“È da un pezzo che la Cina è cambiata” di Yu Hua, scrittore cinese nato ad Hangzhou nel 1960. Traduzione dal cinese di Silvia Pozzi Il Sichuan è stato devastato da un terremoto lo scorso 12 maggio. La rivista Colors, con il desiderio di offrire un gesto di umanità e unità, ha selezionato 30 toccanti immagini della sciagura – immagini che raccontano il dramma ma anche la speranza – e ha poi invitato 30 monaci tibetani sparsi nel mondo a dedicare una preghiera alle vittime, a regalare loro il proprio pensiero. Sotto la spinta di questa nobile intenzione, Colors ha, quindi, messo in relazione gli incidenti di Lhasa di metà marzo con il sisma del Sichuan del 12 maggio, un’operazione che, a mio avviso, corrisponde in pieno a un’ottica occidentale. In realtà, non c’è alcuna connessione le due cose, eppure i media stranieri rimbalzano tutta un’altra visione dei fatti. Tra i disordini di Lhasa, che hanno provocato un coro unanime di critiche contro la Cina, e il terremoto del Sichuan, che si è invece portato dietro uno stuolo di plausi, è passato poco più di un mese e molti cinesi si sono chiesti come mai l’atteggiamento degli organi di informazione occidentali sia cambiato così all’improvviso. I media occidentali, per l’appunto, hanno lodato lo spirito di solidarietà e l’efficienza con cui in Cina è stata affrontata l’emergenza sismica. Ed è come se, al contempo, avessero scoperto che la Cina è cambiata. Una visione analoga trapela anche dalle parole che i redattori di Colors mi hanno scritto: “L’impressione che abbiamo avuto in Occidente, infatti, è che nella tragedia i Cinesi abbiano trovato una forza mai vista, la coesione del popolo cinese ha commosso il mondo. Perché? Che cosa è cambiato, se è cambiato qualcosa?”. Negli ultimi tempi, accade spesso che i giornalisti occidentali mi pongano questa domanda: “La Cina è cambiata, ci potrebbe spiegare perché?”. A me scappa da ridere, poi rispondo: “È da un pezzo che la Cina è cambiata”. Dopodiché, spiego loro che dall’avvio della politica dell’apertura e delle riforme sono trascorsi trenta anni e possiamo ben dire che il Paese, da allora, ha vissuto dei cambiamenti stratosferici. E continua a viverli, sempre più velocemente, con il piede schiacciato sull’acceleratore. Le trasformazioni hanno investito ogni sfera. Non riguardano solo il sistema economico e la struttura sociale, ma anche i valori di riferimento e la vita di tutti i giorni, persino il modo di esprimere i sentimenti. Pertanto, ogni volta che cerco di spiegare i vari mutamenti che hanno avuto luogo in Cina, mi accorgo che è un lavoro immane e che il mio racconto durerebbe forse anche più a lungo de Le mille e una notte arabe. Posso raccontarvi, però, della tradizione cinese di fare corpo, cioè esattamente quello che è successo per il recente disastro: tutti i funzionari pubblici, di qualsiasi livello, si sono attivati immediatamente dopo il sisma e nelle aree colpite sono arrivati centomila uomini tra forze di polizia ed esercito, oltre a un numero imprecisato di volontari che sono accorsi, a schiere; nelle ditte di tende da campo, di prefabbricati e di tutti i vari generi di primo soccorso si sono fatti gli straordinari, la produzione è andata avanti a nastro continuo, ventiquattro ore al giorno… L’Occidente ne è rimasto impressionato, ma per i cinesi è una cosa assolutamente normale che, da un lato, dipende dal sistema organizzativo che il Paese si è dato e, dall’altro, affonda le radici nell’antica e consolidata predisposizione cinese ad agire in gruppo. La Cina ha alle spalle una lunga storia – sono tremila anni che è Stato – e, per secoli, il sistema dinastico ha perpetuato il dispotismo e l’autocrazia, privando gli individui di uno spazio nella vita sociale fino dalla remota antichità. L’unica modalità a disposizione del singolo di avanzare le proprie richieste era quella di tuffarsi nell’azione collettiva. Lungo le epoche, tutte le rivolte contadine, così come i tanti avvicendamenti al potere, sono stati provocati dal confluire delle spinte individuali in un unico grande movimento sociale. È così che lo spirito di gruppo ha messo le radici nella nostra storia e nella nostra realtà, diventando la nostra tradizione e ripresentandosi in epoche diverse sotto diverse spoglie. Durante la rivoluzione culturale, si è manifestato nel fanatismo rivoluzionario che ha coinvolto l’intero popolo e, poi, nell’Era dell’apertura e delle riforme, la rivoluzione di massa, tutto d’un tratto, si è tramutata in una corsa di massa agli affari, a una ricerca del denaro spasmodica, che è un’altra faccia del medesimo fenomeno. Insomma, possiamo dire che la tendenza ad associarsi influenzi lo sviluppo cinese da un lungo periodo storico. Durante la rivoluzione culturale, ad esempio, ogni agricoltore, con la sua pala in spalla, si buttò a capofitto nella realizzazione entusiastica del sistema di irrigazione delle campagne. Da lì in poi, l’ottica contadina tradizionale ha vissuto un cambiamento, cioè si è smesso di badare soltanto agli interessi propri o del villaggio di appartenenza, perché si era compreso che la costruzione di un sistema di irrigazione efficiente era importante per il bene del popolo e dell’intera nazione. Quando la Rivoluzione culturale è giunta al termine, ha avuto inizio l’Era dell’apertura e delle riforme e le terre sono state ridistribuite, i contadini hanno goduto dei benefici del grande sistema che avevano realizzato. E lo sviluppo dell’agricoltura, ormai libera dal giogo dell’annoso problema del controllo delle acque, ha garantito loro una crescente prosperità. Un altro esempio è la riforma del sistema scolastico avvenuta qualche anno fa, quando le università hanno progressivamente allargato il numero degli iscritti. Anche questa è espressione dello spirito di gruppo, che, però, ci aveva portato a un alto tasso di disoccupazione tra i laureati. Ma ora che l’economia cinese è in piena fase di crescita industriale, il Paese si trova ad avere un mercato di manodopera specializzata ricchissimo e, quindi, anche la possibilità di portare a termine il proprio processo di industrializzazione. C’è un fatto a cui ho prestato attenzione e cioè che i media occidentali hanno elogiato lo spirito di gruppo con cui i cinesi hanno fronteggiato il dramma del terremoto, ma sono anche rimasti molto colpiti dal grado di apertura dei nostri organi d’informazione e di Internet, in particolare, dalla libertà di espressione nei blog, dove la gente si permette tranquillamente di criticare i governanti. Mi sa che in Occidente hanno cominciato ad accorgersi della nascita dell’individualismo in Cina. Il nostro tradizionale spirito di gruppo, in verità, ha subito l’attacco dell’individualismo già negli anni novanta dello scorso secolo, quando i mutamenti sociali hanno spinto al cambiamento delle finalità dell’esistenza, con una conseguente dilatazione a dismisura dei desideri del singolo. Gli occidentali faticano a immaginarsi di quanto spazio e di quale libertà godano oggigiorno gli individui nella vita sociale cinese. Ne sono un esempio i blog, che i media occidentali hanno notato e dove chiunque può ingiuriare chicchessia a proprio piacimento, senza dover temere conseguenze legali. Durante il recente terremoto, un maestro che stava facendo lezione se l’è data a gambe, abbandonando i suoi alunni; dopodiché, ha utilizzato il suo blog per pubblicizzare la filosofia che aveva ispirato la sua fuga, cioè una visione dell’esistenza che pone l’accento sull’io. Questo tizio è diventato famoso nottetempo, scatenando un dibattito accesissimo nella rete e nei media; si è beccato una valanga di attacchi e, ovviamente, ha anche raccolto testimonianze di comprensione e sostegno. In effetti, questa libertà esiste già da tempo. Come scrittore, ho raccolto un’esperienza piuttosto comica. Infatti, fino a venti anni fa, se ricevevo un’intervista, potevo dire qualunque dabbenaggine, tanto le testate del mio Paese subivano una censura molto severa per la pubblicazione delle interviste e una mia sciocchezza non sarebbe mai finita sulla carta stampata. Da dieci anni a questa parte, però, non oso più parlare a vanvera, anzi, devo prestare molta attenzione alle parole, perché i giornali pubblicano qualsiasi cosa mi esca di bocca. Oggi mi attribuiscono persino dichiarazioni che io non ho mai rilasciato. E la stampa occidentale pare accorgersi che i media e Internet da noi godono della libertà, proprio nel momento in cui a me pare che ne abbiano troppa. Per di più, se ne accorgono all’indomani della tragedia del Sichuan. Io mi chiedo: se non ci fosse stato il terremoto, questa scoperta dei media occidentali sarebbe stata rimandata? Come può succedere ciò? Vi racconterò una storia, una storia vera. Trenta anni fa, trovai il mio primo impiego, facevo il dentista in una cittadina del sud della Cina. Alla clinica, oltre a cavare denti, avevo un’altra mansione, ossia dovevo andare d’estate – valigetta dei medicinali in spalla – nelle fabbriche e nelle scuole materne a fare la profilassi agli operai e ai bambini. Bisogna precisare che nell’epoca maoista la Cina, per quanto fosse un paese povero, aveva messo in piedi un sistema pubblico di igiene e prevenzione formidabile e la gente veniva vaccinata gratuitamente. Questo era, appunto, il mio lavoro. Allora, non esistevano gli aghi e le siringhe usa e getta, la povertà sostanziale, del resto, imponeva di usare e riusare aghi e siringhe, e la loro sterilizzazione era effettuata in maniera piuttosto rudimentale. Si prendevano, si lavavano per benino, poi si sistemavano nelle gavette d’alluminio avvolti uno a uno con la garza. Quindi, si mettevano le gavette dentro un pentolone riempito d’acqua, che poi sobbolliva sul fornello alimentato a carbone per due ore, come quando si cucinano i mantou al vapore. Per via dei ripetuti utilizzi, quasi tutti gli aghi si piegavano formando un piccolo uncino e, quando li si infilava in un braccio per la vaccinazione, si portavano via un pezzettino di pelle. La mia prima volta fu in fabbrica. Gli operai aspettavano il loro turno in fila e, poi, mi allungavano il braccio per farsi fare l’iniezione. A tutti, uno dopo l’altro, strappai un pezzettino di pelle insanguinata. Loro sapevano sopportare il dolore, stringevano forte i denti e, al massimo, si lasciavano scappare un paio di gemiti. Io non ci facevo caso. Del resto, gli aghi erano tutti storti e non dovevano essere una novità per loro, esistevano anche prima, tutti gli anni gli operai venivano vaccinati con aghi storti, ci avevano fatto il callo. Ma, il giorno successivo, andai all’asilo e, mentre facevo le punture ai bambini – che avevano tra i due e i sei anni – mi trovai di fronte a una scena completamente diversa, tutti che scoppiavano in lacrime. Siccome avevano le braccine tenerissime, a loro l’ago strappava via pezzetti di pelle più grandi che agli operai e, poi, perdevano ancora più sangue. Ero sconvolto, non sapevo più dove mettere le mani. Quel giorno, quando rientrai alla clinica, non mi misi immediatamente a lavare e disinfettare, ma, dopo essermi procurato una mola, lisciai e raddrizzai tutti quanti gli aghi, quindi li lavai per bene e li sterilizzai. Bastava usarli due o tre volte perché si ripiegassero di nuovo, così, raddrizzare aghi divenne una mia occupazione frequente. Quell’estate tornavo sempre a casa dal lavoro che si era già fatto buio, con le dita piene di bolle e le mani bianche a furia di tenerle immerse nell’acqua per limare. E oggi, a distanza di trenta anni, mentre scrivo l’introduzione per questo numero di Colors, mi volto indietro e mi sento in colpa, perché mi ero accorto della sofferenza degli operai solo quando i bambini erano scoppiati in lacrime dal dolore. Perché non ero stato capace di percepirla prima di quel pianto? Era stata la sofferenza dei piccoli a risvegliare in me la compassione che, a sua volta, mi aveva fatto riconoscere il dolore degli operai? In maniera analoga, perché la Cina è cambiata da un pezzo e l’Occidente se ne accorge davvero solo dopo una calamità? Non è che questa sventura ha risvegliato la compassione che, a sua volta, ha acceso il desiderio di capire la Cina? Sono sicuro che i media occidentali abbiano registrato i cambiamenti della Cina ben prima del terremoto, soltanto che li hanno analizzati sempre da un punto di vista occidentale. Se trenta anni fa, prima di fare le vaccinazioni agli operai e ai bambini, avessi infilato un ago storto nel mio braccio, strappandomi un pezzo di pelle insanguinata, avrei capito che cosa fosse la sofferenza prima dei singhiozzi dei bambini e dei lamenti degli operai. Allo stesso modo, se, un giorno, i media occidentali si metteranno a guardare la Cina da un punto di vista cinese, riusciranno a dare una risposta alla seguente domanda: perché la Cina, pur essendo cambiata, è ancora altro dall’Occidente? Tutto sommato la ragione è estremamente semplice. Il passato della Cina è differente dal passato dell’Occidente, perciò lo è anche il suo oggi. 21 giugno 2008