L`APOTEOSI DELLA CORRUZIONE e la crisi linguistica dell`economia

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L'APOTEOSI DELLA CORRUZIONE e la crisi linguistica dell’economia
post pubblicato in diario, il 25 febbraio 2009
http://kratiasinedemos.ilcannocchiale.it/post/2180368.html
L’Italia è il Paese più corrotto dell’Europa occidentale, e quello con la crescita più
lenta. Uno studio ONU collega i due fenomeni chiamando in causa l’analfabetismo
funzionale.
1. Secondo il rapporto di Transparency International del 2008, l’Italia è considerata
dagli esperti il Paese più corrotto dell’Europa occidentale. Nella classifica dei Paesi più
virtuosi (in giallo e in arancione nella figura sotto), occupa infatti solo il 55° posto, pur
essendo la settima economia del mondo: è preceduta dalla quasi totalità dei Paesi OCSE
ed anche da diversi Paesi poveri come il Cile (23), l’Uruguay (23), il Botswana (36), il
Bhutan (45) e la Malesia (47).
D’altra parte, i dati del Fondo Monetario Internazionale (2008) indicano che l’Italia è
anche, con la sola eccezione dell’Irlanda, il Paese con la crescita economica più debole
dell’Europa occidentale, l’unico ad aver chiuso l’anno in negativo con un -0,1%. Inoltre,
secondo il rapporto OECD in Figures (2008), la media della crescita italiana (+1,7%)
negli ultimi vent’anni (1987-2007) è stata la più bassa dei Paesi OCSE.
Secondo Daniel Haile (2005) dell’UNU-WIDER, è possibile spiegare con un modello
matematico come l’alto tasso di corruzione contribuisca a rallentare la crescita
economica.
2. La premessa di Haile è che la corruzione di un Paese (in blu nelle figure sotto) tende
ad essere:



inversamente proporzionale alla redistribuzione fiscale delle ricchezze (in rosso
a sinistra)
inversamente proporzionale all’istruzione della popolazione (in giallo a destra)
direttamente proporzionale alle diseguaglianze di reddito (in giallo a sinistra, in
rosso a destra).
La conclusione Haile è che (a) la corruzione esercitata dai ceti ricchi sulla classe
politica, per consolidare (b) le diseguaglianze di reddito, spinge (c) lo Stato a ridurre la
redistribuzione delle ricchezze mediante le tasse al di sotto dei livelli ottimali per la
crescita. Questa riduzione limita (d) le risorse che lo Stato può investire nell’istruzione
pubblica, abbassando (e) il livello di alfabetizzazione della popolazione. Cosa che
ostacola (f) la diffusione dell’innovazione tecnologica, privando così (g) l’economia di
uno dei principali fattori di crescita.
3. I dati relativi alla situazione italiana sembrano adattarsi punto per punto a questo
modello.
(a) Anzitutto, la dimensione del problema corruzione è esemplificata dal rapporto SOS
Impresa - Confesercenti (2007), secondo cui la mafia è la prima “azienda” italiana, con
130 miliardi di € di fatturato annuo. A titolo indicativo, il Gruppo Fiat, prima azienda
industriale italiana, fattura 58,9 mld €, il Gruppo Unicredit, terzo gruppo bancario
europeo, fattura 77 mld €, e il Gruppo Fininvest ne fattura 6,1. Su scala internazionale,
General Motors dichiara 207,3 mld $ l’anno (162 mld €), il gruppo IBM 91,4 mld $
(71,4 mld €) e infine Google 10,6 mld $ (7,8 mld €). In pratica, dunque, la mafia è tra le
poche “aziende” italiane che, per dimensioni finanziarie, non temono la globalizzazione.
Inoltre, siccome ha utili molto ingenti (90 mld €) e il sistema bancario è in crisi di
liquidità, questo peso finanziario non può che convertirsi in un ampio potere di
condizionamento politico sul sistema Italia.
(b) In secondo luogo, l’Italia è il 6° Paese OCSE con il più alto tasso di diseguaglianza
sociale, secondo il rapporto Growing Unequal (2008) dell’OCSE stessa (grafico sotto).
La media dei redditi del 10% più ricco della popolazione vale circa 10,6 volte quella del
10% più povero: un fattore nettamente superiore alla media (8,9 volte), che in Europa è
secondo solo a quelli del Portogallo e della Polonia. Paesi come il Regno Unito, la
Spagna e la Grecia si collocano intorno alla media, mentre in Francia e nei paesi
scandinavi i redditi più alti sono solo 5 o 6 volte superiori a quelli più bassi.
(c) In terzo luogo, anche se è vero che la pressione fiscale in Italia è abbastanza alta
(43,3% del PIL nel 2007, 6° Paese dell’OCSE), tuttavia la sua funzione redistributiva è
sminuita da una forte tendenza all’evasione fiscale, che avvantaggia soprattutto i ceti
medio-alti. In teoria, lo Stato impone una tassazione progressiva, che dovrebbe
riequilibrare le diseguaglianze sociali, prelevando più dai ricchi che dai poveri. In
pratica, obbliga a pagare solo i poveri e tollera che i ricchi evadano le tasse. Secondo
la Direzione del Dipartimento delle Finanze, l’evasione ammontava nel 2006 a 200 mld
€ l’anno, pari al 13,7% del PIL. A titolo indicativo, l’intero piano di rilancio
dell’economia americana varato da Obama il 16 febbraio scorso ammonta a poco più
del triplo di questa cifra (787 mld $, 655 mld €).
(d) Queste risorse sottratte alla finanza pubblica si traducono in tagli alla spesa, e in
primo luogo al settore storicamente negletto dell’istruzione e della ricerca. L’intero
settore costava allo Stato, nel 2005, 67,9 mld €: un terzo dell’evasione fiscale. La
riforma Gelmini l’ha ridimensionato per risparmiare circa 7,8 mld €: il 3,9%
dell’evasione. Ma questi tagli incidono su una spesa già tradizionalmente sottodimensionata. Secondo il rapporto OCSE Education at a Glance (2008), la spesa
dell’Italia per l’istruzione di ogni livello, se calcolata in percentuale sul PIL (4,4%), è
nettamente inferiore alla media (5,4%) e superiore solo a quelle di Repubblica Ceca
(4,3%), Spagna (4,2%), Grecia (4,0%) e Slovacchia (3,9%). Se invece la si calcola in
percentuale sulla spesa pubblica complessiva (9,3%), allora, oltre ad essere inferiore alla
media (13,2%), è anche la più bassa in assoluto tra tutti i Paesi ad economia avanzata
(grafico sotto: le colonne azzurre indicano i valori del 2005, i pallini blu quelli del
2000).
(e) La modesta entità degli investimenti non può che tradursi in una modesta entità dei
risultati. Sempre secondo l’OCSE, sul totale della popolazione italiana tra i 25 e i 64
anni, il 16% ha la licenza elementare o meno, il 33% ha la licenza media, il 38% ha un
diploma e il 13% ha una laurea o più. Metà della popolazione italiana è ferma dunque
alla scuola dell’obbligo (49%), contro una media OCSE di un terzo della popolazione
(31%). Solo quattro Paesi hanno una quota di diplomati inferiore alla nostra (51%). Se
poi si guarda ai laureati (13%), soltanto la Turchia (10%) ci strappa il primato di Paese
meno istruito tra le economie avanzate (dove la media è del 27%). Le cose non
cambiano se si scompone il dato per classi di età (grafico sotto): il raddoppio dei
laureati, dalla classe dei sessantenni (9%) a quella dei trentenni (17%), non impedisce
che l’Italia passi dal quart’ultimo al terz’ultimo posto (a pari merito con la Slovacchia, e
senza contare il Brasile che non è membro OCSE), perché altri Paesi sono cresciuti più
in fretta (Messico e Portogallo).
(f) Sarebbe riduttivo a questo punto considerare l’istruzione come una semplice
problematica sociale: nella società della conoscenza, essa è una condizione
imprescindibile dell’efficienza economica del sistema. Non a caso, dal 1998 l’OCSE
rileva il grado di alfabetismo delle popolazioni trattandolo come un indicatore
economico. L’OCSE (2001) non si limita a testare chi sa leggere e scrivere, ma
definisce quattro profili di specialità e cinque livelli di competenza, per valutare “come
gli adulti utilizzano l’informazione per operare nella società e nell’economia”. I quattro
profili di specialità sono: 1. leggere un testo in prosa, 2. interpretare un documento di
testo e immagini, 3. fare dei calcoli, 4. risolvere dei problemi logici. Limitandoci al
primo profilo (diagramma sotto; non troppo dissimile dagli altri), i cinque livelli di
competenza quantificano le quote di popolazione capaci di fare cose come le seguenti:
1. (in blu) Trovare in un testo molto breve un’informazione semplice e già nota,
come ad esempio un nome. Un 35% degli italiani non va oltre questo livello di
competenza.
2. (in rosso) Confrontare o addizionare due informazioni semplici presenti in uno
stesso testo, evitando i tranelli. Un altro 30% circa si attesta su questo livello e
non supera il successivo.
3. (in giallo) Rispondere a una domanda riassumendo le informazioni ricavate da
un testo lungo. E’ considerato dall’OCSE il livello minimo per orientarsi nella
società dell’informazione. Non più del 35% degli italiani lo possiede e un 26%
non va oltre.
4. e 5. (in celeste, confuse) Rispondere a domande condizionali (se x, allora y ?),
facendo deduzioni logiche dall’incrocio di diversi testi lunghi. Circa il 9% degli
italiani possiede questo tipo di competenze.
In breve, il 65% della popolazione italiana non possiede le competenze alfabetiche
minime, secondo l’OCSE, per orientarsi nella società dell’informazione (è cioè
“funzionalmente analfabeta” o “semianalfabeta”). Mentre meno del 10% possiede le
competenze necessarie per orientarvisi in modo critico e creativo. Con quali
conseguenze economiche?
(f) Secondo Eurostat (2008), l’Italia è l’ultimo Paese dell’Europa occidentale per
numero di famiglie connesse ad Internet (42%), il terz’ultimo dell’UE-27 (60%) davanti
a Bulgaria (25%) e Romania (30%), e l’unico ad aver subito una regressione rispetto al
2007 (43%). Una prima conseguenza di ciò è che, secondo Eurostat (2007), il
commercio elettronico italiano contribuisce solo per lo 0,9% al fatturato delle imprese,
contro una media europea del 4,2%. In pratica, solo Cipro (0,6%) e la Bulgaria (0,5%)
fanno meno commercio online. Il dato cambia poco secondo l’OCSE (2008), che
annovera una decina di Paesi in cui l’e-commerce vale ormai più del 10% del fatturato
(figura sotto), e classifica l’Italia penultima con un 2% circa, davanti alla Slovacchia.
Bisogna però considerare che l’e-commerce è solo l’aspetto più appariscente della
questione. In realtà, è l’intero comparto dei servizi a risentire dell’apporto di Internet in
termini di incrementi di produttività, al punto che, sempre secondo l’OCSE, la
produttività di un’azienda è proporzionale alla quota di impiegati connessi in banda
larga.
La debolezza italiana nell’Internet economy è spesso spiegata nei termini di un generico
“ritardo cuturale” verso le nuove tecnologie, come se si trattasse di acquisire abitudini
più moderne. Ma questa ipotesi è smentita da vari dati, e prima di tutto dal fatto che gli
italiani, secondo Eurostat, vantano il terzo posto in UE-27 per numero di cellulari ogni
100 abitanti (134 contro una media di 103: più telefonini che persone). Non si tratta
quindi di un rigetto “delle tecnologie”, ma del rigetto di una certa tecnologia, e non di
un’altra. Ebbene, dopo quanto si è detto, la ragione appare chiara. La tecnologia
rigettata è quella che si basa sulla capacità di leggere e di scrivere su uno schermo,
usando una tastiera alfabetica, per accedere a un mondo dove tutto è fabbricato e
organizzato mediante la scrittura (dal codice binario all’HTML, dagli URL agli indici di
Google). Insomma: un inferno, per quel 65% di italiani che non padroneggia l’alfabeto.
E un posto interessante (non certo un paradiso) solo per il rimanente 35%.
4. In conclusione, il modello di Haile permette di leggere la specificità italiana nei
termini di una vera e propria “crisi linguistica” dell’economia, in cui l’innovazione dei
prodotti e dei processi è ostacolata dall’alta quota di analfabetismo funzionale della
popolazione. Questa quota dipende, come si è visto, dalla storica debolezza della spesa
pubblica per l’istruzione, causata da una politica fiscale quasi sempre allergica al
principio redistributivo, imposta da una classe dirigente in larga parte rapace e corrotta.
Come ogni crisi che si rispetti, anche questa è caratterizzata da circuiti di feedback,
dove gli effetti retroagiscono sulle cause che li hanno prodotti, rafforzandole
ulteriormente. Non c’è “crisi”, cioè, senza “circoli viziosi” che impediscono di uscire
dalla crisi. Nel nostro caso, il principale si chiama, con un eufemismo giuridico
“conflitto di interessi” (e senza eufemismo “controllo mediatico della popolazione”), e
funziona press’a poco così: la classe dirigente corrotta, che ha prodotto la massa degli
analfabeti funzionali, ne governa le opinioni attraverso il sistema televisivo, l’unica
fonte di informazione per loro disponibile, e ne ottiene in tal modo il consenso
elettorale, che la rafforza. Essa dunque non ha interesse a ridurre l’analfabetismo
funzionale, che costituisce la vera base quantitativa del suo consenso, né a sviluppare i
nuovi media di tipo alfabetico, che non conosce e non controlla. E che anzi considera
una minaccia al suo modo arcaico di esercitare il potere, fondato sull’assenza di
trasparenza e di partecipazione.
Certo, a voler scendere nei dettagli, le cose stanno in modo più complesso. Per esempio,
alcuni gruppi sociali esprimono un consenso autentico e liberamente informato, che
prescinde dall’influenza televisiva e si fonda su interessi reali (per esempio l’interesse a
falsificare i bilanci, per quelli che hanno bilanci da falsificare). Mentre altri, oltre a
guardare come tutti la televisione (95%), si informano leggendo i giornali (35%), che
non appartengono a un solo gruppo, ma a quattro. Sono però dettagli che non falsano il
quadro. Né la cornice.
5. La cornice è l’avvicendamento storico tra due tecnologie cognitive, che sono anche
due modelli di organizzazione della società. Il vecchio è destinato a perire. Ma tutto
dipende, per noi mortali, da quanto ci metterà, da chi porterà con sé, e da come sarà
fatto fuori. Decisiva è la nostra parte, perché tutto avvenga presto e bene.
Alcuni, specie in Italia, considerano illusioni i propositi di adoperare Internet per
difendere i diritti, o per far partecipare le popolazioni alla gestione politica della cosa
pubblica. E probabilmente lo sono. Ma, come si dice, i sogni condivisi possono
diventare realtà. E, secondo l’OCSE (2008), più della metà di noi condivide questo
genere di sogni.
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