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L’ESERCIZIO DEL GIUDIZIO ETICO
tra universalità e particolarità
Calogero Caltagirone
La determinazione dell’esercizio del giudizio etico, nell’ambito della questione
circa il rapporto tra natura e storicità, dunque tra universalità e particolarità, va
collocata all’interno di una contestualità riflessiva che non può eludere la
condizione concreta e plurale degli uomini e delle loro concezioni comprensive
del bene e del giusto.
Per questo motivo potrebbe risultare inadeguato un approccio, tipico dell’etica
normativa, fondato sulla dimensione deontologica, che valuta la moralità non in
termini di risultati, ma di ossequio categorico a determinati principi, dunque,
senza discrezionalità valutativa, con il conseguente dissolvimento della
soggettività morale, oppure sulla caratterizzazione teleologica, che fa
«dipendere il giusto, l’obbligatorio, il moralmente buono dal non moralmente
buono»1 e che valuta le azioni umane in base a determinati fini o conseguenze
extramorali, con il risultato della presenza di un’ampia gamma di discrezionalità
valutative altrettanto dissolventi la soggettività morale.
Se nell’esercizio del giudizio etico si esprime la coscienza morale del soggetto
agente, il suo esame e la sua configurazione dovranno, invece, essere condotti
nell’ambito di una prospettiva etica che guarda all’interezza della vita morale
che si esprime attraverso l’interpretazione in termini finalistici dell’agire
dell’uomo, la considerazione unitaria della prassi dell’uomo, la valutazione
dell’evoluzione morale dell’agente, la natura della ragion pratica, i differenti
caratteri epistemologici che devono appartenere al giudizio morale nella misura
in cui varia il tipo ontologico di oggetto cui si riferisce.2
Dato che l’etica, nel riguardare l’agire umano e la qualità buona della vita
umana, dalla quale dipende la fioritura, riuscita e compimento di un essere
umano, costituisce una ricerca estremamente concreta ed esistenziale, perché
tocca il senso della vita dell’uomo, il valore delle sue scelte e decisioni,
chiamando in causa la persona nella sua libertà «situata», nelle sue intenzioni e
valutazioni di coscienza, la determinazione dell’esercizio del giudizio etico deve
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Ricercatore di Filosofia Morale nella Facoltà di Scienze della Formazione della Libera Università Maria
SS. Assunta (LUMSA) di Roma
1
W.K. Frankena, Etica. Introduzione alla filosofia morale, Comunità, Milano 1981, pp. 64-66.
2
Cfr. R. Fanciullacci, Giudizio morale, in Enciclopedia Filosofica, 5, Bompiani, Milano 2006, p. 4841.
2
trovare specifica «concrezione» nella «buona qualità della nostra relazione
pratica con la realtà»,3 che «si decide, nel suo senso fondamentale, al livello dei
rapporti interpersonali o intersoggettivi».4
Da questo punto di vista, una connotazione reale, cioè corrispondente alla
dimensione dell’umano in quanto tale, dell’esercizio del giudizio etico deve
essere in grado di raccogliere i diversi livelli di tensionalità polare dell’azione che
sono concretati dalla tensione dell’universale e del singolare; dell’oggettivo e
del soggettivo; dell’assoluto (immutabile, unico) e del relativo (mutevole,
plurale), del generale e del situazionale, del bene e della coscienza. Questa
tensionalità è intrinseca all’esperienza etica. Anzi, essa costituisce,
guardinianamente, i due fuochi dell’ellissi della prospettiva etica, i «fatti
fondamentali della vita etica», in quanto entrambi i poli costituiscono «insieme
un rapporto fondamentale; un intero, nel quale sempre uno dei due termini
dipende dall’altro; l’uno presuppone l’altro e lo porta all’attuazione».5
Il riconoscimento di tali tensioni polari nell’esercizio del giudizio etico mostra
che è chiaramente insufficiente e semplicistico un approccio per il quale risulta
problematico mettere insieme le coppie di queste polarità tensionali o che
tende, addirittura, a contrapporle. La comprensione e la pratica dell’esercizio
etico dei soggetti, che reciprocamente si riconoscono come tali in una
trascendentalità intersoggettiva originaria, e che valutano la pratica delle
relazioni intersoggettive come il bene concretamente vincolante, conferma
l’inseparabilità di questa polarità tensionale. I termini delle polarità tensionali si
richiamano «nel modo in cui i soggetti comprendono ciò che è autenticamente
umano avvertendone la responsabilità, ma anche nella risposta al bene
concretamente possibile».6
Il riconoscimento di questa polarità tensiva, ancora, comporta l’affermare che i
problemi che riguardano la vita degli uomini variano, non solo nel darsi ma
anche nel modo di essere compresi e che nessun problema si dà se non
all’interno di buone pratiche relazionali intersoggettive che articolano e
modulano l’universale/trascendentale umano nella molteplicità dei contesti
particolari/categoriali. Sotto questo profilo, i poli della tensione, esplicitando il
riferimento alla “relatività” come condizione categoriale/storica, aprono
l’attenzione alla positiva considerazione della diversità legittima della
3
C. Vigna, Etica della laicità e laicità dell’etica, in Laicità e relativismo nella società post-secolare, a cura
di S. Zamagni – A. Guarnieri, Il Mulino, Bologna 2009, p. 28.
4
Ibidem, p. 36.
5
R. Guardini, Etica, Morcelliana, Brescia 2001, p. 283.
6
D. Abignente – S. Bastianel, Le vie del bene. Oggettività, storicità, intersoggettività, Il Pozzo di
Giacobbe, Trapani 2009, pp. 11-12.
3
correttezza morale dell’esercizio del giudizio etico in correlazione all’universalità
della norma in termini di risposta «adeguata» alla realtà concreta, anziché in
termini ingenui di semplice permanenza statica dei giudizi, accogliendo di fatto il
pluralismo delle diverse esperienze e competenze morali. 7 Questo perché
«relatività dice relazione, soggettività dice dignità della persona e impegno
autonomo di responsabilità, cose ben diverse dal relativismo e soggettivismo
che, in logiche di rapporti e strutture di vita, impediscono una reale intesa fra le
coscienze».8
Dato che non basta volere il bene dell’altro, nella sua soggettività
trascendentale «senza capire quale parola e quale comportamento concreto
possono realizzarlo, realmente, oggettivamente, nella concreta situazione
dell’altro, di me, degli interventi possibili»,9 per un adeguato esercizio del
giudizio etico sarebbe opportuno porre l’attenzione «sul cammino ermeneutico
del discernimento morale che va dall’esperienza vissuta all’astrazione normativa
per ritornare alla concretezza dell’esperienza e della scelta possibile».10 Ciò,
però, pone dinanzi al compito di considerare adeguatamente quale
realizzazione della intersoggettività trascendentale sia umanamente
«conveniente», nel senso di «con-venire» all’umano che ci è comune e che,
come tale, va onorato.
Questo compito, che va svolto nell’ambito di una razionalità pratica dialogica,
comporta, aristotelicamente, la messa in pratica della modalità «phronetica»
del giudicare, nel tramite dell’intelletto pratico, e, tomasianamente, l’esercizio
della virtù di prudenza, come capacità di riconoscere e «organizzare ciò che è in
vista del fine» e il giudizio prudente come «misura ragionevole» di tale
rapporto.11 È all’interno di questa misura dell’agire che trova espressione
l’intesa reciproca delle coscienze morali dei soggetti trascendentali, i quali, nel
loro rapportarsi intersoggettivo riconoscente, rappresentano il bene e la libertà,
7
Cfr. Ibidem, p. 37.
D. Abignente – S. Bastianel, Le vie del bene. Oggettività, storicità, intersoggettività, p. 43. Questa
attestazione chiede l’assunzione del pluralismo «come condizione di fatto e non come fenomeno
superficiale, consapevoli delle difficoltà che comporta, ma senza viverlo con insofferenza e paura, o con
la pretesa di far valere un punto di vista garantito da un ordine “oggettivo” statico e non dialogico». In
quest’ottica, forse, bisognerà «imparare a pensare il pluralismo non solo come un dato di fatto culturale,
politico, economico, ma anche proprio come punto di partenza nella ricerca del bene, riconoscendo
anche la relatività dei punti di vista e dei valori storici come condizione semplicemente umana, di per sé
non necessariamente buona o cattiva, ma reale, vera. Naturalmente, ciò implica avvertire la stessa
esperienza del relativo, fondata nell’alterità e nella relazione, come costitutiva del nostro vivere umano.
Non è una minaccia, ma reale qualità che fa “umano” il nostro vivere, rinunciando al pregiudizio e al
timore di “perdere” di fronte alle diversità e ai cambiamenti, sperimentando la consistenza di una libertà
capace di costruire prossimità». Ibidem, p. 47.
9
D. Abignente – S. Bastianel, Le vie del bene. Oggettività, storicità, intersoggettività, pp. 100-101.
10
Ibidem, p. 99.
11
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 47, a 1,4,7.
8
4
l’universale e il singolare, l’oggettivo e il soggettivo, l’assoluto e il relativo, il
generale e il situazionale, la natura e la storicità. È attraverso questo «dialogo
tra coscienze, cioè tra ratio del comunicante e ratio del destinatario»,12 nella
trascendentalità del logos che ci specifica come uomini e che ci è comune, che
ciascuna soggettività trascendentale assume responsabilmente l’essere fine per
l’altro ricordando che a ciascuna è affidata la realtà umana e la sua corretta
interpretazione e concrezione mai conclusa. Realtà umana affidata a ciascuna
soggettività trascendentale storicamente come compito «normativo» mai
concluso, in quanto porta in sé «l’invito a verificare criticamente, dentro di sé e
nella storia ciò che è proposto come valore», implicando «il riferimento
all’esperienza etica personale e al fatto che si rimane responsabili di ciò che
liberamente si comprende».13 Non a caso, «a ciò appartiene la cura del nostro
divenire consapevoli e moralmente liberi in condizioni personali e strutturali mai
neutre, non consentendo all’illusione di una natura e di un tempo fissi e
immutabili».14
Da questo punto di vista, l’esercizio del giudizio etico, in quanto frutto
dell’ordinazione dinamica del logos (ordinatio rationis, secondo l’espressione
tomasiana) tesa a un fine che è il bene che ci è comune (ad bonum commune)
verso il quale ogni soggettività trascendentale tende,15 si esprime e diventa
riconoscibile nella corrispondenza della recta ratio dell’uomo con la ratio
intrinseca
della
realtà
dell’umano
come
intersoggettività
trascendentale/categoriale concretata proprio dalla ragionevolezza del retto
esercizio della ragione pratica.
Ragionevolezza che, derivando, appunto, aristotelicamente, da una razionalità
pratica «phronetica», secondo la quale il fondamento delle scelte e
dell’esercizio del giudizio etico va riscontrato nella capacità di riconoscere
secondo l’ordine del logos la misura della realtà, e da un processo di confronto e
di consenso critico tra coscienze, dà vita al giudizio di coscienza, formato e
condiviso all’interno di un con-senso storico di coscienze reciprocamente
riconoscenti la loro soggettività trascendentale.
Coscienza da intendere come il giudizio riflesso della ragione pratica sulla
moralità dell’agire, come il giudizio ultimamente pratico della ragione che
norma, permea e illumina l’agire dell’uomo, accompagnandolo e formando
l’esperienza vissuta, nella quale ciascun uomo sperimenta la propria soggettività
trascendentale.
12
D. Abignente – S. Bastianel, Le vie del bene. Oggettività, storicità, intersoggettività, p. 103.
Ibidem, p. 109.
14
Ibidem, p. 97.
15
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 90.
13
5
Sotto questo profilo, la coscienza morale si pone come luogo concreto di
esercizio del giudizio etico, sia come luogo di decisione personale che attua una
sintesi creativa tra le polarità tensionali, tra universalità/trascendentalità e
particolarità/categorialità, tra natura e storicità, con un criterio diverso dalla
mera applicazione deduttiva dell’universalità/trascendentalità, sia come luogo
di incontro, rapporto, modulazione, promozione e pratica di umanizzazione.