Commento a Tribunale di Varese – Ufficio della Volontaria Giurisdizione – Decreto 6 ottobre 2009 (est. Giuseppe Buffone) “DOWN, ADS, , DIRITTO DI SPOSARSI, AUTODETERMINAZIONE TERAPEUTICA” - Barbara SaCCÀ DOTTORE DI RICERCA PROFESSORE A CONTRATTO DI DIRITTO PRIVATO 1. Il provvedimento Con il decreto in epigrafe, il giudice tutelare di Varese dichiara aperta l’amministrazione di sostegno in favore di una ragazza affetta dalla sindrome di Down al fine di assicurarle l’assistenza necessaria nell’espletamento delle attività quotidiane e nei trattamenti sanitari, per gli effetti demandando all’amministratore (nel caso in esame la madre della ragazza), ai sensi dell’art. 409 c.c., alcuni poteri-doveri con rappresentanza esclusiva e altri con assistenza necessaria, disponendo infine l’ablazione della capacità d’agire della beneficiaria solo per il compimento degli atti di straordinaria amministrazione. Il provvedimento adottato si segnala per l’accurata valutazione, da parte del Tribunale adito, di due profili in particolare, afferenti il primo, alla riconosciuta libertà matrimoniale della beneficiaria e il secondo, alla necessità di coinvolgerla nelle decisioni riguardanti il suo stato di salute. 2. I motivi L’iter motivazionale del provvedimento in questione prende il suo abbrivio dalla ricostruzione della ratio della l. 6 del 2004 che, novellando il codice civile, ha introdotto nel capo I, libro I, titolo XII l’istituto dell’amministrazione di sostegno, andando ad incidere anche sulla disciplina degli istituti a protezione degli incapaci già previsti e disciplinati (interdizione e inabilitazione), ridisegnandone i confini e, per questo, rappresentando una «vera e propria rivoluzione istituzionale». Il nocciolo duro della riforma in questione è da ravvisarsi, osserva il Giudice, nella valorizzazione della persona e delle sue capacità di coltivare, perseguire e curare i propri interessi, anche nel caso in cui essa sia inferma o affetta da una menomazione fisica o psichica, salvaguardandone, per quanto possibile, la capacità di agire. Proprio in considerazione di ciò, l’amministratore di sostegno, a differenza di quanto accade in caso di interdizione e di inabilitazione, non è figura che si sostituisce al beneficiario, ma sceglie insieme a questi il suo best interest. Conformemente a detta finalità, pertanto, devono concretizzarsi le «modalità “operative”» dell’amministrazione, per la determinazione delle quali il Tribunale, nel caso in commento, ha fatto riferimento alla Convenzione di New York del 2006 (ratificata in Italia con la recente l. 18/2009), dimostrando di aderire all’orientamento per il quale siffatta misura di protezione deve essere proporzionata e adatta alle condizioni della persona, oltreché applicata per il più breve tempo possibile (nel caso in oggetto l’amministrazione viene prevista a tempo indeterminato, stante l’irreversibilità della Trisomia 21). Il richiamo alla Convenzione ed ai principi in essa cristallizzati risulta propedeutico alla determinazione giudiziale di non includere, tra i poteri previsti nella istanza di apertura dell’amministrazione, quello di prestare il consenso ai trattamenti sanitari in luogo della beneficiaria e il potere autorizzativo alle nozze. Si osserva, infatti, con riguardo al primo aspetto, che il beneficiario deve essere messo nelle condizioni di esercitare il suo potere di autodeterminazione terapeutica, pur se con flebili ma efficaci capacità, dal momento che siffatto potere non viene «espropriato» in conseguenza di una patologia, come la sindrome di Down, a causa della quale il soggetto portatore non è da considerarsi 1 “malato” ma “diversamente abile” e, pertanto, non va trattato come “soggetto da curare” ma come “soggetto da aiutare”. Con riguardo al secondo aspetto, infine, il giudice, dimostrando una illuminata sensibilità, afferma a chiare lettere il diritto della beneficiaria di sposarsi senza necessità del consenso dell’amministratore, in considerazione del fatto che il downismo non priva il soggetto della capacità di orientarsi nelle scelte di vita e di instaurare legami affettivi stabili. Diversamente opinando, si introdurrebbe un «divieto di nozze» non previsto dal legislatore che contrasterebbe con i principi dell’ordinamento interno, con le Convenzioni internazionali ed europee che riconoscono, tra i diritti fondamentali della persona, quello di sposarsi e di creare una famiglia. 3. Disabilità e accesso alla vita: l’amministrazione di sostegno L’amministrazione di sostegno rappresenta un nuovo strumento di protezione dei soggetti deboli previsto dalla legge 9 gennaio 2004, n.6, «Introduzione nel libro primo, titolo XII del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 429 del codice civile in materia di interdizione e di inabilitazione, nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali». La nuova disciplina risulta essere contenuta, dunque, negli artt. 404-413 c.c.1, all’interno del Titolo XII del libro I, rubricato «Delle misure di protezione delle persone prive in tutto od in parte di autonomia»2, nell’ambito del Capo I «Dell’amministrazione di sostegno». L’intervento legislativo in questione è senz’altro da considerarsi rivoluzionario perché realizza la tutela del soggetto debole, mettendo al centro della tutela la persona priva in tutto o in parte di «autonomia» – da leggersi quest’ultima come sinonimo di autosufficienza e non nel senso tecnico di «autodeterminazione»3–, superando l’ottica posta a base degli istituti della interdizione della inabilitazione, precipuamente volti a salvaguardare interessi di natura patrimoniale4. Più precisamente, per la dichiarazione di interdizione giudiziale è necessario che il soggetto maggiorenne o il minore emancipato versi in condizione di «abituale infermità di mente», mentre per l’inabilitazione, l’art. 415 c.c. ipotizza uno stato di infermità che non sia talmente grave da far luogo all’interdizione, ovvero l’istituto è concepito come una sorta di «precauzione» da gravi pregiudizi economici che il prodigo o chi abitualmente abusa di alcool o di sostanze stupefacenti potrebbe arrecare a sé o alla propria famiglia, ovvero ancora l’inabilitazione è la sorte del cieco o del sordo dalla nascita o dalla prima infanzia che non abbia ricevuto un’educazione sufficiente e salva l’applicazione della interdizione, nel caso in cui si riveli del tutto incapace di provvedere alla cura dei propri interessi. Come si evince dalla lettura delle norme, al centro della tutela non vi è la persona ma il suo patrimonio e quello della famiglia; inoltre lo stato di infermità è considerato in astratto, senza porre attenzione alle sue multiformi manifestazioni, per Il legislatore ha inserito la disciplina dell’amministrazione di sostegno “riutilizzando” gli artt. 404-413 del codice civile che, prima della loro abrogazione avvenuta con l. 184/1983, disciplinavano l’istituto dell’affiliazione. 2 La precedente rubrica era così formulata: «Dell’infermità di mente, dell’interdizione e dell’inabilitazione». 3 FERRANDO, Le finalità della legge. Il nuovo istituto nel quadro delle misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia, in Soggetti deboli e misure di protezione. Amministrazione di sostegno e interdizione, a cura di FERRANDO – LENTI, Torino, 2006, 6. 4 La dottrina tradizionale affermava costantemente, a proposito dell’ interdizione giudiziale, che l’istituto sorge dalla necessità di tutelare colui che, pur essendo divenuto maggiorenne, «non è in grado di provvedere ai propri interessi», SCARDULLA, Interdizione (dir. civ.), in Enciclopedia del diritto, XXI, Milano, Giuffrè, 1971, 933. 1 2 cui la rigidità delle forme giuridiche, ispirate ad una logica del «tutto o niente», si adatta a tale concezione dell’infermità, piuttosto teorica che reale5. L’amministrazione di sostegno è, invece, un regime di protezione pensato per «comprimere al minimo i diritti e le possibilità di iniziativa della persona disabile»6 e rappresenta al contempo il punto di arrivo e di partenza di un cammino verso la considerazione dei diritti e delle libertà concepiti, nel loro esercizio, non a misura di un “uomo generico”, ma a misura di ciascun singolo uomo. Anche il diritto positivo prende in considerazione, così, la necessaria dimensione relazionale dell’uomo per cui l’Io «si fa Io solo nel Tu»7, in cui perfino il corpo, con i suoi bisogni e la sua malattia impone di rimandare all’altro da sé8. Nella descritta dimensione relazionale si evidenzia il valore che ogni singolo ha in quanto uomo, quella che è la sua «dignità», a cui si riferisce un’altra dimensione dello spirito, la «libertà», intesa come l’anelito profondo che spinge l’uomo a realizzare se stesso nella pienezza9. Ogni uomo, in tutte le sue dimensioni, è perciò un bene da garantire e da promuovere. L’amministrazione di sostegno si ispira a questa concezione dell’uomo come valore in sé, proprio perché vuole affiancare alla persona, priva in tutto o in parte di autonomia, un’altra persona che lo aiuti nella piena realizzazione di sé, attuando il senso della solidarietà che sottintende l’art. 3 Cost. quando prevede, al comma secondo, che «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»10. Il mutamento di prospettiva si fa evidente già nella determinazione dei presupposti per l’applicazione della nuova misura di protezione tra i quali non compare più il riferimento alla totale o parziale incapacità di intendere o di volere, ma la difficoltà della persona a provvedere ai propri interessi, a causa di una infermità non solo psichica ma anche fisica, parziale o temporanea (art. 404 c.c.). L’esigenza è quella di prendersi cura della persona tutelando tutti gli interessi della vita, non solo quelli di natura patrimoniale. A differenza dell’interdizione e della inabilitazione che consegnano forme fisse di tutela, l’amministrazione di sostegno assume connotati diversi a seconda del caso concreto e delle particolari esigenze da soddisfare11. 5 FERRANDO, ult. cit., 8. CENDON, Infermi di mente e altri “disabili” in una proposta di riforma del codice civile, in Politica e diritto, 1987, 624. 7 MIRABELLA, Antropologia della Persona: le ragioni della dignità, in Tutela, curatela e amministrazione di sostegno, AA.VV., Torino, 2008, 12. 8 La relazionalità dell’uomo-individuo si fa evidente nel suo essere nella storia, per cui un «debito archetipo» lo lega a tutte le generazioni del passato, nello svolgersi di una catena biologica in cui percepisce una «solidarietà diacronica» nella quale sperimenta una dipendenza atavica – specchio dell’insufficienza di una generazione rispetto alle altre – assieme ad una «istanza di dono» che si traduce nell’esigenza di trasmettere, a sua volta, quanto ricevuto. Accanto a questa solidarietà diacronica, l’uomo avverte nel suo presente una «solidarietà sincronica» che lo lega agli uomini del suo tempo, in risposta alla consapevolezza della propria «non auto-sufficienza», ID., o.u.c., 13 ss.. 9 Un terzo concetto, oltre quelli di dignità e libertà, va poi riferito alla persona e che sublima il senso della sua unicità: essa è mistero, delle proprie origini, del suo sentirsi «mancante» e al tempo stesso «più» del suo essere materiale, un insieme di aspettative che rimandano ad un «oltre» rispetto alla sua attualità MIRABELLA, o.l.u.c.. 10 «Se si vuole assicurare a tutti un’effettiva eguaglianza di opportunità, la società deve prestare maggiore attenzione a coloro che sono nati con meno doti o in posizioni sociali meno favorevoli. L’idea è quella di riparare i torti dovuti al caso, in direzione dell’uguaglianza», RAWLS, Una teoria della giustizia, Milano, 1994, 97. 11 La Corte Costituzionale ha affermato che sarà compito del giudice tutelare applicare la misura di protezione che risulterà idonea ad offrire all’incapace la tutela più adeguata alla fattispecie limitando nella minore misura possibile la sua capacità; e, «ove la scelta cada sull’amministrazione di sostegno … 6 3 4. Il diritto di sposarsi e l’autodeterminazione terapeutica del disabile Il decreto che qui si commenta, nel delineare i compiti dell’amministratore di sostegno, afferma la necessità di valorizzare la persona nonché la personalità del soggetto beneficiario, affermando che il risultato da realizzare è quello di consentire al disabile – la sindrome di Down non è una malattia, bensì causa di disabilità – di poter esercitare i propri diritti e le libertà costituzionalmente garantite, superando le difficoltà di accesso alla vita. Tale affermazione è coerente con il concetto di disabilità di cui all’ICF («Classificazione internazionale del funzionamento, della salute e della disabilità» International Classification of Functioning, Disability and Health), documento pubblicato dall’OMS nel 200112 che, innovando rispetto al passato, non dà per l’ambito dei poteri dell’amministratore [dovrà essere] puntualmente correlato alle caratteristiche del caso concreto. Solo se non ravvisi interventi di sostegno idonei ad assicurare all’incapace siffatta protezione, il giudice può ricorrere alle ben più invasive misure dell’inabilitazione o dell’interdizione, che attribuiscono uno status di incapacità, estesa per l’inabilitato agli atti di straordinaria amministrazione e per l’interdetto anche a quelli di amministrazione ordinaria», Corte costituzionale, 9 dicembre 2005, n. 440, in Familia, 2006, 361, con note di BALESTRA, Sugli arcani confini tra amministrazione di sostegno e interdizione e di M. A. LUPOI, Profili processuali del rapporto tra l’amministrazione di sostegno e le altre misure di protezione dell’incapace; in Famiglia e diritto, 2006, 121, con nota di TOMMASEO, L’amministrazione di sostegno al vaglio della Corte costituzionale; in Famiglia, persone e successioni, 2006, 134, con nota di PATTI, Amministrazione di sostegno: la sentenza della Corte costituzionale. Articolando un ragionamento sostanzialmente diverso, la Corte di Cassazione, in un primo momento, ha sostenuto che «La differenza tra amministrazione di sostegno e interdizione non risiede in un elemento quantitativo, e cioè dalla maggiore o minore gravità della malattia o dell’handicap della persona interessata, ma un criterio funzionale, e cioè nella natura e nel tipo di attività che l’incapace non è più in grado di compiere da sé; la relativa valutazione deve essere compiuta dal giudice di merito in base a tutte le circostanze del caso concreto, alla luce di un criterio che assicuri la massima tutela all’incapace, col suo minor sacrificio» (Cassazione civile , sez. I, 12 giugno 2006 , n. 13584, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2007, I, 275, con nota di ROMA, La Cassazione alla ricerca del discrimen tra amministrazione di sostegno e interdizione; in Famiglia e diritto, con nota di SESTA, Amministrazione di sostegno e interdizione: quale bilanciamento tra interessi patrimoniali e personali del beneficiario?). La stessa Corte di Cassazione ha da ultimo superato questa interpretazione – potremmo dire riduttiva – delle finalità dell’amministrazione di sostegno, affermando che l’ambito di operatività di siffatta misura di protezione va individuato con riguardo non già in base al grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi, ma alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di chi sarà beneficiario, in relazione alla maggiore flessibilità, ben potendo il giudice tutelare graduare i limiti alla sfera negoziale del beneficiario dell’amministrazione di sostegno (ex art. 405, comma V, nn. 3 e 4 c.c.), in modo da evitare che questi possa essere esposto al rischio di compiere un’attività negoziale di per sé pregiudizievole (Cass. civ., 22.4.2009, n. 9628, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 10/2009, I, 963 ss., con nota di BUGETTI, L’attitudine dell’amministrazione di sostegno a realizzare l’adeguata protezione degli interessi patrimoniali del beneficiario). 12 La Classificazione ICF è riconosciuta da 191 Paesi come il nuovo strumento per descrivere e misurare la salute e la disabilità delle popolazioni. Essa rappresenta un traguardo significativo nella definizione e, quindi, nella percezione di salute e disabilità, dal momento che i nuovi principi ivi enunciati evidenziano l’importanza di un approccio integrato, che tenga conto dei fattori ambientali, classificandoli in maniera sistematica. La classificazione ICF è stata preceduta da un altro documento pubblicato dall’OMS già nel 1980: l’International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps (ICIDH), in cui si distingueva tra menomazione (impairment) - definita come «perdita o anormalità a carico di una struttura o di una funzione psico-logica, fisiologica o anatomica» ; disabilità (disability) – «qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a menomazione) della capacità di compiere un’attività nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano»; handicap – inteso come la «condizione di svantaggio conseguente a una menomazione o a una disabilità che in un certo soggetto limita o impedisce l’adempimento del ruolo normale per tale soggetto in relazione all’età, al sesso e ai fattori socioculturali». Appare evidente che l’aspetto significativo del primo documento OMS è stato quello di associare lo stato di un individuo non solo a funzioni e strutture del corpo umano, ma anche ad attività a livello individuale o di partecipazione nella vita sociale. 4 presupposta la condizione di disabilità o di handicap, ma definisce «disabilità» la condizione di salute in un ambiente sfavorevole. Il momento qualificante della nuova prospettiva si ravvisa vieppiù nelle finalità di recupero dell’«accesso alla vita ed alla partecipazione sociale» che non può essere negato o diminuito a causa delle diverse condizioni fisiche o psichiche in cui versa il soggetto13. Questi, infatti, non smette mai di essere centro di imputazione di interessi e di situazioni giuridiche soggettive, e quindi devono essere combattute e superate le discriminazioni tra persone (finora considerate normali) e persone (finora considerate disabili) posto che è necessario discorrere sempre e solo di «soggetti», di «diritto alla salute» e di possibilità di esercizio delle «libertà fondamentali»14. La questione si fa più sentita specialmente con riferimento all’esercizio di diritti personalissimi, quali il diritto di sposarsi e il diritto all’autodeterminazione terapeutica. Riguardo al primo punto, si deve osservare che la scelta di contrarre matrimonio non può essere deferita ad un terzo, né il matrimonio può essere celebrato da un rappresentante, trattandosi appunto di «atto personalissimo». Va altresì considerato che il nostro ordinamento prevede, tra gli impedimenti alla celebrazione, l’interdizione per infermità di mente (art. 85 c.c.), non anche l’inabilitazione né, a fortiori, l’essere sottoposto ad amministrazione di sostegno. È, poi, lo stesso codice civile, all’art. 120, a stabilire che, nel caso in cui il coniuge non interdetto provi di essere stato, al momento della celebrazione, incapace di intendere e di volere per qualunque causa, anche transitoria, il matrimonio può essere annullato. Il diritto di sposarsi figura tra i diritti fondamentali dell’individuo nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo del 1948, che all’art. 16 stabilisce che uomini e donne hanno il diritto di sposarsi senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Nessuna discriminazione, dunque, può giustificare la compressione di tale diritto personalissimo, dal momento che esso consente a chi lo esercita di realizzarsi attraverso una delle massime espressioni della relazionalità umana e considerato che può essere La Convenzione di New York, sui diritti delle persone con disabilità (2006), sancisce, all’art. 5, par. 2 che «Gli Stati Parti devono vietare ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità e garantire alle persone con disabilità uguale ed effettiva protezione giuridica contro ogni discriminazione qualunque ne sia il fondamento». 14 A questa conclusione bisogna pervenire specialmente ove si rammenti che, nella concezione di Autorevole Dottrina «La capacità di agire permette alla soggettività di svolgersi nella vita del diritto», FALZEA, Capacità (teoria gen.), in Enciclopedia del diritto, VI, Milano, Giuffrè, 1960, 22. Ma è bene precisare che l’impostazione tradizionale ha portato a guardare l’incapacità come strumento di protezione del soggetto immaturo o psichicamente involuto contro gli atti che siano in grado di pregiudicarlo senza mai compromettere il riconoscimento della sua soggettività giuridica, per i fondamentali valori umani di cui è portatore. Tale asserto presuppone, evidentemente, che il tema sia affrontato da una prospettiva «negoziale». Per cui quando si fa riferimento alla (im)maturità del soggetto incapace, lo si fa traducendolo nei termini di incapacità di portare a compimento un processo di volizione proporzionato al compimento di atti negoziali con il rischio insito che quelli posti in essere si rivelino pregiudizievoli, perché non supportati da un valido e consapevole momento volitivo. Il baricentro della questione, in un mutato contesto di valori, deve essere spostato focalizzando l’attenzione proprio il soggetto, considerato anche nella riportata dottrina come valore in sé in quanto uomo. Una visione a misura d’uomo, dunque, non consente più attualmente di tracciare una linea netta tra maturità e immaturità, tra capacità di intendere e di volere e incapacità. Vari sono i gradi della consapevolezza del soggetto, della sua maturità e consapevolezza nonostante la presenza di infermità che possono inficiare un processo di piena realizzazione di ogni attitudine umana. Ma è proprio quella considerazione della persona intesa come portatrice in sé di valore che deve consentirci di affermare che ogni soggetto è capace nella misura in cui egli è comunque in grado di esprimersi in quanto uomo. Gli istituti di protezione non dovranno, allora, essere rivolti alla tutela del patrimonio da possibili pregiudizi determinati da immaturità, ma dovranno tradursi in strumenti volti a recuperare, con l’ausilio di altre persone, quegli elementi idonei a colmare le im-maturità, le in-capacità. 13 5 esercitato solo dal suo titolare. L’esclusione del disabile dall’esercizio di una libertà fondamentale qual è la libertà di sposarsi, determinerebbe una ingiustificata discriminazione15. A sua volta, l’art. 12 della Convenzione Europea del 1950 dispone che l’uomo e la donna in età adatta hanno diritto di sposarsi, secondo le leggi nazionali che regolano questo diritto. Occorre tener presente che, se la legislazione italiana considera l’interdizione quale impedimento al matrimonio, in altre legislazioni europee – si faccia l’esempio della Francia – non esiste questo tipo di ostacolo alle nozze, una volta che il giudice abbia verificato l’idoneità dell’interdetto allo svolgimento del rapporto coniugale. In effetti, la soluzione di demandare al giudice la verifica della capacità del soggetto, sebbene interdetto, di esprimere una volontà cosciente e volontaria, proporzionata alla conclusione del vincolo matrimoniale16, potrebbe farsi strada anche nel nostro ordinamento, tanto più che con l’introduzione dell’amministrazione di sostegno appare mutata la filosofia legislativa in tema di misure di protezione dell’incapace nel senso di tutela della persona, e non solo del suo patrimonio17. In questa direzione si avverte da tempo l’esigenza di superare la logica del binomio capacità/incapacità e di dismettere l’approccio «contrattuale» per risolvere le questioni relative all’ammissibilità o meno del soggetto al compimento degli atti, specie quelli personalissimi18. Questo è tanto vero ove si ponga mente al fatto che la disciplina generale dell’incapacità naturale prende in considerazione, in tema di contratti, la buona o la mala fede dell’altra parte (art. 428, comma 2, c.c.), mentre tale aspetto è del tutto ignorato nella disciplina particolare dell’incapacità naturale quale causa di invalidità del matrimonio essendo preminente, in tal caso, l’esigenza di rimuovere il solo vincolo coniugale inficiato da vizio psichico19. 15 Le menomazioni di carattere meramente fisico non possono influire sulla capacità matrimoniale, mentre qualche influsso possono averlo quelle di carattere psichico, ma in casi circoscritti. In questo senso, ERAMO, Handicappati: diritto alla sessualità, diritto al matrimonio e diritto all’adozione, in Famiglia e Diritto, 2002, 4, 435 ss.. Nella sfera morale dell’individuo emergono soltanto le alterazioni delle facoltà intellettive e volitive, mentre non ha risalto “la sfera del carattere”, che può soltanto acquistare una rilevanza indiretta agli effetti del giudizio della capacità naturale, ogni volta che sia in concreto compromessa l’attitudine del soggetto a determinarsi in base ad atti di volontà cosciente. Pertanto, l’incapacità di intendere o logicamente volere, nell’individuo affetto da pseudologia fantastica, non invalida il matrimonio, se non abbia a lui impedito di apprezzare l’importanza dell’atto e di determinarsi al suo compimento, Cass civ., sez. I, 17 marzo 1969, n. 853. 16 Il riferimento alla necessità di essere capaci di prestare un consenso proporzionato al matrimonio è proprio della dottrina canonistica che così interpreta il can. 1095 che, al primo numero, sancisce l’incapacità a contrarre matrimonio per chi difetti di uso sufficiente di ragione. Tale disposizione è stata riscritta attingendo al diritto già vigente in Ecclesia e non richiede al nubente la pienezza delle facoltà intellettive e volitive, ma la naturale capacità, ad un livello proporzionato al matrimonio (discretio judicii matrimonio proportionata). Sul punto si rimanda a CANONICO, L’incapacità naturale al matrimonio nel diritto civile e nel diritto canonico, Napoli, Esi, 1994, 85. 17 Il divieto assoluto, per l’interdetto, di formarsi una famiglia non appare giustificato in tutti i casi in cui un soggetto sottoposto ad interdizione mostri comunque la «capacità di amore e di durevole dedizione» e, quindi, la «capacità di accedere ad una stabile comunione di vita», BIANCA, o.l.c., 251 s.. 18 FACCI, Il dovere di informazione del sanitario, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 626, il quale osserva, con riferimento al consenso all’atto medico quale atto personalissimo per essere espressione del diritto all’autodeterminazione, che esso non può essere ricondotto all’ambito del contratto, per la cui esistenza è indispensabile la capacità d’agire. In definitiva, l’A. sostiene che la tradizionale e rigida bipartizione tra capacità giuridica e capacità d’agire, valida per i rapporti patrimoniali, si rivela inadeguata e limitativa con riferimento all’ambito dei diritti personalissimi. In questa direzione, ZATTI, Oltre la capacità di intendere e di volere, in FERRANDO-VISINTINI (a cura di), Follia e diritto, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, 49 ss.. 19 Cass. civ., sez. I, 7 aprile 1997, n. 3002. 6 Si avverte così l’inadeguatezza delle categorie concettuali ormai consolidate in altri settori del diritto, nel momento della loro applicazione all’ambito dei diritti della personalità, in cui l’esercizio di un diritto o di una facoltà non deve essere riguardato nell’ottica di un risvolto patrimoniale, ma come intima espressione della persona che, tramite esso si autodetermina in base alle proprie inclinazioni e ai propri desideri20. Non è casuale, allora, che il primo comma dell’art. 410 c.c., nell’individuare i doveri dell’amministratore di sostegno, contempli al primo posto quello di tener conto non solo dei bisogni, ma anche delle aspirazioni del beneficiario. In ossequio alla ratio legis, il giudice tutelare, nel caso oggetto della nostra attenzione, non si è limitato ad attribuire alla madre della beneficiaria il compito di assisterla nelle scelte terapeutiche, ma ha specificato che nell’assolvere a tale obbligo debba farsi interprete della volontà della figlia. Si fa luce, dunque, sul delicatissimo tema del potere di autodeterminazione terapeutica dei soggetti con ridotta capacità d’agire (o sarebbe meglio dire, di intendere e di volere), recentemente venuto alla ribalta con le vicende «Welby» ed «Englaro». Il consenso informato al trattamento sanitario consente di esercitare il diritto all’autodeterminazione terapeutica, per cui tutte le scelte riguardanti la salute devono avvenire nel rispetto della propria volontà e dignità21. Ed è nel rispetto della «dignità» della persona il punto decisivo in cui si risolve il tema dell’autodeterminazione e tale diritto non può essere compresso o, peggio, negato nel caso in cui il soggetto abbia una ridotta capacità di agire (come è nel caso in commento) o sia del tutto incapace. La scelta di sottoporsi ai trattamenti terapeutici è personale e senz’altro ricade nell’ambito di applicazione dell’art. 13 Cost., né si potrebbero consentire disparità di trattamento a discapito del soggetto con limitate o assenti capacità, perché ciò comporterebbe la violazione dei principi di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost.22, nonché di quelli affermati a livello internazionale come l’art. 6 la Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina di Oviedo, del 4 luglio 1997 che l’infermo di mente «deve essere, nei limiti del possibile, reso partecipe della procedura di autorizzazione al trattamento sanitario»23. Anche l’art. 5 della direttiva 20/2001/CE, recepita con Decreto Legislativo 24 giugno 2003, n. 211, in materia di sperimentazione clinica stabilisce che, per le persone adulte che non siano in grado di prestare validamente il loro consenso, le informazioni debbono essere commisurate alla capacità di comprensione posseduta. Così pure la legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (l. 23.12.1978, n. 833) stabilisce che gli accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori devono essere accompagnati da iniziative volte a raccogliere il consenso e a garantire, per quanto Con riferimento alla condizione dell’interdetto, è stato messo in evidenza che «Pure se più o meno limitato dalle sue condizioni mentali, anche l’interdetto può tuttavia avvertire l’esigenza di esercitare i diritti fondamentali di libertà e di solidarietà e di partecipare direttamente alla vita di relazione», BIANCA, ult. cit., 259. 21 Con sent. n. 438 del 2008, la Corte Costituzionale «ha ritenuto che il consenso informato al trattamento sanitario costituisce un principio fondamentale: ciò in quanto è espressione della sintesi di due diritti entrambi fondamentali, quello all’autodeterminazione e quello alla salute» mirante a garantire la consapevole scelta da parte del paziente e, dunque la sua stessa libertà personale. 22 Nell’art. 32 Cost. si ravvisa una sorta di «polo magnetico» per tutte le disposizioni – anche di livello costituzionale – volte a presidiare senza riserve i diritti della persona umana, CENDON, Il prezzo della follia. Lesione della salute mentale e responsabilità civile, Bologna, 1984, 71. 23 In giurisprudenza si segnala: Cass. civ., 16 ottobre 2007, 21748, in Famiglia e diritto, 2008, 136, con nota di CAMPIONE, Stato vegetativo permanente e diritto all’identità personale in un’importante pronuncia della Suprema Corte; in Corriere giuridico, 2007, 686, con nota di CALÒ, La cassazione “vara” il testamento biologico. Sul tema si veda, inter alios: GENNARI, Il consenso informato come espressione di libertà, in Responsabilità civile e previdenza, 2007, 2133; SANTOSUOSSO, La volontà oltre la coscienza: la Cassazione e lo stato vegetativo, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2008, II, 1; PRINCIGALLI, Decisione medica e rifiuto di cure, in Rivista critica di diritto privato, 2008, 85; BARNI, Sul dissenso attuale e anticipato ad un trattamento medico. Dal rispetto dell’autonomia all’amministrazione di sostegno, in Responsabilità civile e previdenza, 2006,1002. 20 7 possibile, la partecipazione del malato di mente che vi è obbligato24. Rispetto ai trattamenti medici per i quali sia richiesto un consenso informato, ad una maggiore o minore capacità di discernimento e di comprensione deve corrispondere, dunque, un approccio personalizzato dell’obbligo di informazione ed un correlativo diverso modo di attuazione dei compiti dell’amministratore. Il soggetto disabile, beneficiario dell’amministrazione, dovrà essere messo nelle condizioni di esprimere il suo consenso ad eventuali trattamenti terapeutici che si rivelino necessari in relazione al suo stato di salute25. La sua autodeterminazione sarà il frutto di un’opera sinergica tra medico, che dovrà ottemperare al suo obbligo veicolando le informazioni facendo sì che raggiungano la comprensione del soggetto chiamato a scegliere. L’amministratore, anche in questo caso, non svolgerà il ruolo di rappresentante del beneficiario, ma sarà garante di una scelta che effettivamente corrisponda alla volontà dell’amministrato e per la cui attuazione egli è strumento e al tempo stesso garante26. 5. L’importanza del ruolo del giudice nella tutela delle persone con disabilità Da quanto detto è facile intuire come un ruolo di grande importanza sia affidato al giudice tutelare che, chiamato ad applicare la misura di protezione, deve renderla in grado di operare attuando la nuova filosofia che anima la legge27. Nel caso in commento, assistiamo a un bell’esempio di attuazione della disciplina di cui all’art. 404 c.c. e ss. in cui viene interpretato il ruolo dell’amministratore come sostegno affinché il beneficiario, per quanto possibile, esprima le sue pur flebili capacità nell’adozione delle proprie scelte di vita, specialmente quelle strettamente personali, ovverosia quella di sposarsi e di sottoporsi a cure mediche. I principi a cui è ispirata la misura, nella determinazione delle modalità operative, sono quelle di proporzionalità e adeguatezza, per come richiesto dalla Convenzione di New York, recentemente ratificata in Italia, con legge 18/2009. Solo così l’amministrazione di sostegno risulta essere in grado di configurare uno strumento che effettivamente realizza l’obiettivo di garantire la partecipazione sociale di tutti gli individui, in una logica di inclusione e non di esclusione e di allontanamento28. Al perseguimento di questi obiettivi, d’altronde, si riferiscono altri interventi legislativi, tra cui menzioniamo quello volto a predisporre alcune specifiche «misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni» (l. n. 67/2006), in attuazione del precetto contenuto all’art. 13 del Trattato di Amsterdam che fissa il principio di lotta ad ogni discriminazione. La disciplina appena richiamata assume i connotati di rimedio generale contro le discriminazioni delle persona con disabilità e va ad affiancarsi al complesso delle tutela già previste nell’ordinamento a tutela degli handicappati. La legge si segnala per essere fortemente innovatrice nella predisposizione delle tutele che, ancora una volta, non 24 Il nuovo codice di deontologia medica del 2006, al pari dei precedenti, prevede che il medico, nell’informare il paziente, deve tenere conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche. 25 La disciplina del consenso al trattamento medico si ritiene sia sottratta alle regole che legano la validità della manifestazione della volontà alla capacità legale e, trattandosi di un atto che interessa l’integrità psico-fisica della persona, viene in rilievo la capacità di fatto dell’infermo, VENCHIARUTTI, CENDON, Sofferenti psichici, in Enciclopedia del diritto. Aggiornamento, III, Milano, Giuffrè, 1006. 26 FACCI, Il dovere di informazione…, cit., 627. 27 FERRANDO, I diritti di natura personale. Compiti dell’amministratore ed autonomia dell’interessato, in FERRANDO – LENTI, Soggetti deboli e misure di protezione cit., 145. 28 L’intervento normativo si inserisce in una più ampia tendenza normativa, consolidata anche in ambito comunitario ed internazionale, per cui sono vietate tutte le discriminazioni comprese quelle fondate sull’handicap. Tra le più recenti vanno menzionate, in ambito europeo, la Direttiva 2000/43/CE del Consiglio, che attua il principio di parità di trattamento fra le persone e la Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. 8 appaiono ivi solamente enunciate, ma vengono assistite da concreti mezzi di attuazione. Infatti, se prima dell’entrata in vigore della l. n. 67/2006 gli obblighi previsti per superare le discriminazioni legate agli handicap – specie in materia lavoristica ed edilizia – non si relazionavano ad uno speculare diritto soggettivo del disabile ad ottenere l’inclusione nella società, adesso ogni tutela diviene esigibile. Questo è tanto vero che, all’esito di una corretta interpretazione della legge, nel caso di invocata tutela in sede giudiziaria, si sottolinea come anche in questa sede si è conferito al giudice il penetrante potere di disporre ogni provvedimento che si renda necessario per rimuovere gli ostacoli alla partecipazione sociale del disabile, eliminando così la discriminazione subita29. Il richiamo, da ultimo effettuato, alla legge n. 67/2006 è apparso significativo per tirare le fila delle considerazioni fin qui svolte. Nell’ambito del superamento delle discriminazioni che impediscono un uguale accesso alla vita per i soggetti disabili, stiamo assistendo ad una evoluzione auspicata già da tempo e che ora sta trovando attuazione, seppure con interventi che necessitano di essere tra loro coordinati. A garanzia dell’effettività delle tutele accordate dal legislatore e dei principi affermati a tutti i livelli, un ruolo di grande importanza è affidato al giudice. Con particolare riferimento al settore delle misure di protezione, poi, il giudice tutelare deve farsi interprete della persona e delle sue capacità al fine consegnare, a chi ha potenzialità fisiche o psichiche più limitate, uno strumento che sia in grado di potenziare la sua persona, nell’obiettivo principale di consentirne la realizzazione della personalità, proporzionalmente alle capacità in concreto possedute. Nell’assolvere a questo delicato compito, il giudice deve mettersi nelle condizioni di comprendere la persona per cui è chiamato ad applicare la misura di protezione, non limitandosi all’ausilio dei consulenti tecnici, ma direttamente. Ciò che è avvenuto nel caso in commento quando il Giudice tutelare, non limitandosi a recepire pedissequamente il contenuto della relazione del psicopedagogista, nel verificare senza intermediari i desideri e le capacità (anche affettive) della beneficiaria, si è sentito dalla stessa affermare: «Io mi sposo con il mio fidanzato». E questo, ovviamente, glielo auguriamo anche noi! 29 MARRA A.D., La tutela contro la discriminazione dei disabili in Italia: legge n. 67 del 2006. in Il diritto di famiglia e delle persone, 4/2008, 2194. 9