REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio Sede di Roma, Sez. I^ composto dai signori magistrati: Pasquale de Lise Presidente Antonino Savo Amodio Componente Silvia Martino Componente rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi riuniti: I n. 5441/2003 proposto da Società Ente Tabacchi Italiani – ETI s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avv. ti Giuseppe Scassellati Sforzolini, Laura De Sanctis e Angelo Clarizia, ed elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio Clarizia alla via Principessa Clotilde n. n. 2; CONTRO - Autorità Garante della Concorrenza e del mercato, in persona del Presidente p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la quale domicilia in Roma, via dei Portoghesi n. 12; e nei confronti - Associazione Il Difensore del Cittadino e del Malato, in persona del Presidente p.t., n.c.; con l’intervento ad opponendum di - Codacons (Coordinamento delle Associazioni per la Tutela dell’Ambiente e per la Difesa dei Diritti degli Utenti e dei Consumatori), in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avv. ti Carlo Rienzi, Marco Ramadori e Vincenzo Masullo ed elettivamente domiciliato in Roma presso la sede del Codacons al v.le Mazzini n. 73; per l’annullamento - della delibera dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato assunta nell’adunanza del 13 marzo 2003, comunicata con nota prot. n. 16106/03 del 27.3.2003, e di ogni altro atto presupposto, connesso e conseguenziale; II n. 5517/2003, proposto da British American Tobacco Italia s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., e British American Tobacco Germany GmbH, in persona del legale rappresentante p.t., entrambe rappresentate e difese dagli avv.ti Mario Sanino e Silvia D’Alberti, ed elettivamente domiciliate in Roma presso lo studio dell’avv. D’Alberti al Corso Vittorio Emanuele II n. 284; CONTRO - Autorità Garante della Concorrenza e del mercato, in persona del Presidente p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la quale domicilia in Roma, via dei Portoghesi n. 12; e nei confronti - Associazione Il Difensore del Cittadino e del Malato, in persona del Presidente p.t., n.c.; con l’intervento ad opponendum di - Codacons, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avv. ti Carlo Rienzi, Marco Ramadori e Vincenzo Masullo ed elettivamente domiciliato in Roma presso la sede del Codacons al v.le Mazzini n. 73; per l’annullamento e/o la riforma 1) del provvedimento n. 11809 adottato dall’AGCM nella sua Adunanza del 13 marzo 2003, notificato alle società ricorrenti il successivo 28 marzo 2003 e pubblicato sul bollettino dell’AGCM n. 11/2003, a conclusione del procedimento istruttoria P13952 – Sigarette Lights – varie marche; 2) di ogni altro atto connesso, preordinato e/o collegato, tra cui in particolare: a) la comunicazione dell’avvio del procedimento, inviata alle parti in data 11 ottobre 2002; b) la decisione dell’AGCM assunta in data 21 ottobre 2002, di acquisire agli atti del procedimento i sondaggi relativi alla decodifica “Lights” da parte dei consumatori, commissionati dall’Autorità nell’ambito del procedimento P13741 – Malrboro Lights, alle società AC Nielsen CRA ed Eurisko; III - n. 5713/2003 proposto da Soc. Philip Morris Holland BV, società di diritto olandese, in persona del legale rappresentante p.t., Philip Morris GmbH, società di diritto tedesco, in persona del legale rappresentante p.t., Philip Morris Product Inc., società di diritto statunitense, in persona del legale rappresentante p.t., tutte rappresentate e difese dagli avv.ti Mario Sanino, Gian Battista Origoni Della Croce, Nino Di Bella e Daniele Vecchi, ed elettivamente domiciliate in Roma presso lo studio Sanino al V.le Parioli n. 180; CONTRO - Autorità Garante della Concorrenza e del mercato, in persona del Presidente p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la quale domicilia in Roma, via dei Portoghesi n. 12; e nei confronti - Associazione Il Difensore del Cittadino e del Malato, in persona del Presidente p.t., n.c.; - Società Gallaher Italia, in persona del legale rappresentante p.t., n.c.; con l’intervento ad opponendum di - Codacons, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avv. ti Carlo Rienzi, Marco Ramadori e Vincenzo Masullo ed elettivamente domiciliato in Roma presso la sede del Codacons al v.le Mazzini n. 73; per l’annullamento - del provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato del 13 marzo 2003, prot. PI/3952, comunicato in data 27 marzo 2003, avente ad oggetto l’accertamento dell’ingannevolezza del messaggio pubblicitario consistente nelle diciture apposte sulle confezioni di sigarette a marchio “Merit Ultra Lights”, “Diana Leggere”, ed altre (come descritte al punto 2 del provvedimento), nonché per l’annullamento di ogni atto presupposto, connesso e conseguente a quello impugnato in via principale e, segnatamente, della comunicazione di avvio del procedimento in data 11 ottobre 2002, per le sigaratte a marchio “Merit Ultra Lights”, e in data 19 novembre 2002, per quelle a marchio “Diana Leggere”; IV - n. 5761/2003 proposto da Soc. Seita s.a. e Soc. Altadis s.a.., in persona dei rispettivi legali rappresentati p.t., entrambe rappresentate e difese dagli avv. ti 2 Luca Simonetti e Corrado Scivoletto ed elettivamente domiciliate in Roma presso lo studio dei difensori, alla via Bertoloni n. 19; CONTRO - Autorità Garante della Concorrenza e del mercato, in persona del Presidente p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la quale domicilia in Roma, via dei Portoghesi n. 12; e nei confronti - Associazione Il Difensore del Cittadino e del Malato, in persona del Presidente p.t., n.c.; con l’intervento ad opponendum di - Codacons, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avv. ti Carlo Rienzi, Marco Ramadori e Vincenzo Masullo ed elettivamente domiciliato in Roma presso la sede del Codacons al v.le Mazzini n. 73; per l’annullamento del provvedimento dell’Autorità n. 11809 emesso in data 13.3.2003, comunicato ai ricorrenti in data 28.3.2003, a conclusione del procedimento PI3952, avente ad oggetto l’ingannevolezza del messaggio pubblicitario rappresentato dalle diciture apposte sulle confezioni di sigarette “Gauloises Blondes Ultra Light”, nonché di ogni atto presupposto, connesso e conseguente a quello impugnato in via principale; V n. 5763/2003, proposto da Soc. Reemtsma Cigarettenfabriken GmbH e Soc. Reemtsma Distribution Company Italy s.r.l., ciascuna in persona del proprio legale rappresentante p.t., entrambe rappresentate e difese dagli avv.ti Teodosio Luciano Monaco e Andrea Trotta, e presso il loro studio in Roma, alla via Bertoloni n. 19, elettivamente domiciliate; CONTRO - Autorità Garante della Concorrenza e del mercato, in persona del Presidente p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la quale domicilia in Roma, via dei Portoghesi n. 12; e nei confronti - Associazione Il Difensore del Cittadino e del Malato, in persona del Presidente p.t., n.c.; con l’intervento ad opponendum di - Codacons, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avv. ti Carlo Rienzi, Marco Ramadori e Vincenzo Masullo ed elettivamente domiciliato in Roma presso la sede del Codacons al v.le Mazzini n. 73; per l’annullamento - del provvedimento dell’Autorità n. 11809 emesso in data 13.3.2003, comunicato ai ricorrenti in data 28.3.2003, a conclusione del procedimento PI3952, avente ad oggetto l’ingannevolezza del messaggio pubblicitario rappresentato dalle diciture apposte sulle confezioni di sigarette “Davidoff Lights”, nonché di ogni atto presupposto, connesso e conseguente a quello impugnato in via principale; VI n. 5833/2003 proposto da JT International S.A., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti Fabrizio Arossa, Tommaso Salonico e Carolyn Frances Giordano, ed elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio dei difensori alla P.zza di Monte Citorio n. 115; 3 CONTRO - Autorità Garante della Concorrenza e del mercato, in persona del Presidente p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la quale domicilia in Roma, via dei Portoghesi n. 12; e nei confronti - Associazione Il Difensore del Cittadino e del Malato, in persona del Presidente p.t., n.c.; con l’intervento ad opponendum di - Codacons, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avv. ti Carlo Rienzi, Marco Ramadori e Vincenzo Masullo ed elettivamente domiciliato in Roma presso la sede del Codacons al v.le Mazzini n. 73; per l’annullamento - del provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato n. 11809, adottato a chiusura del procedimento PI/3952 nell’adunanza del 13 marzo 2003, e comunicato alla società ricorrente in data 28 marzo 2003, avente ad oggetto la dichiarazione di ingannevolezza, ai sensi del d.lgs. 74/92, di un asserito messaggio pubblicitario rappresentato dalla dicitura “Super Lights” riportata sulle confezioni delle sigarette “Camel Super Lights”; nonché, per quanto occorrer possa, di ogni altro atto prodromico, presupposto, connesso o conseguente a quello impugnato. Visti i ricorsi con i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e del Codacons; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti di causa; Data per letta alla pubblica udienza del 11 gennaio 2006 la relazione del dr. Silvia Martino e uditi altresì gli avv.ti Clarizia, Sanino, Simonetti, Trotta, Salonico, Giordano, Ramadori, nonchè gli avv.ti dello Stato Arena e Aiello per le parti rispettivamente rappresentate; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue: FATTO 1. Con richiesta di intervento pervenuta in data 7 ottobre 2002 l’associazione “Il Difensore del Cittadino e del Malato”, in qualità di associazione di consumatori, segnalava all’Autorità Garante della Concorrenza e del mercato la presunta ingannevolezza, ai sensi del d.lgs. n. 74/92, delle diciture “Lights”, “Ultra Lights”, “Ultra Slim Leggera” e “Superlights” riportate sulle confezioni delle sigarette Merit Ultra Lights, Kim Ultra Slim Leggera, Davidoff Lights, Gauloises Blondes Ultra Lights, MS Lights, e Camel Super Lights, in quanto tali diciture indurrebbero, contrariamente al vero - di trovarsi di fronte ad un prodotto meno pericoloso e nocivo per la salute delle normali sigarette. In data 15 novembre 2002 perveniva una nuova segnalazione, della medesima associazione e di un consumatore, con quale gli stessi rilievi venivano svolti in relazione alla dicitura “Leggera”, riportata sulle confezioni delle sigarette Diana Leggera. In data 11 ottobre 2002 l’Autorità comunicava alle società Philip Morris GmbH, Philip Morris Holland BV, Philip Morris Product Inc., ETI s.p.a., British American Tobacco Italia s.p.a., British American Tobacco Germany GmbH, JT International S.A., JT International Italia s.r.l., Altadis Italia Srl, Altadis S.A., SEITA S.A., Reemtsma Distribution Company Italy Srl e Reemtsma Cigarettenfabriken GmbH, in qualità di operatori pubblicitari, e all'associazione segnalante, l'avvio del procedimento, ai sensi del 4 Decreto Legislativo n. 74/92, precisando che l'eventuale ingannevolezza del messaggio sarebbe stata valutata ai sensi degli articoli 1, 2, 3 e 5 del citato Decreto Legislativo, in relazione alle caratteristiche del prodotto e alla possibile induzione in errore dei consumatori circa la pericolosità e nocività dello stesso con riguardo alla dicitura “Lights/ Leggera/ Ultra Lights/ Super Lights/ Légères”. Contestualmente alla comunicazione di avvio del procedimento, veniva richiesto agli operatori pubblicitari, ai sensi dell'articolo 6, comma 1, lettera a), del D.P.R. n. 627/96, di fornire indicazioni in merito a: - la composizione del prodotto con particolare riferimento all'effettivo tenore di condensato e di nicotina contenuto nello stesso; - indicazione dei metodi e dei protocolli sperimentali adottati per il compimento di tale valutazione; - studi in merito alle caratteristiche del prodotto in relazione alle differenze in termini di minore pericolosità e danno alla salute rispetto ad altri tipi di sigarette non “lights”; - risultati di eventuali ricerche di mercato, che rivelino il profilo degli utilizzatori delle sigarette "lights", nonché la valenza attribuita dai consumatori a tale qualificazione e le caratteristiche da essi attribuite ai prodotti che rechino tale qualifica. Successivamente, in data 21 ottobre 2002, venivano acquisiti agli atti del procedimento i sondaggi, relativi alla decodifica “lights” da parte dei consumatori, commissionati dall'Autorità, nell'ambito del procedimento PI3741Marlboro Ligths, alle società AC Nielsen CRA ed Eurisko. Le parti depositavano memorie, evidenziando l’inapplicabilità, sotto vari profili, del d.lgs. n. 74/92. L’Autorità, tuttavia, ritenendo che i messaggi pubblicitari in esame siano idonei ad indurre in errore i consumatori con riguardo alle caratteristiche delle sigarette e che, conseguentemente, siano suscettibili di porre in pericolo la salute dei consumatori inducendoli a trascurare le normali regole di prudenza e vigilanza; deliberava che i messaggi segnalati costituiscono “una fattispecie di pubblicità ingannevole ai sensi degli articoli 1, 2, 3, e 5 del Decreto Legislativo n. 74/92”. Relativamente all'adeguamento delle confezioni, faceva invece espresso riferimento alla direttiva 2001/37/CE la quale, intervenendo specificamente sugli stessi profili oggetto del procedimento svoltosi innanzi all’Autorità, e prendendo in considerazione le medesime esigenze di tutela del consumatore di cui al Decreto Legislativo n. 74/92, prevedeva espressamente che, con effetto a partire dal 30 settembre 2003, le diciture “lights” o equivalenti non avrebbero più potuto essere usate sulle confezioni dei prodotti del tabacco. Avverso siffatta deliberazione le ricorrenti hanno dedotto molteplici censure che possono essere così sintetizzate: a) la dicitura lights è parte di un marchio e non si traduce in un vanto idoneo ad orientare le scelte dei consumatori. Un marchio utilizzato in funzione meramente distintiva non è un messaggio pubblicitario costituendo, per contro, modalità indispensabile e strettamente connessa alla liceità del commercio del prodotto da fumo. L’utilizzo del marchio integra esclusivamente una modalità di vendita, minima ed essenziale, riconosciuta anche dalla Corte di Cassazione (in particolare, sentenza n. 10508/1995). Inoltre, ove la dicitura "lights" costituisse un messaggio pubblicitario, ricadrebbe nel divieto di pubblicità dei prodotti da fumo, la cui violazione va accertata dal Prefetto, ai sensi della legge n. 165/62; b) anche qualora integrassero un messaggio pubblicitario, i marchi in esame e le confezioni di sigarette sulle quali sono apposti, sono stati assentiti 5 preventivamente dall'Ufficio Italiano Marchi e Brevetti e dall'Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato, anche in relazione ad eventuali profili di ingannevolezza. Ricordano ad esempio il diniego all’iscrizione in tariffa opposto da AAMS alla marca di sigarette denominata “Trussardi”, proprio a causa del ritenuto effetto pubblicitario del nome del prodotto. Inoltre, l’esistenza di un effetto compensativo, nelle abitudini dei fumatori di sigarette a più basso contenuto di nicotina, è ben conosciuto e oggetto di dibattito scientifico da decenni; c) la valenza della dicitura “lights” è oggetto della direttiva 2001/37/CE che attribuisce agli Stati membri la competenza a vietarne eventualmente l'uso; pertanto la questione dell'applicabilità dell'articolo 7 di detta direttiva da parte dell'Autorità è assolutamente contestabile, anche alla luce dell'ordinanza del Tribunale di Primo Grado delle Comunità Europee del 10 settembre 2002, causa T-223/01 JTI c. Parlamento e Consiglio. L’intervento dell’Autorità ha in pratica anticipato illegittimamente l’applicazione delle prescrizioni della direttiva i cui divieti sarebbero entrati in vigore solo a far data dal 30 settembre 2003. d) il provvedimento si pone in vistosa contraddizione con le conclusioni alla quali l’Autorità è pervenuta nel caso “Rothmans Leggere” in cui la dicitura “leggere” non è stata ritenuta ingannevole in quanto riferita al minor contenuto di condensato e nicotina e perché il potenziale aspetto fuorviante era compensato dalle avvertenze sul pacchetto secondo cui il fumo nuoce gravemente alla salute; e) rispetto a tale pronuncia non risulta che studi scientifici successivi abbiano apportato nuove informazioni in merito alla pari o minor pericolosità del fumo sulla base delle quali l'Autorità possa aver deliberato diversamente nel caso “Marlboro Lights”; f) lo stesso dicasi in relazione all'adozione della direttiva comunitaria 2001/37/CE, una Proposta della quale era stata già pubblicata nella GUCE precedentemente all'adozione del provvedimento “Rothmans Leggere”; g) la conclusione del provvedimento sul fatto che le sigarette “lights” non sono meno dannose delle “full flavour”, è immotivata e priva di riscontri. La stessa “Monograph 13”, redatta dall’U.S. National Cancer Institute, sulla quale l’Autorità, nel caso Marlboro Lights, ha fondato le proprie conclusioni, analoghe a quelle di cui si oggi si controverte, non ha raggiunto certezze definitive, essendosi limitata a dimostrare che non vi è prova né della minore nocività delle sigarette “Lights” né di un effettivo decremento del numero di malattie conseguenti al consumo di sigarette, e non già che le stesse siano sicuramente pericolose quanto le “full flavour”; h) dai sondaggi Nielsen ed Eurisko non può ricavarsi che i consumatori siano effettivamente indotti in errore dalla dicitura “lights”. La circostanza per cui nei sondaggi Nielsen ed Eurisko una parte dei consumatori associ la decodifica di meno pericoloso al descrittore “light” non è dirimente, in quanto non è sufficiente che tale decodifica sia effettuata da una piccola percentuale di consumatori ma è necessario, secondo un principio di proporzionalità, prendere in considerazione l'aspettativa presunta di un consumatore medio, normalmente informato, ragionevolmente attento ed avveduto (così ad esempio si è espressa la Corte di Giustizia CE, sentenza del 13 gennaio 2000, causa C-220/98 Estée Lauder). Le percentuali rilevate dai sondaggi Nielsen ed Eurisko, divergono poi sensibilmente da quelle scaturenti dai sondaggi commissionati dalla Japan Tobacco, pur essi acquisiti nel corso del procedimento, dai quali si ricava che solo il 6% dei fumatori, corrispondente al 2% della popolazione, fuma sigarette 6 lights perché ritiene che le stesse possano essere meno dannose per la propria salute. Le ricorrenti ritengono peraltro complessivamente non condivisibile la metodologia dei sondaggi commissionati dall’Autorità in quanto le domande poste agli intervistati vertevano sulle caratteristiche del prodotto anziché sulla sola espressione “light”. L’Autorità, inoltre, avrebbe dovuto verificare quale fosse la causa effettiva dell’opinione dei consumatori, posto che dagli stessi sondaggi emerge come le principali associazioni fatte con il termine “light”, attengano al gusto delle sigarette in questione e ad una minore presenza di condensato e nicotina. E’ quindi possibile che tale opinione non dipenda affatto dalla dicitura ma da fattori esterni quali le informazioni scientifiche, la legislazione in materia di riduzione del tenore di condensato e nicotina presente nelle sigarette e comunque le public policy mondiali che, fino a tempo recenti, hanno sollecitato i consumatori non in grado di smettere di fumare, a passare alle sigarette c.d. leggere. I pacchetti di sigarette in questione riportano comunque chiaramente le avvertenze per cui il prodotto nuoce gravemente alla salute e quindi un'eventuale decodifica di “lights” come meno dannose dovrebbe essere evitata dalla presenza delle avvertenze sanitarie obbligatorie per legge. L’Autorità non ha poi spiegato perché le avvertenze obbligatorie presenti sulle confezioni di sigarette non sarebbero in grado di bilanciare la valenza potenzialmente fuorviante della dicitura “lights”; i) non è possibile rintracciare nella stessa Direttiva 2001/37/CE un riscontro probatorio sull’ingannevolezza delle diciture in questione. Infatti, ammesso che, a fini di tutela della salute, e a fronte di dubbi sull’attendibilità di un’ipotesi scientifica, il legislatore comunitario abbia optato per l’eliminazione di tali diciture, diversa è invece la valutazione rimessa all’Autorità la quale non può limitarsi a formulare opinioni astratte ma deve fondarsi su adeguare certezze scientifiche; l) non vi è alcuna prova che le ricorrenti abbiano tenuto un comportamento omissivo, tale da indurre i consumatori a violare le regole di ordinaria diligenza e prudenza. m) la dicitura “lights” non può essere ritenuta ingannevole ai sensi dell'articolo 5 del Decreto Legislativo n. 74/92, in quanto l'Autorità ha sempre interpretato tale norma nel senso che la stessa non vada applicata nei casi in cui la pericolosità, anche potenziale, sia una caratteristica intrinseca del prodotto o di comune esperienza o immediatamente percepibile da parte del consumatore. BAT Italia, in particolare, ha poi dedotto di essere stata erroneamente annoverata dall’Autorità quale “operatore pubblicitario” e, pertanto, non essendo produttore né distributore delle sigarette “Kim Ultra Slim Leggera” avrebbe dovuto essere esclusa dall’istruttoria. Ha stigmatizzato, inoltre, il carattere atipico del provvedimento impugnato, in quanto privo di un puntuale contenuto precettivo. Philip Morris ha ricordato che le sigarette a basso tenore di condensato e di nicotina sono state poste sul mercato non solo per venire incontro ad un mutamento di gusto del pubblico ma anche su richiesta della comunità scientifica internazionale a partire dagli anni ‘50. Inoltre, sin dal 1998, sul proprio sito web, la società chiarisce che il fumatore non deve presupporre che le sigarette siano innocue o più innocue rispetto ad altre sigarette. Ha sottolineato l’effetto distorsivo e destabilizzante del mercato, derivante dal provvedimento, ancorché meramente dichiarativo, emesso nei confronti di alcuni soltanto dei produttori di sigarette lights, nei confronti dei quali il procedimento avrebbe dovuto parimenti essere avviato. Contesta ancora la 7 decisione dell’Autorità di acquisire al procedimento i sondaggi acquisiti nel caso Marlboro Lights e la conseguente violazione del diritto al contraddittorio e di difesa dei produttori che non erano parte in quel procedimento. Le società Altadis, Seita e Reemtsma hanno evidenziato, tra l’altro, che l’argomento del fumo compensativo è di dubbia pregnanza giacché esso si applica solo ai fumatori che passano dalle sigarette normali a quelle “lights”, ma non anche ai neo – fumatori. I produttori di sigarette, inoltre, non possono liberamente determinare il contenuto dei messaggi di avvertenza sanitaria, che è stabilito per legge, sia per le sigarette “lights” che per quelle “full flavour”, e, quindi, non hanno alcuna possibilità di circostanziare e/o bilanciare il messaggio. Non esistono poi regole di prudenza o vigilanza (secondo la formulazione dell’art. 5, d.lgs. n. 74/92) capaci di proteggere dai rischi alla salute il consumatore che abbia già deciso di fumare. L’Autorità avrebbe implicitamente avallato ipotesi di responsabilità oggettiva dei produttori, in contrasto con quanto stabilito dalla stessa direttiva 2001/37/CE, relativamente alla liceità, sino al 30 settembre 2003, delle commercializzazione delle sigarette recanti le diciture in esame. Japan Tobacco International, in particolare, ha invocato il proprio difetto di legittimazione passiva nel procedimento condotto dall’Autorità in quanto società di diritto svizzero che non ha in Italia sedi o stabilimenti, né ivi svolge attività di produzione e/o distribuzione delle sigarette “Camel Superlights”. Ha pur essa contestato la decisione di acquisire al procedimento i sondaggi effettuati nel caso Marlboro Lights, e quindi di una perizia già “confezionata”, alla cui stesura e preparazione il consulente di parte non ha potuto assistere, così come invece disposto dall’art. 9, comma 3, del D.M. n. 627 del 1996. Ha chiesto infine, ove ritenuto necessario, che venga rinviata in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia la questione relativa alla corretta interpretazione della Direttiva 84/450/CEE in rapporto alla nozione di “consumatore medio, normalmente informato, e ragionevolmente attento ed avveduto”, sovente utilizzata nelle decisioni comunitarie in materia di pubblicità ingannevole. Si è costituita per resistere l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, depositando ampie e articolate difese. E’ quindi intervenuto ad opponendum il Codacons, il quale, in rappresentanza degli interessi collettivi dei consumatori, ha sostenuto le ragioni dell’Autorità, insistendo per il rigetto del ricorso. Con le memorie conclusive, le ricorrenti hanno richiamato l’attenzione sul sopravvenuto d.lgs. 24 giugno 2003, n. 184, il cui art. 8 ha espressamente stabilito che a decorrere dal 30 settembre 2003, è vietato l'uso sulle confezioni dei prodotti del tabacco di diciture quali «basso tenore di catrame», «light», «ultra light», «mild», nonché di denominazioni, marchi, immagini ed altri elementi figurativi o simboli comunque suscettibili di suggerire che un particolare prodotto del tabacco è meno nocivo di altri. Tale disposizione comproverebbe, a loro dire, che all’epoca del provvedimento impugnato la norma comunitaria invocata dall’Autorità non era ancora in vigore e quindi non poteva fungere da parametro di riscontro della decettività di un presunto messaggio pubblicitario. Hanno anche precisato che permane intatto il loro interesse alla decisione dei ricorsi, in quanto il provvedimento impugnato continua ad essere impropriamente strumentalizzato nell’ambito di giudizi risarcitori civili esperiti da singoli consumatori che assumono di essere stati lesi nei loro diritti personali e patrimoniali dall’utilizzo della dicitura “Lights”. 8 Hanno infine fatto riferimento alla nota, recente sentenza della Corte Suprema dell’Illinois la quale escluso che Philip Morris abbia usato della fiducia dei consumatori, nell’utilizzo delle diciture “lights”, in quanto queste ultime risultavano precedentemente autorizzate dalla Federal Trade Commissione. Il ricorso è stato assunto in decisione alla pubblica udienza del 11 gennaio 2006 DIRITTO 1. E’ impugnato il provvedimento n. 11809, assunto nell’adunanza del 13 marzo 2003, con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha deliberato che i messaggi diffusi dalle ricorrenti, consistenti nelle diciture apposte sulla confezioni delle sigarette Merit Ultra Lights, Kim Ultra Slim Leggera, Davidoff Lights, Gauloises Blondes Ultra Lights, MS Lights, Camel Super Lights e Diana Leggera, costituiscono una fattispecie di pubblicità ingannevole ai sensi degli articoli 1, 2 3, e 5 del Decreto Legislativo n. 74/92. 2. In via preliminare, ai sensi dell’art. 52 r.d. n. 642/1907, data l’evidente connessione oggettiva e (parzialmente) soggettiva dei ricorsi, se ne dispone la riunione al fine di un’unica decisione. 2.a Vanno in primo luogo respinti i motivi con cui BAT Italia e JT International hanno affermato che l’Autorità avrebbe dovuto escluderle dall’istruttoria, in quanto non producono né distribuiscono in Italia i prodotti oggetto della segnalazione. Entrambe le società non si sono infatti limitate a dedurre il proprio difetto di legittimazione passiva, ma hanno contestato il merito del provvedimento, palesando così il loro chiaro interesse sostanziale alla diffusione dei messaggi nella forma ritenuta ingannevole dell’Autorità. Ad ogni buon conto la circostanza, allegata in particolare da JT International s.a., secondo la quale essa non svolge direttamente attività commerciale in Italia, è di per sé irrilevante in quanto la società avrebbe dovuto concretamente dimostrare di non essere neppure il committente del messaggio (ai sensi dell’art. 2, lett. c, del d.lgs. n. 74/92), e cioè il soggetto nel cui interesse il messaggio pubblicitario - peraltro nella fattispecie incorporato nello stesso marchio - è concepito e diffuso (cfr. AGCM, 25 agosto 1999, n. 7498). Anche l’omologa eccezione sollevata da BAT Italia è rimasta del tutto indeterminata. La società, inoltre, successivamente ai fatti per cui è causa, ha acquisito il pacchetto azionario di E.T.I., s.p.a. di talché deve ritenersi venuto meno anche l’interesse a coltivare il mezzo, formale, in esame. 3. Nel merito, le ricorrenti hanno in primo luogo posto in dubbio la natura pubblicitaria delle diciture “lights”, e simili, apposte sui pacchetti di sigarette, in quanto parte integrante dei marchi con cui i prodotti vengono commercializzati. 3.a Il motivo non può essere condiviso. Ai sensi dell’art. 2, lett. a), del d.gls.n. 74/92 (oggi trasfuso nell’art. 20, lett. a, del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206), per pubblicità deve intendersi “qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in qualsiasi modo, nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere la vendita di beni mobili o immobili, la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi oppure la prestazione di opere o di servizi”. L’art. 7, comma 7, del cit.d.lgs. (oggi art. 26, comma 8, d.lgs. n. 206/2005) considera poi espressamente quali messaggi pubblicitari le indicazioni inserite sulla confezione dei prodotti, prevedendo in tal caso l’assegnazione di un termine per l’esecuzione dei provvedimenti sospensivi o inibitori adottati dall’Autorità “che tenga conto dei tempi tecnici necessari per l'adeguamento”. La definizione accolta dal legislatore (in armonia con l’art. 2 della direttiva 9 84/450/CEE) non prevede forme tipiche di pubblicità in quanto, come noto, il mondo della comunicazione commerciale è variegato e multiforme. Spetta pertanto alla stessa Autorità l’apprezzamento dell’effettiva valenza promozionale di un messaggio, indipendentemente dalla forma e dalle modalità attraverso le quali venga diffuso. In particolare, l’insieme delle indicazioni riportate nella confezione di un prodotto, e nella sua etichettatura, contribuiscono alla definizione dell’identità del prodotto, costituendo pertanto un importante strumento concorrenziale, capace di influenzare in maniera determinante i consumatori, al pari della tradizionale reclame. Merita perciò piena condivisione il canone interpretativo, elaborato dall’Autorità anche sulla scorta dell’elaborazione giurisprudenziale, in base al quale, nelle ipotesi in cui i segni distintivi dell’impresa ssumano, in funzione del contesto in cui sono inseriti, del rilievo grafico, o del collegamento con i vanti prestazionali in esso contenuti, una vera e propria centralità nel messaggio, l’Autorità è chiamata a valutarne l’eventuale ingannevolezza. Sono poi le stesse ricorrenti a ricordare l’orientamento della Corte di Cassazione, la quale, pur escludendo che, di per sé, l’uso del marchio di un prodotto da fumo possa integrare la violazione del divieto di pubblicità di cui alla l.n. 165/62 - in quanto non costituente propaganda in senso tecnico -ne ha tuttavia espressamente riconosciuto la potenziale valenza promozionale (cfr., da ultimo, Cass., 14.9.2004, n. 18431). Del resto, il controllo affidato all’Autorità riguarda ogni forma di pubblicità e quindi anche quella posta in essere mediante l'omissione di elementi informativi idonei a porre il consumatore nella condizione per potersi liberamente determinare nel proprio comportamento economico (cfr. sul punto T.a.r. Lazio, sez.I, 17 settembre 1999, n. 2077). Così, anche nella fattispecie, l’Autorità non è stata chiamata a verificare la violazione del divieto di cui alla n. 165 del 1962, bensì a valutare la completezza dell’informazione codificata nella presentazione del marchio. In particolare, relativamente alla natura pubblicitaria del messaggio, ha osservato che il collegamento tra la dicitura “light” e l’indicazione del tenore di condensato e di nicotina prevista dalla legge, si traduce in “un preciso vanto in ordine ad una caratteristica del prodotto, apparendo pertanto volta a promuoverne l’acquisto”. La dicitura in questione, ancorché parte integrante del marchio, comunica con immediatezza al consumatore una caratteristica qualitativa del prodotto che, diversamente, potrebbe essere desunta solo dall’attenta e analitica disamina delle indicazioni tecniche relative al tenore di condensato e di nicotina. Si tratta perciò non già di un’espressione neutra o meramente ripetitiva di tali indicazioni, bensì di una forma di comunicazione commerciale, volta a facilitare e orientare le scelte d’acquisto del consumatore. In definitiva, correttamente l’Autorità considera messaggi pubblicitari tutte le indicazioni comunque riferite ai contenuti e ai caratteri dei prodotti offerti dall'impresa (cfr., sul punto, Cons. St., Sez. I, parere n. 132 del 17.3.2004). 4. Con un ulteriore ordine di censure le ricorrenti hanno evidenziato che, anche qualora integrassero un messaggio pubblicitario, i marchi in esame e le confezioni di sigarette sulle quali sono apposti sono stati assentiti preventivamente dall'Ufficio Italiano Marchi e Brevetti e dall'Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato, anche in relazione ad eventuali profili di ingannevolezza. In particolare, gli accertamenti in materia di validità dei marchi, anche in relazione al divieto dell’utilizzo decettivo stabilito dall’art. 11 del r.d. n. 928/42, sono riservati all’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 56 dello stesso 10 r.d.. 4.a Giova in primo luogo ricordare che questo stesso T.a.r. ha da tempo chiarito che non vi è inconciliabilità bensì convergenza tra la disciplina regolante l’uso dei marchi e quella relativa al contrasto della pubblicità ingannevole, convergenza dimostrata proprio dall'introduzione nel testo del r.d. n. 929 del 1942 - modificato in data successiva (d.lgs. n. 480 del 4 dicembre 1992) a quella di emanazione delle norme poste a tutela della pubblicità ingannevole d.lgs. n. 74 del 25 gennaio 1992) - di specifiche prescrizioni volte a tutelare specificamente “il pubblico” da un'utilizzazione ingannevole del marchio di impresa (cfr. T.a.r. Lazio, n. 2077/99, cit.). La piena compatibilità tra le due discipline deriva peraltro dalla stessa formulazione della direttiva n. 84/450/CEE (così come modificata dalla direttiva 97/55/CE), in materia di pubblicità ingannevole, e della direttiva n. 89/104/CEE del 21 dicembre 1988, in tema di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, dalle quali si ricava che le rispettive disposizioni non sono alternative, bensì concorrenti nella complessiva tutela degli interessi competitivi delle imprese e nella protezione dei consumatori sotto ogni possibile aspetto. Il 6° considerando della direttiva n. 89/104 afferma infatti che “la presente direttiva non esclude che siano applicate ai marchi di impresa norme del diritto degli Stati membri diverse dalle norme del diritto dei marchi di impresa, come le disposizioni sulla concorrenza sleale, la responsabilità civile o la tutela dei consumatori”, mentre l’ultimo considerando, della direttiva n. 84/450/CEE, stabilisce che “la presente direttiva non deve opporsi al mantenimento o all'adozione da parte degli Stati membri di disposizioni che abbiano lo scopo di garantire una più ampia tutela dei consumatori, delle persone che esercitano un'attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, nonché del pubblico in generale”. Nella normativa interna in materia di contrasto della pubblicità ingannevole, l’unica preclusione all’esercizio del controllo affidato ad AGCM si verifica nell’ipotesi in cui la legge preveda un controllo obbligatorio da parte di un’altra autorità amministrativa, da esercitarsi prima della diffusione di un messaggio pubblicitario, che sia preordinato anche alla verifica del carattere non ingannevole della stessa. Tale è ad esempio il controllo delle pubblicità concernenti presidi medico–chirurgici effettuato in via esclusiva dal Ministero della Salute il quale rilascia all’uopo apposita autorizzazione (cfr. T.a.r. Lazio, Sez.I, 23.6.2003, n. 5519). Il controllo dell’Autorità riguarda poi non già il marchio in quanto tale, bensì il contesto comunicativo in cui si inserisce e, in particolare, l’intera confezione del prodotto che, nella fattispecie, diversamente da quanto ritenuto dalla ricorrenti, è stata puntualmente analizzata e descritta dall’Autorità sia al paragrafo II (“I Messaggi”) nella parte conclusiva del provvedimento (paragrafo V.4), in cui viene apprezzata la valenza informativa dei c.d. “health warnings” e cioè delle avvertenze sanitarie che, in quanto obbligatorie per legge, figurano sia sulle confezioni delle sigarette “lights” che su quelle c.d. “full flavour”. In definitiva, la circostanza che l’Ufficio Italiano Marchi e Brevetti verifichi anche, ai sensi dell’art. 18, comma 1, lett. e) del r.d. n. 929/42, che il segno distintivo di cui si chiede la registrazione non sia idoneo “ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi”, che ne sia vietato l’uso decettivo (art. 11 del cit. r.d.), e che comunque sia prescritta la “decadenza” del marchio che sia divenuto idoneo ad ingannare il pubblico (art. 41, lett.b del ripetuto r.d. n. 929/1942), non 11 esclude la specifica competenza dell’Autorità, intesa all'applicazione della disciplina generale in materia di pubblicità ingannevole. Analoghe considerazioni valgono per i controlli effettuati dall’ l’Amministrazione dei Monopoli di Stato. Infatti, anche l’accertamento effettuato da AAMS, al momento dell’iscrizione in tariffa, in ordine alla rispondenza della confezione e dell’etichettatura alla normativa comunitaria e nazionale, comporta unicamente una verifica di tipo settoriale, non essendo tale Amministrazione specificamente e istituzionalmente preposta ad esercitare le competenze previste dall’art. 4 della direttiva 84/450/CEE. Va ancora chiarito che il controllo dell’Autorità ha carattere permanente, ben potendo accadere che una comunicazione commerciale, originariamente priva di valenza ingannevole, assuma tale carattere in un momento successivo a quello dell’immissione in commercio del prodotto cui si riferisce. A tale riguardo, peraltro, le ricorrenti ritengono sufficiente la disposizione dell’art. 41 della legge marchi, secondo la quale il marchio d’impresa decade, tra l’altro, ove divenga “idoneo a indurre in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa del modo e del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il suo consenso, per i prodotti o servizi per i quali è registrato”. Tuttavia, in disparte la già rilevata compatibilità delle due normative, la norma sulla decadenza del marchio non prevede alcuna mediazione da parte di un’autorità amministrativa di settore e comunque l’accertamento giudiziale in questione rimane solo eventuale in quanto affidato all’impugnativa di chi abbia un concreto interesse ad agire, da intendersi nel significato, strettamente processuale, della “necessità di ricorrere al giudice per evitare una lesione attuale del proprio diritto e il conseguente danno alla propria sfera giuridica” (così Cass. 15 aprile 2002, n. 5420). Invece, il controllo affidato all’Autorità è espressione di una potestà amministrativa, volta in via istituzionale e permanente alla protezione del consumatore e degli interessi concorrenziali delle imprese. 5. Quanto al rapporto tra il divieto di propaganda dei prodotti da fumo (l. n. 165/62, nel testo sostituito dall'art. 8 del D.L. 10 gennaio 1983, n. 4, convertito nella legge 22 febbraio 1983, n. 52) e la disciplina di tutela contro la pubblicità ingannevole, la Cassazione ha chiarito (a partire dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 10508/1995) che si tratta di sistemi sanzionatori autonomi in quanto, in materia di tutela della salute pubblica contro la propaganda pubblicitaria dei prodotti da fumo, occorre verificare non già se un determinato prodotto possa ingenerare confusione nel consumatore e trarlo in errore inducendolo all'acquisto con pregiudizio per il prodotto concorrenziale, ma solo se un messaggio pubblicitario abbia una tale portata da integrare gli estremi della propaganda pubblicitaria vietata dei prodotti da fumo. Il divieto di propaganda dei prodotti da fumo colpisce peraltro anche le forme occulte di pubblicità, le quali costituiscono effettivamente una sottospecie della pubblicità ingannevole. Tale possibile qualificazione non esclude però la competenza dell’Autorità, la quale è chiamata a valutare unicamente detta ingannevolezza, sul piano obiettivo, e non anche la sussistenza di un illecito per infrazione del divieto di propaganda dei prodotti da fumo. 6. Le ricorrenti hanno poi contestato all’Autorità di essersi sostituita al legislatore e di avere sostanzialmente anticipato l’attuazione della direttiva 2001/37/CE (sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, alla presentazione e 12 alla vendita dei prodotti del tabacco), la quale spettava invece, ai sensi dell’art. 1, l. 1 marzo 2002, n. 39 (Legge comunitaria 2001) alla valutazione discrezionale del Legislatore delegato. Come noto tale direttiva, all’art. 7, prescrive che “Con effetto a partire dal 30 settembre 2003 e fatto salvo l'articolo 5, paragrafo 1, le diciture, denominazioni, marchi, immagini e altri elementi figurativi o altri simboli che suggeriscono che un particolare prodotto del tabacco è meno nocivo di altri non sono usati sulle confezioni dei prodotti del tabacco”. Nel considerando n. 27 è precisato che “L'uso sulle confezioni dei prodotti del tabacco di diciture quali "basso tenore di catrame", "ultra-light", "light", "mild", di nomi, immagini ed elementi figurativi o altri segni può trarre in inganno il consumatore dando la falsa impressione che i suddetti prodotti siano meno nocivi, e portare ad un aumento dei consumi. Le abitudini di fumo e la dipendenza, e non solo il contenuto di talune sostanze nel prodotto prima del consumo, determinano il livello delle sostanze inalate. Di tale fatto non si tiene conto nell'uso di tali termini e può minare il sistema di requisiti per l'etichettatura stabilito nella presente direttiva. Per assicurare il corretto funzionamento del mercato interno, e dato lo sviluppo delle norme internazionali proposte, il divieto di tale utilizzazione dovrebbe avvenire a livello comunitario concedendo tempo sufficiente per introdurre tale norma”. Successivamente è entrato in vigore il d.lgs. 24 giugno 2003, n. 184, recante “Attuazione della direttiva 2001/37/CE in materia di lavorazione, presentazione e vendita dei prodotti del tabacco”, il cui art. 8 dispone “A decorrere dal 30 settembre 2003, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 6, comma 1, è vietato l'uso sulle confezioni dei prodotti del tabacco di diciture quali: «basso tenore di catrame», «light», «ultra light», «mild», nonché di denominazioni, marchi, immagini ed altri elementi figurativi o simboli comunque suscettibili di suggerire che un particolare prodotto del tabacco è meno nocivo di altri.”. Le ricorrenti, nelle memorie conclusive, hanno sottolineato come le disposizioni sopravvenute rafforzino quanto ab origine sostenuto circa la l’indebita sostituzione dell’Autorità al legislatore. Si sono soprattutto richiamate all’ordinanza del Tribunale di I Grado (10 settembre 2002, in causa - 223/01, JTI c. Parlamento e Consiglio), il quale, nel pronunciarsi sull’inammissibilità dell’impugnativa della direttiva 2001/37/CE proposta da due società del gruppo Japan Tobacco (tra cui l’odierna ricorrente JT International), evidenziava che l’art. 7 non avrebbe comportato alcuna modificazione della situazione giuridica delle ricorrenti fino alla sua trasposizione nell’ordinamento nazionale di almeno uno Stato membro, o fino alla scadenza del termine previsto per la sua trasposizione, fissato al 30 settembre 2003. In particolare, secondo il TPG, la decisione di includere, o non includere, nel diritto nazionale, sia a titolo di esempio che in relazione ad un divieto specifico, termini o segni come quelli riportati al ventisettesimo considerando, rientrava, conformemente all’art. 249 del Trattato, nella competenza degli Stati membri “quanto alle forme e ai mezzi”. Tale pronuncia, secondo le ricorrenti, conferma il valore meramente esemplificativo delle diciture elencate dalla direttiva, e quindi l’inesistenza di un preciso vincolo per gli Stati membri di darvi attuazione nel senso di proibire specificamente la dicitura “Lights”. L’Autorità avrebbe inoltre frainteso il Tribunale di I grado – nella parte in cui affermava che non si potesse escludere che uno Stato membro decidesse di attuare l’art. 7, recependone direttamente il testo, e quindi affidando “ai giudizi nazionali competenti o alle altre autorità incaricate di far rispettare 13 la normativa di cui trattasi, il compito di decidere caso per caso se i termini figuranti su una particolare confezione rientrino nel campo di applicazione del divieto” – là dove ha ritenuto di potere ricavare da tale espressione la sussistenza della propria competenza in ordine all’accertamento dell’ingannevolezza di tale forma di pubblicità indipendentemente dall’attuazione della direttiva (paragrafo V.4, pag. 20). In definitiva, non era assolutamente scontato che il Legislatore, al quale l’Autorità si è indebitamente sostituita, decidesse di vietare direttamente le diciture in esame. 6.a Il Collegio osserva che le censure appena sintetizzate si fondano su un travisamento dello sviluppo logico dell’argomentazioni dell’Autorità, la quale ha preliminarmente chiarito (paragrafo V. 2, in fine) che il proprio giudizio è incentrato sull’applicazione del d.lgs. n. 74/92 e non mira a dare attuazione al disposto della direttiva in questione, i cui contenuti vengono richiamati unicamente quale “parametro interpretativo”. Il riferimento alla decisione del Tribunale di I Grado è contenuto in un passo successivo del ragionamento che riguarda invece la valenza del termine del 30 settembre 2003, a decorrere dal quale non avrebbero più potuto essere commercializzate confezioni di sigarette recanti “diciture, denominazioni, marchi, immagini e altri elementi figurativi o altri simboli che suggeriscono che un particolare prodotto del tabacco è meno nocivo di altri”. Come già ricordato, l’ordinanza del Tribunale di I Grado, fra le possibili ipotesi di trasposizione, indicava anche quella del recepimento, sic et simpliciter, del cit. art. 7 della direttiva. In questo caso, la vigilanza sull’applicazione del divieto non avrebbe potuto che essere affidata direttamente alla decisione di una autorità amministrativa e/o giurisdizionale, chiamata a stabilire caso per caso se un certo termine o segno rientrasse nel campo di applicazione del divieto. Poichè tuttavia un simile giudizio coincide con quello di ingannevolezza, l’espressione utilizzata nel provvedimento impugnato in questa sede (“tale decisione, nel presente caso, viene qui assunta dall’Autorità”) rimanda, ancora una volta, alle attuali competenze di quest’ultima in materia di pubblicità ingannevole e non comporta una indebita anticipazione di decisioni riservate al legislatore nazionale. E’ poi facile rilevare che, sebbene, la decorrenza del divieto di utilizzo di diciture ingannevoli, nel senso precisato dalla direttiva, sia stato fissato da quest’ultima al 30 settembre 2003, al fine di consentire a tutti i produttori di procedere in maniera uniforme all’adeguamento delle confezioni e conseguentemente per evitare effetti distorsivi all’interno del mercato comunitario, al momento in cui AGCM ha emesso il provvedimento impugnato era però già scaduto il termine del 30 settembre 2002, stabilito dall’art. 14 della direttiva per l’adozione da parte degli Stati membri delle “disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie” per conformarsi alla direttiva. Poiché dunque quest’ultima aveva ormai acquistato forza obbligatoria per tutti i soggetti dell’ordinamento (comunitario), legittimamente l’Autorità l’ha considerata parte integrante del diritto comune, assumendola a parametro applicativo e interpretativo nell’esercizio delle proprie attribuzioni in materia di contrasto alla pubblicità ingannevole. E’ poi evidente che AGCM ha fatto riferimento non già semplicemente al solo divieto di cui all’art. 7, bensì all’impianto complessivo della direttiva quale espressione della policy comunitaria in materia, fondata sull’ “l'obbligo della Comunità di garantire un elevato livello di protezione della salute umana” (considerando n. 23). Tale obbligo, inoltre, non è stato definito in astratto, bensì sulla base degli “sviluppi 14 fondati su riscontri scientifici” (così il considerando n. 4), i quali hanno dimostrato che “Le abitudini di fumo e la dipendenza, e non solo il contenuto di talune sostanze nel prodotto prima del consumo, determinano il livello delle sostanze inalate”(così ancora il cit. considerando n. 27). 7. Le ricorrenti si sono poi soffermate sulla contraddizione esistente tra la presente decisione e le conclusioni (di non ingannevolezza), alla quali l’Autorità era pervenuta nel caso “Rothmans Leggere”. L’Autorità ammette che tale provvedimento - incentrato peraltro soprattutto sulle caratteristiche del prodotto, ai sensi dell’art. 3 e sulla verifica dell’effettiva presenza di un minore tenore di condensato e di nicotina in tale tipo di sigarette rispetto alle sigarette normali - possa avere ingenerato l’affidamento degli operatori di settore in merito alla legittimità dell’utilizzazione del descrittore “lights”. Nel presente caso essa si è tuttavia basata sui nuovi elementi di fatto e di diritto emersi nell’istruttoria che ha condotto all’adozione del provvedimento “Marlboro Lights”. I nuovi elementi sono innanzitutto rappresentati dal fatto che gli ultimi studi e il relativo dibattito scientifico “hanno messo maggiormente in luce che non sono minori i danni alla salute provocati dal fumo di sigarette leggere rispetto a quelli prodotti da sigarette normali”. Inoltre “si sono meglio evidenziate la sussistenza e la rilevanza dei comportamenti c.d. compensativi assunti dai fumatori di sigarette “lighs”, in quanto risulta che il minor contenuto di condensato e di nicotina non comporta automaticamente come conseguenza che i fumatori non ne inalino i medesimi quantitativi che trarrebbero da una sigaretta normale”. L’accresciuta consapevolezza in merito alla non minore nocività delle sigarette “lights” è stata fatta propria dal Legislatore comunitario e “trova compiuta espressione nei contenuti della direttiva 2001/37/CE, adottata dal Parlamento Europeo e dal Consiglio il 5 giugno 2001 e recepita a livello nazionale nella legge comunitaria 2001 (l. 1 marzo 2002, n. 39)”. Le ricorrenti hanno contestato che, successivamente al caso “Rothmans Leggere”, vi siano stati studi scientifici successivi veramente innovativi, e che tali possano considerarsi quelli esaminati nel caso “Marlboro Lights”. Lo stesso è a dirsi in relazione all'adozione della direttiva comunitaria 2001/37/CE, una proposta della quale era stata già pubblicata nella GUCE precedentemente all'adozione del provvedimento “Rothmans Leggere”. In particolare, hanno sottolineato che l’esistenza di un effetto compensativo nella abitudini dei fumatori di sigarette leggere, ed in generale la loro pericolosità, sono oggetto di dibattito scientifico da decenni. Inoltre, se è ammissibile che il Legislatore comunitario, al fine di tutelare la salute, a fronte di dubbi in merito alla condivisibilità di un’ipotesi scientifica (come quella relativa alla non minore pericolosità delle sigarette light), adotti specifiche misure legislative, l’Autorità deve invece basare le proprie determinazioni su adeguate evidenze scientifiche. 7.a Al riguardo il Collegio osserva quanto segue. La circostanza che i c.d. effetti compensativi riscontrati nelle abitudini dei fumatori delle sigarette formino oggetto di studi risalenti nel tempo o che, in passato, le politiche sanitarie di molti paesi abbiano puntato, ovviamente in un’ottica di “second best”, sullo sviluppo di sigarette aventi un ridotto contenuto di condensato e di nicotina, non ha alcun rapporto con il giudizio di ingannevolezza formulato dall’Autorità, la quale, come tutti gli organi amministrativi, è tenuta a determinarsi sulla base del quadro, normativo e fattuale, del momento in cui provvede. 15 Inoltre, anche sul piano empirico, è ben nota l’importanza del “fattore tempo” richiesto dal metodo scientifico per il controllo e la sperimentazione. Pertanto, il fatto che l’ipotesi inizialmente formulata da una parte della comunità scientifica circa la minore pericolosità delle sigarette leggere (pur nella piena consapevolezza dell’esistenza di “effetti compensativi”) non sia stata nel tempo convalidata da sicure evidenze sperimentali, ha introdotto un forte elemento di criticità in tale opinione, efficacemente sintetizzata nelle conclusioni dello studio condotto dall’U.S. National Cancer Institute sul quale l’Autorità si è basata nel caso “Marlboro Lights” e la cui autorevolezza è riconosciuta dalle stesse ricorrenti. Del resto l’Autorità, nel provvedimento impugnato, fa espresso riferimento all’ “accresciuta consapevolezza” e non già ad una consapevolezza acquisita solo di recente, circa la non minore nocività delle sigarette lights (Sez. V., 2, pag. 16), nonché ad una maggiore e migliore “evidenziazione” in ordine ai comportamenti c.d. compensativi assunti dai fumatori di sigarette lights. Va ancora soggiunto che, in materia pubblicità ingannevole, ciò che rileva non è tanto la consapevolezza di un fenomeno da parte della comunità scientifica, ma la ben diversa percezione che ne possano avere i consumatori, a prescindere dal rispettivo grado di informazione e vigilanza. Ai fini del giudizio di ingannevolezza è poi irrilevante stabilire quale sia l’effettiva causa della valenza positiva del messaggio connesso al descrittore “lights”, e cioè se tale effetto sia dovuto al termine in sé, o ad eventuali fattori esterni, quali ad esempio le pregresse politiche sanitarie pubbliche o le informazioni scientifiche disponibili. E’ infatti noto che il comportamento del consumatore è determinato da una molteplicità di fattori socio – culturali, e che i messaggi pubblicitari tanto più sono efficaci quanto più sono in grado di evocare e di convogliare sul prodotto o il servizio da promuovere connotazioni positive. Nemmeno è condivisibile l’affermazione delle ricorrenti secondo cui alcun rilievo avrebbe dovuto essere attribuito alla direttiva 2001/37/CE, in quanto fondata su una scelta discrezionale del legislatore comunitario dettata dal principio di precauzione, là dove invece l’Autorità è tenuta a determinarsi esclusivamente sulla base di solide evidenze scientifiche, allo stato non ancora raggiunte, circa la possibilità che le sigarette “leggere” producano danni minori di quelle normali. Gli standard in materia di protezione della salute non rappresentano infatti soltanto un obiettivo programmatico ma contribuiscono a definire il contenuto dei diritti soggettivi individuali riconosciuti al singolo dall’ordinamento comunitario, ivi compreso quello all’informazione, trasparente e completa, alla quale i consumatori debbono poter accedere in condizioni di parità con le imprese (cfr. art. 153 ex art. 129 A del Trattato). Del pari irrilevante è la circostanza che la proposta di Direttiva fosse già nota all’epoca del caso “Rothmans Leggere” e che tuttavia non abbia influito su tale decisione. L’adozione della direttiva segna infatti il passaggio dalla fase di elaborazione politico – istituzionale a quella della vera e propria innovazione ordinamentale, con i conseguenti effetti obbligatori sia in senso “verticale” che “orizzontale” (questi ultimi operanti alla scadenza del termine prescritto per il recepimento). 8. Le ricorrenti hanno poi stigmatizzato la decisione dell’Autorità di acquisire al procedimento le ricerche di mercato commissionate alle società Nielsen ed Eurisko nell’ambito del procedimento “Marlboro Lights”, e hanno sostenuto che, comunque, i dati emergenti dai predetti sondaggi, non siano stati correttamente interpretati. In particolare imputano all’Autorità di non avere 16 spiegato il motivo per cui, anche a volere ritenere attendibile i risultati di tali sondaggi - secondo i quali una percentuale di poco superiore al 10% dei soggetti consultati decodifica la dicitura “lights” nel senso che le sigarette leggere sarebbero meno nocive di quelle normali -, reputi idonea una simile percentuale a sorreggere un giudizio di ingannevolezza, là dove, a livello comunitario, la Corte di giustizia impone invece di prendere in considerazione le aspettative di un “consumatore medio, normalmente informato, e ragionevolmente attento ed avveduto”. Inoltre, nel terzo sondaggio preso in esame dall’Autorità (quello commissionato dalla Japan Tobacco), è risultato che solo il 6% dei fumatori (corrispondente al 2% della popolazione), fuma sigarette “lights” perché ritiene che le stesse possano essere meno dannoso per la propria salute. 8.a Sul piano procedimentale, reputa il Collegio che non vi sia stata alcuna violazione delle garanzie del contraddittorio in quanto le ricorrenti sono state previamente informate della decisione dell’Autorità di acquisire i test già utilizzati nel caso Marlboro e hanno quindi avuto ampio modo di svolgere le proprie difese. Tale circostanza è in particolare dimostrata dal fatto che una delle ricorrenti, Japan Tobacco, ha non soltanto commissionato un’ulteriore indagine di mercato ad un proprio perito (la società statunitense Research/Strategy/Management), ma ha anche rielaborato criticamente gli stessi dati emergenti dai sondaggi Eurisko e Nielsen. 8.b Circa l’attendibilità dei risultati dei tre sondaggi esaminati, il Collegio rileva che l’Autorità non ne ha prescelto uno in particolare, ma, piuttosto, ritenendoli compatibili tra loro, ne ha dato una valutazione complessiva, giungendo alla conclusione che tutti confermino l’esistenza di una fascia di consumatori che interpreta la dicitura “lights” come indice di una minore dannosità del prodotto rispetto alle sigarette normali. E’ pertanto irrilevante, in questa sede, analizzare quale sia la metodologia più corretta d’indagine e quale l’esatta percentuale dei consumatori indotti in errore dalla dicitura “lights”. Per completezza, il Collegio osserva che non appare contestabile il metodo utilizzato nei sondaggi commissionati nell’ambito del procedimento Marlboro Lights, incentrato sulle caratteristiche del prodotto e non già sul solo “descriptor”, in quanto l’Autorità è chiamata, come più volte chiarito, a valutare il complessivo contesto comunicativo nel quale un messaggio venga utilizzato. Per lo stesso motivo, non occorreva anche verificare se il convincimento dei consumatori circa la minore pericolosità delle sigarette lights derivi dal termine in sé, dal collegamento con le altre diciture presenti sul pacchetto, ovvero dal dibattito scientifico e dal quadro normativo in materia. Il valore evocativo del termine è infatti probabilmente determinato da tutti questi fattori messi insieme, nonché da altri ancora, individuabili (come sottolineato dal Codacons, che cita il caso dei cibi c.d. “light”) nella stessa naturale propensione dell’uomoconsumatore medio a dare connotazione positiva al “descriptor” in esame e, conseguentemente, ai prodotti ai quali venga associato. Circa la pretesa necessità di individuare una soglia “critica” di consumatori indotti in errore, il Collegio osserva quanto segue. Va premesso che, da un punto di vista meramente empirico, nemmeno la società JT ha sostenuto che le percentuali rilevate da RSM, sebbene più modeste di quelle risultanti dalle ricerche Nielsen ed Eurisko, non siano statisticamente significative. Orbene, le ricorrenti mettono in rapporto tale percentuale critica con il modello del “consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento ed 17 avveduto” al quale si richiamano numerose sentenze della Corte di giustizia in materia di pubblicità ingannevole (le ricorrenti citano in particolare la sentenza del 13 gennaio 2000, causa C-220/98, Estée Lauder). Ma tra i due parametri, a parere del Collegio, vi è non già un rapporto di convergenza bensì, semmai, di alternatività. Infatti, mentre il “consumatore medio” corrisponde ad un modello giuridico astratto, il secondo è un metodo di indagine empirica al quale, secondo la stessa Corte di giustizia, in mancanza di specifiche e uniformi disposizioni comunitarie, i giudici nazionali possono ricorrere al fine di stabilire se una determinata percentuale, ancorché esigua, di consumatori indotti in errore da una determinata dicitura pubblicitaria, rilevi o meno ai fini del giudizio di ingannevolezza (così ancora la Corte di Giustizia nella sentenza resa nel caso Estée Lauder). E’ dunque evidente che, a livello comunitario, non vi è una decisa e chiara opzione in ordine al profilo del soggetto degno di essere protetto dagli effetti ingannevoli della pubblicità. Il modello astratto del consumatore medio appare poi idoneo, ai fini del giudizio di ingannevolezza, soprattutto nelle ipotesi in cui è sufficiente operare un bilanciamento, secondo il principio di proporzionalità, tra l’esigenza di libera circolazione delle merci e il diritto del consumatore a determinarsi consapevolmente in un mercato concorrenziale, ma non già in quelle in cui la repressione della pubblicità ingannevole è funzionale alla protezione di più rilevante bene giuridico, quale, in particolare, il diritto alla salute, la cui tutela deve essere ovviamente assicurata anche ai consumatori più sprovveduti o non particolarmente vigili. La giurisprudenza di questo Tribunale ha poi costantemente osservato che con il decreto legislativo n. 74/1992 il legislatore ha voluto garantire la libertà del destinatario di un messaggio pubblicitario di autodeterminarsi al riparo da ogni possibile influenza, anche indiretta, che possa anche solo teoricamente incidere sulle sue scelte economiche. In coerenza con questa premessa, poiché la normativa in materia non ha la mera funzione di assicurare una reazione alle lesioni arrecate dalla pubblicità ingannevole agli interessi del consumatore, ma si colloca su di un più avanzato fronte di prevenzione, essendo tesa ad evitare effetti dannosi anche soltanto ipotetici, è stata esclusa la necessità sia che rispetto ad un dato comunicato venga accertata la condizione soggettiva media di intelligenza del consumatore, sia che risulti un pregiudizio economico derivante dalla pubblicità ingannevole. La violazione, nell'informazione pubblicitaria, del dovere di rispettare i parametri di correttezza fissati dalla normativa vigente sussiste, pertanto, anche quando la carenza di uno dei requisiti voluti dalla legge sia solo potenzialmente idonea a ledere la libertà di autodeterminazione del consumatore (così T.a.r. Lazio, sez. I, 18 giugno 2003, n. 5424 ed i precedenti ivi richiamati). La scelta della fascia di collettività sulla quale appuntare la tutela (perché considerata particolarmente vulnerabile) costituisce perciò determinazione di merito insindacabilmente devoluta all'Autorità (cfr. T.a.r. Lazio, sez. I, 13 ottobre 2003, n. 8321). Questa, nella fattispecie, ha ragionevolmente individuato nei fumatori lights la categoria che costituisce “la più immediata destinataria del messaggio” (Sezione V.4, pag. 19) e rispetto alla quale la percentuale di consumatori che associano alla dicitura “lights” un significato positivo aumenta sensibilmente. Parimenti corretto, infine, è il richiamo agli elevati standard comunitari di protezione della salute, ispirati dal principio di precauzione e logicamente prescelti dall’Autorità quale parametro dell’obbligo di informazione sancito a carico dei degli operatori pubblicitari (cfr. il più volte cit. art. 5 del d.lgs. n. 18 74/92). 9. Quanto al bilanciamento del potenziale carattere fuorviante della dicitura “lights”, che, secondo le ricorrenti, dovrebbe riconoscersi alle avvertenze sanitarie obbligatoriamente presenti su tutte le confezioni di sigarette (“il fumo uccide”) e che l’Autorità avrebbe trascurato di valutare, una diretta confutazione di tale assunto è rinvenibile proprio nei risultati dei sondaggi analizzati dal provvedimento. L’esistenza di una fascia di consumatori che ritiene le sigarette lights meno nocive di quelle normali, rappresenta infatti un indizio concreto del fatto che la valenza informativa degli “health warnings” può essere vanificata da quella, positiva, del “descriptor” in esame. Sono poi le stesse ricorrenti a ricordare che l’Autorità ha sempre interpretato la disposizione di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 74/92 nel senso che la stessa non vada applicata nei casi in cui la pericolosità, anche potenziale, sia una caratteristica intrinseca del prodotto o di comune esperienza o immediatamente percepibile da parte del consumatore. Tale immediata percepibilità, nella fattispecie, è però evidentemente ostacolata dai messaggi segnalati, i quali depotenziano o, quantomeno, rendono ambigua l’informazione codificata nelle avvertenze sanitarie obbligatorie. Le ricorrenti hanno ancora fatto osservare di non avere (o di non avere avuto) la possibilità di differenziare o puntualizzare i propri messaggi in quanto il contenuto delle avvertenze obbligatorie è stabilito per legge. Tuttavia, il fatto che le avvertenze sanitarie non possano essere modificate, o comunque modulate in modo tale da richiamare l’attenzione dei consumatori sulla non minore pericolosità delle sigarette lights, è irrilevante ai fini del giudizio di ingannevolezza, potendo semmai influire sulla valutazione della sussistenza e/o della misura della responsabilità delle ricorrenti nella diffusione del messaggio. 10. E’ stato ancora sostenuto che l’Autorità non avrebbe dato alcuna prova che le ricorrenti abbiano colpevolmente tenuto un comportamento omissivo, tale da indurre i consumatori a violare le regole di ordinaria diligenza e prudenza. In proposito va però ricordato che la tutela del consumatore, nei confronti della pubblicità che non sia palese, veritiera e corretta, ha riguardo non tanto all'elemento soggettivo dell'autore del messaggio, ma all’idoneità obiettiva di quest'ultimo a pregiudicare la libera scelta del consumatore stesso (cfr. sul punto, Cons. St., sez. VI, 6 marzo 2001, n. 1254). Così, anche nella fattispecie, la dicitura light, in quanto contraddistingue una prodotto che ha un minor contenuto di nicotina e catrame rispetto alle sigarette normali, è di per sé veritiera, oltre ad essere rispondente all’iniziale convincimento della comunità scientifica circa la minore pericolosità di questo tipo di prodotto. La dicitura è invece divenuta potenzialmente fuorviante nel momento in cui l’informazione nella stessa codificata non ha più trovato piena rispondenza nelle evidenze scientifiche e nelle politiche delle autorità sanitarie internazionali, divenendo pertanto ingannevole, almeno per i consumatori più sprovveduti o disattenti. Occorre anche precisare, circa le preoccupazioni manifestate dalle ricorrenti in ordine alla possibile strumentalizzazione del provvedimento dell’Autorità, che le valutazioni di quest’ultima operano sul piano specifico che è loro proprio, senza pertanto esplicare, di per sé, alcun effetto diretto in ordine all’accertamento della responsabilità civile per i danni personali e patrimoniali asseritamente subiti da singoli consumatori. 11. Non può condividersi, infine, l’assunto secondo il quale l’Autorità 19 avrebbe dovuto attentamente considerare che l’avvio del procedimento nei confronti di alcuni soltanto dei produttori di sigarette lights avrebbe potuto avere effetti destabilizzanti sul mercato di tale prodotto. In primo luogo, da un punto di vista procedimentale, l’art. 7, comma 2, del d.lgs. n. 74/92 (oggi art. 26, comma 2, d.lgs. n. 206/2005), stabilisce che condizione di procedibilità per l’avvio di un procedimento in materia di pubblicità ingannevole, è esclusivamente la segnalazione ad opera dei soggetti specificamente indicati da tale norma e cioè i “concorrenti, i consumatori, le loro associazioni ed organizzazioni, il Ministro delle attività produttive, nonché ogni altra pubblica amministrazione che ne abbia interesse in relazione ai propri compiti istituzionali, anche su denuncia del pubblico” i quali “possono chiedere all'autorità garante che siano inibiti gli atti di pubblicità ingannevole o di pubblicità comparativa ritenuta illecita ai sensi della presente sezione, la loro continuazione e che ne siano eliminati gli effetti”. Nella fattispecie, l’Autorità ha avviato il procedimento nei confronti di tutti gli operatori pubblicitari riconducibili ai messaggi indicati nella segnalazione del 7 ottobre 2002. Inoltre, il potenziale effetto distorsivo lamentato dalle ricorrenti avrebbe semmai potuto derivare da un provvedimento inibitorio con effetti anticipati rispetto alla data stabilita in sede comunitaria per l’adeguamento delle confezioni, data alla quale però l’Autorità si è pienamente conformata. 12. Circa, infine, la richiesta di JTI, di sollecitare, mediante una richiesta di rinvio pregiudiziale, l’interpretazione della Corte di Giustizia in ordine alla definizione di “consumatore medio”, reputa il Collegio che, dal momento che il criterio “empirico”, nella fattispecie utilizzato dall’Autorità ai fini della formulazione del giudizio di ingannevolezza, è stato pure esso ritenuto valido dalla Corte di giustizia, non vi sia alcuna effettiva necessità di promuovere un’ulteriore interpretazione delle norme comunitarie in materia. 13. Per tutto quanto sopra argomentato, i ricorsi debbono essere respinti. Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di giudizio. PQM Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di Roma, sez. I^, definitivamente pronunciando sui ricorsi riuniti di cui in premessa, li respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 11 gennaio 2006. Pasquale de Lise Presidente Silvia Martino Estensore 20