in un compito di rilancio della filosofia nel suo compito primo e autentico: «Ora perciò vengono in luce enigmi del mondo di uno stile ancora sconosciuto, e condizionano un tipo completamente nuovo di ricerca filosofica, una «teoria della conoscenza», una «teoria della ragione», e, ben presto, anche tutta una serie di filosofie sistematiche dotate di fini e di metodi completamente nuovi. Questa rivoluzione, la più grande di tutte, può essere designata come una trasformazione dell’obiettivismo scientifico, di quello moderno ma anche di quello di tutte le filosofia precedenti, sviluppatesi attraverso millenni, in un soggettivismo trascendentale.» (Husserl, 1959, La crisi, 97) 1.4.3. Contro l’idealismo che pretende di derivare le cose da un soggetto assoluto e contro il positivismo che pretende di fare a meno del soggetto in nome di un'illusoria oggettività dei fatti, Husserl propone una filosofia nella quale soggetto e oggetto siano assunti come polarità che si implicano necessariamente e costantemente. La fenomenologia di Husserl si presenta così come un metodo e un programma di ricerca che si propone di descrivere i modi essenziali in cui le cose si danno alla coscienza, il mondo si manifesta al soggetto. Questo programma domina l'intera riflessione di Husserl sin dalle Ricerche logica del 1901, prosegue nella Filosofia come scienza rigorosa del 1911, nelle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica del 1913 e nelle Meditazioni cartesiane del 1929, per concludersi nell’ampio saggio sulla Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, composto nel 1937, ma rimasto incompiuto e pubblicato postumo nel 1954. 1.4.4. I passaggi del rilancio della matematica e della filosofia (della cultura) in uscita dall’obiettivismo. «Ciò che finora s'è detto è ancora unilaterale e non rende giustizia a certi orizzonti di problemi che ci introdurranno in nuove dimensioni, in dimensioni che possono essere dischiuse soltanto dalla riflessione sul mondo-della-vita e sull'uomo che ne è il soggetto; ma tutto ciò potrà venire in luce soltanto quando saremo molto più avanti nel chiarimento dello sviluppo storico e delle sue più profonde forze di propulsione.» (Husserl, 1959, La crisi, 1959, 82) Quindi i due passaggi di rifondazione: 1. Riflessione sul mondo-della-vita [punto 2.]; 2. Riflessione sull’uomo che ne è il soggetto [punto 3.]. 2. Alla fonte del significato: il mondo della vita «Il mondo-della-vita quale dimenticato fondamento di senso della scienza naturale» (Husserl, 1959, La crisi, 77); fatto che avviene quando la moderna sostituzione del mondo dell’esperienza con il 7 mondo delle forme ideali, attraverso la matematizzazione dell’esperienza, ha consegnato alla dimenticanza il processo soggettivo che ha reso possibile quella operazione culturale, il senso di tutta questa operazione, la sua radice prima e la trasformazione che essa genera. 2.1. In critica: rivedere la moderna sostituzione del mondo della vita, della percezione (la loro copertura e il loro oblio), con un mondo costruito dalle forme e dalle formule matematiche, e dai concomitanti progetti di gestione tecnica. «Ma ora è estremamente importante rilevare come già con Galileo fosse avvenuta una sovrapposizione del mondo matematicamente sustruito delle idealità all'unico mondo reale, al mondo che si dà realmente nella percezione, al mondo esperito ed esperibile — al mondo-circostante-della-vita, Questa sovrapposizione è stata ereditata dai successori, dai fisici di tutti i secoli successivi.» (Husserl, 1959, La crisi, 77-78) 2.1.1. Un procedimento che si presenta come costruzione di una verità oggettiva e scientifica, mentre consegna all’oblio il mondo-della-vita, il mondo della natura in intuizione pre-scientifica; tutto è incluso nella prevedibilità delle leggi della natura messe in definizione dalla scienza. «Così poteva sembrare che la geometria, procedendo mediante «intuizioni» e mediante un pensiero immediatamente evidente e a priori, producesse una verità assoluta e autonoma, che, come tale, appariva — ovviamente — senz'altro applicabile. Galileo e l'epoca successiva non si accorsero che a sua volta — come abbiamo rilevato ricostruendo ed esplicitando il pensiero galileiano nei suoi aspetti fondamentali — quest'ovvietà era soltanto un'apparenza e che anche il senso dell'applicazione della geometria aveva sorgenti di senso molto più complicate. Già con Galileo comincia dunque la sovrapposizione della natura idealizzata a quella intuitiva pre-scientifica. Così ogni riconsiderazione occasionale (e anche «filosofica») che risalga al di là delle regole d'arte secondo cui si svolge un certo lavoro, al suo senso proprio, si arrestò sempre alla natura idealizzata, senza penetrare radicalmente fino al fine ultimo che la nuova scienza e la geometria da essa inseparabile, procedendo dalla vita pre-scientifica e dal mondo circostante, doveva fin dall'inizio perseguire, un fine che pure rientrava in questa stessa vita e che non poteva che riferirsi al mondodella-vita. L'uomo che vive in questo mondo, e anche l'indagatore della natura, poteva rivolgere le sue interrogazioni praticamente teoretiche soltanto a questo mondo; le sue ricerche teoriche potevano concernere solo questo mondo nell'orizzonte aperto e infinito di ciò che in esso ancora rimaneva ignoto. Qualsiasi conoscenza di leggi non poteva essere che una conoscenza delle previsioni — previsioni che andavano colte mediante leggi — del decorso dei fenomeni reali o possibili dell'esperienza, di quei fenomeni i quali, con l’allargamento dell'esperienza, si preannunciano attraverso le osservazioni e gli esperimenti che penetrano sistematicamente negli orizzonti ignoti e vengono verificati nel modo dell'induzione.» (Husserl, 1959, La crisi, 78-79) 2.1.2. Il persistere, o il resistere sullo sfondo comprendente, del mondo come immediata esperienza percettiva corporea personale: «Noi lo troviamo di fronte a noi in quanto mondo di tutte le realtà note o ignote … in esso noi viviamo, conformemente il nostro modo d'essere corporeo e personale.», senza la percezione di forme geometriche, di formule matematiche, di leggi fisiche. «Certo l'induzione di tipo quotidiano si trasformò così in un'induzione operata mediante un metodo scientifico, ma ciò non muta nulla al senso essenziale del mondo già dato in quanto orizzonte di tutte le induzioni dotate di un senso. Noi lo troviamo di fronte a noi in quanto mondo di tutte le realtà note o ignote. Ad esso, al mondo dell'intuizione realmente esperiente, inerisce la forma spazio-temporale con tutte le forme corporee che possono venir ordinate in essa, in esso noi viviamo, conformemente il nostro modo d'essere corporeo e personale. Ma in questo mondo non troviamo nessuna idealità geometrica, non troviamo né lo spazio geometrico né il tempo matematico con tutte le sue forme. Un'osservazione importante per quanto triviale. Ma proprio questa trivialità è stata mascherata dalla scienza esatta, e già all'epoca dell'antica geometria, appunto attraverso quella sovrapposizione di un'operazione metodicamente idealizzante a ciò che è la realtà presupposta da qualsiasi idealizzazione e che è data immediatamente in una specie di insuperabile verificazione. Qualsiasi arte noi elaboriamo, qualsiasi cosa facciamo, questo mondo realmente intuitivo, realmente esperito ed esperibile, in cui si svolge praticamente tutta la nostra vita, resta, 8 nella sua propria struttura essenziale, quello che è, immutato nel proprio stile causale. Esso non muta dunque nemmeno se noi escogitiamo un'arte particolare, per es. quell'arte geometrica galileiana che chiamiamo fisica.» (Husserl, 1959, La crisi, 78-79) 2.1.3. «Le cose «viste» sono già sempre qualcosa di più di ciò che di esse «realmente e propriamente» vediamo.» Se è vero, dal punto di vista del senso comune, che i rami dell'albero che il soggetto osserva esistono ed esisterebbero anche senza che quel soggetto lì percepisse, dal punto di vista del pensiero rigoroso solo in quanto il soggetto porta il suo sguardo su di essi i rami cessano di esistere «in se stessi» per esistere «per il soggetto». Gli oggetti sono dunque fenomeni della coscienza, non in senso kantiano, e cioè come apparenze, ma in quanto realtà che si danno alla coscienza, si manifestano al soggetto che rivolge loro il suo sguardo, il suo ricordo, la sua ammirazione. Il vedere supera il discorso sul vedere e non è da questo sostituibile pur essendo portato a progressiva, continua, infinita consapevolezza e dicibilità da discorsi dotati di una loro specifica formalizzazione, confezionati in una specie di “abito ideale”. «In realtà, che cosa operiamo con essa [geometria e fisica]? Appunto una previsione ampliata all'infinito. Sulla previsione, possiamo dire, sull'induzione si fonda tutta la vita. Benché in modo grezzo, già la certezza d'essere di qualsiasi esperienza diretta è un'induzione. Vedere, percepire significa per essenza avere-in persona e insieme progettare (Vorhaben), pre-sumere (Vormeinen). Qualsiasi prassi, con tutti i suoi progetti, implica induzioni; senonché le conoscenze induttive abituali, anche quelle espressamente formulate e «verificate» (le previsioni), sono «prive di regole d'arte» rispetto a quelle «metodiche» e praticate secondo queste regole, rispetto al metodo della fisica galileiana nella sua capacità infinita di compiere induzioni. Nella matematizzazione geometrica e scientifico-naturale, noi commisuriamo così al mondo-della-vita — al mondo che ci è costantemente e realmente dato nella nostra vita concreta che si svolge in esso —, nell'aperta infinità di un'esperienza possibile, un ben confezionato abito ideale, quello delle cosiddette verità obiettivamente scientifiche; costruiamo cioè (o almeno speriamo di costruire), attraverso un metodo realmente praticabile in tutti i particolari e costantemente verificato, determinate induzioni numeriche per i plena sensibili reali e possibili delle forme concrete-intuitive del mondo-della-vita; e proprio così attingiamo la possibilità di una previsione degli accadimenti concreti del mondo, di quegli eventi che non sono più o non sono ancora realmente dati, degli eventi, cioè, intuitivi del mondo-della-vita, attingiamo cioè la possibilità di una previsione che supera infinitamente la portata della previsione quotidiana.» (Husserl, 1959, La crisi, 80) 2.1.4. Un rivestimento di lettura e di interpretazione che finisce per trasformare lo strumento e il metodo in essenza e realtà: «L'abito ideale fa sì che noi prendiamo per il vero essere quello che invece è soltanto un metodo»; e si torna alla crisi della mente, al blocco delle sue potenzialità (e al tramonto della domanda di senso, della domanda sul télos della cultura), a causa della naturalizzazione e obiettivazione dei metodi con cui, leggendo, il metodo riveste e fissa la realtà. «L'abito ideale che si chiama «matematica e scienza naturale matematica», oppure l'abito simbolico delle teorie simbolico-matematiche, abbraccia, riveste tutto ciò che per gli scienziati e per le persone colte, in quanto «natura obiettivamente reale e vera», rappresenta il mondo-della-vita. L'abito ideale fa sì che noi prendiamo per il vero essere quello che invece è soltanto un metodo, un metodo che deve servire a migliorare mediante «previsioni scientifiche» in un «progressus in infinitum», le previsioni grezze, le uniche possibili nell'ambito di ciò che è realmente esperito ed esperibile nel mondo-della-vita; l'abito ideale poté far sì che il senso proprio del metodo, delle formule, delle «teorie» rimanesse incomprensibile e che durante l’elaborazione ingenua del metodo non venisse mai compreso.» (Husserl, 1959, La crisi, 80-81) 2.1.5. Da qui nasce l’urgenza della filosofia (e la sua definizione), avvertita nella sua necessità attraverso la descrizione e la scoperta della sua dimenticanza, della sua inadempienza, del suo abbandono e della sua assenza, e ciò proprio nel momento in cui la scienza progetta una costruzione razionale sistemica del mondo senza nulla concedere ad ambiti esterni a sé; la scienza cioè, nell’età moderna, costruisce il mondo come oggetto infinito della completezza matematica senza 9 interrogarsi sulla basi di senso e sugli esiti di destino di un simile progettare in termini di definizione e di dominio totale. «Così non si presentò mai alla coscienza nemmeno il problema radicale di come una simile ingenuità potesse diventare un fatto storico vitale e di come possa continuare a sussistere effettivamente: di come potesse sorgere un metodo effettivamente orientato verso un fine, quello dell’adempimento sistematico di un compito scientifico infinito, un metodo che indubbiamente continua a maturare sicuri risultati; il problema di come un metodo simile potesse fungere utilmente attraverso secoli senza che si delineasse una vera comprensione del senso proprio e dell'intima necessità delle sue operazioni. Mancava cioè, e continua a mancare, una reale evidenza, grazie alla quale colui che è immerso nel processo delle operazioni conoscitive potrebbe rendersi conto non soltanto delle novità che egli realizza e di ciò di cui si sta occupando, ma anche di tutte le implicazioni di senso occluse dalle sedimentazioni e dalla tradizione, cioè delle premesse delle sue formazioni teoretiche, dei suoi concetti, delle sue proposizioni, delle sue teorie. La scienza e il metodo scientifico non somigliano così a una macchina che produce evidentemente qualcosa di molto utile e di cui quindi ci si può fidare, una macchina che ciascuno può imparare a manovrare pur senza comprendere minimamente le interne possibilità e la necessità delle sue operazioni? Ma è possibile che la geometria, la scienza siano state progettate fin dall'inizio come una macchina, come il prodotto di una mentalità perfetta in un senso analogo — di una mentalità scientifica? Ciò non portava forse a un «regressus in infinitum»?» (Husserl, 1959, La crisi, 81) 2.2. il tema del mondo-della-vita oggetto di fenomenologia prima. L’allarme e l’attenzione critica sollevati dai rilievi precedenti pongono al centro della riflessione filosofica il tema preliminare e fondante (non solo introduttivo) del mondo-della-vita. 2.2.1. Una presentazione del tema. La nozione di «mondo della vita» viene presentata da E. Husserl, nell’opera La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1937, 1954), come presupposto e fondamento inespresso dei progetti e dei comportamenti cui la ragione dà vita, nei vari campi della sua presenza; in particolare, in questo contesto di indagine sulla crisi delle scienze europee, come presupposto e condizione di ogni sapere scientifico-obiettivo. «Il sapere scientificoobiettivo si fonda sull’evidenza del mondo-della-vita» (Husserl, 1959, La crisi, 159) «Nella sua trattazione su La crisi delle scienze europee, Husserl ha introdotto il concetto di mondo della vita dal punto di vista di una critica della ragione. Al di sotto della realtà che le scienze naturali fanno valere come unica, Husserl porta invece alla luce il contesto previo all’esperienza di mondo e alla prassi naturale di vita, quale fondamento di senso che è stato rimosso. Il mondo della vita rappresenta a tale riguardo il controconcetto di tutte quelle idealizzazioni che costituiscono in primo luogo l’ambito oggettuale delle scienze naturali. Contro le idealizzazioni della misurazione, della sottomissione alla causalità e della matematizzazione, ma anche contro un’attiva tendenza alla tecnicizzazione, Husserl rivendica invece il ritorno al mondo della vita come sfera immediatamente presente delle prestazioni originarie; in tale prospettiva, egli critica le idealizzazioni, dimentiche di se stesse, dell’oggettivismo delle scienze naturali. Ma poiché la filosofia del soggetto è cieca di fronte alla caparbietà (Eigensinn) dell’intersoggettività linguistica, per questo anche Husserl non riesce a riconoscere come già il terreno della stessa prassi comunicativa quotidiana poggi su presupposti idealizzanti.» (Habermas Jürgen 1990, Il pensiero post-metafisico, ed. Laterza Bari 1991 p. 85; Habermas ne parla in presentazione e in critica; segnala la possibilità di cogliere il ruolo chiarificatore del mondo-della-vita per l’agire comunicativo quotidiano, anch’esso spesso dominato, per lo più atematicamente, da presupposti idealizzanti che operano contemporaneamente in funzione di formalizzazione e di oblio. La ripresa critica di Habermas è guidata dallo scopo di rilanciare il concetto di mondo-della-vita e potenziarlo presentandolo come sostrato inespresso ma operativo e imprescindibile delle svariate forme dell’agire comunicativo; mondo della vita come concetto «che si riferisce alla totalità dei fatti socioculturali, in grado perciò di offrire un punto di contatto per la teoria della società» Habermas Jürgen, 1981Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna 1986). 10 2.2.1.1. Definito da Husserl come «mondo spazio-temporale delle cose così come noi le sperimentiamo nella nostra vita pre- ed extrascientifica e così come noi le sappiamo esperibili al di là dell’esperienza attuale», il mondo della vita si presenta come orizzonte universale di una qualsiasi esperienza possibile. Husserl non intende in tal modo riportare le nostre facoltà agli oggetti quali appaiono nella visione e nelle definizioni quotidianamente condivise, ma invita a cogliere il mondo della vita prima del momento in cui schemi di categorie oggettivamente formalizzate si sovrappongano al plenum della vita e vi si sostituiscano. Perché, quando teorie oggettive e sistematiche si autopresentano come totalità compiute, assolute e originarie, allora il mondo della vita viene condannato a essere un «dimenticato fondamento di senso della scienza naturale»; le definizioni sistematiche e oggettive del mondo, formulate secondo categorie logiche, si presentano invece e quindi come formalizzazioni particolari dell’esperienza immediata del mondo (del contesto mondo della vita). 2.2.1.2. Più in generale, il mondo della vita si pone come orizzonte e fondamento delle direzioni di senso con cui il soggetto dà particolari forme logico-scientifiche all'esperienza; esso costituisce quindi il tema di una nuova filosofia trascendentale. La filosofia che riflette sul mondo della vita pone al centro della propria attenzione e affida ad una indagine di carattere fenomenologico il fondamento dei processi culturali che tendono a definire razionalmente e oggettivamente il mondo e questi stessi processi intesi come formazioni soggettive e prassi intenzionanti il mondo. 2.3. L’esposizione di Husserl: «Esposizione del problema di una scienza del mondo-della-vita». «Differenza tra scienza obiettiva e scienza in generale. Il mondo-della-vita come tale non è forse l’universalmente noto, l’ovvietà che inerisce a qualsiasi vita umana, ciò che nella sua tipicità ci è già sempre familiare attraverso l’esperienza? I suoi orizzonti ignoti non sono forse semplicemente orizzonti di una conoscenza semplicemente imperfetta, e cioè già noti almeno nella loro tipicità più generale? Certo alla vita pre-scientifica questa conoscenza basta, come le basta il suo modo di trasformare la non-conoscenza in conoscenza e di attingere occasionalmente una conoscenza sulla base dell’esperienza e dell’induzione (di un’esperienza che continuamente viene verificata e che esclude costantemente le apparenze). Ciò basta alla prassi quotidiana. Ma se si vuol compiere un passo in avanti, per pervenire a una conoscenza «scientifica», che cosa può essere messo in discussione se non gli scopi e le operazioni della scienza obiettiva? […] Le scienze costruiscono sopra l’ovvietà del mondo-della-vita, se ne servono attingendo ad esso tutto ciò che volta per volta è necessario ai loro scopi. Ma usare in questo modo il mondo-della-vita non significa conoscerlo scientificamente nel suo modo d’essere. […] Il mondo-della-vita è un regno di evidenze originarie. Ciò che è dato in modo evidente è, a seconda dei casi, «esso stesso» dato nella percezione, e cioè esperito nella sua presenza immediata, oppure è ricordato nella memoria. Tutti gli altri modi di intuizione sono presentificazioni di questo «esso stesso». […] Certo uno dei compiti più importanti della penetrazione scientifica del mondodella-vita, è quello di valorizzare il diritto originario (Urrecht) di queste evidenze, la loro dignità di evidenze capaci di fondare la conoscenza rispetto a quella delle evidenze logico-obiettive. Occorre chiarire, occorre cioè mostrare in un’evidenza definitiva, come qualsiasi evidenza delle operazioni logico-obiettive su cui si fonda, sia per la forma sia per il contenuto, qualsiasi teoria obiettiva (la teoria matematica, la teoria delle scienze naturali), abbia le sue occulte fonti di fondazione nella vita ultima operante in cui la datità evidente del mondo-della-vita ha attinto e sempre di nuovo attinge il suo senso d’essere pre-scientifico. Dall’evidenza logico-obiettiva (della «visione intellettuale» [«Einsicht»]) matematica, delle scienze naturali, delle scienze positive, così come le pratica il matematico nell’atto di perseguire e di fondare i suoi risultati, ecc., la strada riconduce all’evidenza originaria, in cui il mondo-della-vita è costantemente già dato. Per quanto ciò che s’è detto possa apparire opinabile e discutibile, la generalità del contrasto tra i gradi di evidenza (Evidenzstufen) è innegabile. I discorsi empiristici degli scienziati sembrano spesso, se non sempre, presupporre che le scienze naturali siano scienze fondate sull’esperienza della natura obiettiva. Ma non è questo il senso in cui è legittimo dire che esse sono scienze 11 sperimentali, che esse, di principio, aderiscono all’esperienza, che partono dalle esperienze, che tutte le loro induzioni vengono infine verificate attraverso l’esperienza; ciò è vero in un altro senso, nel senso in cui l’esperienza è un’evidenza che si presenta puramente nel mondo-della-vita e come tale è la fonte di evidenza delle constatazioni obiettive delle scienze, le quali, dal canto loro, non sono mai esperienze dell’obiettività. L’obiettività, in se stessa, non è, appunto, esperibile; e del resto se ne rendono conto gli stessi scienziati quando, contraddicendo i loro confusi discorsi empiristici, interpretano l’obiettività come qualcosa di metafisicamente trascendente. L’esperibilità dell’obiettività è pari a quella di formazioni geometriche infinitamente remote, o, in generale, a quella di qualsiasi «idea» infinita, per esempio dell’infinità della serie dei numeri. Naturalmente le «schematizzazioni intuitive» (Veranschaulichungen) di idee, per esempio nei «modelli» della matematica e delle scienze naturali, non sono intuizioni dell’obiettività stessa, bensì intuizioni che rientrano nel mondo-della-vita e che sono in grado di facilitare la concezione degli ideali obiettivi in questione.» (Husserl, 1959, La crisi, 152-157) 2.3.1. Una ripresa e un rilancio del concetto di “mondo-della-vita” posto a terreno, fonte e potenzialità, di ogni processo di tipo comunicativo, sia del vivere e operare quotidiani che del fare scienza e programmare in modo specialistico e costituente; in tal modo viene messa in luce la natura fondante e “elementale” del mondo della vita e la sua potenzialità di tessuto connettivo dei vari modi di produzione culturale propri del vivere espressi in termini condivisi. L’interpretazione, il potenziamento e il rilancio del concetto sono opera di Jürgen Habermas; egli interviene sul tema a più riprese fornendone una sorprendente varietà di definizioni essenziali: «Il mondo vitale immagazzina il lavoro interpretativo svolto dalle generazioni precedenti; esso è il contrappeso conservatore contro il rischio di dissenso che sorge con ogni processo effettivo dell’intendersi.» (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 138) Dunque una definizione e molte dimensioni / direzioni che pongono il mondo della vita in collegamento e a fondamento dell’agire comunicativo: «correlato a processi di intesa», «contesto dell’agire comunicativo», «concetto complementare all’agire comunicativo», «orizzonte e sfondo dell’agire comunicativo», «un serbatoio o uno sfondo di certezze ed evidenze non problematizzate ma problematizzabili a mano a mano che diventano rilevanti per una situazione», «un a priori sociale racchiuso nell’intersoggettività della comprensione linguistica», «Singoli elementi, determinate evidenze vengono però mobilitati sotto forma di un sapere consensuale e al tempo stesso problematizzabile soltanto quando diventano rilevanti per una situazione»; «nessi di riferimento, che collega fra loro le componenti della situazione e quest’ultima al mondo vitale», «un serbatoio di evidenze o convinzioni incontrollabili che i partecipanti alla comunicazione utilizzano per i processi cooperativi di interpretazione», «riserva di sapere tramandato e linguisticamente organizzato», «il luogo trascendentale nel quale parlante e ascoltatore si incontrano, nel quale possono avanzare reciprocamente la pretesa che le loro espressioni si armonizzano con il mondo (oggettivo, sociale, soggettivo), nel quale possono criticare e confermare queste pretese di validità, esternare il dissenso e raggiungere l’intesa», « si intendono sempre nell’orizzonte di un mondo vitale», «l’impalcatura formale con cui gli agenti in modo comunicativo inquadrano i contesti situazionali di volta in volta problematici», «Questa riserva di sapere munisce gli appartenenti di convinzioni di sfondo aproblematiche, supposte unanimemente come garantite; e da esse si forma di volta in volta il contesto di processi di comprensione, nei quali i partecipanti utilizzano o collaudate definizioni di situazioni o ne concordano di nuove. I partecipanti alla comunicazione trovano già contenutisticamente interpretato il nesso fra mondo oggettivo, sociale e soggettivo», «è costitutivo dell’intendersi in quanto tale, mentre i concetti formali del mondo formano un sistema di riferimento per quello su cui è possibile intendersi», … «le «strutture» della Lebenswelt. Secondo Habermas esse sono cultura, società, personalità — intese rispettivamente come riserva di sapere partecipabile, ordinamenti di appartenenza che fungono da fonte di solidarietà, processi di identità». (Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, soprattutto dalle pp. 697 alle 809 passim e da Introduzione di G.E. Rusconi) 12 «A questo punto posso introdurre il concetto di «Lebenswelt» anzitutto come correlato a processi di intesa. Soggetti che agiscono in modo comunicativo si intendono sempre nell’orizzonte di un mondo vitale. Il loro mondo vitale si compone di convincimenti di sfondo più o meno diffusi, sempre aproblematici. Tale sfondo di mondo vitale funge da fonte per definizioni situazionali che sono presupposte in modo aproblematico dai partecipanti. Nella loro opera di interpretazione gli appartenenti ad una comunità comunicativa delimitano il mondo oggettivo e il loro mondo sociale condiviso intersoggettivamente dai mondi soggettivi di singoli e di (altri) collettivi. I concetti del mondo e le corrispondenti pretese di validità costituiscono l’impalcatura formale con cui gli agenti in modo comunicativo inquadrano i contesti situazionali di volta in volta problematici, cioè bisognosi di accordo, nel loro mondo vitale presupposto come aproblematico. Il mondo vitale immagazzina il lavoro interpretativo svolto dalle generazioni precedenti; esso è il contrappeso conservatore contro il rischio di dissenso che sorge con ogni processo effettivo dell’intendersi. […] Su questo sfondo diventa evidente quali proprietà formali debbano presentare le tradizioni culturali se in un mondo vitale interpretato in modo corrispondente devono essere possibili orientamenti razionali di azione, se questi devono potersi coagulare in una condotta razionale di vita. […] Dalla prospettiva rivolta alla situazione il mondo vitale appare come un serbatoio di evidenze o convinzioni incontrollabili che i partecipanti alla comunicazione utilizzano per i processi cooperativi di interpretazione. Singoli elementi, determinate evidenze vengono però mobilitati sotto forma di un sapere consensuale e al tempo stesso problematizzabile soltanto quando diventano rilevanti per una situazione.» (Habermas Jürgen 1981, Teoria dell’agire comunicativo, ed. Il Mulino, Bologna 1986, pp. 138-140, 175-177, 706-712 passim) 2.4. Mondo-della-vita e le scienze obiettive: la connessione (dopo la distinzione, la connessione). «Le scienze obiettive come formazioni soggettive, in quanto rientranti in una prassi particolare, quella teoretico-logica, e nella piena concrezione del mondo-della-vita.» (Husserl, 1959, La crisi, 158) «Chiarito il contrasto tra scienza obiettiva e mondo-della-vita, occorre tuttavia localizzare la loro essenziale connessione: la teoria obiettiva nel suo senso logico (in termini universali, la scienza come totalità delle teorie predicative, dei sistemi «logici» in quanto sistemi di «proposizioni in sé», di «verità in sé» e, in questo senso, di enunciati logicamente connessi) è radicata e fondata nel mondo-della-vita, nelle sue evidenze originarie. Proprio per questo la scienza obiettiva ha una costante relazione di senso col mondo in cui sempre viviamo, e in cui, quindi, viviamo anche nella nostra qualità di scienziati accomunati a tutti gli altri scienziati — si tratta cioè di una relazione col comune mondo-della-vita. Ma così la scienza obiettiva è un'operazione di persone pre-scientifiche, di persone singole e di persone accomunate nell'attività scientifica, di persone quindi che appartengono al mondo-della-vita. Le loro teorie, le formazioni logiche, non sono naturalmente cose del mondo-della-vita nel senso in cui lo sono i sassi, le cose, gli alberi. Sono totalità logiche e parti logiche costituite da elementi logici ultimi. […] Ma anche questa idealità, come qualsiasi altra, non muta nulla al fatto che sono formazioni umane connesse per essenza alle attualità e alle potenzialità umane, e che quindi rientrano nella concreta unità del mondo-della-vita, la cui concrezione dunque ha una portata maggiore di quella delle «cose». […] Abbiamo definito con la cura necessaria il contrasto, e ora ci troviamo di fronte a due elementi: il mondo-della-vita e il mondo scientifico-obiettivo, due mondi che stanno tuttavia in una relazione. Il sapere scientificoobiettivo si fonda sull'evidenza del mondo-della-vita. Per colui che è scientificamente attivo, e per la comunità scientifica di lavoro, il mondo-della-vita è già dato ed è insieme il terreno delle sue occupazioni, ma ciò che su di esso viene costruito è un che di nuovo e di diverso. Quando cessiamo di essere immersi nel pensiero scientifico, ci rendiamo conto che noi scienziati siamo tuttavia uomini e, come tali, parti integranti del mondo-della-vita che è già sempre per noi, che ci è già sempre dato; così, con noi, l'intera scienza rientra nel mondo-della-vita, nel mondo-della-vita «meramente soggettivo-relativo». […] E tutti i fini, siano essi «pratici» in un senso extra-scientifico oppure pratici ma definibili sotto il titolo di «teoretici», non rientrano forse eo ipso nell'unità del 13 mondo-della-vita, almeno se li consideriamo nella loro piena e complessiva concrezione? D'altra parte è risultato che le proposizioni, le teorie, l'intero edificio dottrinale delle scienze obiettive sono formazioni che si sono costituite attraverso le attività degli scienziati, nel loro lavoro in comune — più precisamente: che si sono costituite attraverso un progressivo strutturarsi di attività in cui quelle successive presuppongono sempre gli esiti delle precedenti.» (Husserl, 1959, La crisi, 158-159) 2.4.1. «La concettualizzazione finita di rappresentazioni finite, cioè la genesi del pensiero scientifico, è semplicemente la riconduzione di tale processo in quadri ontologici specifici e formalmente categorizzati: quindi ne afferma e potenzia, e non certo smentisce, la verità originaria. In queste forme si concreta il nostro “mondo della vita”, che è il regno delle evidenze originarie: evidenze che vanno descritte non “attraverso” le loro qualità, ma in quanto sono una stratificazione qualitativa che si presenta-rappresenta, come le idee estetiche, al nostro sguardo, nei modi — possibili e reali — dell’esperienza.» (Elio Franzini, Immagine e pensiero, in Lucignani Giovanni, Pinotti Andrea 2007 (a cura di) Immagini della mente. Neuroscienze, arte, filosofia, Raffaello Cortina, Milano, 155) 2.5. Il rilancio delle scienze, non come scienze obiettive impostate alla descrizione dei fatti considerati in sé e in realtà già definiti secondo tradizione, ma come riapertura dell’atteggiamento teoretico nei confronti della realtà, si ottiene riportando le scienze alla loro natura di “formazioni spirituali” e atti di scoperta e riportando la filosofia al proprio ruolo attivo di scienza universale. 2.5.1. Fedele all’impegno di una rifondazione del sapere, assunto fin dai primi scritti, Husserl lavora intorno al progetto di una fenomenologia trascendentale: ad essa egli affida il compito di porre un argine alla crisi delle scienze e della civiltà europee e di restituire alla filosofia l’originario ruolo di «scienza universale, scienza del cosmo, della totalità di tutto ciò che è». L’analisi di Husserl prende avvio dallo stato di disagio nel quale egli vede coinvolte sia la filosofia, che sembra essersi dissolta nei diversi rami delle scienze particolari, sia le scienze stesse che, divenute sempre più «scienze dei fatti», si sono allontanare dall'orizzonte dell'esperienza umana e soggettiva. Quando nella conferenza del 1935, «La crisi dell’umanità europea e la filosofia», Husserl approfondisce l’indagine sul fallimento delle scienze e sul dissolversi dell’ideale, tipico dell’antichità greca, di filosofia universale, egli afferma che la ragione filosofica e scientifica dell’Europa (nozione che Husserl usa non in senso geo-politico, ma come idea spirituale, luogo ideale nel quale è nata la teoresi filosofica) pare aver dimenticato il proprio progetto originario: in Grecia, nel VII secolo a.C., era nata «un'umanità che, pur vivendo nella finitezza, viveva protesa verso i poli dell’infinità, [...] la cui vita spirituale, nella comunione spirituale per le idee, per la produzione di idee e per la normatività ideale, portava in sé l’orizzonte di un futuro infinito»; la società e la civiltà europee, che si sono formate in seno al mondo greco, paiono invece aver tradito queste origini dimenticando il senso e la direzione della ragione filosofica; hanno trascurato l'esperienza umana e soggettiva, occultando sotto le categorie della matematica, che si è imposta come forma privilegiata della scientificità, la pienezza dell’esperienza umana, il mondo-della-vita (Lebenswelt) in cui il soggetto intenziona il mondo con i propri progetti e bisogni, con gli stimoli della propria esperienza vitale al di là e prima delle categorie logiche della ragione scientifica. 2.5.2. A quelle origini occorre tornare; è necessario che esse vengano criticamente riprese e analiticamente rilanciate. In questa direzione la filosofia diventa progetto di fenomenologia trascendentale. Così nell’opera programmatica: Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (1913 e postuma 1950, 1952). 3. Esplorazione delle possibilità: fenomenologia trascendentale e intenzionalità «quelle formazioni spirituali che, come tali, recavano in sé il senso ultimo della verità del mondo» (Husserl, 1959, 96). Responsabile della crisi che la cultura europea attraversa sin dall'inizio dell’età moderna, la filosofia deve riaffermare la propria identità di scienza rigorosa, di «ratio» ed «epistéme», di «conoscenza 14 universale del mondo e dell'uomo che procede in un'assoluta indipendenza dai pregiudizi». Collocato tra parentesi ogni elemento o categoria che trascende la coscienza, che si costituisce cioè al di fuori di una rigorosa consapevolezza soggettiva, la filosofia deve rifondare la sua indagine a partire dal soggetto e dalle operazioni con cui esso fonda e costituisce il mondo. Dal mondo-dellavita (Lebenswelt), nel quale si esprimono convinzioni, bisogni e progetti dell’uomo, la filosofia deve ripartire (dopo l’opportuna epoché con cui mette tra parentesi ogni atteggiamento naturale dell’uomo) per comprendere le strutture costitutive della coscienza nel suo intenzionarsi alle cose e aprirsi alla comprensione del fine e del senso universale del mondo. Per Husserl infatti l’intenzionalità costituisce la natura della coscienza, che è sempre (per Husserl) coscienza di qualcosa. 3.1. Obiettivismo scientifico e soggettivismo trascendentale: una lunga irrisolta storia. «Tensioni tra la filosofia obiettivistica e la filosofia trascendentale». La storia della filosofia appare a Husserl come «la storia dei tentativi di preservare l’obiettivismo e di riplasmarlo in forme nuove e, d’altra parte, dei tentativi del trascendentalismo di venire a capo delle difficoltà che l’idea della soggettività trascendentale e il metodo che essa esigeva portavano con sé». Alle filosofie ingenuamente obiettivistiche, fondate sul presupposto dell'«ovvietà» dell'esistenza del mondo naturale, si sono contrapposte, e si contrappongono, le filosofie trascendentali (come quella di Kant e quella dello stesso Husserl) che hanno riportato al soggetto conoscente la capacità di costituire «il senso e la validità d’essere del mondo». Alla sua filosofia «trascendentale» Husserl attribuisce dunque il compito di «ritornare alla soggettività conoscitiva quale sede originaria di ogni formazione obiettiva di senso e di validità d'essere» e di ricercare «una chiara comprensione di sé in quanto soggettività originariamente e sorgivamente fungente». 3.1.1. «Primo abbozzo di una caratterizzazione dell’obiettivismo e del trascendentalismo. La lotta tra queste due idee quale senso della storia dello spirito moderno. La caratteristica dell’obiettivismo è quella di muoversi sul terreno del mondo già dato come ovvio nell’esperienza e di perseguirne la «verità obiettiva», ciò che in esso è incondizionatamente valido per ogni essere razionale, ciò che esso in se stesso è. La realizzazione universale di questo compito spetta all’episteme, alla ratio, cioè alla filosofia. Con ciò sarebbe già raggiunto l'essente ultimo, e un'indagine che volesse risalire al di là di esso non avrebbe più alcun senso razionale. Il trascendentalismo afferma invece: il senso d’essere del mondo-della-vita già dato è una formazione soggettiva, è un'operazione della vita esperiente, pre-scientifica. In essa si costruisce il senso e la validità d’essere del mondo, di quel mondo che vale realmente per colui che realmente esperisce. Per quanto riguarda il mondo «obiettivamente vero», quello della scienza, esso è una formazione di grado più alto fondata sull'esperienza e sul pensiero prescientifico, cioè sulle sue operazioni di validità. Soltanto un’indagine radicale che risalga alla soggettività, e cioè alla soggettività che in definitiva produce, nei modi scientifici come in quelli prescientifici, tutte le validità del mondo e i loro contenuti, e al che cosa e al come delle attuazioni razionali, può rendere comprensibile la verità obiettiva e raggiungere il senso d’essere ultimo del mondo. Quindi il primo in sé non è l'essere del mondo nella sua indubitabile ovvietà, ciò che occorre innanzitutto chiedersi non è che cosa obiettivamente gli inerisca; il primo in sé è bensì la soggettività, in quanto essa pone ingenuamente l’essere del mondo e poi lo razionalizza, oppure (il che è lo stesso) lo obiettivizza.» (Husserl, 1959, 97-98) 3.1.2. la fenomenologia come filosofia trascendentale in uscita dall’obiettivismo. «Tutta la storia della filosofia, a partire dalla comparsa della «teoria della conoscenza» e dei seri tentativi di una filosofia trascendentale, è la storia di poderose tensioni tra la filosofia obiettivistica e la filosofia trascendentale, è la storia dei tentativi di preservare l’obiettivismo e di riplasmarlo in forme nuove e, d’altra parte, dei tentativi del trascendentalismo di venire a capo delle difficoltà che l’idea della soggettività trascendentale e il metodo che essa esigeva portavano con sé. Il chiarimento dell'origine di questa interna scissione nello sviluppo della filosofia e l’analisi dei motivi ultimi di questo radicale mutamento dell’idea di filosofia rivestono una grande importanza. Innanzitutto questo chiarimento permette di intravvedere la profonda aderenza a un senso, che conferisce 15 un'unità a tutto il divenire della storia della filosofia moderna: un’unità del proposito, che unisce generazioni di filosofi e, in essa, un definito orientamento di tutti gli sforzi dei singoli e delle singole scuole. Si tratta, come cercherò di mostrare, di un orientamento che mira alla forma finale della filosofia trascendentale alla — fenomenologia — la quale include, come uno dei suoi momenti di rilievo, una forma finale della psicologia, che è chiamata a sradicarne il senso naturalistico moderno.» (Husserl, 1959, La crisi, 98) 3.1.3. Con l’affermazione dell’obiettivismo naturalistico si è dunque tradito, osserva Husserl, il progetto originario di una filosofia come scienza prima e universale; ridotta a mera osservazione dei fatti, la scienza moderna ha rinunciato alla ricerca della verità cui l’epistéme originaria aspirava; da una scienza che allontana da sé i gravi problemi dell’umanità, Husserl ritiene che gli uomini abbiano poco da aspettarsi: «le questioni che essa esclude per principio — annota con amarezza — sono precisamente le più scottanti, nella nostra infelice epoca, per un’umanità abbandonata ai rovesci del destino: sono le questioni che riguardano il senso o la mancanza di senso di ogni esistenza umana». Travolte da una crisi che ha le stesse origini, la filosofia e le scienze possono risollevarsi dalle difficoltà in cui versano solo cooperando: si tratta allora di riprendere l'originario progetto di una filosofia come scienza rigorosa, come sapere primo e universale che fonda i saperi particolari, ne definisce i campi e la natura. 3.2. Il senso e il télos della filosofia nella sua storia e nella coscienza intenzionante. La fenomenologia come espressione di una filosofia trascendentale trova la propria forza e ragione in una tensione e natura teleologica propria della cultura quando essa assume le forme della filosofia, come attesta il suo accadere e la sua storia. «Ciò che importa è di riuscire a rendere comprensibile la teleologia insita nel divenire storico della filosofia, in particolare di quella moderna, e insieme di giungere alla chiarezza di fronte a noi stessi, che ne siamo i portatori, in quanto, nella nostra volontà personale, contribuiamo ad attuarla. Cerchiamo perciò di comprendere l’unità che è presente in tutte le finalità storicamente definite, nelle lacerazioni e negli accordi della loro evoluzione, e di intravvedere infine, attraverso una critica costante che sempre mira alla connessione storica complessiva come se fosse una connessione personale, il nostro compito storico, l’unico compito che noi possiamo ritenere nostro e assumere personalmente. Di intravvederlo non dall'esterno, a partire dal fatto, come se il divenire temporale, entro cui noi stessi ci troviamo, non fosse che una successione causale meramente esterna, bensì dall’interno. Soltanto così, noi che, oltre ad avere eredità spirituali, siamo profondamente intrisi del divenire storicospirituale, solo così abbiamo un compito veramente nostro. Noi non lo scopriamo attraverso la critica di un qualunque sistema attuale o tradizionale, di una «concezione del mondo» scientifica o prescientifica (che potrebbe essere addirittura cinese), ma soltanto attraverso una comprensione critica della storia nel suo complesso — della nostra storia. Perché essa ha un'unità spirituale fondata sull’unità e sulla forza di propulsione emanante da quei compiti che nel divenire storico — nel pensiero di coloro che lavorano alla filosofia singolarmente e, al di là dei limiti del tempo, in comune, — vogliono giungere, attraverso fasi di oscurità, a una chiarezza soddisfacente, e infine a un'intellegibilità perfetta ed evidente. Allora questo compito non ha più soltanto una necessità di fatto ma diventa un compito che ci è veramente assegnato in quanto siamo filosofi. Noi siamo appunto ciò che siamo, in quanto siamo i funzionari dell’umanità filosofica moderna, gli eredi e i portatori di quell’orientamento della volontà che l’attraversa, e lo siamo in base a una fondazione originaria che è insieme una rifondazione e una trasformazione dell'originaria fondazione greca. Essa costituisce un inizio teleologico, la vera nascita dello spirito europeo in generale.» (Husserl, 1959, 99) 3.2.1. Il senso della storia per la filosofia o perché la storia è una dimensione ineliminabile della filosofia, della scienza, della cultura in generale (e conseguentemente dei suoi esiti). È la sede in cui si manifesta e si realizza le tensione teleologica dell’umanità. Nella filosofia la storia, la sua storia, è “unità complessiva attualizzata”; non insieme di dottrine ma riappropriazione critica di un progetto a responsabilità teleologica; essa diventa svelamento e consapevolezza di pregiudizi 16 consolidati e inconsapevoli, e contemporaneamente autocomprensione. «Si tratta di rivificare la concettualità sedimentata, la quale, diventata ovvietà, costituisce il terreno del suo lavoro privato e non-storico, di rivificarne il nascosto senso storico. Si tratta di riprendere nella propria riflessione la riflessione dei predecessori, si tratta cioè non soltanto di ridestare la catena dei pensatori, la loro comunione di pensiero, il loro accomunamento teoretico e di trasformarli in qualcosa di vivente e attuale, bensì di esercitare, sulla base di questa unità complessiva attualizzata, una critica responsabile, una critica di tipo peculiare, che ha il suo terreno in queste finalità storiche e personali, nei relativi adempimenti e nelle reciproche rettifiche e non nelle ovvietà privatamente assunte dei filosofi attuali. Pensare autonomamente, essere un filosofo autonomo nella volontà di liberarsi da tutti i pregiudizi: quest’esigenza gli è imposta dal fatto di aver intuito come tutte le ovvietà siano pregiudizi, come tutti i pregiudizi siano oscurità derivanti da una sedimentazione tradizionale, e non soltanto giudizi di cui rimane dubbia la verità, e che ciò vale innanzitutto per quel grande compito, per quell'idea che si chiama «filosofia». E tutti quei giudizi che valgono come filosofici possono essere ricondotti a pregiudizi. Una riconsiderazione storica come quella che stiamo discutendo è dunque in realtà una profondissima auto-considerazione che tende a una comprensione di ciò che si è in quanto esseri storici. Quest’auto-considerazione serve alle decisioni; e qui essa equivale naturalmente a una ripresa del compito veramente più peculiare, di quel compito che l’auto-considerazione storica ci ha permesso di comprendere e di chiarire, e che attualmente è assegnato a tutti noi.» (Husserl, 1959, 100) 3.2.2. La ripresa della storia nelle sue “origini europee”. Per uscire dalla crisi in cui versano le scienze dello spirito e, più in generale, l’umanità europea, è necessario che venga ritrovato il senso spirituale, il progetto originario che ha informato di sé l’Europa. L’originario progetto di scienza universale nella filosofia greca come essenza prima dell’Europa. Con il termine Europa Husserl non indica una realtà geopolitica, ma un’idea, una forma spirituale che ha il suo luogo d’origine nella Grecia dei primi filosofi e ha avuto la sua diffusione nell’Occidente europeo e nelle sue colonie d’oltre atlantico. Nella Grecia del VII secolo a.C. si è infatti compiuto, a giudizio di Husserl, un evento grandioso che segna la nascita dello spirito europeo: differenziandosi dalla mentalità miticopratica che caratterizza le rappresentazioni del mondo e le conoscenze delle civiltà orientali (cinese, indiana ecc.), si afferma, nell’antica Grecia, un nuovo atteggiamento teoretico-critico: esso dà forma a un nuovo sapere, la filosofia, che si presenta al suo nascere come «scienza universale, scienza del cosmo, della totalità di tutto ciò che è». La nuova prospettiva della pura teoresi riplasma l’umanità orientando l’attenzione degli uomini verso la ricerca di essenze universali, le idee, e verso una sempre più ampia diffusione della razionalità. In questo atteggiamento teoretico della filosofia Husserl vede «il fenomeno originario dell’Europa spirituale»: l’umanità occidentale si contraddistingue per lo sforzo comune che — sin dalla sua origine greca — essa persegue per raggiungere il bene comune, il vero, il bello, la giustizia. 3.2.3. La ripresa della coscienza nelle sue radici e funzioni teleologiche. Il ruolo della sospensione di giudizio, della epoché come tramandata dalla tradizione scettica, dal dubbio cartesiano, riletta, ridefinita e rilanciata in direzione fenomenologica per ridare la parola al ruolo della coscienza nella costruzione aperta del mondo e nella sua libera intenzionalità nei confronti delle cose: mettendo tra parentesi l’atteggiamento naturale (secondo il quale il mondo è definito come un “in sé”, assolutamente “per sé”), la fenomenologia trascendentale si rivolge alla coscienza del soggetto e ai modi con cui essa «intenziona» il mondo. Nelle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica del 1913, Husserl presenta la prima mossa del piano che potrà condurre la filosofia a recuperare l’originaria natura di scienza rigorosa. Tale mossa consiste nell’epoché fenomenologica: essa implica la messa tra parentesi di ogni pregiudizio, persuasione, credenza comune, atteggiamento (primo tra tutti l’obiettivismo naturalistico) che impedisca di comprendere, con piena evidenza, il mondo. La scienza rigorosa necessita di principi incontrovertibili che si sottraggano per la loro intuitiva evidenza a ogni debolezza o sospetto: per questo il filosofo dovrà sospendere il giudizio su tutto quanto il senso comune, la filosofia, la scienza accolgono 17 acriticamente; solo un'epoché che investa le ingenue presunzioni degli scienziati, le sterili dispute dei filosofi, le scontate convinzioni quotidiane potrà permettere quel «ritorno alle cose» che il metodo fenomenologico si propone. L’esercizio dell’epoché produce una prima certezza: è nella coscienza, nel soggetto il fondamento indubitabile di ogni processo conoscitivo, appetitivo, rimemorativo. La coscienza è il «residuo fenomenologico» che resiste all’epoché. Come Descartes tre secoli prima, Husserl trova nel cogito il principio che non viene colpito dall’attacco critico: anche Husserl è mosso da un'esigenza di rifondazione delle scienze ed esprime la sua necessità di certezza con una radicale epoché che conduce all’intuizione del cogito. 3.2.4. il concetto e il ruolo dell’intenzionalità nella fenomenologia trascendentale: 3.2.4.1. la sua rilevanza centrale: «Il titolo del problema, che abbraccia l'intera fenomenologia, è l’intenzionalità. Esso esprime in effetti la proprietà fondamentale della coscienza; tutti i problemi fenomenologici, compresi quelli iletici, trovano posto in esso. Pertanto la fenomenologia comincia con i problemi dell’intenzionalità… » (Idee, I, 361) «L 'intenzionalità come principale tema fenomenologico. Passiamo ora a una peculiarità dei vissuti che può essere indicata addirittura come il tema generale della fenomenologia «oggettivamente» orientata, cioè all’intenzionalità. Essa rappresenta una peculiarità essenziale della sfera dei vissuti in generale, in quanto tutti i vissuti partecipano in qualche modo all’intenzionalità… […] L’intenzionalità è ciò che caratterizza la coscienza in senso pregnante e consente nello stesso tempo di indicare l’intera corrente dei vissuti come corrente di coscienza e come unità di un'unica coscienza. […] … si tratta ora di discutere l’intenzionalità come un titolo comprensivo di strutture fenomenologiche generali e di abbozzare la problematica a esse essenzialmente relativa…» (Idee, I, 209) 3.2.4.2. una sua definizione: «Noi intendemmo per intenzionalità la proprietà dei vissuti di essere «coscienza di qualche cosa». In questa mirabile proprietà, a cui devono essere ricondotti tutti gli enigmi della teoria della ragione e della metafisica, ci imbattemmo dapprima analizzando il cogito esplicito: un percepire è percepire di qualcosa, poniamo di una cosa spaziale; un giudicare è giudicare di uno stato di cose; un valutare è valutare di uno stato di valore; un desiderare è desiderare di uno stato di desiderio, ecc. L’agire va all’azione, il fare all’impresa, l’amare all’amato, il godere al goduto, ecc. In ogni attuale cogito, uno «sguardo» che si irradia dall’io puro si dirige verso l’«oggetto» di quello che di volta in volta è il correlato di coscienza, alla cosa spaziale, allo stato di cose, ecc., e realizza i differenti modi in cui la coscienza può essere coscienza di questo oggetto.» (Idee, I, 209-210) «In generale, appartiene all’essenza di ogni cogito attuale di essere coscienza di qualche cosa. […] Tutti i vissuti che presentano questa proprietà essenziale si dicono anche «vissuti intenzionali» (atti nel senso amplissimo delle Ricerche logiche); in quanto sono coscienza di qualcosa, si dicono «intenzionalmente riferiti» a questo qualcosa. Va tenuto ben presente che qui non è in questione una relazione tra un accadimento psichico — detto vissuto — e un altro esistente reale della natura — detto oggetto —, o di un intreccio psicologico che avrebbe luogo nella realtà oggettiva tra l’uno e l’altro. Ciò che è invece in questione sono dei vissuti considerati dal punto di vista della loro pura essenza, ossia di essenze pure [dei vissuti puramente fenomenologici (variante a nota)] e di ciò che in esse è «a priori» incluso in maniera incondizionatamente necessaria.» (Idee, I, 84-85) 3.2.5. scoprire la coscienza come intenzionalità è andare verso le cose stesse. La filosofia come fenomenologia trascendentale guida a scoprire «il mondo naturale come correlato di coscienza». Dato della realtà in sé o forma della mente, concetto o intuizione, di origine empirica o forma a priori: tra questi binomi si muove la riflessione moderna sullo spazio, la conseguente natura della geometria, la funzione e la forma del suo metodo, come su tutti i concetti posti a base delle molte scienze della realtà. La fenomenologia di Edmund Husserl, nei primi del ‘900, indica la strada per uscire dai contesti dualistici in cui la riflessione filosofica, sul tema della conoscenza, è costretta ad oscillare; la fenomenologia offre i mezzi per porre fine al tormentato dualismo soggetto / oggetto.. La dicotomia tra soggetto e oggetto, che l’idealismo aveva risolto a vantaggio del primo (l’Io che produce i suoi oggetti) e il positivismo aveva riproposto privilegiando invece il secondo (il fatto oggettivo, considerato indipendentemente dal soggetto), deve essere superata nella prospettiva 18 fenomenologica di Husserl mediante il recupero della relazione intenzionale che sussiste tra coscienza e mondo, tra soggetto e oggetto. La coscienza è sempre «coscienza di qualcosa»; essa si apre costantemente verso l’altro da sé e si qualifica proprio per questo suo tendere verso un oggetto; allo stesso tempo l’oggetto acquista senso in quanto intenzionato da una coscienza; l’intenzionalità esprime così l’interazione continua tra coscienza e mondo: il mondo assume senso per mezzo della coscienza e la coscienza in virtù del mondo. Con questa impostazione Husserl porta a chiarezza le scienze, i loro concetti e il loro metodo in vari passaggi delle sue opere come nella vasto progetto per la fenomenologia esposta nelle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, pubblicata nel 1913 e La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, composta dal 1935 al 1937. «Mai un oggetto esistente in sé è tale da escludere ogni relazione con la coscienza e con l’io. La cosa è sempre cosa del mondo che mi circonda, anche quella non veduta, anche quella possibile, non sperimentata, ma sperimentabile, o forse sperimentabile. La sperimentabilità non significa una vuota possibilità logica, ma una possibilità motivata dalla connessione dell’esperienza. […] Tutto dipende dalla struttura essenziale di tali connessioni, che sostengono ogni indagine eidetica. È carattere dell’essenza della cosa spaziale che, qualora, per quanto realiter esistente, non sia attualmente esperita, possa sempre giungere a datità: il che significa che essa appartiene all’orizzonte indeterminato, ma determinabile, di quella che di volta in volta è la mia esperienza attuale. Ma questo orizzonte è il correlato delle componenti di indeterminatezza, inerenti essenzialmente alle esperienze di cose, e che lasciano delle possibilità di riempimento non già arbitrarie, bensì prestabilite secondo il loro tipo d’essenza. Ogni esperienza attuale rimanda delle esperienze possibili, le quali a loro volta rimandano ad altre possibili e cosi in infinitum. E tutto ciò si compie secondo modalità e regole determinate e connesse a tipi a priori. (Idee, 104-105) 3.2.5.1. In sintesi. La filosofia, come fenomenologia trascendentale della soggettività della coscienza intenzionante, fa riemergere la centralità di una teleologia immanente della ragione, della cultura, della scienza nel loro divenire storico e nella natura del soggetto; mette in evidenza il compito (il termine “compito” ritorna con ossessione nel testo citato dalla “Crisi”, p. 99; qui in apertura di 3.2.) proprio ed immanente, non imposto o esterno, che caratterizza il senso della storia per la cultura, e che caratterizza la natura della coscienza in quanto intenzionalità: «Soltanto così, noi che, oltre ad avere eredità spirituali, siamo profondamente intrisi del divenire storico-spirituale, solo così abbiamo un compito veramente nostro.» (Husserl, 1959, 99) Un portare ad evidenza che richiede la ripresa dell’atteggiamento liberante dell’epoché antica e moderna (della tradizione scettica, di Montaigne e di Descartes), ripresa da Husserl nelle Meditazioni cartesiane. Portare ad evidenza l’intenzionalità come essenza della coscienza è metterne in luce il suo essenziale “andare verso le cose”, il suo essere “coscienza di”. La relazione oggetto-coscienza (intenzionante e intenzionato, noesi e noema) è una relazione sempre in atto e mai definitivamente portata a compimento. Si tratta di una relazione che è alla radice delle formalizzazioni scientifiche e le rende possibili pluralisticamente nello stesso ambito o nei diversi ambiti scientifici; ma è anche alla radice della ineliminabile indeterminatezza propria dell’esperienza delle cose e della loro continua ripresa e rivisitazione; in un flusso di coscienza che richiama e rimette in gioco di nuovo la persistente funzione base del mondo-della-vita. 3.3. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica Idee e progetto, direzioni e momenti per una fenomenologia trascendentale intesa come metodo analitico esplorativo descrittivo e di scoperta delle procedure a priori della coscienza indagata nella varietà e nel flusso continuo dei suoi vissuti. Un progetto necessariamente aperto e in corso per più motivi: [1] la natura introduttivoprogrammatica della filosofia, per Husserl la filosofia è il lavoro del filosofo, [2] la natura "fluida" dei concetti e dei termini della fenomenologia, in quanto essa affronta i fondamenti della filosofia servendosi di un linguaggio filosofico-storico (non creandone uno nuovo, artificiale) rispettato nella densità raccolta dei suoi significati e delle sue possibilità di senso, e in quanto ospita, sorregge ed 19 esprime un lavoro sempre in corso: «Va del resto in linea generale osservato che agli inizi della fenomenologia tutti i concetti, e quindi tutti i termini, devono rimanere in certo modo fluidi, sempre pronti a differenziarsi conformemente ai progressi dell'analisi della coscienza e alla scoperta di nuove stratificazioni fenomenologiche nell’àmbito di ciò che inizialmente è intuito in un’unità indifferenziata. Tutti i termini scelti hanno le loro tendenze a connettersi con altri termini, accennano a diverse direzioni di rapporti, che poi risultano spesso non avere la loro sorgente in un unico strato eidetico; di qui l’opportunità di delimitare meglio o comunque di modificare la terminologia.» (Idee, I, 211) [3] (un motivo esterno e contingente:) lo stato ancora parziale di pubblicazione dei manoscritti di Husserl. Un progetto per direzioni (redatto prima in forma narrativa poi di tabella di marcia) con indicazioni di strumenti, obiettivi ed esiti… per mettere in evidenza l’impianto della filosofia fenomenologica e ciò che essa è in grado di portare all’evidenza e all’attenzione del soggetto operante. Direzioni che finiscono per presentarsi tutti come sguardi complessivi volti a fornire l’idea di una filosofia di tipo fenomenologico intesa come fenomenologia trascendentale o pura. [In forma narrativa] Mentre Descartes mette tra parentesi l’intera esistenza del mondo e perviene a una nozione sostanziale del soggetto (res cogitans) separato dalle cose (res extensa), Husserl sospende il giudizio sull’atteggiamento naturalistico di stampo positivistico e perviene a una soggettività pura e trascendentale che non è disgiunta dagli oggetti che intenziona, ma anzi si realizza proprio nell'attività intenzionale con cui si relaziona al mondo. Tale relazione non è solo gnoseologica, ma anche volitiva, affettiva, emotiva; per questo aspetto Husserl introduce un'ulteriore distanza da Descartes: mentre in quest’ultimo il primato del problema gnoseologico induce a considerare l'io solo come soggetto conoscente, «un vago ego cogito», Husserl, che assume una prospettiva più ampia, vede nell’io un fluire di esperienze percettive, emotive, affettive, volitive. La coscienza si presenta così come una corrente di esperienze vissute (Erlebnisse) che si esplicano nei molteplici modi del percepire, del ricordare, del desiderare, del volere ecc. Compito della filosofia fenomenologica è dunque la descrizione delle forme essenziali dei vissuti, dei modi in cui le cose si danno alla coscienza che le conosce, comprende, ricorda. In quanto indaga questi modi la filosofia è fenomenologia, descrive cioè le diverse realtà (naturale, morale, religiosa, estetica ecc.) nel modo in cui esse si danno al soggetto; concentra il suo interesse sulla relazione tra le due polarità «coscienza» e «mondo»; mette in luce la natura «intenzionale» dell’io, descrivendo la struttura e le direzioni degli atti con cui la coscienza si riferisce alla realtà. L’indagine fenomenologica e trascendentale sposta così l’attenzione dai semplici fatti ai modi essenziali in cui le cose si danno alla coscienza: a queste modalità Husserl dà il nome di essenze (éidos). Nell’atto conoscitivo, che ha origine empirica, la coscienza coglie il particolare (questo rosso, questa nota) e contemporaneamente intuisce l’essenza universale (il rosso, il suono); cogliendo un fatto «qui e ora» la coscienza afferra anche l’essenza in virtù della quale riconosce in quel rosso o in quella nota un colore oppure un suono. Queste essenze non sono ricavate per astrazione da percezioni particolari (se così fosse, resterebbe da spiegare l’origine della nozione di somiglianza in base alla quale la mente individua l’essenza comune a più oggetti), ma costituiscono i modi a priori della relazione tra coscienza e mondo. La fenomenologia è dunque scienza di essenze e non di dati di fatto; suo momento centrale è la riduzione eidetica, l’intuizione delle essenze (intuizioni eidetiche) che si attua quando nel descrivere un fenomeno nel suo darsi alla coscienza riusciamo a prescindere dagli aspetti empirici per intuire, appunto, l’essenza invariante, immutabile (l’éidos). Poiché i fenomeni (e le essenze) da indagare sono di natura assai varia (fisica, sociale, religiosa, etica, estetica ecc.), il progetto di rifondazione fenomenologica dei saperi si articolerà in «ontologie regionali»: lo studioso di ciascuna regione individuerà così i modi tipici in cui i fenomeni naturali, religiosi, etici, estetici ecc. appaiono alla coscienza, contribuendo così a una rifondazione fenomenologica dell’enciclopedia dei saperi. 20 [in forma tabella di marcia e sguardi prospettici plurimi sullo stesso intero percorso] 3.3.1. contro la naturalizzazione dei processi mentali-linguistici occorre avviare la ricerca dei fondamenti e delle attenzioni che permettono il formarsi dei diversi ambiti disciplinari; 3.3.1.1. contro l’ingenuità con cui la scienza fisica assume la natura come realtà data, ricordare che le scienze naturali sono costruite da una serie di operazioni “spirituali”; 3.3.1.2. per uscire dalla naturalizzazione dei processi mentali riscoprire e indagare la coscienza come sede delle operazioni che precedono e fondano le categorie scientifiche nei diversi ambiti. 3.3.2. coscienza e intenzionalità: per riprendere la progettualità autentica del soggetto occorre analizzare la coscienza come radice di senso del mondo: 3.3.2.1. coscienza definita sulla base degli atti psichici (vissuti intenzionali – Erlebnisse) e come l’insieme degli atti psichici in perenne flusso; 3.3.2.2. intenzionalità è il modo di essere proprio della coscienza: ogni atto di coscienza tende al suo proprio specifico oggetto (intenzione l’oggetto); viceversa, l’oggetto è definito in un rapporto intenzionale con la coscienza (percepito-percepire, misurato-misurare, oggetto-oggettivare…); 3.3.2.3. ne consegue che lo studio della intenzionalità della coscienza è ritorno alle cose stesse; 3.3.2.4. su questa base risulta assurdo e impossibile sia lo scetticismo che il realismo ingenuo per un mondo in sé come già dato formalmente e definitivamente (lo scetticismo ha, per assurdo, radice nel realismo e nella sua impossibile pretesa di autonomia formale e oggettiva della realtà in sé e, conseguentemente, della conoscenza). 3.3.3. dall’obiettivismo al trascendentalismo 3.3.3.1. caratteri dell’obiettivismo: il mondo come un già dato, ovvio nell’esperienza 3.3.3.2. senso del trascendentalismo e trascendentalismo come progetto filosofico: il senso del mondo è una formazione soggettiva; tesi che comporta una conseguente indagine radicale della soggettività 3.3.3.3. abbandoni e scelte: abbandono del concetto di verità considerata in termini di corrispondenza speculare e passiva con una realtà in sé; abbandono del trascendentale kantiano come condizione formale (categoriale) irrigidito in un distacco formale a priori dal vissuto; indagine e valorizzazione di un trascendentale intenzionale (formale e materiale: la coscienza intenziona oggetti) 3.3.4. riprendere la progettualità autentica e originaria del soggetto attraverso l’epoché 3.3.4.1. epoché : il termine nella storia della filosofia (scetticismo, Descartes) indica una funzione irrinunciabile di consapevolezza; una sospensione di certezze consolidate, pregiudizi, prese di posizione sul mondo lontane dal cogliere la propria la radice di senso 3.3.4.2. sospensione necessaria per avviare un passaggio a cogliere la coscienza come attività intenzionale; come ritorno al soggetto precategoriale, al “mondo della vita” (Lebenswelt), e come attenzione e analisi dei vissuti intenzionali (Erlebnisse): atti intenzionanti il mondo; 3.3.4.3. l’epoché permette la riduzione fenomenologica del soggetto a coscienza; la coscienza messa in luce come residuo fenomenologico dell’epoché è la coscienza empirica (io empirico, il flusso di coscienza) e, contemporaneamente (senza alcun dualismo metafisico) la coscienza pura (io puro, gli atti intenzionanti) 3.3.4.4. nella riduzione fenomenologica è avvenuta la riduzione eidetica: sospesi i contenuti fattuali, restano gli atti intenzionanti, della coscienza: le essenze o intuizioni eidetiche, le cose percepite in se stesse, nella loro essenza di senso; il ritorno al soggetto, alla coscienza intenzionante, è dunque ritorno alle cose stesse. 3.3.5. le essenze ideali (le essenze eidetiche, le intuizioni eidetiche) e la fenomenologia 21 3.3.5.1. il termine essenza porta con sé i problemi della propria doppia natura, logica e metafisica, nell’intera storia della filosofia; una consapevolezza storico-linguistica che è presa d’atto di questioni filosofiche, cioè l’urgenza di una relazione mente-realtà 3.3.5.2. una ridefinizione del termine per la fenomenologia trascendentale: essenze si definiscono i modi oggettivi (oggettivanti quindi essenziali) di essere della coscienza intenzionante, fondamenti strutturali (essenziali) del mondo (del mondo come oggettivazione di senso) 3.3.5.3. la natura “psicologica” delle essenze è indicata con l’espressione “intuizioni eidetiche”: l’atto con cui cogliamo le essenze è un atto intuitivo; l’intuizione eidetica è l’atto con cui la coscienza coglie i propri atteggiamenti intenzionanti essenziali nel fenomeno / percezione (percezione che non è mai solo un processo di rispecchiamento ma di “sintesi passiva”: «Ricostruiamo fenomenologicamente nell’originario campo della percezione questa certezza…» Husserl 1966 Lezioni sulla sintesi passiva, 84) 3.3.5.4. la fenomenologia trascendentale è una scienza eidetica: scienza non di oggetti o dati di fatto ma di atti essenziali (strutturali) intenzionanti («per essenza… a partire dalle leggi a priori della genesi…le cose si costituiscono nei vissuti immanenti…per essenza come unità intenzionali» (Husserl 1966 Lezioni sulla sintesi passiva, 272, 280). 3.3.6. fenomenologia trascendentale e/o metodo fenomenologico: la fenomenologia trascendentale è dunque studio dei modi con cui la coscienza intenziona il mondo secondo essenze («la fenomenologia, cioè la dottrina essenziale dei vissuti», Idee, II, 418); studia cioè le attività di senso con cui la coscienza costruisce il significato del mondo; indaga dunque la radice del significato. Inseguendo tale obiettivo e realizzando il proprio progetto la fenomenologia: 3.3.6.1. delimita una ontologia regionale: l’ontologia regionale riporta (coglie) i differenti modi di essere delle cose agli atti con cui la coscienza intenziona il mondo; 3.3.6.1.1. si tratta di atti – essenze “regionali”: aree di significato in cui l’oggetto si iscrive come formazione di senso: [1] l’essenza non è un quid unico (quanto al senso) presente nell’oggetto, [2] ma ogni oggetto può essere definito essenzialmente (= nella sua essenza) da lati-essenze (atti) diverse; [3] di conseguenza: ogni essenza individua non realtà singole, ma regioni di realtà, e, viceversa, ogni realtà singola acquista senso in forza di essenze diverse (o la multiessenza di ogni individuo) 3.3.6.1.2. l’ontologia regionale è dunque studio delle modalità essenziali degli oggetti; contro la metafisica monoessezialistica si definisce la metafisica delle ontologie regionali 3.3.6.2. presenta il carattere costitutivo (intenzionante costituente) della coscienza. 3.3.7. Su queste basi il rilancio delle scienze: 3.3.7.1. nel loro ruolo costituente sempre aperto; 3.3.7.2. nell’ambito specifico delle proprie ontologie regionali essenziali; 3.3.7.3. nell’apertura alla multiessenzialità del reale e delle cose; 3.3.7.4. nel richiamo al comune terreno e fondamento del mondo-della-vita. Si tratta così della uscita dalla crisi delle scienze europee [tema in ripresa al punto 4.] Come conclusione propositiva e proponente: «Soltanto la fenomenologia illumina con chiarezza, risalendo alle sorgenti dell’intuizione nella coscienza trascendentalmente purificata, che cosa è propriamente implicato quando parliamo ora di condizioni formali della verità, ora di condizioni formali della conoscenza. In generale ci illumina sulle essenze e sugli stati di cose eidetici che appartengono ai concetti di conoscenza, di evidenza, di verità, di essere (oggetto, stato di cose, ecc.); ci fa comprendere la struttura , del giudicare e del giudizio, il modo in cui la struttura del noema è determinante dal punto di vista della conoscenza, quale particolare ruolo giochi in ciò la «proposizione», e ancora la diversa possibilità della sua «pienezza» conoscitiva. Essa mostra quali modi di riempimento siano condizioni eidetiche per il carattere razionale dell’evidenza, quali specie di evidenza siano di volta in volta in questione, ecc. In particolare ci fa comprendere che nelle 22 verità aprioriche della logica sono implicati nessi eidetici tra la possibilità di un riempimento intuitivo della proposizione (grazie a cui il corrispondente stato di cose giunge a intuizione sintetica) e la pura forma sintetica della proposizione (la forma puramente logica), e che ogni possibilità è nello stesso tempo condizione della validità possibile.» (Idee, I, 364-365) 4. L’intenzione culturale del fare scienza nel tempo e il suo rilancio per uscire dalla crisi delle scienze. 4.1. a consuntivo, e a ventaglio globale (in forma tabella), la portata storica della fenomenologia in relazione agli effetti culturali, cioè a partire dalle strade indicate, dalle direzioni di metodo impostate, dalle realtà soggettive/oggettive portate all’attenzione costituente da una cultura che non perde la consapevolezza del proprio agire (come accade invece quando si adatta ad essere mera descrizione e magari osanna di fatti: «Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto» [Husserl, 1959, La crisi, 35] incapace di responsabilità nei confronti di sé e del mondo): 4.1.1. rilancia la filosofia come scienza della soggettività costituente; 4.1.2. presenta il mondo come struttura oggettiva a partire dagli atti intenzionali della coscienza (= assunzione di responsabilità nei confronti del mondo: non è un già dato, ma espressione di un télos storico infinito) e quindi come formazioni di senso; 4.1.3. attua un ritorno al soggetto (alla coscienza e ai suoi vissuti psichici, all’io empirico e puro, trascendentale [in senso kantiano]); 4.1.4. evidenzia le radici della libertà per il significato, radici poste nell’attività di formalizzazione della coscienza pura, delle sue intuizioni eidetiche; 4.1.5. risale al fondamento dell’attività e della ricerca scientifica, rilancia quindi la ricerca scientifica; di conseguenza il campo delle operazioni scientifiche esce dai presunti limiti derivanti dalla credenza (la pìstis denunciata già da Platone) in un mondo già dato di fronte al quale si adotterebbe un atteggiamento di mera registrazione senza cogliere possibilità, percorsi e domande; 4.1.6. pone le basi per una nuova umanità la cui essenza consiste nell’aprirsi alla comunicazione intersoggettiva: denunciata la naturalizzazione, recuperata la soggettività intenzionante e proponente e quindi l’intersoggettività comunicativa (volta all’intesa, come dalle proposte e analisi di Habermas); 4.1.7. rilancia l’Europa come cultura che nasce dal miracolo greco della invenzione dell’idea; 4.1.8. rilancia il ruolo critico-liberatorio della filosofia come: [1] analisi del disagio della civiltà contemporanea, [2] invito all’epoché dai sistemi (filosofici, scientifici, morali, politici…), [3] ritorno alla soggettività intenzionante , [4] impegno continuo per l’analisi fenomenologica trascendentale, che è analisi critica di ritorno a sé e alle cose stesse: il terreno della filosofia è l’ambito delle condizioni trascendentali. 4.2. la funzione culturale delle scienze (e della filosofia come atteggiamento della loro consapevolezza operativa) La crisi di valori e di ideali che l’Europa sta vivendo nella sua fase più acuta è insieme una crisi delle scienze e della filosofia: il distaccarsi delle scienze dalla filosofia, con il conseguente polarizzarsi dell’attenzione dello scienziato sui fatti oggettivi, misurabili e controllabili empiricamente, sulle applicazioni pratiche e sul loro profitto economico, ha portato a un disinteresse sempre più radicale per il soggetto, la teoresi, le domande di senso. «Pure scienze positive fanno uomini puramente positivi», uomini che hanno elevato i fatti a feticci, non si interrogano sul mondo e sullo sguardo che portano su di esso, pensano i problemi scientifici come slegati da quelli dell’uomo e della storia. L’invito del positivismo a separare scienza e filosofia si è tradotto in una separazione tra ricerca scientifica e ricerca di senso, nella mitizzazione dei saperi che si orientano verso la misurazione, la produzione, la manipolazione, nella scomparsa di una comunità di filosofi capace di tenere aperte le domande metafisiche. La crisi etico-politica e la crisi tecnicoscientifica si presentano come sintomi della più profonda crisi della filosofia: nelle loro lezioni 23 universitarie, nelle conferenze, nei loro libri, i filosofi, ma sarebbe più corretto chiamarli insegnanti di filosofia, non sanno far rivivere né il costruttivo dialogo, né il progetto educativo che erano le preoccupazioni prioritarie dei primi pensatori. Il mondo manca di una comunità internazionale di filosofi disposti a superare l'individualismo per collaborare alla rinascita della teoresi, alla diffusione del sapere; solo recuperando queste finalità «la filosofia e il suo specifico compito infinito esercitano una funzione determinante; la funzione di una considerazione libera e universalmente teoretica che abbracci anche tutti gli ideali e l’ideale totale: l’universo di tutte le sue norme. La funzione che la filosofia deve costantemente esercitare all'interno dell'umanità europea è una funzione arcontica per tutta l’umanità». Funzionario al servizio dell’umanità, il filosofo deve rivolgere il suo impegno all’individuazione, all’interno del divenire storico della filosofia, di quel télos, quella tensione interna che, dalla fondazione originaria nel mondo greco, percorre il cammino dell’umanità; per aiutare gli uomini a uscire dal disorientamento nel quale essi si dibattono, non resta al filosofo che ritrovare quelle modalità di intenzionare il mondo che si sono espresse, nel corso dei secoli, nelle diverse filosofie e nei molti rami della produzione scientifica e tecnica quando queste direzioni non abbandonano la domanda sul senso globale del loro camminare. 4.3. fenomenologia trascendentale e rilancio delle scienze. «Poiché la vera natura nel senso delle scienze naturali è un prodotto dello spirito che la indaga e presuppone quindi la scienza dello spirito.» «Lo spirito e soltanto lo spirito è essente in se stesso e per se stesso; lo spirito è autonomo e soltanto in quest’autonomia può essere trattato in modo veramente razionale e in modo radicalmente scientifico. Ma per quanto riguarda la natura; nella sua verità scientifico-naturale, essa è soltanto apparentemente autonoma, e soltanto apparentemente può essere conosciuta razionalmente per sé attraverso le scienze naturali. Poiché la vera natura nel senso delle scienze naturali è un prodotto dello spirito che la indaga e presuppone quindi la scienza dello spirito. Lo spirito è per essenza in grado di attingere la conoscenza di se stesso, e, in quanto spirito scientifico, una auto-conoscenza scientifica, e ciò sempre di nuovo. Soltanto nella conoscenza pura nell'ordine delle scienze dello spirito lo scienziato non è investito dall'obiezione dell'auto-mascheramento del suo operare. Perciò è un errore da parte delle scienze dello spirito il fatto di lottare per il riconoscimento di una parità di diritti con le scienze della natura. Come esse riconoscono a queste ultime l'obiettività e l'autonomia, cadono a loro volta nell'obiettivismo. E infatti così come ora si presentano, in tutte le loro multiformi discipline, sono prive di quella razionalità ultima, reale, che è propria dell'intuizione spirituale del mondo. Appunto questa mancanza di una razionalità autentica e onnilaterale è la fonte dell'oscurità, ormai insopportabile, in cui l'uomo si trova riguardo alla sua esistenza e ai suoi compiti infiniti. Essi sono inseparabilmente uniti in un solo compito: soltanto se lo spirito recede da un atteggiamento rivolto verso l'esterno, soltanto se ritorna a sé e rimane presso di sé, esso può dar ragione di se stesso. Come si giunse a una simile auto-considerazione? Il suo inizio non era possibile fintanto che il campo era dominato dal sensualismo o meglio dal psicologismo dei dati, dalla psicologia della tabula rasa. […] L'elaborazione di un metodo reale volto a cogliere l'essenza fondamentale dello spirito nelle sue intenzionalità e a costruire su questa base un'analitica dello spirito, conseguente e capace di procedere all'infinito, portò alla fenomenologia trascendentale. Essa supera l’obiettivismo naturalistico e qualsiasi altro obiettivismo in generale nell'unico modo possibile: il filosofo parte dal proprio io, dall’io che produce tutte le sue validità e diventa lo spettatore disinteressato di queste stesse validità. In questo atteggiamento è possibile costruire una scienza autonoma dello spirito, nella forma di una conseguente auto-comprensione e di una comprensione del mondo in quanto operazione spirituale. Lo spirito non è più spirito nella o accanto alla natura; la natura viene bensì riassorbita nella sfera dello spirito. Allora l'io non è più una cosa isolata accanto ad altre cose analoghe nel mondo già dato; anzi cessa l’estraneità e la contiguità delle persone egologiche e si produce una reciproca inerenza interna. Ma di tutto ciò non possiamo parlare qui: nessuna conferenza potrebbe esaurire questo tema. Spero tuttavia di aver mostrato come non si tratti di 24 rinnovare quel razionalismo controsenso che era incapace perfino di afferrare i problemi più immediati dello spirito. La ratio che noi interroghiamo non è altro che l’auto-comprensione realmente universale e radicale dello spirito, che assume la forma di una scienza universalmente responsabile, e in cui si attua un modo completamente nuovo di scientificità, in cui trovano il loro posto tutti i possibili problemi concernenti l'essere, le norme, la cosiddetta esistenza. Sono convinto che la fenomenologia intenzionale è riuscita per la prima volta a rendere lo spirito in quanto spirito un campo di esperienza sistematica e scientifica e così a trasformare, radicalmente, il compito della conoscenza. L'universalità dello spirito assoluto abbraccia tutto l'essente in una storicità assoluta entro cui si articola la natura in quanto formazione spirituale. Soltanto la fenomenologia intenzionale, cioè trascendentale, è riuscita a far luce su questo problema grazie al suo punto di partenza e attraverso il suo metodo. Soltanto a partire da essa è possibile comprendere, e per motivi profondi, ciò che l'obiettivismo naturalistico è, e in particolare come la psicologia naturalistica dovesse forzatamente mancare l'operare, il problema radicale e peculiare della vita spirituale.» (Husserl, 1959, La crisi, La crisi dell’umanità europea e la filosofia, 356-357) In sintesi (e a sottolineare i passaggi del brano citato): la fenomenologia trascendentale è rilancio delle scienze e del fare scienza sulla base delle seguenti segnalazioni e proposte: 4.3.1. le scienze naturali sono prodotto dello spirito e non, positivisticamente o naturalisticamente, registrazione passiva o specchio di un mondo in sé già dato; 4.3.2. l’essenza fondamentale dello spirito è l’intenzionalità, che si manifesta nelle forma e nelle dinamiche messe in luce dalla indagine filosofica in termini di fenomenologia trascendentale; 4.3.3. fare scienza è comprendere il mondo come operazione spirituale e assumere conseguentemente la responsabilità nei suoi confronti: «La ratio che noi interroghiamo non è altro che l’auto-comprensione realmente universale e radicale dello spirito, che assume la forma di una scienza universalmente responsabile, e in cui si attua un modo completamente nuovo di scientificità, in cui trovano il loro posto tutti i possibili problemi concernenti l'essere, le norme, la cosiddetta esistenza.» (Husserl 1959, 357) Eloquente in tal senso il passo finale della “Crisi”, contenuto in una abbozzo per l’ipotesi di una sua possibile prosecuzione; il progetto chiude con il tema e l’affermazione: «il compito inalienabile della filosofia: l’auto-responsabilità dell’umanità.» (Husserl 1959, 544) 25