Schedatura di un libro
Ebraismo e modernità
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Hannah Arendt, Ebraismo e modernità, Feltrinelli, Milano, 1998
The Jew as Pariah: Jewish Identity and Politics in the Modern Age, Grove Press, New York, 1978
Filosofia, politica – Ebraismo e politica internazionale.
Raccolta di saggi.
II. Struttura del Testo
Il libro è composto da una serie di articoli che vanno dal luglio 1942 al gennaio 1950 mettendo in luce la
dinamica del pensiero arendtiano sulla questione arabo-israeliana e sull’identità ebraica connessa ai vari
stati di residenza.
Riguardo alla questione palestinese il punto distintivo delle argomentazioni dell’autrice consiste nel
riconoscimento dell'eccezionalità del conflitto, e di conseguenza dell'impossibilità di porvi termine con una
pacificazione di tipo tradizionale. La guerra tra Israele e il mondo arabo si propone con forza anche e
soprattutto nella nostra contemporaneità, ed è vista non come conflitto tra stati, ma come una
rivendicazione di una patria contesa tra due popoli con una diversa identità. Il conflitto però non può essere
semplicemente definito in questi termini, in quanto qualsiasi analisi riassuntiva e parziale diventa
fuorviante e riduttiva. Ecco perché l'analisi arendtiana va vista nel quadro della sua filosofia politica, in cui
assume un valore fondamentale il concetto di isonomia. E' l'uguaglianza dinanzi la legge, la parità della
propria presenza nello spazio pubblico, e il riconoscere la reciprocità dei diritti che diventa il fulcro per una
possibile soluzione del conflitto. Pur essendosi sempre sentita sensibile alle vicende di Israele, Arendt era
cittadina statunitense, e poté seguire, con quel distacco che lei riteneva indispensabile per l'analisi teorica,
il processo Eichmann. Posizione ribadita dall’autrice proprio in una serrata polemica, attraverso lo scambio
di lettere con Gershom Scholem, nelle quali Harendt sottolinea la sua indipendenza politica da ogni vincolo
privato o di comunità: "hai perfettamente ragione - non sono animata da alcun amore di questo genere, e
ciò per due ragioni: nella mia vita non ho mai amato nessun popolo o collettività - né il popolo tedesco, né
quello francese, né quello americano, né la classe operaia, né nulla di questo genere. Io amo solo i miei
amici, e la sola specie d'amore che conosco e in cui credo è l'amore per le persone. In secondo luogo, questo
amore per gli ebrei mi sembrerebbe, essendo io stessa ebrea, qualcosa di piuttosto sospetto. Non posso
amare me stessa o qualcosa che so essere una parte essenziale della mia stessa persona. [...] Ebbene, è in
questo senso che io non amo gli ebrei, né credo in loro; sono semplicemente una di loro. Questo è un dato di
fatto fuori discussione". La posizione di Arendt segue le orme di Bernard Lazare, la cui voce era rimasta
inascoltata quando l'intero movimento sionista si era schierato attorno a Theodor Herzl. Lazare,
contrariamente a Herzl, non considerava l'antisemitismo come un fenomeno naturale e inevitabile, bensì
era convinto che solo attraverso il recupero di un'idea universale di umanità, e quindi di una dimensione
politica che superasse gli angusti confini di una nazione, gli ebrei potessero accedere a quello spazio
pubblico dove può realizzarsi l'aspirazione ad un'autonomia radicale.
L’autrice analizza tutte quelle problematiche che il movimento sionista ha dovuto affrontare nel corso degli
anni, fin dalla sua nascita. L’analisi di questo lungo e articolato periodo storico porta l’autrice a considerare
il movimento inadeguato rispetto alle dinamiche mondiali in cui si trova ad agire, e gli contesta di avere
commesso molti errori, come per esempio quello di essere scesi vergognosamente a patti con lo stesso
governo nazista che stava perpetuando i famosi crimini contro la comunità ebraica europea.
"La storia ebraica moderna, che ha avuto inizio con gli ebrei di corte ed è continuata con gli ebrei milionari e
filantropi, è pronta a dimenticare un'altra tendenza della tradizione ebraica: quella di Heine, Rahel
Varnhagen, Scholem Aleichem, Bernard Lazare, Franz Kafka, o persino Charlie Chaplin. Si tratta della
tradizione di una minoranza di ebrei che non hanno voluto diventare dei nuovi ricchi, che hanno preferito la
condizione di 'pariah consapevoli'. Tutte le vantate qualità ebraiche - il 'cuore ebraico', l'umanità, lo humor,
l'intelligenza disinteressata - sono qualità del pariah ".
Gli articoli che compongono il libro formano un tessuto, anche contraddittorio, di riflessioni sulla
condizione ebraica dopo lo sterminio, la "vittoria" sionista e il processo occidentale di integrazione. Al
sionismo l'autrice rimprovera anzitutto di avere "un bagaglio teorico ormai obsoleto", di aver bisogno
dell'ostilità antisemita per fondare l'identità nazionale. D'altra parte non le sfuggono, per quanto riguarda
la questione Palestinese, i rischi di uno "sciovinismo di tipo balcanico". Sugli avvenimenti tedeschi Arendt
afferma, anticipando analisi posteriori, che lo sterminio non è l'espressione dello "spirito tedesco", ma se
mai un fenomeno moderno e internazionale: ossia “l'enorme macchina amministrativa dell'assassinio di
massa". In tal modo, già nel gennaio del 1945 Hannah Arendt individua gli elementi di quella 'banalità del
male', messi poi pienamente in luce durante il processo Eichmann, e sollecita a scorgere, al di là della
ideologia nazista, storie quotidiane come la vita di un padre di famiglia che, per difendere la pensione o per
garantirsi un minimo di agiatezza, si trasforma in burocrate del crimine. Piuttosto che ricorrere alla
propaganda anti-tedesca di stampo francese - consiglia la filosofa - è meglio sapere che in ogni società nella
quale la disoccupazione offende "il comune rispetto di sé dell'uomo comune", quell'uomo, allenato alla
degradazione, può accettare “qualunque mansione, perfino quella del boia". Nelle considerazioni che
seguono questo esempio l’autrice analizza anche come siano cambiate durante gli anni le strategie della
propaganda nazista, dal nascondere i criminosi fatti degli stermini di massa, fino a renderli pubblici fin tanto
da trasformare ogni tedesco in un nazista, sperando così di rendere inutile qualsiasi futuro processo.
Il libro raccoglie in appendice le lettere che Hannah Arendt scambiò con Gershom Scholem. In questo
carteggio lo studioso della mistica ebraica, sulle tracce della gnosi, sembra credere al "male radicale" e, in
una serrata polemica, accusa la studiosa "di non amare il popolo ebraico".
"Io non 'amo' gli ebrei" - è la risposta - "sono semplicemente una di loro".
Leggendo il testo non si percepisce che l’autrice è una donna, in quanto Harendt non solleva nello specifico
una questione di genere. L’importanza di questo libro nella questione femminile è proprio che il lettore non
percepisce il genere dell’autore e non se ne cura, rapito dalle illuminanti considerazioni arendtiane. Ma se a
analizziamo con più attenzione gli articoli possiamo notare una praticità di fondo nel risolvere conflitti e
questioni tipica femminile, non riscontrabile nei corrispettivi maschili.
Questo libro è stato illuminante per il percorso di comprensione del conflitto israelo-palestinese, riuscendo
a chiarire molte delle dinamiche che solo un’analisi approfondita può portare ad un pensiero sulla
questione che non sia superficiale e condizionato da ideologie esterne, come purtroppo oggi accade per
molti dei nostri politicanti. Ideologie e pensieri di “partito” si mischiano in dichiarazioni e comunicati inutili
se non dannosi, che riescono solo ad aumentare il “prestigio” della nostra politica.
Trovo le argomentazioni della Arendt approfondite e chiarificatrici, e mi hanno sinceramente colpito la
semplicità e la chiarezza con cui le problematiche vengono affrontate e analizzate.
Michele Spatari
II E
11/01/09