Le lacrime di Penelope e il vento del pensiero Saggio sulla Vita della Mente di Hannah Arendt di Aldo Meccariello Premessa Quando Hannah Arendt comincia a scrivere le Gifford Lectures che doveva tenere all’Università di Aberdeen in Scozia, nella primavera del 1973 e in quella successiva, ha già in mente un’opera che doveva esaminare le nostre attività spirituali («pensare», «volere» e «giudicare») e lo fa a partire dalla meraviglia, oggetto e origine della filosofia. L’uso del termine meraviglia attraversa come un Leitfaden molti scritti arendtiani, perché il punto di partenza del pensare non è il dubbio o il sospetto, ma lo stupore generato dal trovarsi di fronte al mondo, di fronte alle persone con cui ci relazioniamo, di fronte alla nostra stessa esistenza. Il mondo, gli altri, la nostra esistenza sono sempre una fonte di curiosità e non cessano di stupirci. Le Gifford Lectures, che erano state affidate in passato a pensatori come William James, Henri Bergson, Karl Barth, Etienne Gilson e Gabriel Marcel, offrirono l’occasione ad Hannah Arendt di allestire The Life of the Mind, l’opera sua ultima e incompiuta, pubblicata solo nel 1978, tre anni dopo la morte dell’autrice avvenuta a New York nel dicembre del 1975. Si tratta di un’opera di grande spessore teoretico che attraversa quel mare in gran tempesta che è la tradizione filosofica occidentale per, alfine, superarla. In un passo dell’opera, l’autrice confessa di non avere dubbi e di sentirsi «apertamente schierata tra coloro che da qualche tempo a questa parte hanno tentato di smantellare la metafisica (con la filosofia e tutte le sue categorie) così come le abbiamo conosciute dal loro esordio in Grecia sino ai giorni nostri». i L’intento arendtiano in questo lavoro di demolizione, di palese matrice heideggeriana, muove da vari presupposti: primo fra tutti, il filo spezzato della tradizione e poi la perdita del passato di cui possiamo intravedere solo frammenti: «un passato in frammenti, che ha perduto la certezza del suo criterio di valutazione». ii C'è uno scritto in cui Hannah Arendt prende il pescatore di perle come figura di un certo pensare. Lo chiama pensare poeticamente, per una concretezza materica che si distanzia dalle rarefazioni filosofiche. L’autrice lo riferisce a Walter Benjamin in uno splendido saggio, L’omino gobbo e il pescatore di perleiii. Chi ha a cuore la tecnica di smantellamento e vuole provarsi a cercare nuove vie al pensiero, faccia come il pescatore di perle in fondo al mare, recuperi, le cose più preziose, «i coralli» e «le perle», che «probabilmente possono ancora essere salvati solo come frammenti».iv 1 Un pensiero che voglia sottrarsi alla sua dissoluzione deve prendere congedo dalla tradizione metafisica e volgersi o alla forma benjaminiana del frammento o di ‘frammenti di pensiero’, o provare a riconciliarsi con il mondo, a trasformarsi in un pensiero secondo : pensare è sempre pensare in seguito ad una cosa o ad un evento. Il pensare, ogni pensare è sempre «propriamente un ri-pensare».v Il pensare è la ricerca del significato, è un’attività della nostra mente che esige un rallentamento della fatticità, una sorta di sosta di cui si ha bisogno quando si prendono decisioni oppure quando si operano delle scelte. Ma cos’è propriamente il pensare? Che cosa ci fa pensare? Dove siamo quando pensiamo? Sono domande che sembrano provenire dal sensus communis, dai ritmi della nostra esperienza vivente e tuttavia sono domande radicali che, però, l’abitudine rimuove di continuo e con determinazione. L’urgenza di queste domande concerne il destino medesimo del pensare, «l’idoneità del pensiero ad apparire, perché si tratta, appunto, di sapere se il pensiero e le altre attività invisibili e silenziose della mente siano destinate ad apparire o se di fatto esse non possono trovare mai dimora adeguata nel mondo»vi. Perché l’attività del pensare non si rinserri nella pura sfera della contemplazione, come è successo sin dai tempi di Platone, occorre che tale attività si riconcilii presto con il mondo e con il concreto agire degli uomini. The Life of the Mind è un’opera affascinante e insieme eterodossa rispetto ai canoni della tradizione, quindi esposta ai molteplici sensi di lettura e di interpretazione. L’opera è «una specie di Parte Seconda della Human Condition»vii come l’autrice confessa in una lettera alla cara amica Mary McCarty, e perciò la prosecuzione di un intenso lavoro teorico che si interrompe solo con la morte. Rispetto a The Human Condition, Hannah Arendt estende l’indagine dall’Analitica della vita activa all’Analitica della cosiddetta vita contemplativa o vita della mente per scrutare non tanto la tensione irrisolta tra queste due modalità di essere al mondo che affiorano in maniera divaricata sin dal Medioevo, né tanto meno per focalizzare ‘astrattamente’ l’attività del pensare, quanto per soppesare tale attività al lavoro: si tratta, infatti, di descrivere che cosa succede quando l’uomo pensa, quando cioè esercita la sua più alta facoltà specificamente umana.viii Se l’agire, che è il motivo dominante della Human Condition, è pura attività che si mostra nell’esecuzione in pubblico, parimenti anche il pensare o meglio l’esperienza del pensare, che è il motivo dominante della Life of the Mind, è pura attività che si manifesta in pubblico, che è resa visibile attraverso la parola. Il filo conduttore che lega le due opere è l’idea della pluralità, ovvero il punto di vista privilegiato dell’autrice che le permette di esercitare il suo sguardo fenomenologico sulla condizione umana nelle sue diverse sfere della vita activa e della vita della mente: lavorare, operare ed agire da un lato, pensare, volere e giudicare dall’altro cioè esperienze e facoltà proprie degli uomini in quanto esseri unici. Nell’uomo, l’alterità che egli condivide con tutte le altre cose e la distinzione, che condivide con gli esseri viventi, diventano unicità, e la pluralità umana è la paradossale pluralità di essere uniciix. Ma è la natalità, questa potente categoria arendtiana, ad impedire la divaricazione tra pensiero e mondo, tra pensiero e corpo, e a troncare qualsiasi assoluta avventura della mente. Proprio la nascita, infatti, in The Life of the Mind neutralizza l’opposizione tra vita activa e vita contemplativa, materializzandosi nel primato dell’apparire. La 2 nascita intensifica l’essere umano, lo rafforza, offrendogli possibilità di azione e di pensiero. Senza nascita e quindi senza corporeità non c’è vita della mente che tenga. Pensare, volere e giudicare sono per Hannah Arendt le tre attività spirituali fondamentali dell’uomo (che sembrano richiamare la tripartizione kantiana di Ragion pura, Ragion pratica e Giudizio, e in forma più remota, lo schema agostiniano del De Trinitate di intelligere, velle e memoria con la significativa sostituzione della memoria con il giudizio): «non si possono dedurre l’una dall’altra e sebbene posseggano certe caratteristiche comuni non si possono ridurre a un comune denominatore»x perché sono autonome e incondizionate. «Certamente, gli oggetti del mio pensare, del mio volere o giudicare, i contenuti delle attività della mente, sono dati nel mondo o vengono alla mia vita in questo mondo, ma essi in quanto tali, non condizionano le attività della mente in quanto attività».xi In altri termini, le facoltà della mente non sono separate dall’ambito fenomenico e, su questo punto, l’autrice imposta un discorso, se non nuovo, originale, sull’idea di una relazione costitutiva tra il mondo e le facoltà soggettive dell’uomo; allo stesso tempo, «nessuna delle condizioni della vita o del mondo corrisponde ad esse direttamente»xii perché tali facoltà possono trascendere ‘spiritualmente’ tutte queste condizioni. Già nell’Introduzione, l’autrice vincola il senso della sua ricerca a due esperienze fondamentali ma abbastanza diverse: la prima è lo stimolo che le viene assistendo al processo Eichmann svoltosi a Gerusalemme nel 1961 e il discusso resoconto che ne segue pubblicato nel 1963, in prima edizione, dal titolo La banalità del male: «Restai colpita dalla evidente superficialità del colpevole, superficialità che rendeva impossibile ricondurre l’incontestabile malvagità dei suoi atti a un livello più profondo di cause e di motivazioni… e l’unica caratteristica degna di nota che si potesse individuare nel suo comportamento passato, come in quello tenuto durante il processo e lungo tutto l’interrogatorio della polizia prima del processo, era qualcosa di interamente negativo: non stupidità, ma mancanza di pensiero».xiii È abbastanza chiaro da questo passaggio che la prima motivazione ad occuparsi delle attività della mente era stata una motivazione etica e la conseguente capacità di distinguere il bene dal male, di giudicare concretamente delle azioni. Il male, nella sua versione banale, può venire secondo l’Arendt ricondotto alla incapacità di riflettere sulle azioni, su ciò che si fa. Nel criminale nazista Eichmann non c’è nessuna profondità demoniaca, ma solo assenza di giudizio e accettazione passiva delle regole dettate da un’autorità superiore. Fu proprio questa assenza di pensiero a destare l’interesse della Arendt nell’intraprendere questa ricerca e a sollevare un grande quesito squisitamente morale: può l’esercizio del pensare in quanto tale allontanare gli uomini dal fare il male o addirittura predisporli contro di esso? E ancora: è possibile connettere la nostra facoltà di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato con la nostra facoltà di pensiero? Interrogativi che fanno comunque da sfondo all’intero percorso dell’opera. La seconda esperienza che suscita l’interesse dell’autrice riguarda più in generale il completamento dell’indagine sulla condizione umana, questa volta sul versante della vita contemplativa, considerata 3 tradizionalmente una pura condizione di quiete, consacrata, a differenza della vita attiva, alla ‘visione di Dio’. L’Arendt giudica manchevole e approssimativa la risposta della tradizione alla faccenda del pensare che è stata incastonata nei facili dualismi tra ‘il modo di vita attivo che si svolge sempre in pubblico’ e ‘il modo di vita contemplativo che si svolge nel deserto’. In specie, nella tradizione cristiana questa tendenza si accentua, favorendo l’identificazione del pensiero con la pura meditazione, sospingendo nell’angolo il pensiero, asservito, ormai, alla teologia. Le cose non cambiano nell’età moderna, con Descartes, quando «il pensiero divenne essenzialmente l’ancella della scienza, della conoscenza organizzata».xiv Commentando questi passaggi dell’Introduzione si può facilmente desumere come l’intento arendtiano sia non solo quello di scandagliare a fondo l’attività del pensare, riscattandola dai lacci della tradizione platonico-cristiana, ma anche quello di ‘decostruire’ le linee principali del pensiero metafisico, mostrandone i veri e propri errori, o ‘fallacie’, in connessione con le esperienze peculiari che le hanno rese possibili.. Ma c’è qualcosa di più in quest’opera, che rimane celato o almeno non sempre immediatamente visibile: la sfida sulla critica alla metafisica che Hannah Arendt ingaggia col suo maestro e amante Martin Heideggerxv, una sfida che acquista invece visibilità nella sezione della Vita della mente dedicata alla volontà – la facoltà che, sconosciuta al mondo antico, è ‘l’organo del futuro’, perché chiama in causa la libertà umana e la sua finitezza. Questo saggio non vuole essere certo un’interpretazione complessiva dell’opera arendtiana, ma vuole prendere in esame, in particolare, la prima sezione dedicata al Pensare, mostrando come il pensiero prenda nell’analisi arendtiana una dimensione, per così dire, orizzontale, in opposizione alla dimensione verticale del pensiero astratto di marca platonica: per noi questa concezione del pensare è la vera e tacita sfida che Hannh Arendt lancia ad Heidegger sulla critica alla tradizione metafisica. Quel che è certo, infatti, è che per il suo antico maestro la faccenda del pensare non è un bene che può toccare in sorte alla città.xvi Vedere, vedersi Se c’è un Leit-motiv che compare e ricompare agli snodi cruciali del tragitto arendtiano, condensandosi soprattutto nei primi paragrafi della Vita della Mente, questo è il tema dell’apparire, che ha non poche consonanze con l’ultimo Merleau-Ponty del Visibile e l’Invisibile, come nota acutamente Alessandro Dal Lago nell’introduzione all’edizione italiana del libroxvii, e come la stessa autrice ammette in maniera esplicita in alcune stringenti argomentazioni. Anzi, l’incipit del capitolo primo, paragrafo primo, dedicato alla natura fenomenica del mondo, riecheggia in maniera impressionante la prosa merleau-pontyana: «Il mondo in cui gli uomini nascono contiene molte cose, naturali ed artificiali, vive e morte, caduche ed eterne, che hanno 4 tutte in comune il fatto di apparire, e sono quindi destinate a essere viste, udite, toccate, gustate ed odorate, ad essere percepite da creature senzienti munite degli appropriati organi di senso». xviii Al pari di Merleau-Ponty, Hannah Arendt individua uno snodo cruciale per riconsiderare il rapporto tra il mondo e le capacità spirituali dell’uomo nel fenomeno dell’apparenza, concepito come un dato di fatto della vita quotidiana a cui nessuno può sottrarsi, tanto meno i filosofi o gli scienziati. Siccome tutto ciò che vive viene percepito da altri, Essere e Apparire coincidono, cioè ogni essere presuppone degli spettatori. Vedere, vedersi, essere visti sono modalità che dischiudono una nuova comprensione del reale, veri e propri snodi di questo primato dell’apparire: «Apparire significa sempre parere agli altri, e questo parere varia secondo il punto di vista e la prospettiva degli spettatori. In altre parole, ogni cosa che appare, in virtù del suo apparire, acquisisce una sorta di travestimento che può in verità – benché non necessariamente – dissimularla o deformarla. Il parere corrisponde al fatto che ogni apparenza, ad onta della propria identità, è percepita da una pluralità di spettatori.»xix Ciò che garantisce agli uomini la realtà del mondo è l’apparenza del mondo stesso. Il che significa che il mondo è il luogo e la dimora dell’apparire. L’Arendt rivendica, sulle orme di Merleau-Ponty, la natura fenomenica del mondo che si intreccia con una sorta di filosofia dell’apparenza, e allo stesso tempo delinea l’opzione strategica della sua ricerca, che concerne «l’idoneità del pensiero ad apparire, poichè si tratta appunto di sapere se il pensiero e le altre attività invisibili e silenziose della mente siano destinate a apparire o se di fatto esse non possano trovare mai dimora adeguata nel mondo».xx L’analisi dell’apparire porta Hannah Arendt a riformulare la critica al pensiero metafisico che aveva sempre concepito la dimensione fenomenica come una dimensione accidentale e transeunte in nome della certezza e della verità di un essere immutabile e a dare seguito a quel lavoro di smantellamento della metafisica di cui dà un primo resoconto nelle pagine conclusive della sezione dedicate al Pensare. In altri termini la tesi dell’apparenza, radicalmente antimetafisica, demolisce il dualismo dell’essere e dell’apparire e rivela l’inconsistenza della teoria dei «due mondi» come l’inganno, sia pure affascinante, della metafisica: «Ciò che è giunto alla fine è la distinzione di fondo tra il sensibile e il sovrasensible, insieme con la nozione risalente almeno a Parmenide, che tutto ciò che non è dato ai sensi - Dio, l’Essere, I principi Primi e le Cause (archai), le Idee - sia più reale, vero e significativo di ciò che appare, trovandosi non solo al di là della percezione sensoriale, ma al di sopra del mondo dei sensi.»xxi Con il crollo della teoria platonica dei due mondi, crolla l’edificio metafisico e ogni illusione di verità ultima e definitiva. La Arendt invoca persino l’autorità del sofista Gorgia per denunciare la fallacia logica di tutte le teorie che riposano sulla dicotomia di Essere e Apparire, che tanta afflizione ha portato al pensiero. Ma che cos’è propriamente l’apparenza? Lo sfondo teorico che si apre da questo interrogativo si presenta ricco di intuizioni originali: anzitutto, una volta che è stata affermata la natura fenomenica del mondo e constatato il fatto «che noi siamo del mondo e non semplicemente in esso: anche noi siamo apparenze, proprio in virtù del nostro arrivare e partire, apparire e scomparire»xxii, possiamo cominciare a precisare 5 alcune caratteristiche dell’apparire che l’Arendt trae in parte dall’insegnamento di Husserl e di MerleauPonty e in parte dalle ricerche del biologo svizzero Adolf Portmann.xxiii Nel terzo paragrafo del capitolo I della prima parte dedicata al Pensare, significativamente titolato Il rovesciamento della gerarchia metafisica: il valore della superficie, la Arendt chiarisce, infatti, il suo punto di vista, polemizzando anche con l’atteggiamento dello scienziato che ha sempre tentato di portare alla luce il fondamento delle apparenze, che ha finito per contagiare la scienza, colpita da una sorta di malattia infantile. In tal senso la critica non deve solo rivolgersi alle pretese di totalità del pensare metafisico e quindi al pensiero stesso nella sua interezza, ma anche alla scienza e al suo operare. Tale critica investe anche l’ipotesi funzionalistica, in cui le apparenze sono interpretate come funzioni di un processo vitale sottostante, e quindi funzionali all’autoconservazione e alla conservazione della specie, mentre l’intento dell’Arendt è riutilizzare i contributi di Portmann sulle forme della vita dell’animale per rivendicare la modalità dell’apparire come unica possibile: «Anteriormente a tutte le funzioni dirette alla conservazione dell’individuo e della specie …si trova il semplice fatto di apparire come autoesibizione che dà senso a tutte queste funzioni»xxiv. Come il piumaggio degli uccelli, «che a prima vista ci sembra possedere il valore di un caldo rivestimento protettivo, ed esse soltanto, compongono un manto colorato il cui pregio intrinseco risiede solamente nella sua apparenza visibile »xxv. Più precisamente, la riflessione di Portmann legittima il valore dell’apparenza come la caratteristica morfologica delle specie viventi per cui «Non ciò che una cosa è, ma come essa “appare” costituisce il problema della ricerca»xxvi. Quindi, ogni creatura vivente è portata ad apparire, a mostrarsi, ad autoesibirsi come una sua disposizione innata. Tuttavia l’Arendt non sembra dare credito assoluto alle ricerche di Portmann, soprattutto quando quest’ultimo tende a distinguere le apparenze autentiche, cioè le forme esterne di qualsiasi essere vivente, dalle apparenze inautentiche, cioè le forme interne come le radici di una pianta o gli organi interni di un animale. Perché se l’esterno, ciò che appare, ha solo la funzione di proteggere l’interno, l’apparato funzionale del processo vitale, allora ci assomiglieremmo tutti, e perderemmo la nostra specificità individuale nella misura in cui gli organi interni della corporeità dovessero venire alla luce. Pertanto l’interpretazione arendtiana, che gioca sul doppio significato del verbo tedesco esibirsi, Selbstdarstellung (= far vedere la mia presenza, ma anche esibire il proprio sé), è che questo “impulso all’autoesibizione” costitutivo di ogni essere si integri con una sorta di attività spontanea, nel senso che ogni cosa che vive e che conseguentemente tende ad apparire è sempre predisposta ad essere vista e destinata ad apparire agli altri. Quando facciamo la nostra apparizione come attori sulla scena del mondo, siamo per così dire posseduti da «un impulso all’autoesibizione che corrisponde in ognuno al dato di fatto del nostro apparire» xxvii, e tale impulso a mostrarsi, comune a uomini e ad animali, consiste in una serie di movimenti alternati a fasi di stasi che coincidono con il decorso naturale di ogni vita individuale; tali sono le esperienze fondamentali di ogni essere vivente che non esiste mai al singolare, ma presuppone sempre gli altri che lo percepiscono - e presuppone altresì che l’apparire abbia un inizio e una fine, un arrivo e una partenza, un apparire e uno scomparire rispetto al mondo che sempre ci sopravvive. 6 Un primo carattere dell’apparire è dunque il suo movimento: il mondo stesso si rivela come una scena di apparizioni e scomparse. Il movimento dell’apparire - aggiunge l’autrice con il sostegno di Merleau-Ponty si spiega anche col fatto che «nessuna cosa, nessuna faccia di una cosa, si mostra se non nascondendo attivamente tutte le altre»xxviii. L’apparire di un essere vivente è dunque un mosso che si costituisce in un gioco di Schein (parvenza) e di Erscheinung (apparenza). Il secondo carattere, non meno importante del primo, riguarda così il fattore dell’autopresentazione, nel senso che, tra gli esseri viventi, gli uomini si presentano con atti e parole indicando così il modo in cui desiderano apparire, ciò che a loro avviso è idoneo o meno ad essere veduto. Si tratta dell’elemento della scelta rispetto a ciò che si vuole mostrare o si vuole nascondere. Alla luce di questi primi due caratteri possiamo rilevare che l’apparire è anzitutto autoesibizione, fare attivamente vedere, vedersi, udire la propria presenza, e poi successivamente autopresentazione, scelta deliberata e attiva di come apparire agli altri.xxix Scrive l’autrice: «Siccome le apparenze si presentano sempre nelle vesti del parere, simulazione e inganno intenzionale da parte dell’attore, errore ed illusione da parte dello spettatore figurano, inevitabilmente, tra le loro intrinseche potenzialità. L’autopresentazione si distingue dall’autoesibizione grazie alla scelta attiva e consapevole dell’immagine mostrata: l’esibirsi non ha altra scelta che mostrare tutte le proprietà in possesso di un essere vivente. L’autopresentazione non sarebbe invece possibile senza un certo grado di consapevolezza di sé, capacità connaturata al carattere riflessivo delle attività spirituali che trascende, chiaramente, la semplice coscienza che con ogni probabilità l’uomo ha in comune con gli animali superiori.»xxx Il concetto di autopresentazione permette all’Arendt di chiarire ulteriormente il primato dell’apparire, questa volta in relazione all’attività del pensare, e lo strumento di cui si serve è la distinzione tra anima (soul) e mente (mind), che non coincidono affatto.xxxi Se è vero che la vita dell’anima, cioè la vita psichica, si esprime attraverso emozioni, sentimenti, affetti e passioni che non sono idonee ad apparire più di quanto lo siano gli organi corporei che permettono la conservazione della vita, esse, tuttavia, rappresentano delle apparenze inautentiche: «A differenza dei pensieri e delle idee, sentimenti, passioni ed emozioni non possono divenire parte integrante del mondo delle apparenze più di quanto avvenga ai nostro organi interni».xxxii C’è quindi uno iato tra apparenze e vita interiore, perché i pensieri e le idee hanno sempre bisogno di essere calate nel discorso e quindi sono sempre dotate di un significato, destinate come sono ad essere udite e comprese da altri, mentre le emozioni, le passioni si nutrono di un fondo di oscurità che è il loro elemento naturale, e mai possiamo controllarle. Come già in alcune pagine di Vita Activa, Hannah Arendt muove una critica radicale e profonda alla vita interiore, e in più in generale alla vita intima la cui caratteristica è quella di non essere destinata ad apparirexxxiii. Il punto centrale di questa discussione, è che il pensiero e le attività mentali in genere non possono in alcun modo essere considerate un interno dell’io, perché la regione del 7 pensiero non è l’interiorità, e la riflessione si trova già sempre fuori, proiettata verso la sfera dell’apparenza. Il pensiero fa sempre riferimento alla pluralità costitutiva della realtà umana. La mente, infatti, è altro dall’anima, perché è pura attività che può essere avviata o interrotta. L’anima, da cui provengono «le nostre passioni, i nostri sentimenti e le nostre emozioni, è un vortice più o meno caotico di eventi che noi non mettiamo in atto, patiamo (pathein) e che in circostanze di forte intensità possono travolgerci come avviene con il dolore o con il piacere; l’invisibilità dell’anima assomiglia a quella degli organi interni del corpo, di cui avvertiamo il funzionamento o la disfunzione senza essere in grado di controllarli»xxxiv. Tuttavia è anche vero che ogni emozione, ogni manifestazione di collera o di coraggio è sempre un’esperienza somatica, che ‘trabocca nel corpo’. L’anima pertanto, come aveva già sostenuto Aristotele nel De Anima, non sembra funzionare senza ricevere affezioni dal corpo con cui è in diretto contatto. Viceversa, il pensiero e le attività mentali in genere non possono in alcun modo essere considerate un interno dell’io, né sono in diretto rapporto con il corpo anche se, come vedremo più avanti, esse «si ritraggono dal mondo delle apparenze, ma tale ritiro non si dirige verso un interno dell’io o dell’anima». xxxv L’apparenza, dunque, non è né può essere considerata alla stregua di una manifestazione esterna della dimensione interiore costituita dall’anima; essa piuttosto appartiene ad un ordine di realtà differente. Ora, sviluppando la questione dell’apparenza, Hannah Arendt tocca un tema di grande interesse, che è quello della percezione o della fede percettiva: poiché «tutto ciò che appare è destinato a un essere percipiente, a un soggetto potenziale tanto connaturato a ogni oggettività quanto un oggetto potenziale è connaturato alla soggettività di ogni atto intenzionale»xxxvi, la natura dell’apparire coinvolge ‘intenzionalmente’ sempre e comunque un soggetto e un oggetto in un movimento di percepire e di essere percepiti. Come ha notato Laura Boella, è palese ormai un chiaro atteggiamento fenomenologico dell’Arendt, che si impegna tra l’altro in un confronto sia con Husserl sia con Merleau-Ponty, in contrasto con l’atteggiamento filosofico tradizionale. La ‘fede percettiva’ non è altro che l’esistenza, vale a dire la certezza che l’oggetto pensato o percepito possiede un’esistenza autonoma dall’atto del percepire, perché dipende interamente dalla presenza di una pluralità di prospettive che percepiscono da molteplici punti di vista lo stesso oggetto. Solo così, osserva Hannah Arendt citando Merleau-Ponty, è possibile afferrare l’oggettività del realexxxvii. La percezione non è la coscienza di sé o qualcosa di soggettivo, perché si costituisce in un tessuto di prospettive, in un gioco di pluralità che solo è in grado di conferire la necessaria realtà alla sfera delle apparenze: «In un mondo di apparenze la realtà è caratterizzata in primo luogo dallo ‘star ferma e permanere’ la stessa, tanto a lungo da diventare un oggetto per la conoscenza e il riconoscimento di un soggetto».xxxviii Non è possibile in tale contesto approfondire questi problemi, che richiederebbero una ricerca particolare per la ricca trama fenomenologica che li sottende, ma ciò che è importante sottolineare è che per Hannah Arendt la coscienza non è sufficiente a garantire la realtà, e tanto basta per una presa di distanza dalle teorie 8 solipsistiche di matrice cartesiana; la percezione non è mai qualcosa di immediato, perché la realtà di ciò che percepisco è «garantita da un lato dal suo contesto mondano, che comprende altri uomini che percepiscono come me e, dall’altro, dall’azione combinata dei cinque sensi»xxxix. Quindi la realtà percepita, le cose, hanno lati misteriosi e umbratili non appena cambia il punto di vista di colui che percepisce. Ciò che garantisce la realtà in un mondo di apparenze è, appunto, la comunanza dei sensi dell’uomo che, pur diversi fra loro, fanno riferimento ad uno stesso oggetto e al contesto che allo stesso tempo riunisce e separa gli individui; vi è poi il sensus communis, una specie di sesto senso ‘misterioso e senza luogo’ che fornisce quella sensazione di realtà che corrisponde alla proprietà mondana delle cose di essere- reali. «Questo sesto senso - chiarisce l’autrice - non coincide con il pensiero, perché l’essere-reale delle cose, di ciascuna cosa, è sempre fuori della sua portata. Il pensiero viene sempre dopo la realtà, né la realtà si può dedurre dal pensiero. Ma il pensare, che sottopone al dubbio tutto ciò di cui si impadronisce, non possiede una simile relazione naturale e scontata con la realtà».xl Qui Hannah Arendt riconosce il ruolo centrale, strategico che il concetto di apparenza gioca nella filosofia kantiana, non sul versante della tradizione teologica o di un presupposto metafisico (secondo cui Dio è qualcosa, causa di ciò che è, ma non appare, è pensato ma non appare pur essendo causa delle apparenze)xli, bensì sul versante della quotidianità, cioè dell’insieme dell’esperienze concrete degli uomini, perché se le apparenze devono avere esse stesse fondamenti che non sono apparenze e devono pertanto «fondarsi su un oggetto trascendente» che le determini come semplici rappresentazioni, ciò sembra derivare per analogia dai fenomeni di questo mondo, mondo che include sia le apparenze autentiche sia quelle inautentichexlii, per cui il fondamento delle apparenze risiede nelle apparenze medesime. Del resto, osserva l’Arendt, questo lo dice Kant medesimo, anche se a volte egli non prende sempre atto delle conseguenze delle sue argomentazioni, perché la distinzione tra la cosa in sé, cioè l’oggetto trascendente, e il fenomeno, cioè la mera rappresentazione, si risolve non tanto nell’ambito di una gerarchia metafisica, quanto piuttosto si fonda sulla nostra esperienza concreta. A conferma di ciò suona un celebre passo kantiano: «Se una conoscenza deve avere una realtà oggettiva, cioè riferirsi a un oggetto e avere in esso significato e senso, l’oggetto in maniera qualunque deve potere essere dato. Senza di che, i concetti sono vuoti, e se uno con essi pensa, in fatto tuttavia con questo pensiero non conosce nulla, ma giuoca semplicemente con rappresentazioni».xliii Come a dire che è l’esperienza fonte e possibilità di ogni nostra conoscenza, senza di cui anche i concetti, tutti i concetti, indistintamente non avrebbero valore alcuno.xliv Ma lo snodo di questo confronto serrato con Kantxlv, anche a sostegno della nostra tesi, è sviluppato nell’Introduzione alla Vita della mente e nel § 8 della prima parte, e riguarda la distinzione tra Vernunft (ragione) e Verstand (intelletto), allo scopo di assegnare al pensiero una propria autonomia ma che sia soprattutto legittimato a trascendere «i limiti dell’attività cognitiva e dell’intelletto» e giustificato in questa sua pretesa. Si deve «allora presumere che il pensiero e la ragione non si occupino di ciò di cui si occupa l’intelletto»xlvi. Polemizzando con Heidegger, Hannah Arendt afferma, infatti, in modo lapidario che il 9 bisogno di ragione non è ispirato dalla ricerca di verità ma dalla ricerca di significato. E verità e significato non sono la stessa cosa.xlvii Ma procediamo con ordine. Preliminarmente l’autrice chiarisce, a suo avviso, alcune caratteristiche della scienza moderna che persegue sempre una verità irrefutabile, a partire dall’evidenza dei sensi. Tuttavia, se è vero che la tecnologia e l’esperimento costituiscono il modo di procedere dello scienziato, per far vedere come le cose funzionano, è anche vero che il ritorno al senso comune e all’esperienza si impone di per sé. «Sotto questo aspetto - scrive l’Arendt - la scienza non costituisce se non un prolungamento straordinariamente raffinato di senso comune»xlviii. Essa persegue sempre verità e certezze che si impongono come autoevidenti. Se ricorriamo, infatti, alla celebre la distinzione leibniziana tra verità di ragione e verità di fatto, scopriamo che ambedue le verità sono funzionali al modo di operare della scienza moderna: le prime, cioè le verità matematiche, dipendono dalla natura della mente e sono di per sé certe e universali, mentre le seconde, pur essendo “contingenti” secondo la definizione di Leibniz, dipendono dai nostri sensi e non per questo sono meno coercitive delle prima. «La fonte della verità matematica è il cervello umano, e la capacità cerebrale non è meno naturale, né meno attrezzata per orientarci attraverso un mondo che appare, dei cinque sensi, aggiungendo ad essi il senso comune e quel suo prolungamento che Kant chiamava intelletto».xlix Altra cosa è il pensiero, altra cosa sono le sue procedure, intanto perché «l’attività di pensare, al contrario, non lascia nulla di così tangibile dietro di sé»l e poi perché il pensiero, collocandosi sempre al di là della verità scientifica, non può restare legato ai criteri di evidenza propri del mondo delle apparenze. Nella distinzione kantiana tra Vernunft (ragione) e Verstand (intelletto), cioè tra la ragione intesa come la facoltà del pensiero speculativo, capace di inoltrarsi in territori a lei sconosciuti, e l’intelletto che è la nostra capacità di conoscere che scaturisce dall’esperienza sensibile, Hannah Arendt intravede una diversa lettura della Critica della ragion pura, ma più in generale tenta di emancipare il criticismo kantiano da un impianto di tipo epistemologico, per restituire al pensiero una sfera di autonomia e di produzione di senso. Si tratta di un tentativo di riabilitare la ragione, cogliendo nella sua natura delle potenzialità teoriche che non hanno nulla a che vedere né con il senso comune né con qualsiasi modello di verità, ma attingono a questioni di significato; vale a dire che la Dialettica trascendentale, intesa kantianamente come logica della parvenza perché disvela le impietose illusioni della ragion pura, può essere letta come una logica del significato perché dà alla ragione un campo d’azione che prima le era precluso, e una dignità che Kant già comunque le riconosce. È impossibile, infatti, scrive l’Arendt, citando Kant, che la ragione, «questa suprema corte di tutti i diritti e pretese della speculazione, sia essa stessa l’origine di inganni e illusioni».li Hannah Arendt giunge ad affermare che lo stesso Kant non approfondì mai questa particolare implicazione del suo pensiero, e benché abbia tracciato la linea di demarcazione tra pensare e conoscere, tra ragione e intelletto, queste due facoltà sono intimamente legate, «malgrado la differenza estrema di toni e di propositi»lii che i filosofi hanno sempre finito di adottare per il criterio della verità. Il che equivale a ribadire che i concetti della ragione ci servono a concepire [begreifen, comprendere], mentre i concetti dell’intelletto ci servono a comprendere le percezioni.liii In termini arendtiani, la distinzione kantiana tra ragione e intelletto 10 è che la prima desidera comprendere il significato di ciò che l’intelletto ha già compreso pensando gli oggetti dell’intuizione sensibile, cioè assolvendo il suo compito di unificare il molteplice sensibile. A differenza della ragione, l’intelletto puro, in quanto fonte dei giudizi sintetici a priori che delineano l’orizzonte di oggettività al cui interno qualcosa si può presentare come oggetto, si configura pertanto come la fonte di ogni oggetto e come il fondamento della stessa verità. La lettura arendtiana del criticismo kantiano si muove dentro l’ottica di una critica radicale alla metafisica, che ha sempre tentato erroneamente di interpretare il significato sulla falsariga della verità e di omologare il pensiero ai risultati della conoscenza. L’errore dei filosofi è sempre stato l’ossessione della verità. Tuttavia, la rielaborazione arendtiana della distinzione tra pensare e conoscere trova poco sostegno nel testo kantiano, benché l’autrice si sforzi di rilevare che ciò «comporta conseguenze molto più estese di quelle da lui stesso riconosciute, forse anche del tutto differenti»liv. Se da un lato il ricorso alla distinzione kantiana tra pensare e conoscere non ha altro scopo per l’Arendt se non quello di marcare la correlazione tra la sfera fenomenica e la vita della mente che pertiene alla ricerca del significato, dall’altro, non c’è dubbio che la lettura arendtiana di Kant risulti non priva di fascino nel ribadire una trama più ampia del pensiero rispetto al conoscere, e rappresenti al contempo un contributo prezioso ad una revisione del kantismo, in direzione non tanto di un’epistemologia quanto «di una teoria dell’uomo».lv Una prima conclusione di questo complesso ragionamento arendtiano, è che il riattraversamento del testo kantiano conduce l’autrice a due risultati importanti: uno riguarda le attività della mente che procedono sempre dalla realtà; l’altro è che esse conservano una propria autonomia e libertà da ogni condizionamento. Le lacrime di Penelope Le due importanti acquisizioni del discorso arendtiano intorno alle ‘attività della mente in un mondo di apparenze’ si fanno sentire in alcuni passaggi nodali del secondo capitolo della prima parte dell’opera dedicato, appunto, alle attività della mente le cui caratteristiche principali sono l’invisibilità e il ritrarsi. Proviamo ad entrare nel merito di questi due importanti attributi della vita della mente. Intanto, non è azzardato sostenere che visibile e invisibile in Hannah Arendt hanno una palese matrice merleau-pontyana o per lo meno, come ha osservato Laura Boella, stanno in un rapporto molto simile a quello prospettato da Merleau-Pontylvi. Per l’uomo che pensa, il suo apparato percettivo rimane sì regolato sull’apparenza, ma la sua primaria attività, cioè il fatto che pensa, rimane celata allo sguardo, quindi rimane invisibile. L’attività mentale, in altri termini, è un’attività pura, silenziosa, che non possiede alcuna manifestazione esteriore, ad eccezione della distrazione, che vuol dire noncuranza del mondo circostante; l’io 11 che pensa tende, quando pensa, a ritirarsi deliberatamente dal mondo e a trascendere sempre la mera datità di qualsiasi cosa che abbia suscitato la sua attenzione. Sembrerebbe, ad una prima lettura, che «l’ovunque del pensiero è effettivamente una regione del non luogo», ma su questo punto torneremo più in avanti; per il momento ci limitiamo ad osservare che l’invisibilità è la pura trascendenza del dato, o la pura sottrazione di ciò che è presente ai sensi. E così si spiega anche il ritrarsi o il distacco dal mondo, che non è affatto una perdita per l’io che pensa, e che non è mai solo ma sempre in compagnia con sé stesso. Affiora qui uno dei grandi temi dell’opera che è quello della dualità, il due-in-uno dentro lo scenario della pluralità come il tratto costitutivo della condizione umana. A questo stato, in cui tengo compagnia a me stesso, Hannah Arendt dà il nome di solitudine per distinguerlo dalla desolazione, dove si è altrettanto soli ma abbandonati non solo dagli altri, ma anche dalla compagnia di se stessi.lvii La facoltà della mente è di rendere presente ciò che è assente: ogni pensiero nasce da un ricordo, dall’aver presenti alla mente i medesimi oggetti che una volta sono stati oggetto della percezione sensibile. Ppreleva il file docer il pensiero, allora, sebbene non per la filosofia in senso tecnico, il ritrarsi dal mondo delle apparenze rappresenta la sola precondizione essenziale. Perché noi si pensi a qualcuno, questi deve essere lontano dalla nostra presenza; finché si è con lui, non si pensa né a lui né su di lui; il pensiero implica sempre il ricordo: ogni pensare è propriamente un ri-pensare. Può certo accadere che si cominci a pensare su qualcuno o qualcosa ancora presenti, nel qual caso ci siamo allontanati clandestinamente da ciò che ci circonda, ci stiamo comportando come se fossimo già assenti.lviii Quella del pensare è un’esperienza paradossale, perché da un lato è sempre ancorata al mondo, e quindi, alla condizione della pluralità, dall’altro, invece, presuppone l’assenza del mondo, degli altri, del prossimo, perché il pensare esige la sosta, l’interruzione da ogni fare, la sospensione di ogni attività. In questo doppio movimento di relazione e di sospensione rispetto al mondo risiede la cifra arendtiana del pensiero, che ha come compito quello di sorreggere le faccende umane - perché «non c’è nulla nella vita ordinaria dell’uomo che non possa divenire cibo per il pensiero, assoggettandosi, cioè, alla duplice trasformazione che predispone un oggetto del senso a diventare un conveniente oggetto di pensiero».lix Occorre, però, capire meglio questo doppio movimento, ovvero la funzionalità del pensiero. Per questo Hannah Arendt, con il sostegno del suo amato Kant, si rifà al concetto di ri-presentazione, che si attua per mezzo dell’immaginazione: «La rappresentazione (nel senso di ri-presentazione) che rende possibile ciò che di fatto è assente, costituisce la dote incomparabile della mente e poiché la nostra intera terminologia relativa alla mente si basa su metafore tratte dall’esperienza della visione, tale dote ha nome immaginazione, definita da Kant ‘la facoltà d’intuizione anche senza la presenza dell’oggetto’».lx L’immaginazione ha il compito di preparare gli oggetti per il pensiero, di smaterializzare gli oggetti visibili su cui la mente lavora, per trasformarli in immagini invisibili. Non è difficile cogliere come l’Arendt si serva di un apparato categoriale tradizionale per dare una nuova spinta propulsiva al pensiero, emancipandolo dalle concezioni metafisiche e postmetafisiche che da Platone ad Heidegger si sono sedimentate lungo la tradizione ed hanno eretto una barriera tra il pensare e il senso comune. L’idea che il 12 pensare sia attività di tutti e non più patrimonio di pochi privilegiati, è già una netta presa di distanza dalla tradizione del pensiero metafisico. L’oggetto del pensiero è differente dall’immagine, come l’immagine differisce dall’oggetto visibile del senso di cui è semplice rappresentazione. È a causa di questa duplice trasformazione che il pensiero «di fatto va anche oltre», ben oltre la sfera di ogni possibile immaginazione, «quando la ragione proclama l’infinità del numero che nessuna visione nel pensiero di cose corporee ha mai afferrato» o «ci insegna che anche i corpi più piccoli sono divisibili all’infinito». L’immaginazione, pertanto, che trasforma un oggetto visibile in un’immagine invisibile, idonea a essere immagazzinata nella mente, costituisce la condizione sine qua non per fornire alla mente convenienti oggetti di pensiero; ma tali oggetti di pensiero, a loro volta, vengono alla luce solo quando la mente ricorda in modo attivo e deliberato, raccoglie e tra-sceglie dal deposito della memoria tutto ciò che desti il suo interesse in maniera sufficiente a causare concentrazione. In queste operazioni la mente apprende come affrontare e trattare le cose che sono assenti, e si prepara insieme ad «andare oltre», verso la comprensione di cose che sono per sempre assenti, di cui non può esservi ricordo perché non sono mai state presenti all’esperienza sensibile.lxi La caratteristica della mente è questo suo «andare oltre», questo suo trascendere la natura: nell’atto di pensare io non sono dove sono in realtà, né tanto meno ho nozione della mia corporeità: la regione in cui sono è immateriale, invisibile, situata ben al di là del mondo fenomenico, «una sorta di terra di nessuno, la terra dell’invisibile, di cui non saprei nulla se non mi fosse data questa facoltà di ricordare e di immaginare»lxii. Con immagini poetiche molto suggestive, Hannah Arendt paragona il processo del pensiero che interrompe la sua attività nell’ordinario mondo della vita, al desiderio di Orfeo che si volta immediatamente a vedere Euridice e questa scompare: così ogni invisibile svanisce di nuovo. L’interpretazione arendtiana di Kant presuppone, quindi, che il pensiero debba liberarsi dai lacci della verità scientifica né può restare legato ai criteri di evidenza della sfera fenomenica, ma deve piuttosto trascendere tale sfera, scoprendo il significato che le apparenze rivelano alla mente dell’uomo. Il Pensare è dunque un’esperienza di tutti e di ciascuno, una sorta di maieutica socratica che tende non solo a riesaminare e mettere in discussione ogni dato dell’esperienza, ma a soddisfare il nostro bisogno di dare un senso a quello che pensiamo e a quello che facciamo. Anzi, il pensiero è tutt’uno con la vita perché una vita senza pensiero non è completamente viva.lxiii A questo punto, la ricerca dell’autrice prende una direzione laterale almeno rispetto ai canoni della tradizione che mai, ad eccezione di Platone ne Il Sofista, aveva osato esplorare il luogo di chi pensa: se il pensiero, infatti, è un’attività che si allontana da ciò che è presente e vicino, allora dove siamo quando pensiamo? Ovvero, dove si trova il luogo del pensiero? Sono domande che lo stesso Platone aveva lasciato senza risposte, mentre l’Arendt, proprio alla luce della particolare natura del pensiero in quanto attività smaterializzante, ritiene che una ricognizione spaziale del pensare sia fuorviante: «L’ovunque del pensiero è effettivamente una regione del non luogo.»lxiv 13 Ciò vorrebbe dire che la domanda era sbagliata, perché non siamo solo nello spazio, ma anche nel tempo: perché se il pensare, come diceva Agostino, è raccogliere e anticipare dalla memoria ciò che non è più presente, o progettare ciò che non è ancora, allora il “vero luogo” del pensiero è nel tempo, e questo luogo non può essere che il presente. Ma facciamo un passo indietro per meglio dipanare i fili dell’argomentazione arendtiana. Come è possibile, infatti, l’incontro tra l’invisibile e il visibile, tra il pensiero e il mondo in cui si esercita l’attività dell’io che pensa? È un interrogativo cruciale per l’indagine che permette all’Arendt di chiamare in causa per la prima volta e in maniera sistematica il linguaggio e quella particolare connessione tra pensiero e linguaggio, perché «non l’anima ma la mente richiede la parola».lxv Il linguaggio è il solo medium mediante il quale le attività della mente possono manifestarsi non solo al mondo esterno, ma anche allo stesso io della mente, e nessun linguaggio possiede un vocabolario già pronto per i bisogni dell’attività della mente. L’attenzione arendtiana sul linguaggio trova il proprio sbocco nell’analisi della metafora che meglio si presta a definire la natura e l’attività del pensiero: «Al pensiero senza immagini, astratto, la metafora fornisce un’intuizione tratta dal mondo delle apparenze la cui funzione è di “provare la realtà dei nostri concetti”, annullando dunque, per così dire, quel ritrarsi dal mondo delle apparenze che è la pre-condizione delle attività spirituali. […] La metafora effettua il metapherein – transportare – […] il passaggio da uno stato esistenziale, quello del pensare, a un altro, quello di apparenza tra le apparenze».lxvi Proprio nell’appello del suo metapherein, del trans-portare, del portare oltre le nostre esperienze sensibili, la metafora consente di ricomporre la scissione operata dalla metafisica tradizionale tra i “due mondi” dell’essere e dell’apparire: offrendo al pensiero un riavvicinamento, ma anche una complementarietà, tra mondo dell’apparenza e l’ineffabile, essa corrobora la vita della mente, la svincola dai lacci della fattualità pur consentendole di essere “stretta al mondo”. Nel suo essere non un artificio semiologico, ma un modello di orientamento nel mondo dell’esperienza e nel modo di fare esperienza del mondo, la metafora può consentire all’individuo di reintegrare, nella sua vita di relazione, l’unità tra interiore ed esteriore, tra sfera privata e sfera pubblica del vivere. La metafora è, dunque, il filo con cui la mente si tiene stretta al mondo, è letteralmente trasposizione dell’invisibile nel visibile, punto di congiunzione tra le attività interiori e invisibili della mente e il mondo delle apparenze: «la metafora fu sicuramente il dono più grande che il linguaggio potesse offrire al pensiero e quindi alla filosofia, ma in sé e per sé prima che filosofica la metafora è originariamente poetica.»lxvii Questa citazione meriterebbe ben altro approfondimento per tutte le implicazioni e i rapporti tra linguaggio poetico e linguaggio filosofico e per la funzione che Hannah Arendt, anche sulla scia del suo maestro Heidegger, sembra assegnare alla poesia, cioè quella di tracciare una via per il pensiero, perché il pensiero necessita di poesia. C’è un episodio illuminante a tal proposito, che l’autrice trae dall’Odissea omerica. Odisseo, travestito da mendicante, ritorna ad Itaca e incontra Penelope: dicendo molte menzogne le racconta di aver conosciuto suo marito a Creta, al che Penelope reagisce lasciando scorrere copiose le lacrime, così come si scioglie la neve 14 sulle cime dei monti e riempie i fiumi. In questi termini si esprime Omero: «così si scioglievano le sue belle guance nel piangere, piangendo Penelope lo sposo che le era seduto accanto». Qui, commenta l’Arendt, abbiamo soltanto enti visibili: «le guance di Penelope non sono meno visibili della neve che si scioglie»; però l’invisibile che è reso palese da queste immagini metaforiche è l’insieme dei pensieri che travagliano Penelope e che costituiscono il significato delle lacrime. Quindi le lacrime sono una sorta di pensiero congelato che il pensare deve scongelare lxviii . La potenza di queste immagini e di queste associazioni (se le lacrime sono il dolore e la neve che si scioglie è l’annuncio di una nuova primavera, allora un pensiero di tristezza può trasformarsi in un pensiero di gioia) eleva la metafora al rango di un pensiero congelato: non più o non solo un ornamento stilistico o una sostituzione lessicale motivata dalla somiglianza, ma la metafora è soprattutto una forza generativa e rigenerativa della vita della mente, è ciò che dà frescura al pensiero restituendogli senso e movimentolxix. In altri termini, la metafora non consiste semplicemente in un’analogia per mezzo della quale un determinato termine viene trasferito a un oggetto diverso da quello a cui si riferisce, sebbene a esso somigliante: «Ogni metafora porta allo scoperto “una percezione intuitiva della somiglianza in cose dissimili” e , secondo Aristotele, rappresenta proprio per questa ragione “un segno del genio” , “di gran lunga la cosa più grande”».lxx Tramite la metafora, la vita della mente dà conto pienamente di se stessa, riesce a rendersi manifesta nella sfera delle apparenze colmando il vuoto lasciato dal suo sottrarsi al mondo, si presta ad essere una specie di campo di tensione tra il visibile e l’invisibile: «Non vi sono due mondi proprio perché la metafora li unisce. La teoria dei due mondi è un’illusione metafisica».lxxi La metafora, come linfa della vita della mente oltre che espressione e riconnessione di realtà e pensiero, si presenta come “metafora viva”, parafrasando ancora Ricoeur, nel suo essere forma di azione comunicativa creativa e immaginativa Essa è infatti potere di riscrivere il reale, dischiudendo un diverso modo di simbolizzarlo e dunque anche di interpretarlo. L’analisi della Arendt conduce a ritenere che proprio attraverso le metafore il pensiero può pensare la realtà e riappropriarsi della sua origine prima nel mondo: in questo senso non è solo “ponte”, ma struttura di concepibilità creativa e ricreativa del mondo. E perché l’attività di pensiero sia tale, è necessario che essa non si riduca solo ad aver presente a se stessa ciò che è presente ai sensi. Proviamo a fare una prima ricapitolazione delle cose dette fin qui. Per Hannah Arendt il pensiero, contrariamente alle attività cognitive che lo hanno sempre usato come un semplice strumento, è soprattutto un’attività che ha bisogno del discorso per acquistare la propria operatività, e soprattutto è sempre un pensiero secondo che trae la propria linfa vitale dall’esperienza, apparenza tra le apparenze. Ma il pensare è qualcosa di più: “è fuori dall’ordine”, è resistenza all’ordine, è sovversione della logica ordinaria tipica della tradizione metafisica. 15 Il pensiero è “fuori dell’ordine” non solo perché «arresta tutte le altre attività così indispensabili alle faccende del vivere e del sopravvivere, ma perché capovolge tutti i rapporti ordinari: ciò che è vicino e appare direttamente ai sensi è adesso distante, ciò che è lontano è effettivamente presente.»lxxii Pensare è essere coinvolti, pur rimanendo all’esterno, è figurativamente una specie di intercapedine tra la presenza e l’assenza, tra il visibile e l’invisibile: pensare è appunto questo, un punto sapienziale che approfondisce e illumina la vita di ciascun essere umano. Se il pensiero è fuori dell’ordine, è proprio perché la ricerca di significato non dà luogo a risultati finali che sopravviveranno all’attività stessa, che continueranno ad avere senso dopo che l’attività è giunta alla fine. In altre parole, benché manifesto all’io che pensa, il piacere del pensare di cui parla Aristotele è ineffabile per definizione. La sola metafora che resta, la sola che sia possibile concepire per la vita della mente, è la sensazione della vitalità. Privo del soffio vitale il corpo umano è un cadavere; priva del pensiero la mente dell’uomo è morta.lxxiii Se c’è una metafora che ben si adatta al pensare, questa è la metafora socratica del vento: «I venti in sé sono invisibili, tuttavia ciò che essi fanno è manifesto e in certo modo noi avvertiamo il loro avvicinarsi.»lxxiv. E così è per il pensiero e il suo movimento. Ma di questo parleremo nel prossimo paragrafo. Il pensiero come vento Il pensare, l’esercizio del pensare è sempre stato un ineliminabile bisogno dell’uomo e «che tale bisogno sia coevo all’apparizione dell’uomo sulla terra»lxxv è un dato di fatto. La premessa arendtiana chiarisce un punto molto importante che non si può sottacere: mai può venire in discussione, nonostante la rottura di una determinata modalità di pensare, la più generale capacità umana di pensare e la possibilità di continuare a fare filosofia. Perché di questo si tratta: la fine del pensiero metafisico può mettere in luce altre vie, altre potenzialità del pensare, e per la tesi che vogliamo dimostrare Hannah Arendt si spinge a legittimare una dimensione, per così dire orizzontale del pensare in opposizione alla dimensione verticale del pensiero astratto di marca platonica e heideggeriana. Il pensare orizzontale è il pensare narrativo che, a dispetto della ricerca della verità, predilige la ricerca del significato, di ciò che pulsa nell’esperienza vivente. Un pensare che non abbia legami con la vita non è un pensare: «il significato di ciò che di fatto accade, e appare accadendo, si rivela dopo che è scomparso: il ricordo, con il quale si rende presente alla mente ciò che di fatto è assente e passato, svela il significato 16 nella forma del racconto. Colui che compie il disvelamento non è coinvolto in ciò che appare: è cieco, ben al riparo del visibile, proprio per essere in grado di “vedere” l’invisibile».lxxvi Spostamento e movimento sono gli attributi di un pensare che declina verso la narrazione: spostamento tra ciò che è lontano e ciò che è vicino, movimento fra ciò che è consegnato al ricordo e ciò che ci è immediatamente accanto. Il pensare narrativo è, dunque, un pensare che si sgancia dall’oggettività e riporta in auge l’antico motivo greco del thauma, dello stupore generato dallo spettacolo della vita e dalle cose del mondo. Lo stupore è il principio primo del pensare come ben sapevano Platone ed Aristotele che lo posero all’origine della filosofia e della metafisica. Lo stupore è ciò che ci fa pensare. Ma un conto è se il quesito “Che cosa ci fa pensare?” è posto dai cosiddetti filosofi di professione, «una specie così difficile da frequentare» perché mai sanno sganciarsi dai loro contenuti dottrinali come dimostrano secoli di storia della filosofia sin dai Greci, altro conto se è posto dal senso comune che abita in ciascuno di noi e che induce ad interrogarci su un’attività che nella vita ordinaria è fuori dell’ordine. L’unico filosofo che è riuscito a scuotere il senso comune in sé e a spogliarsi dei suoi interessi professionali di pensatore è Socrate, il grande personaggio della cultura greca del quinto secolo che più di ogni altro ha influenzato l’intera opera dell’autrice.lxxvii Ancora una volta, è una metafora che soccorre l’insegnamento di Socrate quando questi esercita l’attività del pensiero coi suoi amici e discepoli. La metafora è quella del vento perché il pensiero è come il vento, solleva, spazza via, disgrega, smuove, scuote certezze, fissità, valori , tradizioni, unità di misura del bene e del male. Socrate ha avuto il merito, nel paragonarsi di volta in volta ad un tafano, ad una levatrice, ad una torpedine, di alimentare il potenziale metaforico del pensiero, tracciandone sempre nuovi e potenziali percorsi destabilizzanti. Ogni volta che si leva il vento del pensiero, nulla può essere più come prima: «È nella natura di .quest’elemento invisibile, disfare, disgelare, per così dire, ciò che il linguaggio, il medium del pensiero, ha congelato in parole del pensiero (concetti, proposizioni, definizioni, dottrine).»lxxviii Come la tela di Penelope, il pensiero disfa di notte ciò che si tesse di giorno, con la conseguenza che esso rivela un insolito effetto distruttivo. Socrate ne è consapevole a tal punto che punzecchia e pungola i suoi concittadini perché si accorgano di non avere in mano se non dei dubbi, delle perplessità. Imparare ad esercitare il pensiero è il nucleo dell’insegnamento di Socrate, ma con Socrate e oltre Socrate, pensare è sempre un’attività pericolosa e destabilizzante “per tutti i credi” perché «ogni volta che ci troviamo di fronte a qualche difficoltà nella vita siamo costretti a decidere ripartendo da zero».lxxix Il pensare produce, pertanto, un effetto paralizzante per l’uomo: ripartire da zero non è semplice, in quanto egli si ritrova incerto e dubbioso davanti a ciò che invece sembrava convincente prima di pensare. Lo sforzo per ricominciare è pari a quello del pescatore di perle che decide di esplorare i fondali marini (della metafisica) per riportare benjaminianamente alla luce ‘coralli’, cioè frammenti di pensiero. 17 Il Socrate arendtiano è da sempre impegnato in questa ricerca, lavora con concetti abituali, ‘quotidiani’ come la giustizia, il coraggio, la felicità. Però, non appena si impossessa di queste nozioni all’apparenza tanto familiari, esse diventano immediatamente problematiche, incerte nel loro significato. Si apre così il problema su cui tanto insiste l’autrice, del rapporto fra i concetti come forme di pensiero congelato e il pensare vero come atto del loro scongelamento in vista della scoperta del loro vero significato. Si afferma quasi un’antinomia: da un lato il pensiero ci scuote dal sonno e quindi ci tiene costantemente svegli e fa tutt’uno con la vita, dall’altro, però, esso non produce immediati risultati tangibili: l’unico risultato verificabile e certo risiede nel processo stesso del pensare. È l’atto del pensare in quanto tale che va preso in considerazione. Hannah Arendt, addentrandosi nella natura del pensare scopre così una drammatica aporia che la porta inevitabilmente a cercare delle soluzioni possibili. In altre parole, se il pensiero è solo ricerca, brezza salutare che scuote, e per di più una ricerca che può anche degenerare, non certo meno rischiosa di quanto sia il nonpensare, cosa può produrre in ordine al problema del bene e del male e più in generale in ordine ad una vita che sia etica? Affiora qui prepotentemente la questione del male che proviene dalla mancanza di pensiero, ma che esula ora dal nostro discorso. Certo, se nel pensiero occidentale fosse esistita una tradizione socratica, annota con una punta di leggera ironia l’autrice, se, nelle parole di Whitehead, la storia della filosofia, fosse una raccolta di note a pie’ di pagina, non a Platone, ma a Socrate, per il pensare, e anche per la filosofia sarebbe stata tutt’altra storia.lxxx Ma tant’è: per districarsi dall’aporia, bisogna ancora interrogare Socrate. La Arendt esamina due affermazioni socratiche contenute nel Gorgia platonico. La prima è: «Patire un torto è meglio che commetterlo», la seconda dice: «Personalmente, sarebbe meglio suonare una lira scordata, dirigere un coro stonato e dissonante, e anche che molti uomini non fossero d’accordo con me, piuttosto che io, essendo uno, fossi così in disarmonia e in contraddizione con me stesso»lxxxi. In queste due affermazioni, soprattutto nella seconda, si sottintende il tema di una costitutiva dualità dell’essere umano - il due-in-uno che è uno dei grandi motivi della Life of Mind, ma direi, dell’intera opera arendtiana. Di questo due-in-uno vive il pensiero, tanto che Platone ha potuto definire quest’ultimo come il dialogo senza voce fra me e me stesso; nel dialogo fra me e me stesso io sono costretto a fare i conti con le mie azioni e le mie scelte e devo giustificarle di fronte a un mio altro io, senza perciò possibilità di mentire. E sta qui la soluzione del problema del rapporto tra pensiero e vita eticalxxxii. Se il pensiero può qualcosa contro il male, se riveste una qualche valenza etica, ciò non dovrà attribuirsi agli eventuali oggetti che si darà o produrrà, ma piuttosto dovrà annettersi all’attività di pensare in quanto tale: «Se nel pensare esiste realmente qualcosa che possa impedire agli uomini di fare del male, deve trattarsi d’una proprietà inerente all’attività stessa, indipendentemente dai suoi oggetti.»lxxxiii La dualità del due in uno è, come dire, un factum della pluralità interna, una modalità di conoscenza che si attualizza in ogni processo del pensiero, una prevenzione per discernere ed evitare il male. Ciò conferma come l’idea arendtiana di pluralità coniughi e congiunga le sfere della vita activa e della vita contemplativa, 18 il vero punto di contatto diretto tra la dimensione di ciò che facciamo e ciò che facciamo quando pensiamo, tra lo spazio aperto in cui parliamo e agiamo in mezzo agli altri, e quello dove siamo soli con noi stessi. Ma, ancora una volta, non è l’attività di pensiero a costituire l’unità, a unificare il due-in-uno; al contrario, il due-in-uno diviene Uno non appena il mondo esterno si imponga di forza al pensatore e tronchi bruscamente il processo di pensiero. Allora, quando è richiamato per nome nel mondo delle apparenze, là dove è sempre Uno, è come se nel pensatore, scisso in due dal processo di pensiero, la differenza si richiudesse di colpo. In termini esistenziali, pensare costituisce un’occupazione solitaria, ma non è l’occupazione dell’isolato. La solitudine è quella situazione umana in cui tengo compagnia a me stesso. La desolazione dell’isolamento si produce quando sono solo senza essere capace di scindermi nel due-in-uno, senza essere capace di tenermi compagnia, allorché, come soleva dire Jaspers, “vengo meno a me stesso” (ich bleibe mir aus) o, per dirla in altro modo, quando sono uno e senza compagnia: «Nulla forse indica con più forza che l’uomo esiste essenzialmente al plurale dal fatto che nel corso della sua attività di pensiero la solitudine attualizza la semplice coscienza di sé, che probabilmente egli ha in comune con gli animali superiori come una dualità.»lxxxiv In questa dualità dunque risiede l’essenza del pensare, il cui criterio di validità non sarà né l’intuizione data nell’evidenza sensibile, né la deduzione del ragionamento logico, ma l’accordo, l’essere coerenti con se stessi. La differenza tra me e me stesso, d’altra parte, presuppone che il pensiero - «come attualizzazione della differenza che si dà nella coscienza» - sia in ascolto dell’altro che è in me. Gli esseri umani vivono nella pluralità e ne dipendono anche per la vita della mente, che si dà solo alla condizione della pluralità. La natura intrinsecamente dialogica del pensiero mostra come nella solitudine dell’io che pensa valga pur sempre la pluralità, che è la legge della terralxxxv. Anche il problema della vita etica trova così la sua ragion d’essere nella dualità perché chi non conosce il dialogo tra me e me non entrerà mai in contraddizione con se stesso e mai potrà vigilare le sue azioni e le sue scelte. Pertanto ciascuno di noi deve vigilare ed esercitarsi nella ricerca del significato, perché ogni giorno bisogna fare i conti con l’agire. Questa impresa, tuttavia, non sarà affidata al pensare, ma al giudicare, ossia a quella particolare attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto, che è considerata da Hannah Arendt la più politica delle nostre facoltà spirituali, quella che consente di dare forma e spessore all’unità tra la vita della mente e la vita attiva, fornendo un effetto visibile all’invisibile vento del pensiero.lxxxvi Non è azzardato sostenere che la pratica socratica del pensare apra canali di comunicazione tra la sfera del pensare e la sfera dell’agire nel senso di una unitarietà dell’esperienza umana, e comprovi al contempo anche una forte unitarietà e coesione del pensiero arendtiano. Egli 19 La complessa disamina arendtiana dedicata al Pensare si conclude con un ulteriore interrogativo: Dove siamo quando pensiamo? che abbiamo già richiamato in alcuni passaggi precedenti. Si tratta di esplorare la spazialità del pensare, ma paradossalmente occorre misurarsi col tempo, perché quando pensiamo non siamo solo nello spazio, ma anche nel tempo, ricordando ad esempio il passato e progettando il futuro. Pertanto, non può non essere il presente il luogo dell’io che pena. Come ha notato Alessandro Dal Lago, nell’introduzione italiana alla Vita della mente, «questa domanda impone, una volta di più, che il soggetto si confronti con il problema del tempo». lxxxvii Il tempo è il grande tema della filosofia arendtiana, è il pensiero dominante di tutti i suoi libri sin dalla Dissertatio su Agostino pubblicata nel 1929, e risente fortemente delle influenze heideggeriane. Il punto teoretico rilevante che Hannah Arendt mette a fuoco, con lucidità teorica e con grande padronanza filologica, a partire dai testi di Agostino, è come porre rimedio a superare la tensione irrisolta in cui la nostra esistenza è già da sempre gettata tra la dimensione della fugacità e la dimensione dell’eterno, o in altri termini la possibilità di conciliare la temporalità dell’esistenza con la stabilità del mondo. È un’aporia drammatica che mette capo ad un’unica certezza: l’impossibilità di dominare il tempo. La vita umana sulla terra, rapportata al mondo, è drammaticamente intrisa di fugacità, di contingenza e di imprevedibilità. Un motivo in più per congedarsi dalla filosofia, che ha sempre evitato di confrontarsi con questo dato drammatico della condizione umana. Un simile legame tra il pensiero e la sua costituzione temporale, trova una folgorante sintesi in una parabola kafkiana dal titolo “Egli”, che Hannah Arendt trae dagli scritti del suo scrittore più amato: «Egli ha due avversari; il primo lo incalza alle spalle, dall’origine, il secondo gli taglia la strada davanti. Egli combatte con entrambi. Veramente il primo lo soccorre nella lotta col secondo perché vuole spingerlo in avanti, e altrettanto lo soccorre il secondo nella lotta col primo perché lo spinge indietro. Questo però soltanto in teoria, poiché non ci sono soltanto i due avversari ma anche lui stesso: e chi può dire di conoscere le sue intenzioni? Certo sarebbe il suo sogno uscire una volta, in un momento non osservato – è vero che per questo ci vuole una notte buia come non è stata mai – dalla linea di combattimento, e per la sua esperienza nella lotta essere nominato arbitro dei suoi avversari, che combattono fra loro.»lxxxviii Questa parabola descrive la percezione temporale dell’io che pensa, che lacera il continuum temporale; ciò non si deve al tempo stesso, ma alla continuità delle nostre occupazioni della vita quotidiana e dei nostri affari nel mondo. La parabola kafkiana sovverte innanzitutto una concezione lineare e continuistica del tempo: abituati come siamo a considerare il presente come il tempo limite che indica il trascorrere del futuro, che ci viene incontro, come qualcosa che è davanti a noi, il passato, inteso come il tempo che si allontana sempre di più, è qualcosa che è situato dietro di noi. Il presente allora è il più evanescente dei tempi, il semplice passaggio dal passato al futuro e viceversa. L’Egli kafkiano, invece, interrompe il continuum temporale e concentra i propri sforzi su di sé, sull’esperienza che sta vivendo del suo essere presente, perché, in quanto pensa, Egli sente il bisogno di soffermarsi per riflettere: si mette di traverso fra il suo passato e il 20 suo futuro che lo incalzano da entrambe le direzioni e, con il suo frapporsi, produce una frattura che difende dal duplice attacco, aprendo una lacuna che costituisce il campo di battaglia. Il presente è questa lacuna, ma è anche un vero e proprio punto di resistenza e di scontro, per così dire, con le dimensioni della temporalità: qui troviamo il nostro luogo temporale quando pensiamo, cioè quando siamo sufficientemente discosti dal passato e dal futuro per ricercarne il significato, e per prevenirne le azioni destabilizzanti, perché ciò che «l’io che pensa avverte come ‘suo’ duplice avversario è il tempo stesso, col mutamento ininterrotto che esso implica, il moto senza posa che trasforma ogni Essere in Divenire invece di lasciarlo essere, e in questo modo distrugge incessantemente la presenza del suo presente»lxxxix. L’io che pensa è un io straniero, perché si sposta in una sfera diversa, che non è quella degli uomini che vivono e agiscono nella prospettiva del divenire - che è la prospettiva del fluire del tempo e del suo strutturarsi su una linea retta. Per questo motivo il tempo è il maggior nemico dell’io che pensa: l’Egli kafkiano è un eroe resistente, una specie di guerriero che lotta contro il tempo per difendere e far durare il proprio presente. Questo presente senza mutamento, che i pensatori medievali denominavano nunc stans e che fungeva da metafora dell’eternità divina, per Hannah Arendt rimane invece un campo di battaglia perenne, perché non ci si può mai sottrarre alla lotta contro il passato e il futuro e tanto meno uscire, come anche Kafka riteneva possibile, dalla linea di combattimento per osservare dall’esterno lo scontro, o giudicarlo senza più esserne coinvolto. Tale, purtroppo, è stato il sogno impietoso di tutta la metafisica occidentale, da Parmenide a Hegel: essi hanno preteso di accedere ad una regione senza tempo e di produrre uno spettatore in grado di contemplarla. Per usare un’altra metafora, il presente è «la quiete dell’occhio del ciclone che, anche se completamente diverso dal ciclone, fa tuttavia parte di esso»xc. In sintesi, l’Arendt, per rettificare il suo punto di vista anche rispetto all’Egli kafkiano, presenta questa figura in cui l’azione delle due forze, il passato e il futuro che formano i lati del parallelogramma, determina una terza forza, la diagonale che interseca la direzione del pensiero, «la cui origine sarebbe allora il punto nel quale le forze s’incontrano e sul quale agiscono».xci Dal punto di vista del presente che sta in mezzo, le due forze del passato e del futuro, benché abbiano un’origine indeterminata, hanno però un termine ultimo, a differenza della diagonale (del pensiero) che ha un’ origine conosciuta, e una direzione determinata (dal passato e dal futuro), ma indeterminata rispetto al suo termine. Per Hannah Arendt, la diagonale è la metafora che si presta assai bene all’attività del pensare, e insieme una correzione di rotta dell’Egli kafkiano che, se avesse scoperto questa diagonale, non avrebbe avuto bisogno di uscire dalla linea di combattimento. 21 Dove siamo quando pensiamo Infinito direzione del pensiero Infinito futuro Presente Infinito Passato Ci sia consentito di affermare, anche alla luce delle considerazioni fin qui svolte, che se la temporalità del pensiero è caratterizzata dal primato del presente, «il più transitorio dei tempi nel mondo delle apparenze», allora è anche vero che l’esperienza dell’io che pensa è un’esperienza che dura in mezzo alla transitorietà mutevole del mondo e delle vicende degli uomini, e ancora di più una risposta efficace alla precarietà, che è la cifra più propria della condizione umana. Non è un caso che dal pensiero si originano le grandi opere che resistono alla distruzione del tempo.xcii 22 i H. Arendt, The Life of the Mind, ed. by M. Mc Carthy, New York, Harcourt, Brace & Jovanovich, 1978, 2 voll.; La vita della mente, a cura di A. Dal Lago, tr. it. di G. Zanetti, Bologna, Il Mulino, 1987, p.306. ii Ibidem, p.307. iii H. Arendt, Il futuro alle spalle, a cura di L. Ritter Santini, tr. it. di V. Bazzicalupo e S. Muscas, Il Mulino, Bologna 2000, pp.43-103. In particolare sul pensare poeticamente, l’autrice scrive: “Questo pensiero, nutrito dell'oggi, lavora con i ‘frammenti di pensiero’ che può strappare al passato e raccogliere intorno a sé. Come il pescatore di perle che arriva sul fondo del mare non per scavarlo e riportarlo alla luce, ma per rompere staccando nella profondità le cose preziose e rare, perle e coralli, e per riportarne frammenti alla superficie del giorno, esso si immerge nelle profondità del passato non per richiamarlo in vita così come era e per aiutare il rinnovamento di epoche già consumate. Quello che guida questo pensiero è la convinzione che il mondo vivente ceda alla rovina dei tempi, ma che il processo di decomposizione sia insieme anche un processo di cristallizzazione; che nella ‘protezione del mare’ - nello stesso elemento non storico cui deve cedere tutto quanto si è compiuto nella storia - nascono nuove forme e formazioni cristalline che, rese invulnerabili contro gli elementi, sussistono e aspettano solo il pescatore di perle che le riporti alla luce: come ‘frammenti di pensiero’, come frammenti o anche come eterni ‘fenomeni originari’” (p.99). iv H. Arendt, La vita della mente, cit., p.307. v Ibidem, p.161. vi Ibidem, p.103 vii H. Arendt - M. McCarty, Tra amiche. La corrispondenza di H. Arendt e M. McCarty(1949-1975), a cura di C. Brightman, tr.it.di A. Pakravan Papi, Sellerio Editore, 1999, Palermo, p.383. viii M. McCarty, Prefazione all’edizione americana in La vita della mente, Op.cit., p.65. ix H. Arendt, The Human Condition, Chicago, University of Chicago Press, 1958; introd. di A. Dal Lago, tr. it. di S. Finzi, Vita Activa, Milano, Bompiani, 1994, p.128. x H. Arendt, La vita della mente, cit., p.151. xi Ibidem, p.153. xii Ibidem, p.152. xiii Ibidem, p.84. Cfr. una lettera di M. McCarty ad Hannh Arendt del 9 Giugno del 1971, in Tra amiche, cit., p.518. La McCarty faceva notare all’Arendt che non vedeva veramente chiara la distinzione tra ‘la mancanza di riflessione’ e ‘la stupidità’. Essere profondamente stupidi, come nel caso di Eichmann, non vuol dire avere un basso quoziente di intelligenza. xiv Ibidem, p.87. xv Il rapporto tra Arendt ed Heidegger è complesso e contraddittorio poichè si evolve, tra alti e bassi, lungo il corso degli anni. Cfr. Simona Forti, Vita della mente e tempo della polis, Franco Angeli, Milano 1996, nota 25, p.55. Se a partire dal saggio che stiamo esaminando “Che cos’è la filosofia dell’esistenza” (1946), l’autrice celebra la filosofia di Jaspers, tacciando di ambiguità quella heideggeriana, otto anni dopo è la volta del saggio L’interesse per la politica nel recente pensiero filosofico europeo (1954), in «aut, aut», sett.- dic.1990, n.239-240, pp.31-46, nel quale il pensiero heideggeriano è rivalutato per la messa a fuoco dell’aspetto plurale e mondano dell’esistenza. Ma l’omaggio vero e proprio che l’Arendt tributa all’antico maestro è il saggio del 1969, M. Heidegger ist Achtzig Jahre Alt, «Merkur»5 XXIII, n.10, pp.893-302, ora in «MicroMega», n.2, 1988, pp.165-179, col titolo Martin Heidegger a Ottant’Anni. La filosofia heideggeriana è presentata come la vera testimonianza dell’attività del pensare. Infine, in luoghi decisivi della Vita della Mente, cit., pp.497-522, la Arendt sembra appropriarsi dell’eredità heideggeriana. Cfr.,inoltre, il prezioso volume di F. Fistetti, Hannah Arendt e Martin Heidegger,.Alle origini della filosofia occidentale, Roma, Editori Riuniti, 1998 e il fondamentale libro di R. Schurmann, Dai principi all’anarchia. Essere e agire in Heidegger, Bologna, Il Mulino, 1995. xvi F. Fistetti, Hannah Arendt e Martin Heidegger..Alle origini della filosofia occidentale, cit.,pp.52-53. E’ difficile escludere - fa notare l’autore - che l’Arendt non stesse pensando in questi passaggi ad Heidegger e ai suoi rapporti con il nazionalsocialismo. xvii A. Dal Lago, La difficile vittoria sul tempo. Pensiero e azione in Hannah Arendt, Introduzione all’edizione italiana de La vita della mente, cit., p.14. xviii H. Arendt, La vita della mente, cit.., p.99. xix Ibidem., p.102. xx Ibidem, p.103. xxi Ibidem, p.91. xxii Ibidem, p.103. xxiii I testi di A. Portmann cui Hannah Arendt fa riferimento sono: Die Tier als soziales Wesen, Zürich, 1953, e Die Tiergestalt Studien uber die Bedeutung der tierischen Erscheinung, Basel, 1960, in Id., La vita della mente, cit., p.108, note 11 e 12. xxiv Ivi. xxv Ivi. 23 xxvi Ibidem, p.109. Ibidem, p.102. xxviii Ibidem, p.106. xxix Cfr. L. Boella, Hannah Arendt “fenomenologia”. Smantellamento della metafisica e critica dell’ontologia, in “Aut Aut”, n. 239-240, 1990, pp.83-110. L’apparenza, secondo la Boella, si costituisce, non come rappresentazione, oggetto e costruzione del pensiero, bensì nei movimenti della percezione (p.103), Sul tema dell’apparenza nell’opera dell’Arendt ha scritto pagine intense E. Tassin, La question de l’apparence, in M. Abensour (a cura di), Ontologie et Politique. Actes du Colloqui Hannah Arendt , Editions Tierce, Paris 1989, pp.63-84.. xxx H. Arendt, La vita della mente, cit.,p.118. xxxi Cfr. le interessanti annotazioni del traduttore all’edizione italiana alla Vita della mente che non .nasconde le difficoltà per la resa nella lingua italiana del termine mind che può essere tradotto sia con mente (seguendo l’uso corrente) sia con spirito (seguendo un certo uso filosofico di tono, però, storicistico e idealistico). Comunque - nota Zanetti - Hannah Arendt intende con mind sia il complesso delle attività mentali (elaborazione dei dati percettivi, pensare, immaginare ecc.) sia il complesso delle funzioni superiori della mente (meditare, teorizzare, rammemorare). In ultimo, in termini arendtiani mind copre sia il mentale che lo spirituale (p.60). xxxii Ibidem, p.112. xxxiii Cfr. un saggio intenso su queste tematiche di Laura Boella, Cuori indistruttibili. L’idea di umanità in Hannah Arendt, in “La società degli individui”, n.13, Anno V, 2002/1, Franco Angeli, pp.19-37. xxxiv H.Arendt, La vita della mente, cit., pp.154-155. xxxv Ibidem, pp.113. xxxvi Ibidem, p.129. xxxvii Ivi. Cfr., inoltre M. Merleau-Ponty, Segni, a cura di A. Bonomi, tr. it. di G. Alfieri, Net, Milano 2003, p.44 e p.220. Per gli studi più approfonditi sul rapporto tra H. Arendt e M. Merleau-Ponty, anche in merito alla foi perceptive, si rinvia a A. Enegrén, Hannah Arendt, lectrice de Merleau-Ponty, in “Esprit”, 1982, 6, pp.154-155. Nell’opera arendtiana, come affermano anche gli autorevoli pareri di A. Dal Lago e di L. Boella, sono tracciate le linee di quella che potrebbe essere definita “un’ontologia dell’apparenza” di chiara derivazione merleau-pontyana. xxxviii H. Arendt, La vita della mente, cit.,128. xxxix Ibidem, p.133-134. xl Ibidem, p.136. xli Ibidem, p.122-123. xlii Cfr. Ivi. xliii I. Kant, Critica della ragion pura, tr.it. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, riv. da V. Mathieu, sesta edizione, Bari, Laterza, 1977, p.175. Il passo è tratto dall’Analitica dei principi, libro II, sezione II, Del principio supremo di tutti i giudizi sintetici. xliv H. Arendt, La vita della mente, cit., pp.123-124. xlv Hannah Arendt non ha mai scritto un libro su Kant. E tuttavia un rapporto intenso e speciale ha legato l’Arendt, lungo il corso di tutta la sua vita, al filosofo di Kőnigsberg. Nelle opere giovanili e della maturità, nelle conferenze, nei carteggi (con Martin Heidegger, con Karl Jaspers, con Mary McCarty) il nome di Kant ritorna sempre come un’ombra che veglia e segue passo per passo lo sviluppo e l’evoluzione del suo pensiero. xlvi Ibidem, p.97. Cfr. F. Fistetti, I Filosofi e la polis, La scoperta del principio di ragion sufficiente, Pensa Multimedia, Lecce 2004, pp.54-56. L’autore vede in questa rielaborazione arendtiana della dicotomia verstand/vernunft il dissidio fin troppo esplicito dell’autrice con Heidegger perché non vi è dubbio “che ad essere preso di mira è il progetto heideggeriano di re(in)saturazione della questione dell’Essere in una con la tecnica della Destruktion ad esso finalizzato. Fin da Essere e Tempo il Fragen di Heidegger assume la verità - l’aletheia - come ‘compito del pensiero’ e come suo esercizio interminabile ed inesauribile”. xlvii Ivi. xlviii Ibidem, p.137. xlix Ibidem, p.144. l Ibidem, p.147. li Ibidem, p.149. lii Ibidem, p.96. liii Ibidem, p.141. liv Ibidem, p.147. Si veda in questa pagina per esteso la nota 83, in cui l’Arendt scrive “che la sola interpretazione di Kant a me nota che si potrebbe citare a sostegno della mia lettura…è l’analisi della Critica della ragion pura compiuta da Erich Weil, Penser et Connaitre, La Foi et la Chose-en-soi, in Problemès Kantiens, Paris 1970”. L’Arendt attribuisce a Weil non solo la capacità di restare più fedele al modo in cui Kant leggeva se stesso, ma soprattutto una lettura antropologica dell’intera filosofia kantiana. xxvii 24 lv Cfr. E. Tavani, «Senso comune» estetico e spazio politico. Le Lectures di Hannah Arendt su Kant, in La Ragione possibile, Rivista di Filosofia e teoria sociale, anno 3, n.1 inverno 1992-primavera 1993, Edizioni Bagatto Libri, Roma, pp.231-256. “Se il pensare- scrive la Tavani - oltre il suo utilizzo come ‘sapere’ e come ‘fare’ (VM, p.93) si concreta, come troviamo ribadito nelle Lezioni, proprio nell’attività del giudicare, ciò che più conta nella visione arendtiana è che tale ‘bisogno’ - per Kant anche ‘scandalo’ della ragione non sia distinto dal bisogno dell’uomo di raccontare la storia di un evento di cui è stato testimone, o di scrivere una poesia nel rimembrarlo” (p.242).. L. Boella, Hannah Arendt “fenomenologia”, cit., pp.103-104. H. Arendt, La vita della mente, cit., p.157. Cfr. Id., Tra amiche, cit., pp.426-30. In una lettera dell’8 Agosto 1969, Hannah Arendt espone alla sua amica M. McCarthy un interessante resoconto intorno ai temi della Vita della mente su cui sta lavorando e in specie, sul dialogo silenzioso che prosegue tra me e me. lviii Ibidem, p.161. lix Ivi. lx Ibidem, pp.158-159. lxi Ivi. lxii Ibidem, p.169. lxiii Ibidem, pp.286-287. lxiv Ibidem, p.295.. lxv Ibidem, p.183. lxvi Ibidem, pp.188-189. Rifacendosi a Kant, l’Arendt aveva affermato che anche per l’ordinaria esperienza sensibile è necessario frequentare enti invisibili come si può desumere dal capitolo sullo Schematismo nella Critica della Ragion Pura, così anche la peculiarità del linguaggio filosofico come linguaggio metaforico è un’intuizione kantiana. Cfr.l’edizione italiana dell’opera, H. Arendt, Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, tr.it. di P.P. Portinaro, Il Melangolo, Genova 1990, p.122. lxvii Ibidem, p.192. lxviii Ibidem, p.194. lvi lvii lxix Cfr. P. Ricoeur, La metafora viva, tr. it., Jaca Book, Milano, 1976. E’ interessante un confronto tra Arendt e Ricoeur. Per il grande filosofo francese, la “scintilla di senso” costituiva della metafora viva, cioè l’enunciato metaforico, vero e proprio “poema in miniatura”, non è più da considerarsi un ornamento stilistico, un nome improprio, una sostituzione lessicale motivata dalla somiglianza, ma è una “predicazione bizzarra”, un’ “attribuzione impertinente”: non è un fenomeno di parola, una “denominazione deviante”, ma un evento testuale e discorsivo che, carico di una potenzialità di ri-figurare la realtà e insieme capace di scoprire dimensioni ontologiche nascoste dell’esperienza umana e di trasformare la nostra visione del mondo, produce, attraverso lo slancio dell’immaginazione, una nuova pertinenza concettuale, nella quale un senso nuovo viene creato proiettando una nuova comprensione del mondo. La “verità metaforica”, sospendendo la “referenza” ordinaria per attivare quella secondaria, “divisa” e “spezzata”, contribuisce, come dice Ricoeur, a una ri-descrizione del reale e, più generalmente, del nostro essere-almondo, in virtù della corrispondenza fra un vedere-come sul piano del linguaggio e un essere-come sul piano ontologico: essa è la verità di un mondo ridescritto e riconfigurato che ha di mira “l’essere non più secondo le modalità dell’esser-dato, bensì secondo quelle del poter essere”. lxx H. Arendt, La vita della mente, cit., p.188. Ibidem, p.197. lxxii Ibidem, p.169. lxxiii Ibidem, p.212. lxxiv Ibidem, p.268. lxxv Ibidem, p.217. lxxvi Ibidem, pp.222-223. lxxvii Kant e Socrate vengono giudicati dalla Arendt, con le parole di Lessing, come i due massimi esponenti di un pensiero critico in grado di far «tremare le fondamenta delle più diffuse verità ovunque lascino cadere i loro occhi». Si veda H. Arendt, Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, cit., p.61. Cfr. anche H. Arendt, Karl Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale, in “MicroMega” n. 5, Roma 1995, p.86. E’ interessante un confronto con altre opere arendtiane che si soffermano sulla figura di Socrate come The Life of The Mind (La Vita della Mente, cit., pp.259-278, e Thinking and Moral Considerations (Pensiero e riflessioni morali), in “Social Research”, 1971, 38, n.3, pp.417-446, tr.it. in H. Arendt, La disobbedienza civile e altri saggi, a cura di T. Serra, Giuffrè, Roma 1985, pp.113-153, ora in H. Arendt, Come raccontare il mondo, Edizioni Studium, Roma 1995, pp.143-182. In specie per le pagine su Socrate, il par. 2, pp.157171. Si vedano, infine, Alcune questioni di filosofia morale in Id., Responsabilità e Giudizio, a cura di J. Kohn, tr.it. di lxxi 25 D. Tarizzo, Torino, Einaudi, 2004, pp.41-126. Potremmo dire che il Socrate delle opere edite è più esigente e insieme più sfuggente; infatti, da un lato pungola i suoi concittadini senza dare loro né definizioni né valori per la futura condotta nella città, e dall’altra egli sembra ritrarsi come il vento che scuote, spazza via le precedenti certezze, lasciando nei concittadini nient’altro che dubbi. Cfr., inoltre, F. Fistetti, H. Arendt e M.Heidegger, Op. cit., in specie il secondo capitolo, Heidegger e Socrate, pp.35-85. Occorrerebbe, infine, uno studio a parte sulle molteplici rappresentazioni del Socrate arendtiano, tenndo conto anche degli scritti inediti. lxxviii H. Arendt, La vita della mente, cit.,p.269. lxxix Ibidem, p.271 lxxx Cfr. Ibidem, pp.267-268. lxxxi Platone, Gorgia, 473d, 482c 483c, in Id., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano, Rusconi, 1992. lxxxii Cfr. J. Kristeva, Le génie féminin, Hannah Arendt, Gallimard, Paris 1999, in specie le pp.293-317. lxxxiii H. Arendt, La vita della mente, cit., p.274. lxxxiv Ibidem, p.280. lxxxv Della categoria della pluralità è contaminata tutta l’opera arendtiana. In Vita Activa, Op.cit., troviamo le formulazioni più sistematiche. lxxxvi Come è noto Hannah Arendt non portò mai a termine la terza parte della Vita della mente, dedicata appunto al giudicare, la terza facoltà spirituale per la morte improvvisa che la colse nel dicembre del 1975. Ed è vano chiedersi in quali termini questa facoltà sarebbe stata spiegata o descritta. Si vedamo comunque le pagine del Post-scriptum pp.308312 che chiude la sezione dedicata al Pensare e l’Appendice, Giudicare pp.547-567 che chiude The Life of The Mind. Ci limitiamo a dire, a proposito del nesso, tra pensiero e giudizio, che se il primo è comprensione che dà significato alle esperienze, il secondo si origina sempre da esperienze particolari e si struttura sempre in riferimento alle esperienze a e ai punti di vista diversi. Assume, agli occhi dell’Arendt, una particolare importanza, per comprendere questo nesso, la terza Critica kantiana. E un ciclo di lezioni sulla filosofia politica di Kant, vedi Id., Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, Op.cit. lxxxvii A. Dal Lago, La difficile vittoria sul tempo, Introduzione alla Vita della mente, cit., p.51. lxxxviii Ibidem, 297. L’apologo Egli si trova in F. Kafka, Confessioni e Diari, Milano, Mondadori, 1972, pp. 811-812. Cfr. una prima versione arendtiana dell’apologo kafkiano in Id., Premessa. La lacuna tra passato e futuro, in Tra passato e futuro, tr.it. di T. Gargiulo, Milano, Garzanti, 1999, pp.25-39. Nella Premessa del 1958, il riferimento a Kafka si colloca in un contesto diverso, quello legato alla resistenza francese, finita la guerra, e espresso da una frase del poeta René Char: “La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento” (p.25). Inoltre, in un saggio ancora precedente del 1944, dal titolo Kafka: il costruttore di modelli, ora, in Id., Il futuro alle spalle, cit., pp.23-41, l’Arendt, richiamandosi a Benjamin e alle sue Tesi di Filosofia della Storia, ritiene irrilevante e dannoso il credo dell’uomo nel progresso. E’ un puro pregiudizio pensare che il progresso sia necessario. lxxxix H. Arendt, La vita della mente, cit., p.301. xc Ibidem, p.304. xci Ibidem, p.303. Cfr. il saggio interpretativo di R. Beiner, ora in H. Arendt, Teoria del giudizio politico, cit., p.197, dedicato ad Hannah Arendt sull’importanza dell’attimo che racchiude il senso del tempo, anzi l’attimo è tutto il tempo. Beiner si spinge a istituire relazioni tra la concezione arendtiana dell’attimo e quella di Nietzsche. Non è tuttavia casuale che l’Arendt citi l’autore di Così parlò Zarathustra subito dopo la parabola di Kafka.. xcii Che le grandi opere siano frutto del pensiero, Hannah Arendt lo aveva già scritto in Vita Activa., Op.cit., p.120..Che le grandi opere aprano la possibilità di comprensione del mondo dei mortali è un’idea di cui la Arendt è largamente debitrice di Heidegger. Cfr. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Id., Sentieri Interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1984. 26