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Arthur Schopenhauer
1- Insensatezza della volontà di vivere ............................................................................................................ 1
2- “………………………….”......................................................................................................................... 2
3 – Il nulla della noluntas ................................................................................................................................. 2
4- arte e musica ................................................................................................................................................ 3
5- ANTOLOGIA DI S. POLEMISTA E FILOSOFO ‘POPOLARE’ ............................................................. 4
a- sulla recente filosofia tedesca .................................................................................................................. 4
b- sesso e amore ........................................................................................................................................... 4
LAVORO CONCLUSIVO : Schopenhauer e Leopardi .................................................................................. 5
CANTO NOTTURNO ................................................................................................................................. 6
A SILVIA..................................................................................................................................................... 9
Dialogo della Natura e di un islandese ...................................................................................................... 10
1- Insensatezza della volontà di vivere
La volontà è sempre volontà di qualche cosa, dunque ha un oggetto, un fine. Ora: che cosa mai
vuole ed a che cosa mai tende quella volontà, che ci viene presentata come l'essenza in sé del
mondo? La domanda ci proviene, al pari di tante altre, dal confondere la cosa-in-sé con il
fenomeno. A questo unicamente, ma non a quella, si estende il principio di ragione sufficiente, una
delle cui modalità è anche la legge di motivazione. Non si può dare una ragione se non dei soli
fenomeni come tali, di cose considerate isolatamente: non mai però della volontà, né dell'idea che
ne è l' adeguata oggettivazione.( …...) Ogni fine conseguito non fa che segnare il punto di partenza
di un nuovo fine da raggiungere, e così all'infinito. La pianta sviluppa in via ascensionale la sua
manifestazione dalla gemma, dal tronco e dalle foglie, sino al fiore ed al frutto: il frutto a sua volta
è il principio di una nuova gemma, di un nuovo individuo, destinato a ripercorrere la vecchia
strada; e così via, per tutta eternità del tempo. Identico è il corso della via animale: la procreazione
è il suo culmine: raggiunto questo fine, la vita deI primo individuo si estingue più o meno
rapidamente, mentre un essere nuovo garantisce alla natura la conservazione della specie e
ricomincia lo stesso fenomeno. Di tal natura sono infine gli sforzi e i desideri umani, che ci fanno
brillare innanzi la loro realizzazione come fosse il fine ultimo della volontà; ma non appena
soddisfatti, cambiano fisionomia; dimenticati, o relegati tra le anticaglie, vengono sempre, lo si
confessi o no, messi da parte come illusioni svanite. Fortunato abbastanza colui, al quale resti
ancora da accarezzare qualche desiderio, qualche aspirazione: potrà continuare a lungo il perpetuo
passaggio dal desiderio al1'appagamento e dall' appagamento al desiderio, giuoco che lo renderà
felice se il passaggio è rapido, infelice se lento; ma se non altro non cadrà in quella paralizzante
stasi che è sorgente di stagnante e terribile noia, di desideri vaghi, senza oggetto preciso, e di
languore mortale. In conclusione: la volontà, quando la conoscenza la illumina, sa sempre quello
che vuole in un dato luogo e tempo; ma non sa mai quello che vuole in generale: ogni atto singolo
ha un fine; la volontà nel suo insieme non ne ha nessuno.
1. Suddividi il testo nei blocchi seguenti: A, B1, B2, B3, B4, C.
2. Per ogni blocco, trova la parola-chiave;
3. Individua nel testo le analogie con: a) l’ idealismo fichtiano; b) l’ evoluzionismo
darwiniano;
4. L’ immagine schopenhaueriana della natura ti sembra meccanicistica o finalistica? Motiva la
risposta
2- “………………………….”
Ogni volere proviene da un bisogno, cioè da una privazione, da una sofferenza La soddisfazione vi
mette un termine; ma per un desiderio che viene soddisfatto, ce ne sono dieci almeno che debbono
esser contrariati; per di più, ogni forma di desiderio sembra non aver mai fine, e le esigenze
tendono all'infinito: la soddisfazione è breve e avaramente misurata. Ma l'appagamento finale non è
poi che apparente: ogni desiderio soddisfatto cede subito il posto ad un nuovo desiderio: il primo è
una disillusione riconosciuta, il secondo una disillusione non ancora riconosciuta. Nessun voto
realizzato può dare una soddisfazione duratura e inalterabile; è come l'elemosina che si getta a un
mendicante, che gli salva la vita oggi per prolungare i suoi tormenti sino all'indomani. Finché la
nostra coscienza è riempita dalla nostra volontà, finché ci abbandoniamo all'impulso dei desideri
con la loro alternativa di timori e di speranze, finché, in una parola siamo soggetti del volere, non ci
saranno concessi né felicità duratura né riposo. Inseguire o fuggire, temer la sventura o anelare alla
gioia, è in realtà la stessa cosa; l'inquietudine di una volontà sempre esigente, in qualunque forma si
manifesti, riempie ed agita incessantemente la coscienza; ora, senza tranquillità, nessun vero
benessere è possibile. [...]
Già nella natura incosciente, costatammo che la sua essenza è una costante aspirazione senza scopo
e senza posa; nel bruto e nell'uomo, questa verità si rende manifesta in modo ancor più eloquente.
Volere e aspirare, questa è la loro essenza; una sete inestinguibile. Ogni volere si fonda su di un
bisogno, su di una mancanza, su di un dolore: quindi è in origine e per essenza votato al dolore. Ma
supponiamo per un momento che alla volontà venisse a mancare un oggetto, che una troppo facile
soddisfazione venisse a spegnere ogni motivo di desiderio: subito la volontà cadrebbe nel vuoto
spaventoso della noia: la sua esistenza, la sua essenza, le diverrebbero un peso insopportabile.
Dunque la sua vita oscilla, come un pendolo, fra il dolore e la noia, suoi due costitutivi essenziali.
Donde lo stranissimo fatto, che gli uomini, dopo ricacciati nell'inferno dolori e supplizi, non
trovarono che restasse, per il cielo, niente all'infuori della noia.
5. Assegna un titolo al secondo brano
6. Spiega le cause del dolore e della noia;
7. Spiega in che modo il dualismo metafisico schopenhaueriano (di origine kantiana) determini
l’ esistenza umana;
3 – Il nulla della noluntas
Con la libera negazione, con il sacrificio della volontà, vengono soppressi anche i suoi fenomeni;
soppressi gl'impulsi senza tregua e senza scopo da cui è costituito il mondo nei diversi gradi della
sua oggettività; soppresso l'insieme delle forme svariate che si succedono progressivamente; in una
parola: con il volere, vien soppressa la totalità del suo fenomeno: con il fenomeno si estinguono le
sue forme universali, tempo e spazio; e con queste, infine, si distrugge anche la forma ultima fondamentale, il soggetto e l'oggetto. Se non c'è più volontà, non c'è più rappresentazione, non più
universo.
Non resta, dunque, che il nulla. Ma, non ce ne dimentichiamo: ciò che si ribella contro un simile
annientamento, cioè la nostra natura, non è che il voler vivere che siamo noi, e che è il nostro
universo. L'orrore nostro del nulla, non è che una diversa espressione per indicare che vogliamo la
vita, che siamo volontà di vivere, che non vogliamo saper nient'altro. Ma distogliamo l'occhio, per
un momento, dalle nostre miserie, dall'orizzonte ristretto in cui siamo chiusi. [...]
E allora vedremo, in luogo del tumulto di aspirazioni senza fine, del passaggio incessante dal
desiderio al timore, dalla gioia all'affanno; in luogo della speranza ,sempre insoddisfatta e sempre
rinascente che trasforma in un sogno la vita dell'uomo in quanto essere volitivo; allora vedremo la
pace più preziosa di tutti i tesori della ragione, l'oceano di quiete, il cui semplice riflesso, quale
risplende nelle figure di Raffaello e del Correggio, è per noi la più completa e la più veridica
rivelazione della buona novella: non resta più che la conoscenza; la volontà è scomparsa. [...]
Lo riconosciamo francamente: per coloro che sono ancora animati dal volere, ciò che resta dopo la
totale soppressione della volontà è il vero ed assoluto nuIla. Ma viceversa, per coloro in cui la
volontà si è convertita e soppressa, questo mondo così reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee,
questo, propriamente questo, è il nulla.
8. Individua ed esponi gli elementi di misticismo presenti nel testo;
9. Spiega le frasi sottolineate;
10. A casa, sulla base di un ulteriore approfondimento, fai un confronto:
a) tra il nulla di S. ed il paradiso cristiano;
b) tra il nulla di S. ed il Nirvana del Buddismo;
c) tra il nulla di S. e l’ ideale stoico della felicità come apatia ed atarassìa
4- arte e musica
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 52
L’oggettivazione adeguata della volontà sono le idee (platoniche); suscitare mediante
rappresentazione di oggetti particolari (le opere d’arte non sono infatti mai altro) la conoscenza di
queste (e ciò è possibile solo con una adeguata modificazione nel soggetto conoscente) è il fine di
tutte le altre arti. Tutte, infatti, oggettivano la volontà mediatamente, cioè per mezzo delle idee; e
dato che il nostro mondo non è se non il fenomeno delle idee nella pluralità, attraverso le forme del
principium individuationis (la forma della conoscenza possibile all’individuo in quanto tale); ne
deriva che la musica, la quale oltrepassa le idee, è del tutto indipendente anche dal mondo
fenomenico, semplicemente lo ignora, e in un certo modo potrebbe continuare ad esistere anche se
il mondo non esistesse piú: cosa che non si può dire delle altre arti. La musica è infatti
oggettivazione e immagine dell’intera volontà, tanto immediata quanto il mondo, anzi, quanto le
idee, la cui pluralità fenomenica costituisce il mondo degli oggetti particolari. La musica, dunque,
non è affatto, come le altre arti, l’immagine delle idee, ma è invece immagine della volontà stessa,
della quale anche le idee sono oggettità: perciò l’effetto della musica è tanto piú potente e
penetrante di quello delle altre arti: perché queste esprimono solo l’ombra, mentre essa esprime
l’essenza. [...]
In tutta questa trattazione intorno alla musica mi sono sforzato di mostrare che essa esprime, con un
linguaggio universalissimo, l’intima essenza, l’in sé del mondo, che noi, partendo dalla sua piú
limpida manifestazione, pensiamo attraverso il concetto di volontà, e l’esprime in una materia
particolare, cioè con semplici suoni e con la massima determinatezza e verità; del resto, secondo il
mio punto di vista, che mi sforzo di dimostrare, la filosofia non è nient’altro se non una completa
ed esatta riproduzione ed espressione dell’essenza del mondo, in concetti molto generali, che soli
consentono una visione, in ogni senso sufficiente e applicabile, di tutta quell’ essenza; chi pertanto
mi ha seguito ed è penetrato nel mio pensiero, non troverà tanto paradossale, se affermo che,
ammesso che si potesse dare una spiegazione della musica, completamente esatta, compiuta e
particolareggiata, riprodurre cioè esattamente in concetti ciò che essa esprime, questa sarebbe
senz’altro una sufficiente riproduzione e spiegazione del mondo in concetti, oppure qualcosa del
tutto simile, e sarebbe cosí la vera filosofia.
Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XIX, pagg. 690-691
11. Cosa sono le idee?
12. Qual’ è il loro rapporto con l’ arte?
13. Differenza tra musica e altre arti
14. In che modo tale differenza deriva dalla metafisica schopenhaueriana?
15. Perché è il linguaggio più universale che ci sia?
5- ANTOLOGIA DI S. POLEMISTA E FILOSOFO ‘POPOLARE’
a- sulla recente filosofia tedesca
" Dall' antichità ad oggi non esiste un altro esempio di falsa gloria paragonabile a quello della filosofia
hegeliana. Mai e in nessun luogo il peggio, il manifestamente falso, assurdo, evidentemente privo di senso
ed oltretutto scritto in modo estremamente repellente, quella pseudofilosofia priva di valore, fu magnificato
con tanta ignorante sfacciataggine e con tanta faccia di bronzo, come fosse la suprema saggezza....e, si noti,
tutto ciò ha riscosso successo soprattutto presso il nostro pubblico tedesco: una vergogna nazionale." (PP)
" Lo Stato è essenzialmente un Istituto per la tutela di se stesso dagli attacchi esterni ed interni: La necessità
dello Stato si fonda dunque sulla riconosciuta INGIUSTIZIA strutturale della specie umana; senza di che
non si creerebbe uno Stato, apparato costoso e spesso soffocante...ma una semplice associazione tra uomini
liberi per la mutua protezione contro le belve feroci o la Natura non si sarebbe trasformata nello Stato che
noi conosciamo. Da ciò emerge chiaramente l' ottusità di quei filosofastri che, in pomposi discorsi,
presentano lo Stato come il fine ultimo ed il culmine della convivenza civile, in una apoteosi di
servilismo."(ivi)
" Chi vuole scrivere per il futuro sia breve,conciso, limitato, rifletta su ogni parola e frase e veda se non la
si possa eliminare, sia quasi avaro...come chi fa la valigia per un lungo viaggio , e ad ogni piccolo peso che
vi aggiunge pensa se non possa proprio farne a meno.
Ai ciarloni prolissi e vanitosi, che scrivono solo per la propria gloria presente pensieri altisonanti e confusi,
come fece Fichte, l' economia di scrittura sembra invece povertà di forme." (HN)
" Quando un hegeliano prende una cantonata e si contraddice nelle sue asserzioni, allora afferma: "Ecco, il
concetto si è rovesciato nel suo contrario!" Oh, se questo avesse valore anche nei tribunali e nella vita
ordinaria, diventerei anch' io un hegeliano. (HN)
16. fai un confronto tra l’ idea schopenhaueriana di Stato e quella hegeliana
17. come viene giudicata da S. la dialettica hegeliana e perché?
18. come viene giudicata da S. la scrittura di Fiche e perché?
b- sesso e amore
" L' attrazione tra due persone di sesso diverso è già in potenza la Volontà di vita del nuovo individuo che
essi possono e vorrebbero generare, e che già s' intromette nell' incontro dei loro sguardi furtivi."(HN)
" Osservate un animale in calore fino all' atto sessuale: che cosa vi accade? Sa che dovrà morire ma che con
il suo atto perpetuerà il suo sangue etc.? No, perchè non pensa.Però vi attende così bene come se lo
sapesse.La Volontà non ha bisogno della conoscenza, ma appena essa prende una decisione, tutto il mondo
della rappresentazione e della conoscenza vi si sottomette.(ivi)
" Dove si ottiene la conoscenza più profonda dell' essenza intima del Mondo, della Volontà di vita, o dove
quella essenza si imprima nel modo più netto nella coscienza, rispondo: nella conclusione dell' atto
sessuale. E' questo il vero fine, la meta di tutta l' esistenza; e lo è anche , soggettivamente, per ogni singolo
vivente, quanto, oggettivamente, ciò che tiene in vita la Volontà, che noi ne siamo consapevoli o
meno."(ivi)
"Il genio della specie è ininterrottamente in guerra con gli individui, è il loro persecutore e nemico, ne
distrugge ogni promessa di felicità per realizzare i suoi scopi generali; talvolta intere nazioni sono in balia
dei suoi capricci. La specie ha su di noi maggiori diritti che non la nostra individualità, cosa di cui già
Aristotele si era accorto."(WWII)
"L' amore dell' uomo decresce notevolmente da che viene appagato, e più viene appagato: infine, quasi tutte
le altre donne lo attirano più di quella che già è sua; egli desidera la novità o, come dice il popolino, è un
'cacciatore'. L' amore della donna per l' uomo agisce invece in modo esattamente opposto. Ciò è una
conseguenza del progetto della Natura, indirizzato alla perpetuazione della specie. L' uomo infatti può
generare anche un bambino al giorno, se ha a disposizione altrettante donne, mentre la donna può generare
al massimo un bambino all' anno, per quanti uomini abbia a sua disposizione.....di conseguenza l' adulterio
femminile è molto più contrario alla Natura di quello maschile, e tanto più imperdonabile"(WWII)
19. come donna/come uomo, qual è il tuo giudizio sulle tesi schopenhaueriane appena lette?
20. In particolare: confronto tra queste tesi e quelle sull’ amore del Romanticismo letterario
PP= Parerga und Paralipomena
HH= Manoscritti inediti1830-52
WWII= Il Mondo come Volontà e Rappresentazione, II ediz.
LAVORO CONCLUSIVO : Schopenhauer e Leopardi
21. Rileggi il Canto notturno di un pastore errante per l’ Asia di Leopardi; rileggi anche A
Silvia e Dialogo tra la Natura e un islandese;
22. Sulle 2 poesie: ricopiane su quaderno i passi ed i versi che definiresti ‘schopenhaueriani’.
23. Sull’ operetta morale: Esponi schematicamente su 2 colonne le argomentazioni del dialogo:
cosa pensa l’ islandese della Natura
Affermazioni della Natura sull’uomo
24: La visione di Leopardi è meccanicista? Motivare soprattutto sulla base dell’ operetta
morale.
CANTO NOTTURNO
DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
E` lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.
A SILVIA
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie d'intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.
Anche perìa fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
Dialogo della Natura e di un islandese
Un Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime
terre; andando una volta per l'interiore dell'Affrica, e passando sotto la linea equinoziale in un
luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso simile a quello che intervenne a
Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona speranza; quando il medesimo Capo, guardiano
dei mari australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle
nuove acque. Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere
di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell'isola di
Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra,
col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto
mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e
stata così un buono spazio senza parlare, all'ultimo gli disse.
NATURA: Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?
ISLANDESE: Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il
tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa.
NATURA: Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se
medesimo. Io sono quella che tu fuggi.
ISLANDESE: La Natura?
NATURA: Non altri.
ISLANDESE: Me ne dispiace fino all'anima; e tengo per fermo che maggior disavventura di
questa non mi potesse sopraggiungere.
NATURA: Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non ignori
che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi?
ISLANDESE: Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso
e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo
continuamente gli uni cogli altri per l'acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non
giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali,
che affannano e nocciono in effetto, tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la
cercano. Per queste considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia
a chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con
altri per nessun bene del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri,
come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai
patimenti. Con che non intendo dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle
fatiche corporali: che ben sai che differenza è dalla fatica al disagio, e dal viver quieto al vivere
ozioso. E già nel primo mettere in opera questa risoluzione, conobbi per prova come egli è
vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggire che gli altri
non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo in ogni
cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti sia
contrastato. Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro
società, e riducendomi in solitudine: cosa che nell'isola mia nativa si può recare ad effetto
senza difficoltà. Fatto questo, e vivendo senza quasi verun'immagine di piacere, io non poteva
mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno, l'intensità del freddo, e
l'ardore estremo della state, che sono qualità di quel luogo, mi travagliavano di continuo; e il
fuoco, presso al quale mi conveniva passare una gran parte del tempo, m'inaridiva le carni, e
straziava gli occhi col fumo; di modo che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da
un perpetuo disagio. Né anche potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale
principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli di mare e di terra,
i ruggiti e le minacce del monte Ecla, il sospetto degl'incendi, frequentissimi negli alberghi,
come sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano mai di turbarmi. Tutte le quali
incomodità in una vita sempre conforme a se medesima, e spogliata di qualunque altro
desiderio e speranza, e quasi di ogni altra cura, che d'esser quieta; riescono di non poco
momento, e molto più gravi che elle non sogliono apparire quando la maggior parte dell'animo
nostro è occupata dai pensieri della vita civile, e dalle avversità che provengono dagli uomini.
Per tanto veduto che più che io mi restringeva e quasi mi contraeva in me stesso, a fine
d'impedire che l'esser mio non desse noia né danno a cosa alcuna del mondo; meno mi veniva
fatto che le altre cose non m'inquietassero e tribolassero; mi posi a cangiar luoghi e climi, per
vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo
non patire. E a questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse
tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra (come tu hai fatto a
ciascuno degli altri generi degli animali, e di quei delle piante), e certi tali luoghi; fuori dei
quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria; da dover essere
imputate, non a te, ma solo a essi medesimi, quando eglino avessero disprezzati e trapassati i
termini che fossero prescritti per le tue leggi alle abitazioni umane. Quasi tutto il mondo ho
cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di non dar
molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la sola tranquillità
della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto
nei climi temperati dall'incostanza dell'aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni
dove. Più luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto dire che tu
dai ciascun giorno un assalto e una battaglia formata a quegli abitanti, non rei verso te di
nessun'ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria del cielo è compensata dalla frequenza dei
terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto il
paese. Venti e turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille dagli altri furori
dell'aria. Tal volta io mi ho sentito crollare il tetto in sul capo pel gran carico della neve, tal
altra, per l'abbondanza delle piogge la stessa terra, fendendosi, mi si è dileguata di sotto ai
piedi; alcune volte mi è bisognato fuggire a tutta lena dai fiumi, che m'inseguivano, come fossi
colpevole verso loro di qualche ingiuria. Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una
menoma offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è
mancato poco che gl'insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa. Lascio i
pericoli giornalieri, sempre imminenti all'uomo, e infiniti di numero; tanto che un filosofo
antico non trova contro al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa
è da temere. Né le infermità mi hanno perdonato; con tutto che io fossi, come sono ancora, non
dico temperante, ma continente dei piaceri del corpo. Io soglio prendere non piccola
ammirazione considerando come tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del
piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è
cosa imperfetta: e da altra parte abbi ordinato che l'uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose
umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più calamitosa negli effetti in quanto a
ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità della stessa vita. Ma in qualunque modo,
astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere
in molte e diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte; altre di
perdere l'uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente una vita più misera che la
passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo e l'animo con mille stenti e
mille dolori. È certo, benché ciascuno di noi sperimenti nel tempo delle infermità, mali per lui
nuovi o disusati, e infelicità maggiore che egli non suole (come se la vita umana non fosse
bastevolmente misera per l'ordinario); tu non hai dato all'uomo, per compensarnelo, alcuni
tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli sia cagione di qualche diletto
straordinario per qualità e per grandezza. Ne' paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato per
accecare: come interviene ordinariamente ai Lapponi nella loro patria. Dal sole e dall'aria, cose
vitali, anzi necessarie alla nostra vita, e però da non potersi fuggire, siamo ingiuriati di
continuo: da questa colla umidità, colla rigidezza, e con altre disposizioni; da quello col calore,
e colla stessa luce: tanto che l'uomo non può mai senza qualche maggiore o minore incomodità
o danno, starsene esposto all'una o all'altro di loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un
giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho
consumati senza pure un'ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario
il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il
vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli
uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c'insidii ora ci minacci ora ci assalti
ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per
costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de' tuoi figliuoli e, per dir così,
del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso
che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di
fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d'incalzarci, finché ci
opprimi. E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto
male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma
destinato da te per legge a tutti i generi de' viventi, preveduto da ciascuno di noi fino nella
fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro in là, con un tristissimo
declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è
assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e
agl'incomodi che ne seguono.
NATURA: Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle
fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione
a tutt'altro, che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque
modo e con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte: come,
ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi,
quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi
avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.
ISLANDESE: Ponghiamo caso che uno m'invitasse spontaneamente a una sua villa, con
grande instanza, e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella
tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida,
aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d'intrattenermi in alcun
passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il
bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e
battere da' suoi figliuoli e dall'altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali
trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei
figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de' tuoi sollazzi, e
di farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa
villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai
voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere,
ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai
fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato
espressamente per tormentarli. Ora domando: t'ho io forse pregato di pormi in questo
universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e
senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue
mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in
questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l'abitarvi non mi
noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di
ogni creatura.
NATURA: Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest'universo è un perpetuo circuito
di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve
continuamente all'altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l'una
o l'altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se
fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.
ISLANDESE. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è
distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente;
dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima
dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?
Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così
rifiniti e maceri dall'inedia, che appena ebbero la forza di mangiarsi quell'Islandese; come
fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che
negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l'Islandese parlava,
lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui
disseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e
collocato nel museo di non so quale città di Europa.
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