TESI DOTTORATO-DI FILIPPO TERESA

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PALERMO
______________________________________
Dottorato di Ricerca in
STORIA DELLA CULTURA E DELLA TECNICA
XXIII Ciclo
La percezione del soggetto epilettico tra riti antichi e rituali
moderni attraverso lo studio degli ex-voto
Tesi di Dottorato di:
Dott.ssa Teresa Di Filippo
Tutor:
Ch.mo Prof. Michele Roccella
Coordinatore:
Ch.mo Prof. Pietro Di Giovanni
Settore Scientifico Disciplinare: MED/039
___________________________________________________________
ANNI ACCADEMICI 2008/09-2009/10-2010/11
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PALERMO
______________________________________
Dottorato di Ricerca in
STORIA DELLA CULTURA E DELLA TECNICA
XXIII Ciclo
La percezione del soggetto epilettico tra riti antichi e rituali
moderni attraverso lo studio degli ex-voto
Tesi di Dottorato di:
Dott.ssa Teresa Di Filippo
Tutor:
Ch.mo Prof. Michele Roccella
Coordinatore:
Ch.mo Prof. Pietro Di Giovanni
Settore Scientifico Disciplinare: MED/039
____________________________________________________________
ANNI ACCADEMICI 2008/09-2009/10-2010/11
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INDICE
INTRODUZIONE .............................................................................................................................. 5
CAPITOLO PRIMO
L’EPILESSIA NELLA STORIA ........................................................................................................ 9
1.
L’epilessia nella cultura greca................................................................................................... 9
2.
L’epilessia nelle culture orientali (Babilonia, Cina e India) ................................................... 13
3.
L’epilessia nella cultura latina ................................................................................................ 15
4.
L’epilessia nel Medio Evo ...................................................................................................... 16
5.
L’epilessia dal Settecento al secondo dopoguerra .................................................................. 18
6.
Personaggi famosi affetti da crisi epilettiche .......................................................................... 28
CAPITOLO SECONDO
PSICOPATOLOGIA DELL’EPILESSIA: ASPETTI COGNITIVI COMPORTAMENTALI E
RELAZIONALI AD ESSA CONNESSI .......................................................................................... 33
1.
Le conoscenze contemporanee................................................................................................ 33
2.
Aspetti cognitivi e comportamentali ....................................................................................... 36
3.
Aspetti relazionali ................................................................................................................... 40
4.
Alcune concezioni etnopsichiatriche dell’epilessia ............................................................... 44
CAPITOLO TERZO
POSSESSIONE ED EPILESSIA ..................................................................................................... 47
1.
Psicopatologia della possessione ............................................................................................ 47
2.
La possessione come sindrome di disordini mentali ............................................................... 49
3.
Il diavolo e la malattia nelle religioni ..................................................................................... 50
4.
Il diavolo nelle credenze popolari ........................................................................................... 63
5.
Il diavolo nella tradizione popolare siciliana .......................................................................... 64
CAPITOLO QUARTO
L’EPILESSIA NELLA TRADIZIONE POPOLARE: RITI ANTICHI E RITUALI MODERNI ....... 68
1.
La medicina popolare .............................................................................................................. 68
2.
I Santi protettori degli epilettici .............................................................................................. 72
3
3.
La medicina popolare siciliana ............................................................................................... 76
4.
Etiologia e nosografia della crisi epilettica nella tradizione popolare siciliana ...................... 78
CAPITOLO QUINTO
LA RAPPRESENTAZIONE DELL’EPILESSIA NEGLI EX-VOTO ........................................... 82
1.
La malattia negli ex-voto ........................................................................................................ 82
2.
L’epilessia negli ex-voto ......................................................................................................... 85
3.
Tipi di ex-voto......................................................................................................................... 88
4.
Gli ex-voto nella tradizione siciliana ...................................................................................... 95
CAPITOLO SESTO
LA RAPPRESENTAZIONE DELL’EPILESSIA NEGLI EX-VOTO: ANALISI DI UN GRUPPO
DI TAVOLETTE VOTIVE ............................................................................................................... 98
1.
Premessa.................................................................................................................................. 98
2.
Casistica e metodi ................................................................................................................... 99
3.
Le tavolette votive esaminate ................................................................................................ 101
4.
L’epilessia nelle tavolette votive........................................................................................... 103
CONCLUSIONI ............................................................................................................................. 118
BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................................ 123
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INTRODUZIONE
Situata al crocevia di molteplici specialità mediche e non, l’epilessia, è stata e
continua ad essere oggetto di studio da prospettive di ricerca divergenti oppure
parallele. Le molteplici formule verbali che nel tempo sono state coniate per definirla
mostrano come mitologia, religione, magia e scienza siano state di volta in volta
chiamate in causa - in relazione ai diversi contesti storici, culturali e sociali - nel
tentativo di trovare una spiegazione ed una terapia a tale patologia.
Sino ai primi anni del diciannovesimo secolo, la superstizione, il mito e le credenze
popolari condizionarono completamente la cura di questi particolari pazienti, ad
eccezione d’alcuni isolati tentativi d’approccio scientifico a questa malattia, tra i
quali deve essere menzionato il nome e il contributo d’Ippocrate di Cos, uno dei
primi studiosi del passato a rifiutare il carattere sovrannaturale delle malattie mentali.
Le fonti storiche più antiche circa la patologia risalgono a molti secoli prima di
Cristo, attraverso testi accadici assiro-babilonesi scritti su tavolette d’argilla.
Nelle culture primitive, confrontarsi con l’epilessia mobilitava una tale angoscia da
indurre ad interpretare la manifestazione convulsiva come un’inequivocabile segno di
punizione ad opera di qualche essere soprannaturale, identificato ora negli Dei ora
negli astri.
Questa modalità di lettura degli eventi negativi, del male e della sofferenza è tipica
del pensiero primitivo, in cui è assente il concetto di causalità, elaborato dall’uomo
moderno, ed il polo negativo del reale è sempre considerato legato alla colpa.
Le idee di colpa e di punizione vengono già elaborate nella cultura greca e latina; si
origina così un modo di relazionarsi al paziente epilettico che incide profondamente
sul vissuto di questi, influenzando il suo rapporto con la malattia ed il mondo.
Conosciuta ed accuratamente descritta già dai medici babilonesi l’epilessia è stata
designata nel tempo con molti nomi, più o meno immaginifici, che riflettono
l’atteggiamento della cultura che li ha espressi.
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Termini descrittivi come miqtu (malattia che fa cadere) delle tavolette babilonesi,
falling sickness e mal caduco della cultura medievale e rinascimentale si alternano
con definizioni che alludono ad una supposta origine soprannaturale del disturbo,
come male sacro, espressione di un pregiudizio già contestato da Ippocrate. Di questa
visione mistica rimangono le tracce nel termine medico epilessia, dal greco
epilembàno, che significa “essere colti di sorpresa” e che richiama l’immagine della
possessione.
Tale definizione sintetizza perfettamente i caratteri fondamentali della crisi epilettica,
che si manifesta all’improvviso, cessa spontaneamente e tende solitamente a ripetersi,
senza che colui il quale n’è affetto, possa opporvisi.
L’uomo, sin dai tempi più antichi e nelle più diverse culture, ha cercato di descrivere
e spiegare questa particolare patologia. Ma, così com’è accaduto per la storia di molti
altri eventi morbosi, anche la storia dell’epilessia ha risentito per molto tempo della
concezione che la voleva causata da forze maligne della natura o da divinità avverse.
Il mito si proponeva di dare una risposta ai fondamentali problemi della vita umana,
al perché della vita e della morte, specie quando essi non trovano una esauriente
spiegazione nel campo della religione ufficiale o della scienza, era un modo per
rendere più tollerabili e gestibili le paure, prima tra tutte la paura della morte.
Esso si caratterizza per la compresenza di elementi reali ed elementi fantastici che
contribuiscono alla costruzione di una realtà funzionale a determinati bisogni emotivi
dell’uomo, e quindi alla necessità di dare un senso ad un insieme di avvenimenti
ambigui ed incomprensibili che diventano tanto più minacciosi quanto più non è
possibile individuarne l’origine.
L’epilessia è stata e continua ad essere oggetto di studio da prospettive di ricerca
divergenti oppure parallele. Lo studio della malattia ha sempre affascinato non
soltanto psichiatri e medici ma ha anche stimolato un interesse multidisciplinare:
antropologico, etnologico, psicologico.
L’immagine dell’epilettico come di un posseduto da forze oscure divine (donde il
termine “male sacro”) o demoniache (donde le pratiche esorcistiche ancora presenti
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in varie culture religiose) ha radici forti che sopravvivono anche nella nostra era
tecnologica e che sarebbe semplicistico e controproducente limitarsi a negare.
La comprensione dei meccanismi neurologici che portano all’epilessia prese
veramente corpo solo alla fine dell’Ottocento, quando i principi organizzativi del
sistema nervoso vennero chiarendosi per la convergenza degli studi sulla struttura e la
funzione della cellula nervosa e sull’attività integrativa dei grandi sistemi cerebrali.
Grazie agli studi sulle localizzazioni delle funzioni motorie a livello della corteccia
cerebrale, e quelli degli effetti della stimolazione corticale con correnti elettriche,
cambiò radicalmente la conoscenza del sistema nervoso centrale. Alla fine
dell’Ottocento si svilupparono, e convissero, seppur apparentemente contrastanti tra
loro, la teoria neurologica e quella psichiatrica dell’epilessia.
La presente ricerca ha analizzato la figura dell’epilettico e l’immagine popolare che
l’epilessia ha assunto nel corso delle varie epoche storiche.
Nello specifico, lo studio è articolato in sei capitoli.
Nel primo si è analizzata l’evoluzione del concetto di epilessia nelle diverse culture, a
partire dai greci sino alle odierne conoscenze del secondo dopoguerra, prendendo in
considerazione anche le illustri personalità affette da questo male.
Nel secondo capitolo si è focalizzata l’attenzione sugli aspetti cognitivi,
comportamentali e relazionali connessi all’epilessia, con particolare riguardo alla
psicopatologia della stessa.
La ricerca, in seguito, ha preso in considerazione il legame tra possessione ed
epilessia, partendo dal presupposto che i soggetti affetti da attacchi epilettici
venivano spesso etichettati come posseduti dal demonio. A tal proposito, si è descritta
la figura del diavolo nelle diverse religioni, nelle credenze popolari e la sua stretta
connessione con i disturbi mentali.
Successivamente sono stati presi in esame i riti ed i rituali relativi alla cura della
malattia nella medicina popolare (con particolare riferimento a quella siciliana) e i
santi protettori degli epilettici, invocati all’occorrenza delle crisi.
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La medicina popolare costituisce un ponte tra due universi perché si fonda su una
dialettica tra l’irrazionale e la ragione, rivolgendosi alla stessa maniera alla magia e
alla medicina ufficiale. con particolare riferimento a quella siciliana.
Nel quinto capitolo si è proceduto, quindi, all’analisi delle varie tipologie di ex-voto,
ponendo particolare attenzione a quelle riguardanti la rappresentazione dell’epilessia.
La motivazione che spingeva il devoto, o chi per lui, a commissionare un ex-voto è
legata alla profonda angoscia esistenziale provocata dalla sofferenza, inspiegabile per
la medicina ufficiale, o al rendimento di grazie a guarigione avvenuta.
Lo studio è proseguito effettuando un’analisi di un gruppo di tavolette votive,
presenti in alcuni Santuari dell’Italia meridionale e taluni facenti parte di collezioni
private.
Dalle immagini devozionali è stato possibile ricavare le testimonianze di concezioni
etio-patogenetiche e di principi della medicina da tempo superati che permettono di
comprendere la percezione che si aveva dell’epilessia nei ceti popolari dei secoli
scorsi, considerando gli ex-voto dipinti come dei fotogrammi della realtà.
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CAPITOLO PRIMO
L’EPILESSIA NELLA STORIA
1. L’epilessia nella cultura greca
I greci definirono l’epilessia “morbo sacro” per la natura divina che le veniva
attribuita, mentre si parlava di “malis herculeus” per alludere alla forza veramente
sorprendente manifestata dal malato durante il parossismo convulsivo e perché,
secondo un’antica credenza, lo stesso Ercole ne era affetto.
Questa descrizione ci consente di evidenziare come già a quel tempo fosse presente
una distinzione tra le diverse forme cliniche, corrispondente all’attuale classificazione
dell’epilessia in generalizzata e parziale e come, nel contesto clinico, fosse stata
accuratamente delineata la sintomatologia specifica di certi quadri.
Nell’antica Grecia, l’intera tradizione culturale da Omero ad Erodoto, la religione
popolare, la dottrina medica stessa come si era sviluppata ad opera dei sacerdotimedici nei templi di Asclepio, concepivano come normale un diretto intervento della
divinità sullo sviluppo delle malattie, tra le quali l’epilessia. Quindi la comparsa di un
fattore divino o in ogni modo trascendente come diretto protagonista dei fenomeni
naturali annullava, di fatto, la possibilità da parte dell’uomo di comprendere la vera
causa del fenomeno, così per ottenere la guarigione da questa malattia era invocato
l’aiuto della divinità.
Da diversi autori, infatti, la malattia viene assimilata ad un’esperienza di morte e
resurrezione, ad un evento che avvicina il mondo umano e mortale a quello divino ed
eterno. La mitologia greca abbonda di personaggi che simboleggiano questa
esperienza, come il bellissimo Adone che, ferito mortalmente da un cinghiale, per
volontà di Zeus fu destinato a trascorrere metà dell’anno nel mondo dei vivi e metà
tra i morti con Persefone. Ancora Omero, nell’Odissea narra dell’immortalità
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intermittente dei Dioscuri i quali di sotterra, per privilegio concesso loro da Zeus, in
vece alterna tornano vivi un giorno e il giorno dopo son morti, e ricevono onori pari
agli Dei immortali (Foucault M., 1992).
Un tentativo di riabilitazione della malattia si ebbe con Ippocrate di Cos (460-380
a.C.) il quale scriveva: hic morbus nihil reliquis divinius, sed eamdem etiam quam
alii morbi naturam et originis causam habere videtur e solo per meraviglia o
ignoranza gli uomini potevano considerarla tale. Nella considerazione ippocratea
l’epilessia era una malattia ereditaria causata da una degenerazione del cervello; essa
si sarebbe determinata a causa di una stagnazione del flegma e della bile nei vasi del
cervello che avrebbe causato un’interruzione dell’apporto di aria. Questa la
descrizione del medico “Quelli che impazziscono per il flegma sono tranquilli e non
turbatori né gridatori, mentre quelli per via della bile, urlatori, perversi e non
pacifici, ma che sempre compiono qualcosa di inopportuno”. Anche in queste parole
si evidenzia come fosse già chiara una distinzione tra le diverse forme cliniche.
Secondo il medico greco, la manifestazione epilettica si protrae fino a quando il
flegma e la bile non ritornano nel corpo, ripristinando il precedente equilibrio e
lasciando in tal modo all’aria la possibilità di circolare e di raggiungere nuovamente
il cervello.
In questa concezione è il capo ad essere considerato la sede della malattia; l’epilessia
verrà in seguito definita “alto male” proprio perché la parte del corpo interessata è
quella posta più in alto.
L’autore, che dedicò un’intera opera allo studio dell’epilessia intitolata “De Morbo
Sacro”, sostiene che i primi ad aver sacralizzato tale malattia sarebbero stati proprio
maghi, guaritori, ciarlatani, preti legati al culto di Cibele. Adottando una logica
comune, essi avevano stilato un vero e proprio sistema terapeutico che prevedeva la
limitazione di alcuni comportamenti abituali. Ad esempio l’epilettico avrebbe dovuto
evitare i bagni, astenersi da molti alimenti considerati inadatti tra i quali: pesci di
mare come la triglia, l’occhiata, il muggine; carni di capra, cervo, maiale perché
considerate più difficili da digerire; carni di uccello come la gallina, la tortora e le
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otarde perché anch’esse pesanti; ortaggi tra cui la menta, l’aglio e la cipolla perché
l’acre avrebbe potuto favorire la comparsa di un accesso convulsivo. Tra i
comportamenti proibiti vi era inoltre l’indossare vestiti di colore nero, essendo il
colore della morte, ed il giocare su una pelle di capra o tenere un piede sull’altro o
una mano sull’altra, poiché questi gesti avrebbero potuto indurre il parossismo.
Ippocrate riferisce ancora che questi guaritori chiamavano in causa gli dei del
Pantheon greco in relazione alla sintomatologia clinica manifestata dal malato.
La madre degli dei era invocata quando il soggetto esibiva un comportamento simile
ad una capra ed erano presenti spasmi a destra; Poseidone, nel caso in cui il soggetto
emetteva una voce più acuta ed intensa, paragonandolo ad un cavallo, ma anche
quando la crisi esordiva con l’urlo iniziale; Ecate, dea degli spettri, se vi era una
perdita del controllo sfinterico; Apollo Nomio quando si presentavano evacuazioni
più fitte e più tenui, come quelle degli uccelli; Ares se il paziente emetteva schiuma
dalla bocca o batteva i piedi; Ecate e gli Eroi quando predominavano terrori e paure,
comportamenti strani, balzi sul letto e fughe e nel caso in cui prevalevano reazioni di
tipo psicotico.
Ippocrate, inoltre, sosteneva che si poteva ritenere il coito come un breve attacco
epilettico, interpretazione ripresa da Reich (1897-1957) in epoca recente. Da più parti
si affermò che l’età adolescenziale fosse un momento cruciale nell’evoluzione della
malattia; con la pubertà, infatti, si poteva verificare una remissione delle crisi o, al
contrario, una loro cronicizzazione. Molti adolescenti furono costretti ad
accoppiamenti precoci mentre altri furono castrati.
Il principio che guida la pratica terapeutica è sempre quello della purificazione, e
questo giustifica la prescrizione di salassi, emetici, sostanze particolari per fare
starnutire.
Malgrado la tesi sostenuta da Ippocrate sull’origine naturale della malattia e la sua
ferma e convinta posizione contro la magia, il carattere di sacralità incombe nella
concezione popolare articolandosi nelle modalità più eterogenee in relazione ai
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diversi contesti. Il dilagante pregiudizio sarà destinato a dominare la scena ancora per
molto tempo.
Più tardi, durante l’epoca di Platone (427-347 a.C.) la civiltà ellenica esprimeva i suoi
punti di vista sull’epilessia attraverso due “entusiasmi”: il coribantico, il frenetico e il
convulso, dove la possessione era vista come una caduta dalla quale si doveva uscire,
e quella mistica nel quale la possessione era una via per erompere dalla condizione
umana verso il divino. L'episodio epilettico andava guarito, mentre l’entusiasmo
mistico “epilettoide” serviva per raggiungere la dimensione divina. In ogni modo, per
i greci l'epilessia era uno stato d’ispirazione divina.
Per loro, infatti, era presente una differenza di valutazione che si spiegava
analizzando l'epilessia come un fenomeno nevrotico, sconfinante nell'ambito della
psicologia e, di conseguenza, nel comportamento religioso.
È all’interno di questo contesto culturale che deve essere inserita la pratica della
trapanazione cranica, con la quale si determinava una fuoriuscita di pus che avrebbe
anche consentito l’espulsione del “male” presente nel soggetto. La paura di essere
contaminati dalla presunta impurità dell’epilettico aveva generato l’usanza di sputare
addosso al soggetto per eliminare tale pericolo.
Per la religione ufficiale del tempo la malattia era inequivocabilmente un segno del
peccato, così i sacerdoti elaborarono una terapia basata sui tabù, proibizioni ed
imposizioni, che trovò la sua massima approvazione presso l’opinione pubblica.
La scuola empirica del III sec. ritenne infruttuoso l’apporto della teoria scientifica
che, se contribuiva alla ricerca dell’origine della malattia sul piano teorico, non aveva
conseguenze su quello pratico. Questa concezione contribuì a determinare un declino
della scienza antica; cominciarono così a rifiorire, anche nella medicina colta, le
pratiche magiche.
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2. L’epilessia nelle culture orientali (Babilonia, Cina e India)
Parallelamente alla medicina greca si sviluppò quella delle Civiltà Mediorientali tra
cui la medicina babilonese. Recentemente è stata tradotta una tavoletta di pietra
babilonese, risalente al 500 a.C., che rappresenta quasi sicuramente il più antico
documento scritto sull’epilessia. È una testimonianza molto interessante sulle idee
mediche dell’epoca e sulle modalità con cui venivano affrontate le manifestazioni
epilettiche. La tavoletta fa parte di una serie di 40 tavolette che rientrano nel testo di
medicina diagnostica babilonese, noto come Sikkiku, ed ogni tavoletta è l’equivalente
di un capitolo di un testo di medicina odierno.
La traduzione evidenzia che i babilonesi, come i loro contemporanei greci, erano
convinti che le manifestazioni epilettiche fossero opera di demoni o spiriti.
La parola “possedere” era equivalente a “prendere con violenza”. L’attacco aveva
inizio con l’aura, la quale poi si esauriva per lasciare posto all’acme della crisi, che
giungeva alla fine della fase tonica; la seguente fase clonica veniva considerata una
fase di liberazione e l’inizio dell’abbandono del corpo da parte del demone.
Anche l’argomento degli “spiriti” riceve attenzione nei testi babilonesi.
Gli spiriti popolano la notte, ed espressioni quali “catturato dagli spiriti” e “in mano
agli spiriti”, secondo Kinnier Wilson e Reynolds (1990), stavano ad indicare
l’epilessia notturna. Vengono individuati anche altri aspetti degli attacchi, ovvero
vengono osservati e registrati con precisione gli episodi di assenza, le deviazioni della
testa e degli occhi, gli automatismi semplici e complessi e molti altri “segni”
distintivi ed individuali del disturbo epilettico. Inoltre viene conteggiato il numero
delle convulsioni o possessioni che avrebbero potuto colpire il soggetto in un
determinato periodo, descritte le peculiarità delle crisi del lobo temporale, l’aura
epigastrica e le allucinazioni uditive (ronzii, fischi, soffi e tintinnii). Secondo la
credenza dell’epoca inoltre si riteneva il numero degli attacchi importante nell’ambito
di quella condizione che oggi chiamiamo stato epilettico. Sembra che sette o otto
attacchi fossero particolarmente pericolosi per la vita del paziente. In ambito
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terapeutico viene menzionato, insieme ad un’ampia varietà di farmaci, unguenti e
clisteri, anche il ricorso agli esorcismi.
Atreya, il padre della medicina indiana, definì l’epilessia “una perdita parossistica di
coscienza”, considerandola un disturbo mentale piuttosto che determinato da demoni
o spiriti. La terapia consisteva nel guarire dalle “impurità”, ritenute una delle cause
principali della malattia; pertanto, come primo approccio, venivano consigliati
clisteri, purghe e il vomito ripetuto. Tra gli altri rimedi, ad esempio, tre cortecce di
piante diverse, cotte nel burro sciolto nel latte acido cagliato, l’ingestione di parti di
animali ed anche di escrementi, utilizzati fino a tutto il Medioevo.
È interessante notare come già in queste epoche antiche fosse ben nota la natura
cronica della malattia e la sua resistenza alla terapia.
Il primo documento cinese conosciuto sull’epilessia appare nei “Classici di Medicina
interna dell’imperatore Giallo” che, come il Corpus Ippocratico, fu scritto da più
medici tra il 1770 e il 221 a.C.
La descrizione prende in considerazione soltanto le crisi generalizzate e denota la
difficoltà nel distinguere l’epilessia da alcune forme di malattie mentali, come la
psicosi e le manie.
La classificazione cinese delle crisi era complessa e colorita e si basava sul tipo di
grido emesso dal paziente, paragonato all’animale (capra, cavallo, maiale, mucca,
gallina o cane) che produceva un suono simile. La terapia era basata su una
combinazione di specifiche proporzioni dei due principi fondamentali dell’universo,
lo Ying e lo Yang; la salute dipendeva dalla condensazione dell’energia cosmica nel
corpo umano. La moderna medicina cinese fa uso di una varietà di erbe, oltre che
dell’agopuntura. Il medico Yang Meng Lang, nel 1983, ha inserito in un testo di
medicina tradizionale cinese alcune importanti indicazioni per il trattamento
dell’epilessia. Tra esse: i pazienti devono essere visitati il più spesso possibile,
l’osservatore deve dare una precisa descrizione della crisi e, infine, si devono
prendere in considerazione le problematiche riguardanti i fattori precipitanti e le
circostanze nelle quali si manifestano gli attacchi.
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3. L’epilessia nella cultura latina
Nella cultura medica latina si ritrovano diverse espressioni per definire l’epilessia.
Accanto al termine greco “male sacro” i Romani usavano la denominazione di
“morbus caducus” per sottolineare la debolezza del soggetto colpito che durante la
crisi cadeva a terra. Celso (I sec. d.C.) parlò di “morbus major”, per contrapporlo al
“morbus minor”, cioè l’isteria. Aureliano la chiamò “passio puerilis”, per la
frequenza con cui si manifesta nei bambini. Per sottolineare l’alone di
soprannaturalità ed il carattere demoniaco della malattia si parlava di “morbus
deificus”. Di questo avviso è pure Celio Aureliano (V secolo) che, pur dando prova
in molteplici occasioni di notevole serietà scientifica, definendo l’epilessia De
possessione, assume nei suoi confronti un atteggiamento mistico magico.
Plinio il Vecchio (I secolo) usò l’espressione di “morbus comizialis”, infatti se uno
dei presenti alle riunioni del popolo aveva una crisi, le assemblee venivano
immediatamente interrotte, ritenendo che ci fosse una cattiva predisposizione degli
Dei. Plinio, nel suo “naturalis historia”, consiglia come rimedio per il mal caduco
l’aglio, medicamento da sempre ritenuto efficace contro la malattia; ancora, lo sputo,
secondo l’eclettico autore, costituisce un rimedio per allontanare il malocchio e
quindi evitare il pericolo di essere colpiti dall’epilessia. L’idea che attraverso un
colpo d’occhio si potesse generare malattia era una credenza antica e diffusa già al
tempo di Plinio e sarà quella che più di tutte resisterà inalterata per millenni. Scrive il
Bonomo (1969): “La ragione precipua di un tale influsso dannoso, attribuito
all’occhio, va cercata nell’antichissima convinzione ch’ esso fosse la sede dell’anima
e che di questa riflettesse le passioni. Dall’occhio, quindi, può essere emanato un
fluido in grado di agire a distanza; sotto l’influsso di sentimenti malvagi il fluido,
carico di perniciose proprietà, diventa un mezzo potentissimo per nuocere a qualsiasi
persona, animale o cosa su cui si ferma lo sguardo”.
A Roma per secoli opererò una legge già del mondo greco; essa si fondava sulla
credenza che annusare fumi di corno o di becchi bruciati potesse determinare lo
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scatenarsi di una crisi convulsiva. Per tale motivo gli schiavi romani acquistati nelle
fiere erano obbligati ad odorare tali fumi e, nel caso in cui si fosse manifestata una
crisi, anche dopo sei mesi dall’acquisto, essi sarebbero stati restituiti al venditore, in
quanto considerati inadatti per le mansioni che avrebbero dovuto svolgere. Gli stessi
compagni, temendo di potersi contagiare con il respiro, allontanavano lo schiavo
epilettico.
Al pari di Ippocrate nella cultura greca, Galeno (129-216 d. C.) rappresenta una
grossa eccezione. Egli fornì un apporto notevole anche allo studio dell’epilessia,
elaborando una teoria capace di resistere per molti secoli.
Galeno pensava che, a livello dei ventricoli, può raccogliersi un umore denso e
vischioso che causa l’epilessia. Questa malattia può regredire spontaneamente con la
pubertà o con il sopravvenire di una febbre quartana, in quanto brividi, portando
calore al corpo, trasformano l’umore denso in fluido, eliminandolo. Per allontanare
l’umore nocivo si può ricorrere ai purganti o ai salassi, da eseguire in primavera.
Per controllare le crisi, che hanno inizio in genere agli arti, inoltre, Galeno
consigliava di applicare un tourniquet sul braccio, in modo da evitare che presunte
sostanze tossiche raggiungessero il cervello diffondendo l’epilessia in tutto il corpo;
nei casi più gravi viene riportata anche l’amputazione, come metodo più drastico di
terapia.
Galeno, infine, divise i segni premonitori in vari gruppi in rapporto alla natura
prevalentemente sensitiva, come ad esempio avvertire dei rumori nella testa, o
prevalentemente psichica, come l’impaccio dell’eloquio.
4. L’epilessia nel Medio Evo
Gli studi e le osservazioni sull’epilessia subirono un lungo periodo di stasi durante
tutto il Medio Evo, epoca in cui la spiegazione razionale dei fenomeni morbosi fu
abbandonata a favore di una concezione demonologica, che sembrava far ritornare la
medicina in epoca pre-ippocratica.
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In questo periodo gli epilettici erano considerati “posseduti dal demonio” e, dunque,
“contagiosi” per i propri simili. Questo fece si che si diffondessero ovunque pratiche
d’esorcismo molto violente (che spesso provocavano la morte dell’ammalato) e che il
fanatismo religioso condizionasse completamente il trattamento di questi particolari
pazienti. Non era infrequente inoltre che donne epilettiche rimaste incinte venissero
sepolte vive con la propria prole e che gli uomini fossero castrati.
Ovunque ed in mille forme può presentarsi il demonio, colpendo le singole parti del
corpo o generando malattie, soprattutto mentali. L’esorcismo diventa, così, l’unica
pratica terapeutica di cui si dispone per liberare il malato dalla possessione
demoniaca, mentre lo psichiatra assume il ruolo di demonologo, che si occupa dello
studio tutti i segni che la caratterizzano.
Nel 1478 Torquemada introdusse il tribunale spagnolo della Sacra Inquisizione che
divenne operante nel 1512. Inizialmente perseguitò, come in Spagna, i cristiani
giudaizzati, ma poi lo spietato tribunale cominciò a giudicare i bigami, i luterani, le
streghe, le fattucchiere, i possessi. Se per alcuni versi la medicina, con il ricorso
all’esperienza, favorita dalla crescente pratica chirurgica e dalla dissezione
anatomica, cercava di uscire da certi schemi, essa restò fortemente coinvolta dal
clima medievale che vedeva nel demonio la causa di molti mali, ed il ricorso a
pratiche esorcistiche diventò un fenomeno abbastanza diffuso anche nella medicina
ufficiale.
Viene codificata una serie di sintomi sotto il nome di “demonopatia”.
Nasce la necessità di separare il malato fisico da quello mentale, considerando
quest’ultimo come una vittima dell’intervento soprannaturale,
conforme agli
interessi politici ed economici dell’Inquisizione. Quest’indirizzo “scientifico” trova la
sua massima espressione nell’opera di Heinrich Institor e Jacob Sprenger del 1669,
“Malleus maleficarum” il più ampio trattato di vera e propria demonologia clinica.
Adesso l’uomo deve essere punito perché deliberatamente sceglie il male. Torture e
persecuzioni di vario tipo si abbatterono su migliaia di innocenti, tra cui anche gli
epilettici.
17
Circa le cause dell’epilessia nel Medioevo circolavano tre teorie che attribuivano la
malattia, rispettivamente, a forze soprannaturali, ad umori ed a sostanze tossiche o
irritanti.
Riguardo le cause soprannaturali, si arrivò all’introduzione di suppliche come: “O
demoni abbandonate il corpo di questo malato”, formula che ancora oggi viene
utilizzata in pratiche esorcistiche.
Fra le altre cause veniva considerato lo squilibrio tra gli umori, che si credeva fossero
quattro: il sangue (caldo ed umido), il flemma (freddo ed umido), la bile rossa (calda
ed asciutta), la bile nera (fredda ed asciutta).
Fattori responsabili di un’eventuale crisi epilettica, infine, potevano essere sostanze
irritanti o tossiche, così come le infezioni.
5. L’epilessia dal Settecento al secondo dopoguerra
Il pensiero illuminista del XVIII secolo consentì l’accesso a nuove conoscenze ed
ipotesi nel campo della malattia mentale, determinando anche un cambiamento di
atteggiamento nei confronti dell’alienato; tale tentativo di riabilitazione è
rintracciabile nell’opera di Pinel in Francia, di Tuke in Inghilterra e Chiarugi in Italia.
Nel 1793 il medico francese Pinel (1745-1826) entrò nell’ospedale di Bicetre per
compiere un atto a forte contenuto simbolico, la liberazione dei folli dalle catene.
In questo periodo l’epilessia, pur essendo compresa tra le turbe mentali, venne
tuttavia considerata ancora una malattia diversa dalle altre, per l’influenza di antiche
credenze e suggestioni che determinarono un rinforzamento dell’atteggiamento di
discriminazione nei confronti del soggetto epilettico.
Il periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento, è un epoca di avanzamento delle
conoscenze scientifiche che hanno investito, travolto, superato, mutato ogni
preesistente conoscenza nei vari campi delle scienze della natura e dell’uomo. È
l’epoca dell’affermazione di grandi teorie biologiche, come quella dell’ereditarietà e
dell’evoluzione.
18
Al passaggio tra l’Ottocento ed il Novecento, infatti, la conoscenza del cervello
umano, anche se rudimentale, era pressoché esaustiva. I neuroscienziati
dell’Ottocento hanno infatti prodotto una descrizione della morfologia e delle
funzioni delle maggiori strutture cerebrali, sostanzialmente corretta alla luce delle
acquisizioni odierne. Durante questo periodo, infatti, si vede l’inizio dello studio
fisiologico sperimentale del cervello e la scoperta della sua struttura microscopica,
aprendo la strada a nuove concezioni del rapporto fra l’organo del pensiero e la
mente.
Ci si è definitivamente resi conto che il cervello, in particolare la sua corteccia, è
l’organo fondamentale che l’uomo possiede.
Sulla corteccia cerebrale si proiettano gli stimoli provenienti dal mondo esterno, nella
corteccia sono elaborate ed attivate le azioni che compiamo quotidianamente. Il
cervello, rispetto ai secoli passati, non è più considerato esclusivamente oggetto di
controversie filosofiche e scientifiche.
Le manifestazioni della malattia erano chiaramente note, tutti i trattatisti riconobbero
una serie di cause in grado di scatenare le crisi o di modificarne il decorso, anche se
l’intima natura del morbo continuava a sfuggire. La comprensione dei meccanismi
neurologici che portano all’epilessia prese veramente corpo solo alla fine
dell’Ottocento quando i principi organizzativi del sistema nervoso vennero
chiarendosi per la convergenza degli studi sulla struttura e la funzione della cellula
nervosa e sull’attività integrativa dei grandi sistemi cerebrali.
Grazie agli studi sulle localizzazioni delle funzioni motorie a livello della corteccia
cerebrale, e quelli degli effetti della stimolazione corticale con correnti elettriche,
cambiò radicalmente la conoscenza del sistema nervoso centrale.
Le conoscenze scientifiche in questo campo hanno portato a un vero e proprio
cambiamento del nostro vissuto e della percezione che l’uomo ha del proprio corpo.
Le cause interpretative del male erano spesso contraddittorie fra loro.
Soprattutto durante l’Ottocento l’epilessia è una terra di confine. Da una parte si
svilupparono le teorie organiciste, basate sulle acquisizioni derivate dallo studio
19
strutturale del sistema nervoso centrale; dall’altra si è dibattuto sulle manifestazioni
patologiche e psichiche della malattia. L’epilessia non è solo una malattia del cervello
oppure, più in generale, che si manifesta con disturbi provocati nel cervello da un
disequilibrio organico. Secondo alcune interpretazioni l’epilettico e il malato mentale
in generale, rappresentano il prodotto di una tendenza atavica alla morbosità, alla
degenerazione fisica e psichica. Per sostenere tale tesi si è fatto ricorso alle maggiori
teorie della storia della biologia che venivano delineandosi proprio nella seconda
metà dell’Ottocento, come quella dell’evoluzione e dell’ereditarietà, da cui
derivarono la teoria della degenerazione morale1 e dell’eugenetica2.
Dopo i primi studi scientifici del secolo del francese Bravais del 1827, fu Jackson che
nel 1861 affermò, con la sola osservazione clinica, che la crisi epilettica dipende da
“una scarica occasionale, improvvisa, eccessiva e rapida, localizzata nelle cellule
nervose della materia grigia”. Jackson sosteneva che il danno psichico non fosse tanto
determinato dalla gravità e dalla frequenza degli episodi comiziali, quanto da
ricondurre a quel quadro nosografico chiamato “piccolo male”, caratterizzato da
Il vero ideatore dell’ipotesi della degenerazione fu Bènèdict-Augustin Morel (1809-1873), nato a Vienna da genitori
francesi. La teoria della degenerazione aveva carattere sia psichiatrico che antropologico-sociologico; dai caratteri al
tempo stesso religiosi e scientifici. La sua definizione generale è la seguente: “Le degenerazioni sono deviazioni
patologiche della tipologia umana normale, sono trasmissibili in via ereditaria e si sviluppano in maniera progressiva
fino a provocare la scomparsa di chi ne è affetto”. Morel aveva lavorato a questo problema a partire dal 1839 ma ne
diede formulazione definitiva solo nel 1857 nel suo Traitè des dègènèrescences physiques, intèllectuelles et moralès de
l’espèce humaine. La degenerazione poteva secondo Morel insorgere attraverso: 1. avvelenamento, 2. l’ambiente
sociale; 3. un temperamento patologico; 4. una malattia morale; 5. danni innati oppure acquisiti e 6. l’ereditarietà. La
degenerazione obbediva alla cosiddetta legge della “pregressività”, ovvero se per esempio la prima generazione di
malati era affetta solo da comune nervosismo, la seconda sarà affetta da nevrosi, la terza da psicosi più gravi fino alla
completa cancellazione della stirpe malata. Sulla base della sua teoria della degenerazione Morel effettuò una nuova
classificazione delle malattie mentali, evidenziandone il carattere eziologico più che sintomatologico. Strettamente
legato al problema della degenerazione è la discussione, molto in voga all’epoca, sulla connessione tra genio, follia e
delinquenza. Secondo Morel e Magnan (medico francese) per i delinquenti, i geni e i malati mentali entrava in gioco la
stessa disposizione costituzionale e in tutti e tre i casi si trattava naturalmente di degenerazione. Lo psichiatra italiano
Cesare Lombroso riprese in mano questo problema nel suo libro L’uomo delinquente del 1870, dando così inizio
all’”antropologia criminale”. In questo libro egli considerava i criminali una forma di razza primigenia sopravvissuta
alla selezione naturale.
2
Negli anni sessanta dell'Ottocento l'eugenetica venne portata in auge da Francis Galton (cugino di Charles Darwin)
che teorizzò il miglioramento progressivo della razza secondo criteri analoghi a quelli dell'evoluzione biologica.
Sosteneva necessario un intervento delle istituzioni per questo fine, mediante l'incrocio selettivo degli adatti. Galton
ideò anche il termine, traendolo dal greco classico. Specialmente in Inghilterra ed in Germania, questa teoria ebbe
grande successo, grazie anche alla forte impostazione positivista della scienza e all'ideale imperante di progresso della
civiltà.
1
20
frequenti e brevi assenze, interruzioni della coscienza, sensazioni vertiginose.
L’autore si riferiva a quelle che sono definite “crisi psichiche o assenze temporali,
alquanto simili, che differiscono però dal piccolo male puro; tale differenza potè
essere chiarita solo con l’introduzione dell’elettroencefalogramma.
Jackson fornì la prima definizione scientifica della malattia: “scariche occasionali,
improvvise, eccessive, rapide e localizzate di sostanza grigia”. Come già sostenuto da
Ippocrate, egli ritenne che la causa delle crisi fosse un deficit nutritivo cellulare;
descrisse l’epilessia motoria, per questo chiamata anche jacksoniana, e le crisi
uncinate. L’autore fornì anche una spiegazione dell’origine delle crisi generalizzate
che si sarebbero manifestate quando fosse stato colpito “l’organo della mente” (in
particolare la corteccia frontale e prefrontale), substrato anatomico della coscienza.
La descrizione delle crisi uncinate, e quindi delle crisi psichiche come manifestazioni
epilettiche a pieno titolo, pose il problema di stabilire se alterazioni dell’umore o
disturbi affettivi, comportamenti automatici o esperienze psichiche potessero
manifestarsi in assenza di una crisi epilettica o se dovessero essere considerati solo
come una conseguenza della patologia, come sostenuto da Jackson.
Venne così utilizzato il concetto di “equivalente” per spiegare alterazioni
comportamentali o psichiche intercritiche; in seguito si parlò di
“equivalente
psicomotorio”.
Gli studi di Jackson permisero di porre le basi neurofisiologiche per la comprensione
della scarica epilettica e per la nascita della chimica di sintesi, quindi per la terapia
dell’epilessia. Difatti nel 1912 Hauptmann introdusse in terapia il fenobarbitale, un
composto con un’attività anticonvulsivante intensa e poco tossico.
Intorno alla metà del XIX secolo esistevano in psichiatria due concezioni contrastanti
riguardo alla natura delle turbe mentali. La prima di queste si riallacciava al pensiero
di Sydenham ed ai sistematici del XVIII secolo e prevedeva un elevato numero di
entità morbose, considerate come discrete, che vennero incluse dai diversi Autori in
classificazioni molto elaborate. Con il passare del tempo si cercò di ridurre le diverse
entità patologiche a pochi tipi principali; Kraepelin nelle sue prime edizioni del
21
“Trattato di Psichiatria” (1883) fece rientrare l’epilessia tra le nevrosi generali,
assieme alla nevrastenia e all’isteria. L’opera dell’autore diverrà nota con la sesta
edizione, quando ancora era previsto questo tipo di classificazione. Tuttavia
nell’edizione successiva per l’epilessia fu elaborata una categoria a parte, distinta sia
dalle personalità psicopatiche che dalle malattie mentali di origine costituzionale.
L’altra concezione della malattia mentale dell’epoca non prevedeva la presenza di
entità discrete e differenziate; tutti i disturbi mentali erano riconducibili ad un’unica
malattia che poteva però esprimersi in diversi livelli di gravità; il deterioramento
maggiore era rappresentato dalla demenza.
Seguendo questa linea di pensiero l’epilessia viene considerata sia come un fenomeno
regressivo, sia come un fenomeno di disintegrazione, venendo a mancare il controllo
da parte dei centri superiori.
In Italia, Cesare Lombroso (1835-1909), istituì una scuola scientifica di antropologia
criminale. Egli pubblicò il suo testo “Genio e Follia”, e con estrema audacia definì il
genio non altro che una forma larvata di epilessia, che parve a molti una teoria
esagerata. Lombroso introdusse il concetto di “delinquente epilettico”, ritenendo con
questo che il soggetto affetto da epilessia avesse molto in comune con il folle morale
e con il delinquente. Nella sua classificazione incluse anche la “psicosi epilettoide del
genio”, sostenendo che gli epilettici presentavano molte delle caratteristiche tipiche
degli uomini di genio. Egli cosi scriveva: “Solo gli epilettici possono abbracciare,
come i folli morali ed i criminali, sotto una forma clinica eguale, una divergenza
intellettuale enorme che va dal genio fino all’imbecillità” (Lombroso C., 1924).
A suo parere gli epilettici sono “bigotti con Dio per la lingua, ma hanno il pugnale
nel cuore. Essi mostrano la tendenza al vagabondaggio, l’amore per le bestie e
l’oscenità”.
Lombroso sostiene anche la precocità sessuale di questi soggetti affermando: “Io ho
veduto tendenze sessuali nei fanciulli epilettici di quattro anni, e, caso unico, in uno
che la madre vide in erezione e sfregamento osceno fra le sue mammelle ad una anno
di età.”
22
L’opera di Lombroso mostra una preconcetta impostazione ideologica che vede
nell’epilettico l’espressione della massima devianza, in assenza di qualunque tipo di
comprensione del vissuto di questi soggetti.
Non possiamo separare il contributo della psichiatria da quello della neurologia
poiché, in merito all’epilessia, le scoperte fatte in un campo influenzarono il pensiero
e l’orientamento della ricerca dell’altro; in alcuni casi i teorici avevano una
formazione sia psichiatrica che neurologica.
L’esperienza maturata nei reparti ospedalieri, nei laboratori e negli studi privati portò
ad una maggiore considerazione degli aspetti neurofisiologici.
Diversi autori si interessarono di casi in cui i soggetti apparivano del tutto normali dal
punto di vista psichico; così nel 1861 Russel Reynolds, ponendosi in netta
contrapposizione con la teoria sostenuta da Morel, affermò che circa il 40% dei
soggetti da lui analizzati non mostrava alcun deficit mentale. Sulla base del fattore
etiologico egli distinse, per la prima volta, le epilessie primarie in idiopatiche o
essenziali o criptogenetiche, alla cui origine vi era un fattore genetico, e secondarie o
sintomatiche in cui vi era l’intervento di un fattore lesionale.
Anche per Gowes (1907) la maggior parte dei soggetti epilettici era psichicamente
normale ed i riferimenti a disturbi psichici erano molto limitati. Egli potè osservare
che gli epilettici con deficit mentali presentavano delle crisi con una frequenza
maggiore rispetto agli altri e l’intervallo tra le crisi stesse era più ridotto.
Tra i principali studiosi del fenomeno epilettico degno di nota è lo studioso B.A.
Morel. Egli nel 1857 elaborò la “teoria della degenerazione” che ebbe un’influenza
determinante in psichiatria per molto tempo.
Secondo tale teoria l’epilessia, come le altre malattie mentali, era causata da un tratto
degenerativo, progressivo, ereditario, destinato a diventare sempre più grave con il
succedersi delle generazioni e che avrebbe infine portato ad un quadro di idiozia con
cui il tratto stesso si sarebbe cancellato.
La follia conclamata, l’epilessia, la debolezza del carattere, i difetti morali,
l’insufficienza mentale costituivano delle prove di tale degenerazione; inoltre era
23
possibile identificare dei segni fisici, come, ad esempio, la conformazione degli
orecchi, indicativa della degenerazione.
Morel parlò anche di “epilessia larvata”, entità nosografica che comprendeva forme
di epilessia che si manifestavano “coi segni della follia” e non necessariamente in
connessione con il fenomeno convulsivo.
La teoria degenerativa di Morel raccolse molti consensi ed il soggetto epilettico
venne considerato il “degenerato” per eccellenza.
In Inghilterra Maudsley (1873) nel suo libro “Body and mind” scrisse: “Morel ha
fatto fondate ed interessanti osservazioni sul fatto che la nevrosi epilettica può
esistere per lungo tempo sotto forma embrionaria o mascherata, manifestandosi non
con convulsioni ma con attacchi periodici di mania o con estrema perversione
morale, da considerare come immoralità ostinata”. La nevrosi epilettica certamente
è maggiormente affine alla nevrosi psichica, e quando esiste in forma mascherata con
interessamento psichico prima dell’insorgenza delle crisi è molto difficile da
riconoscere; e lo è ancor di più quando l’epilessia o la follia di un genitore possono
provocare rispettivamente la nevrosi psichica o quella epilettica nel bambino. Una
caratteristica che accomuna la nevrosi psichica a quella epilettica è la tendenza a
tradursi in esplosioni di violenza. I maggiori sostenitori della teoria di Morel
sull’epilessia furono L. Pierce Clark in America e Stauder in Germania.
Il primo, nel 1917, introdusse il concetto di “personalità epilettica”, elaborato sulla
base della sua esperienza con epilettici cronici rinchiusi in istituti; secondo l’autore
essa, al pari delle crisi, avrebbe trovato una spiegazione nell’assetto psicopatico
ereditario costituzionale del paziente. Nel 1938 Stauder portò a sostegno della teoria i
risultati del test di Rorschach.
Nei primi decenni del Novecento, nel frattempo, si assiste anche ad un eccezionale
passo avanti nelle indagini diagnostiche grazie al tedesco Berger che, nel 1921,
ottenne la prima registrazione dell’attività elettrica celebrale nell’uomo.
L’influenza del pensiero di Morel si può ancora ritrovare nel nostro secolo.
24
Nel 1930 William Osler, nel “Textbook of medicine”, riprende la descrizione data da
Pierce Clark della personalità epilettica che si caratterizza per “egocentrismo,
ipersensibilità, povertà emozionale, intrinseca mancanza di adattabilità alla vita
sociale”.
Si deve a Minkowska (1932) la descrizione accurata della “personalità epilettica”3.
Caratteristica principale dell’ “epilettoidia” è un’organizzazione caratteriale bipolare
con oscillazioni tra bradipsichismo, bradicinesia e perseverazione, ad un polo, e
impulsività, con esplosioni di ira e violenza incontrollata, dall’altro.
Quest’organizzazione degli aspetti istintivo-affettivi determinerebbe nel soggetto
un’incapacità di stabilire un adeguato rapporto empatico con gli altri, una dimensione
affettiva priva di dinamismo, vischiosa ed adesiva; l’ideazione e la motricità
sarebbero lente, mentre il soggetto vivrebbe in un mondo rigido, dai confini ristretti,
ordinato con meticolosità e pedanteria.
Questo modo di rapportarsi all’epilessia ha determinato un duplice ordine di
conseguenze ancora rintracciabili nel nostro secolo: da una parte il paziente epilettico
acquista uno status particolare in quanto è un uomo che, a differenza degli altri, è
predestinato ad essere folle e cattivo, colto da improvvisi attacchi di violenza, forse
anche un assassino, e, di certo, depravato moralmente. Egli è quindi incapace di
adattarsi alle esigenze della vita sociale e forse condannato ad un deterioramento
intellettivo, morale e sociale, irreversibile.
In secondo luogo, tutte le manifestazioni comportamentali e gli atteggiamenti psichici
tipici degli epilettici erano spiegati con la teoria della nevrosi epilettica, per cui
diventava superfluo ricercare altre possibili cause.
3
La personalità epilettica, secondo Minkowska, era caratterizzata da egocentrismo, ipocondria, religiosità bigotta, ed
impulsività aggressiva. Nel 1932 essa stessa introdusse il termine “epilettoide” per indicare una personalità
caratterizzata da due poli: l’adesività e la vischiosità, da un lato, e l’esplosività dall’altro.
25
Con il convegno della Società di Fisiologia a Cambridge ha inizio l’era moderna in
cui un ruolo centrale è giocato dall’utilizzo dell’elettroencefalogramma nell’uomo,
strumento diagnostico scoperto all’inizio del secolo da Hans Berger (1924)4.
Molti furono gli studi portati avanti sull’epilessia prima e durante la seconda guerra
mondiale, comunque riconducibili a due filoni principali: quelli di Harvard condotti
da Lennox e Gibbs (1934) e quelli di Montreal portati avanti da Jaspers, Erickson e
Penfield (1941).
Progressivamente le metodologie usate nei due diversi laboratori scientifici sono
diventate sempre più simili, portando anche a simili conclusioni. La scoperta più
importante riguarda la correlazione tra la localizzazione cerebrale del focus epilettico
e la natura ed il carattere delle crisi.
Nel 1949 venne elaborato il concetto di epilessie temporali, comprendenti, tra le altre
forme, anche le crisi uncinate. Grazie all’ausilio dei reperti elettroencefalografici si
potè distinguere il “piccolo male puro”, definito da Penfield (1891-1976) “epilessia
centroencefalica”, dall’epilessia corticale focale, comprendente anche l’epilessia
temporale.
L’esperienza con i pazienti epilettici istituzionalizzati portò ad attribuire i deficit
intellettivi e neurologici alla patologia cerebrale diffusa e l’epilessia fu considerata
proprio come una conseguenza di queste lesioni gravi.
Altri soggetti mostrarono invece psicosi allucinatorie paranoidi e croniche, descritte
nel 1963 da Slater ed altri autori e chiamate “schizofrenosimili”.
Da varie parti si sostenne che una delle cause principali della manifestazione
convulsiva fosse da rintracciarsi nell’alcolismo cronico, riscontrato in almeno la metà
dei casi degli epilettici folli.
4
Nell'anno 1924 Hans Berger ha costruito il primo elettroencefalografo (EEG), l'impianto per la registrazione elettrica
nella forma grafica dell'attività di cervello, misurata sulla superficie della testa. Facendo le registrazioni al proprio
figlio, Berger ha osservato i cambiamenti ritmici del potenziale della frequenza di 10 Hz. Quest'attività, dominante nello
stato di rilassamento, viene definita come onde Alfa (8-13 Hz). Le ricerche seguenti hanno condotto ad individuare
nell'attività del cervello le altre specie di onde, legate ai rispettivi stati della coscienza: onde Delta, che compaiono nel
sonno più profondo; onde Theta, dominanti, sopratutto, nel sonno, ma anche presenti, per esempio, durante immagini
particolarmente realistiche; onde Beta tipiche della persona adulta nella sua attività giornaliera.
26
Altri autori rinvennero nel paziente epilettico condizioni psichiche seriamente
compromesse notando come molti sintomi critici, quali stati simil-crepuscolari,
automatismi, crisi maniacali, portassero il soggetto ad esplosioni di violenza che
potevano culminare anche nell’omicidio. Nel 1950 A. L. Lewis scriveva che “i modi
impulsivi, presuntuosi, adulatori o collerici di alcuni epilettici possono essere
considerati in gran parte come un’espressione variabile della loro predisposizione
costituzionale (alla quale sono verosimilmente dovute le crisi motorie) e in parte
come reazione situazionale”.
Tale autore introdusse anche il concetto di “equivalenti epilettici”, manifestazioni
cliniche che possono sostituirsi alla convulsione, quali manifestazioni di furore, stato
crepuscolare, fuga con amnesia dell’evento.
Nello stesso anno Henderson riprendeva la sua descrizione dei tre tipi principali di
disturbi psicopatici; uno dei sottotipi del gruppo comprendente soggetti aggressivi
era proprio il carattere epilettoide.
L’epilettoidismo, compreso tra le psicopatie, poteva portare ad un’alterazione della
coscienza, definendo, in tal caso, l’epilessia come psichica o affettiva (quadro che
aveva anche delle implicazioni medico-legali).
Il concetto di “devianza epilettica” è dominante negli anni ’50 sia nella cultura
scientifica che nell’opinione pubblica. Per lo psichiatra francese Ey “l’epilessia
sembra sconvolgere la struttura psichica dell’essere. È nell’ambito di questo
sconvolgimento che l’aggressività e la criminalità virtuale sembrano occupare un
posto centrale”.
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6. Personaggi famosi affetti da crisi epilettiche
La storia dell’umanità è ricca di personaggi famosi affetti da epilessia (Tab. 1).
Tra i più noti ricordiamo Giulio Cesare (100-44 a.C.), dittatore e generale romano.
Di lui lo scrittore greco Plutarco (75 d.C.) riferisce infatti che era sofferente di mal di
testa e soggetto ad epilessia, mentre il romano Svetonio (119 d.C.) racconta che
godeva di eccellente salute, ad eccezione del fatto che verso la fine della sua vita fu
soggetto ad improvvisi svenimenti, oltre a disturbi del sonno. Quindi, stando a
quest’ultimo autore, la malattia di Cesare compare tardivamente il che fa supporre
che sia acquisita e non ereditaria, nonostante il fatto che esistesse una familiarità per
le crisi epilettiche: suo figlio Cesarione, avuto da Cleopatra, ne soffriva già
nell’infanzia come altri discendenti più lontani, quali Caligola e Britannico.
Tra i personaggi affetti da epilessia si annovera Maometto, nato nel 570 e deceduto
nel 612 d.C. in seno ad una povera famiglia, da padre pagano e madre ebrea.
Si narra che, vivendo lo stato di “Morbo sacro”, seppe giovarsi di questa sua
infermità per confermare la religione da sé inventata. Egli affermò che quelle
frequenti cadute non erano altro che rapimenti, che gli davano la possibilità di tenere
colloqui con l’Arcangelo Gabriele.
Altro personaggio epilettico fu il Sommo Poeta Dante Alighieri (1265-1321) sul
quale il criminologo Cesare Lombroso si soffermò notando che: “Nell’Inferno sono
frequenti le cadute, come è proprio degli epilettici. Nel Purgatorio predomina la
forma delle visioni, com’è proprio de’ sonnambuli; nel Paradiso l’estasi, com’è
proprio degli allucinati”. Qual è la conclusione secondo Lombroso? Egli dedusse che
il Sommo Dante viveva spesso uno stato nevrotico o patologico, analogo a quello
dell’epilettico. L’originale medico così scrive dell’ artista: “come se il divino poeta
realmente fosse stato all’altro mondo in ‘anima e corpo’; in altre parole “scambia
un lavoro d’arte o di fantasia con la realtà della vita”. Anche Francesco Petrarca
(1260-1338) fu un soggetto epilettico, ma la sua malattia si manifestò solo dopo i 70
anni, forse a causa di una vasculopatia.
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Un altro personaggio che visse lo stato di epilessia fu Giovanna D’Arco, la “Pulzella
d’Orléans”. Questi nacque nel 1412 e passò ad altra vita nel 1450. A 13 anni
cominciò a sentire una voce divina che le indicava la strada da seguire nella vita. In
seguito continuò a sentire delle voci. Quella che la storia ricorda è la frase:”Il Regno
di Francia può essere salvato”. Essa si riferiva al fatto che soltanto grazie all’
intervento di un re, la Francia si poteva salvare. Pare che nessuno gli abbia dato
ascolto e fu per questo che gli inglesi con Enrico V sconfissero i francesi.
Tra gli epilettici ricordiamo anche il Beato Amedeo IX e Duca di Savoia (14351472), che non soffrì solo d’epilessia, ma era anche debole ed indeciso. Avrebbe
infatti desiderato di diventare monaco preferendo le preghiere e l’ascetismo al
governo, ove occorreva troppa responsabilità.
Martin Lutero (1483-1546), religioso che aprì le porte al protestantesimo, fu
anch’egli sofferente del mal caduco. Intorno al 1500, nei suoi “Detti Conviviali”,
scrisse: “È meraviglioso come Dio abbia messo tante virtù nel vile letame. Noi
sappiamo per esperienza che lo sterco di maiale regola il sangue, quello di cavallo
serve per la pleurite, dell'uomo guarisce le ferite e le pustole, di mucca, con le rose,
serve per l'epilessia e le convulsioni del bambino”.
Altro personaggio affetto da epilessia fu l’Imperatore di Spagna Carlo V (1500 1558) anche lui schiavo del “Morbus Sacer”. Egli trascorreva ore in canto e in
preghiera nel coro della chiesa. Soffrì di vari malanni da non essere capace,
addirittura, neanche di fare la sua firma. I terribili disturbi psichici si presentarono in
lui sin da giovane. Infatti, a 19 anni, mentre ascoltava la messa a Saragozza, cadde a
terra privo di sensi; si racconta che rimase così per ore con un forte pallore in volto.
Fra i “Geniali epilettici” non si dimentica lo scrittore dell’Orlando Furioso, Torquato
Tasso, vissuto dal 1544 al 1595. La sua opera più importante e conosciuta è la
Gerusalemme liberata, scritta nel 1575, in cui vengono descritti gli scontri tra
cristiani e musulmani alla fine della Prima Crociata, durante l'assedio di
Gerusalemme.
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Altro malato sofferente di epilessia fu il pittore Michelangelo Merisi, detto il
Caravaggio, (1571-1610). Un altro interessante malato di “mal caduco” fu il Jean du
Plessis Richelieu, che visse dal 1585 al 1642 i cui primi passi non furono fortunati.
Infatti, Alberto di Luynes, il favorito del giovane re Luigi XIII°, provocò la disgrazia
della regina madre, Maria de’ Medici, che aveva notato il Richelieu e ne aveva
favorito la nomina a Segretario di Stato. Così lasciò Parigi e si ritirò ad Avignone,
dove si immerse in studi di teologia.
Altri personaggi furono il rappresentatore teatrale Jean-Baptiste Poquelin,
denominato Moliére (1621-1673) e Pietro il Grande, zar di Russia (1672-1725).
Un’altra grande personalità che s’inserì nell’elenco dei malati di epilessia, veramente
degna di nota, fu quella del musicista Antonio Vivaldi, vissuto dal 1678 al 1741. La
sua malattia lo tormentò per tutta la vita, oltre al rachitismo, tisi, angina pectoris e
asma bronchiale. Malanni in genere molto comuni, soprattutto i disturbi
broncopolmonari, a chi soffriva d’epilessia. Il giovane si presentava molto nervoso ed
aveva più a cuore la musica che la liturgia. Un giorno mentre diceva messa,
essendogli venuto in mente il tema di una fuga, abbandonò l'altare per scriverlo sulla
partitura e poi tornò ad officiare come se nulla fosse accaduto. Il fatto però fu preso in
considerazione e quindi denunciato all'Inquisizione, che però lo giudicò come un
musicista, cioè come un pazzo, e si limitò a proibirgli di dire messa in futuro.
Tra i soggetti epilettici si può annoverare anche Papa Pio IX (1792-1878) , il quale fu
definito il Papa della Croce poiché il suo pontificato fu tutto un calvario, dal primo
all’ultimo giorno. In realtà, fin dai più teneri anni d’età, mentre stava per affrontare
gli studi ecclesiastici, presentò lo stato d’essere “epilettoide”. Infatti molti studiosi
erano certi che soffrisse d’epilessia, dato che non poteva vivere una vita normale,
soprattutto perché con poca memoria, ma questo non fu il caso del papa al quale si
poteva ipotizzare che a causa di questa malattia, non avrebbe potuto accedere
all’applicazione degli studi teologici, ne fare una vita normale. Non fu però così
poiché scelse, in modo definitivo, la via del sacerdozio. Fu da allora che non vide più
infranti d’un colpo tutti i suoi sogni, ma anzi, poté constatare che in lui erano presenti
30
delle forze per concretizzare un avvenire molto luminoso. Egli fu infatti santificato
nel 2000 da Papa Giovanni Paolo II.
Non va dimenticato il famoso scrittore russo Fedor Michajlovic Dostoevskij
sofferente d’epilessia e tubercolosi (1821-1881).
Fa parte dei “Grandi epilettici” anche lo svedese, creatore dell'omonimo premio,
Alfred Bernhard Nobel, chimico industriale e filantropico, vissuto dal 1833 al 1896,
che, dopo essersi interessato per una vita d’esplosivi, riuscito ad accumulare
un’enorme ricchezza con brevetti e varie
invenzioni, destinò la cifra alla
“Fondazione Nobel”.
Il pittore Van Gogh (1853-1890), infine, fu curato con la digitale per guarire
dall’epilessia; e fu grazie a questo farmaco, che blocca la xantopsia, cioè un disturbo
visivo provocato da sostanze tossiche, che ebbe una visione gialla del mondo che
visse un periodo in cui dipingeva soprattutto di giallo.
Questa la vita di alcuni grandi uomini che, pur attraverso la loro sofferenza,
riuscirono a portare a termine disegni inaspettati.
31
Tab. 1 – Principali personaggi epilettici della storia
Pitagora
575–495 a.C.
Matematico
Giulio Cesare
100-44 a.C.
Dittatore e generale romano
Alessandro Magno
356-323 a.C.
Re di Macedonia
Maometto
570-612
Religioso
Dante Alighieri
1265-1321
Scrittore e Poeta italiano
Francesco Petrarca
1260-1338
Scrittore e Poeta italiano
Giovanna D’Arco
1412-1450
Patriota francese
Beato Amedeo IX
1435-1472
Religioso
Martin Lutero
1483-1546
Religioso
Carlo V
1500-1558
Imperatore di Spagna
Torquato Tasso
1544-1595
Scrittore e Poeta italiano
Caravaggio
1571-1610
Pittore italiano
Jean du Plessis Richelieu
1585-1642
Segretario di Stato francese
Moliére
1621-1673
Rappresentatore teatrale
Pietro il Grande
1672-1725
Zar di Russia
Antonio Vivaldi
1678-1741
Musicista italiano
Papa Pio IX
1792-1878
Religioso
Fedor Michajlovic Dostoevskij
1821-1881
Scrittore russo
Alfred Bernhard Nobel
1833-1896
Chimico industriale svedese
Van Gogh
1853-1890
Pittore olandese
32
CAPITOLO SECONDO
PSICOPATOLOGIA DELL’EPILESSIA: ASPETTI
COGNITIVI COMPORTAMENTALI E RELAZIONALI
AD ESSA CONNESSI
1. Le conoscenze contemporanee
Vengono definite epilessie delle sindromi cerebrali croniche, caratterizzate dalla
presenza di crisi epilettiche. Le crisi epilettiche sono delle crisi cerebrali dovute alla
scarica ipersincrona di un gruppo di neuroni. Le manifestazioni accessuali sono
secondarie alla repentina alterazione dell’equilibrio del potenziale di membrana dei
neuroni che provoca una depolarizzazione rapida e prolungata della membrana
cellulare. La cronicità differenzia in modo sostanziale le epilessie dalle crisi
epilettiche occasionali, che possono costituire eventi isolati nel corso della vita.
Convulsioni possono presentarsi nel corso di malattie congenite o acquisite del
sistema nervoso, o come complicanze di malattie sistemiche (Roccella M., 2007).
La denominazione di epilessia deriva dal greco “epilambanein” per esprimere
l’aspetto tipico della crisi epilettica, ovvero il “cogliere di sorpresa” l’individuo che
ne è affetto.
È stato stimato che il 5% della popolazione abbia presentato una crisi epilettica
durante la vita. Attualmente si ritiene che l’epilessia non sia una malattia ma un
gruppo di disordini, ognuno con la propria eziologia ed evoluzione clinica.
Dal punto di vista eziologico le epilessie vengono classificate come idiopatiche (dal
greco idios che significa proprio, personale, non derivabile da altro), criptogenetiche
(la cui causa non si riesce a dimostrare con le attuali tecniche diagnostiche) e
33
sintomatiche (la cui causa è nota). Queste ultime sono imputabili ad una sofferenza in
epoca prenatale, perinatale o postnatale (Roccella M., op. cit.).
Esistono alcune situazioni in cui l’epilessia si associa con maggiore o minore
frequenza ad aspetti malformativi multipli.
Dal punto di vista fisiopatologico il meccanismo che produce la scarica epilettica è lo
stesso sia nei soggetti con epilessia idiopatica che in quelli con epilessia sintomatica.
Durante l’età evolutiva le epilessie si differenziano in maniera notevole da quelle
dell’adulto. Ciò trova spiegazione nelle caratteristiche anatomofisiologiche
dell’encefalo del bambino. Il cervello infantile presenta, infatti, una maggiore
tendenza a convulsivare rispetto a quello dell’adulto, anche per una inadeguatezza dei
meccanismi inibitori (Gaba, glicina), ed inoltre per squilibri idroelettrolitici, ipossia,
ipoglicemia, intossicazioni, ipertermia. La rapida maturazione delle sinapsi
assodendritiche di tipo eccitatorio rispetto alle connessioni inibitorie facilita
l’insorgere di manifestazioni parossistiche nel bambino al di sotto dei tre anni.
Vengono definite generalizzate le sindromi e le epilessie nelle quali la modificazione
clinica indica che fin dall’inizio vi sia stato un coinvolgimento di entrambi gli
emisferi; in questo caso la scarica origina dalle strutture mediane del cervello e si
diffonde all’interno del SNC (Roccella M., op. cit.).
Nelle epilessie e sindromi parziali la scarica può limitarsi ad un’area corticale
specifica rimanendo circoscritta ad un’area del cervello; se durante la crisi lo stato di
coscienza non è compromesso parleremo di crisi parziali semplici o elementari. Nelle
crisi parziali complesse viene sempre compromesso lo stato di coscienza.
Alcune epilessie sono resistenti ai trattamenti farmacologici.
A volte le crisi epilettiche sono abbastanza prolungate e ripetute ad intervalli brevi da
provocare uno stato di male epilettico. Fanno parte della clinica delle epilessie i
disturbi psicopatologici che possono essere distinti in base al momento della loro
insorgenza e alla loro durata. I primi vengono classificati in pre-critici, critici, postcritici ed intercritici, i secondi in parossistici, episodici, permanenti ed evolutivi
(Roccella M., op. cit.).
34
Il disturbo pre-critico va distinto dall’aura, e sembra ricorrere maggiormente prima
delle crisi di grande male ; la sintomatologia prodromica è caratterizzata da disturbi
vegetativi
sintomi somatici e disordini di tipo emotivo-affettivo (ipotimico e/o
ipertimico). La sintomatologia psichica critica è parte integrante della semeiologia
delle stesse crisi; essa si presenta in modo differente a seconda del tipo di crisi. La
coscienza è totalmente abolita nelle crisi generalizzate convulsive ed in molte di
quelle non convulsive e parziali complesse. L’entità della degradazione dello stato di
coscienza è più rilevante nelle crisi parziali complesse che offrono una maggiore
varietà di disturbi psichici: crisi allucinatorie plurisensoriali, mnesiche, emotivoaffettive, disturbi del pensiero, stati confusionali.
Nelle crisi parziali semplici la componente psichica è strettamente legata alla
funzione senso-percettiva dell’area coinvolta; in questo caso il soggetto ha anche la
possibilità di osservare la fenomenologia critica.
Le sindromi psichiche post-critiche possono durare giorni o mesi; la vigilanza è in
genere buona anche se la coscienza può essere occupata dai contenuti della psicosi.
Clinicamente le sindromi psichiche post-critiche sono di tipo distimico o di tipo
confuso delirante con comportamenti a volte violenti o aggressivi.
Le alterazioni psicopatologiche persistenti o intercritiche sono sindromi episodiche,
stabili o con carattere evolutivo. Vengono così definite in quanto non sembrano avere
un rapporto temporale significativo con la crisi ed interessano l’intelligenza e la
personalità.
I disturbi della personalità possono manifestarsi con sindromi emotivo-affettive,
sindromi schizofrenosimili, disordini della personalità e del carattere.
Viene anche descritta una demenza epilettica legata all’evoluzione della cerebropatia
epilettogena o ad una evoluzione simil-demenziale di casi con psicosi cronica
schizofrenosimile (Roccella M., op. cit.)
35
2. Aspetti cognitivi e comportamentali
Il soggetto epilettico vede la sua crisi attraverso gli occhi degli altri e la conosce per
quanto gli altri gli riferiscono. Durante il parossismo egli infatti non è presente a se
stesso, mentre il suo corpo diventa teatro di tutta una serie di drammatici eventi che
verranno in seguito attribuiti al soggetto stesso, influenzando il rapporto con sé e la
malattia. Non vi è in realtà una chiara distinzione tra momento privato e momento
pubblico della patologia, anzi essi non esistono l’uno a prescindere dall’altro.
Il disagio vissuto dal soggetto all’occorrenza delle crisi (l’esperienza della crisi è già
di per sé frustrante a causa dell’imprevedibilità e delle manifestazioni ad essa
connesse, quali fuoriuscita di bava, la caduta al suolo, la perdita del controllo
sfinterico, spesso fonte di umiliazione) può essere aggravato dall’atteggiamento,
spesso incongruo, dell’ambiente, nutrito di pregiudizi assai diffusi.
Il carattere episodico della crisi epilettica, che irrompe nel soggetto in modo
improvviso ed inevitabile, suscita, infatti, nell’immaginario collettivo la visione di
qualcosa di estraneo, che prende temporaneamente possesso della persona,
estraniandola a se stessa.
L’attesa della crisi determina nel soggetto un permanente stato di tensione, ed è
proprio l’attesa che organizza la dimensione temporale dell’epilettico.
Essa condiziona il presente, le azioni quotidiane, ma anche il futuro, le sue possibilità
di progettazione. Nel soggetto cresce l’idea di essere affetto da una patologia grave e
vergognosa di cui doversi giustificare.
Emblematico appare l’atteggiamento positivista che assimila il significato della crisi
in quanto dimensione essenziale altra (= aliena) a quello della condizione assunta
come tipica dell’alienazione: la malattia mentale (Roccella M., 1999).
Questa reazione può reificarsi nei pregiudizi che si ritrovano non solo nella cultura
popolare, ma anche in quella scientifica o pseudo-scientifica di tutti i tempi.
La relazione tra epilessia e psicopatologia è un tema di grande interesse ma ancora
poco definito. Molto si è discusso sul fatto che l’epilessia come tale possa
rappresentare di per sé un fattore di rischio per l’insorgenza di disturbi psichiatrici.
36
Le posizioni a questo proposito sono due: da una parte si collocano coloro che
considerano le distorsioni di personalità dell’epilettico derivanti dalla malattia
neurologica, quindi come conseguenze di questa, dall’altra coloro che interpretano
tali manifestazioni come “difese” dell’individuo in seguito alle sofferenze fisiche e
psichiche derivanti dall’epilessia, per cui il soggetto presenterebbe dei disturbi anche
a livello caratteriale e comportamentale (Aicardi J., 1989).
L’epilessia è una patologia molto particolare, tendente a coinvolgere molti aspetti
della vita del paziente. Ne risulterebbe una compromissione dell’intera sfera sociale e
relazionale, soprattutto nelle forme più gravi.
I fattori che in ogni modo possono concorrere alla comparsa di disturbi psichici negli
individui affetti da epilessia sono raggruppabili in tre principali categorie: fattori
clinici, fattori psicosociali e fattori biologici.
Fra i primi gli elementi di maggiore importanza risultano essere l’età d’esordio della
sintomatologia, la durata della sindrome comiziale, il tipo e la frequenza delle crisi e
le alterazioni elettroencefalografiche relative.
I fattori psicosociali che sembrano essere collegati allo sviluppo di un disturbo
psichico, negli individui affetti da epilessia, sono l’andamento cronico della malattia,
la capacità d’adattamento alla malattia, eventuali forme di discriminazione vissute dal
soggetto, i rapporti intrafamiliari, le limitazioni legali e i sentimenti di bassa
autostima.
I fattori biologici che possono predisporre allo sviluppo di un disturbo psichico sono
la presenza d’alterazioni in aree cerebrali coinvolte nel funzionamento psichico ed
alcuni effetti collaterali dei farmaci antiepilettici.
I sintomi psichici sono distinti, inoltre, in base al momento della loro comparsa in:
Disturbi Acuti e Critici, che precedono la crisi vera e propria e consistono
generalmente in uno stato di confusione mentale, in automatismi psicomotori (atti
incoscienti e istintivi, frequenti nell’epilessia temporale), in allucinazioni o in fatti
“crepuscolari” o stato crepuscolare, che rientra nell’ambito dei disturbi di coscienza.
Questo stato crepuscolare consiste nel dirigere la coscienza su un aspetto della realtà
37
ristretto; al di fuori di tale ambito, nulla della realtà viene colto e vissuto, come se il
paziente se ne mantenesse distaccato. Con l’avvicinarsi della crisi epilettica possono
comparire anche altri sintomi, quali instabilità, ansia e umore depresso. Questi
sintomi si associano più spesso a crisi parziali complesse, presenti in particolare
nell’epilessia temporale (Roccella M., op. cit.).
I disturbi post-critici compaiono dopo la fine della crisi stessa e consistono
soprattutto in alterazioni cognitive, affettive e comportamentali, in particolare stato
confusionale, caratterizzato da agitazione ansiosa e disorientamento spaziotemporale. Il paziente appare trasognato, perplesso e le sue funzioni psichiche sono
rallentate e “vischiose” (cioè il paziente mostra una certa lentezza a staccarsi da
determinate attitudini mentali), accompagnate da un’indifferenza riguardante la
propria condizione.
Tra questi disturbi può essere presente talvolta anche uno stato onirico.
Questa condizione può condurre il soggetto epilettico anche a compiere atti
abbastanza pericolosi, come atti distruttivi e aggressivi, e arrivare addirittura a
compiere un delitto del tutto inconsapevolmente.
Da quanto detto emerge che non si può parlare di un “tipo psicologico epilettico”, ma
più precisamente di strutture di carattere diverse, determinate dalla propria esperienza
personale, dalla capacità di istaurare rapporti interpersonali, dalla maggiore o minore
capacità di accettare il fenomeno per quello che è, dal tipo d’epilessia caratteristica
del soggetto.
La terapia farmacologica nel paziente epilettico deve rappresentare un compromesso
ragionevole tra la malattia e le possibili complicazioni della terapia. Se essa
rappresenta un rischio d’effetti collaterali equivalenti alla malattia da trattare, è
probabilmente non indicata.
Lo scopo della terapia è quello di migliorare la qualità della vita del paziente nel
senso più ampio, e non solo ridurre il numero delle crisi (Scott. D.F., 1994).
38
Considerando gli imprevedibili effetti collaterali e l’intolleranza ai farmaci
antiepilettici, la terapia giornaliera con questi farmaci non dovrebbe essere intrapresa
dopo una singola crisi, piuttosto dopo più episodi.
All’inizio della terapia con farmaci antiepilettici, il paziente e la sua famiglia devono
essere consapevoli del fatto che l’assunzione di questi farmaci non durerà per tutta la
vita. Infatti se le crisi sono state eliminate per diversi anni con i farmaci, questi
possono solitamente essere sospesi con successo nei casi d’epilessia meno gravi.
Molti pazienti risultano farmacologicamente intrattabili, quindi inadeguati ad
intraprendere una terapia con farmaci antiepilettici, o perché il tipo specifico
d’epilessia non risponde al trattamento terapeutico o perché intolleranti agli stessi
farmaci. In questi casi si valuta l’ipotesi di trattamento chirurgico delle crisi come
unica alternativa all’inefficacia farmacologica, naturalmente in casi particolarmente
gravi (Scott. D.F., op. cit.).
Il successo del trattamento chirurgico può condurre ad un miglioramento delle
condizioni generali del paziente. Tuttavia, dalla chirurgia possono derivare anche
degli effetti collaterali quali, ad esempio, alterazioni cognitive. Per questo è
necessario che un trattamento di questo tipo sia svolto solo da personale altamente
specializzato e in un centro adeguato.
Oggi, grazie alla scoperta di sempre più efficaci farmaci epilettici e di tecniche
diagnostiche sempre più all’avanguardia, questa patologia è divenuta più tollerabile
sia da parte del paziente che da parte della società.
La terapia attuale dell’epilessia si avvale di diversi farmaci tra cui ricordiamo il
l’acido valproico, la carbamazepina, ecc. (Roccella M., op. cit.).
39
3. Aspetti relazionali
Interessante risulta l’aspetto relazionale della patologia che, per essere compresa
adeguatamente non ha bisogno di interpretazioni in senso strettamente neurologico,
ma deve essere inquadrata in una prospettiva più ampia che consideri sia gli aspetti
organici che quelli psicologici e sociali.
La terapia dell’epilessia richiede in genere un lungo periodo di tempo, durante il
quale potrà rendersi necessario modificare sia la dose che il farmaco stesso, in
relazione al tipo di risposta clinica ottenuta. Tale terapia deve essere scrupolosamente
seguita e controllata per garantire un’efficace gestione della crisi. Questo comporta la
necessità di servirsi dell’elettroencefalogramma per svelare la presenza di eventuali
scariche anomale, clinicamente non evidenti, il ricorso al dosaggio ematico del
farmaco per stabilire se la dose somministrata è compresa entro i valori minimi e
massimi che garantiscono l’efficacia terapeutica e l’assenza di eccessivi effetti
indesiderati o rischi di tossicità. Al paziente è inoltre attribuito il compito di
compilare delle schede di registrazione delle informazioni relative al contesto ed alle
modalità di comparsa della crisi, coinvolgendo necessariamente tutto l’ambiente
circostante.
Il fenomeno della richiesta esorbitante di esami ed accertamenti sembra rispondere
proprio ad una motivazione di carattere ritualistico, ad un cerimoniale di esorcismo
della malattia. L’elemento rituale, proprio della magia e della religione, si ripresenta,
in forma mascherata, anche nei rapporti tra medico, familiari e paziente, e tale
elemento in questo contesto veicola proprio la comunicazione affettiva, quella
strettamente controllata in un contesto scientifico.
Particolari modalità relazionali caratterizzano il soggetto epilettico, quali un ridotto
livello di autostima, la presenza di sentimenti di colpa e di insicurezza, l’incapacità di
tollerare le frustrazioni, aggressività reattiva, immaturità a diversi gradi, difficoltà
nelle relazioni interpersonali così come nell’apprendimento di modelli di
comportamento socialmente approvati. L’unione di queste modalità relazionali e di
40
probabili componenti somatiche può originare aggressività, impulsività, accessi di
collera,
instabilità
psicomotoria,
irritabilità,
tendenza
alla
depressione
e
all’isolamento, ansia (Romanis (de) F., 1991).
Accostarsi alla persona epilettica vuol dire considerare tutti questi elementi da cui
indubbiamente deriva una difficile vita di relazione.
La condizione psicologica del soggetto epilettico è molto ambigua, in quanto egli non
presenta tratti esteriori che manifestano visibilmente la sua condizione, ed inoltre le
manifestazioni di questa patologia non sono costantemente preavvertite, ma possono
esplodere improvvisamente e in tutta la loro drammaticità. Ed è proprio questa
particolare situazione a creare molto spesso nel soggetto epilettico una relazione di
dipendenza nei confronti del gruppo, familiare o sociale.
Il soggetto colpito da una crisi, in molti casi è attore e spettatore della crisi stessa, nel
senso che assiste in prima persona alle modificazioni della propria immagine sia
fisica che psichica, ma la “vede” anche nello sguardo di chi gli sta intorno, di chi lo
circonda e che è coinvolto, spesso suo malgrado, in questi episodi caratterizzati dalla
repentinità e dalla drammaticità. Nella persona epilettica possono convivere
ambivalenti reazioni di difesa e senso d’impotenza nei confronti della malattia,
percepita come forza malvagia e distruttiva, minacciosa per la propria sicurezza
personale, che ha il potere di modificare gli stati d’animo e le reazioni dell’ambiente
circostante. Spesso le conseguenze di questa patologia, incidono anche sulla vita delle
persone vicine ai soggetti epilettici (Magliano R., 2001).
Uno dei pregiudizi sull’epilessia è quello che sostiene la tesi dell’ereditarietà della
malattia. Si parla, infatti, di “tara”, di “cattivo sangue” indice di colpa. In genere i
genitori si sentono responsabili della malattia del proprio figlio, determinando
pericolosi sensi di colpa. Il bambino viene considerato un “prodotto cattivo” e, in
quanto tale, risulta difficile costruire una progettualità su di lui. Egli costituisce per i
genitori un grosso investimento narcisistico, oltre che economico, progettuale ed
emozionale.
41
Nell’ambito di una famiglia la nascita di un figlio epilettico rappresenta un vero e
proprio shock, al quale seguono reazioni diverse in rapporto alla classe sociale
d’appartenenza, al livello culturale, alle modalità d’insorgenza delle crisi ed alla
maggiore o minore precocità delle manifestazioni della malattia.
Nel caso in cui si scopre la presenza di tale malattia nel proprio figlio in età
pediatrica, con la tendenza a persistere nel tempo, si condizionano pesantemente i
rapporti, il vissuto emotivo e affettivo all’interno del gruppo familiare.
I genitori tendono a negare, dapprima, l’esistenza della malattia, poi ad ignorarla e
solo quando ciò non è più possibile, ha inizio una seconda fase, non meno dolorosa,
di rassegnazione. Nel caso particolare di individuo affetto da crisi tonico-cloniche di
“grande male” il rapporto fra madre e figlio è molto particolare, caratterizzato dal
fatto che il figlio non è più semplicemente figlio ma è “il figlio epilettico” (Magliano
R., op. cit.).
È soprattutto la madre che soffre di questa nuova situazione. Quest’ultima, sentendosi
direttamente o indirettamente colpevole della situazione del figlio, prova sensi di
colpa per la sua malattia e per una sua eventuale esclusione dalla vita sociale.
Gli atteggiamenti di iperprotezione e la tendenza al controllo trovano una
motivazione più profonda che và al di là dei comportamenti logici nei riguardi di un
bambino affetto da epilessia. Essi sono spesso indice di ostilità, anche se mascherata,
e di rifiuto.
In molti casi è lo stesso nucleo familiare del soggetto epilettico che tende ad isolarsi
dai contatti sociali. Se invece l’epilessia si manifesta in età adulta, la situazione è
differente, poiché la personalità del paziente è, almeno nei suoi tratti fondamentali,
già compiuta. Non mancano in ogni modo anche in questo caso una serie di problemi
legati all’improvviso cambiamento della propria immagine e del proprio schema
corporeo (Romanis (de) F., op. cit.).
Le istituzioni scolastiche, che per tradizione dovrebbero rappresentare i luoghi
deputati all’apprendimento e alla crescita personale, possono assumere il ruolo di
ulteriore fonte di conflitti e frustrazioni per il soggetto epilettico, se questi non è
42
accettato dall’intero gruppo classe e dai docenti. La serenità con la quale l’alunno
affronterà la sua esperienza con la scuola dipenderà soprattutto dalla qualità dei
rapporti istauratisi in famiglia, ma anche dagli atteggiamenti assunti dai genitori nei
confronti dell’istituzione scolastica. Accade molto spesso che i genitori di individui
epilettici assumano degli atteggiamenti piuttosto ambivalenti, rappresentati dal rifiuto
di mandare a scuola il proprio figlio, dal completo disinteressamento del problema o
dalla ricerca di alleanza con il personale scolastico. Nel rapporto scuola-soggetto
epilettico è molto importante anche il ruolo degli insegnanti, dai quali dipende la
comunicazione di stereotipi negativi e di pregiudizi nei confronti degli epilettici,
oppure il tentativo di accostarsi a questo argomento in maniera più serena possibile.
Quindi l’atteggiamento dell’insegnante nei confronti di uno scolaro epilettico risulta
fondamentale, poiché sarà a questo che gli altri alunni faranno riferimento per
comportarsi, a loro volta, con il proprio compagno “particolare”. Per fare in modo
che gli altri alunni accettino con la maggiore serenità possibile la patologia del
proprio compagno, l’insegnante dovrebbe innanzi tutto avere delle conoscenze
fondamentali sulla malattia e adottare per quanto possibile un atteggiamento sereno e
rassicurante, sdrammatizzando, non solo a parole ma anche con i fatti, la situazione,
mettendo da parte timori inutili, stereotipi e commiserazione. L’inserimento di
soggetti epilettici nelle scuole comuni è di primaria importanza per due fondamentali
motivi: da un lato essi potranno usufruire di quelle stimolazioni fondamentali per un
certo sviluppo delle potenzialità e della maturità per affrontare la vita sociale;
dall’altro perché i compagni impareranno a superare pregiudizi e paure immotivate.
I giovani epilettici possono avere, oltre ai già citati problemi relazionali e
d’accettazione della stessa patologia, una serie di difficoltà anche pratiche, come:
ottenere la patente di guida, ottenere un impiego o una polizza assicurativa. Il
medico, dunque, dovrebbe incoraggiare il paziente a superare stereotipi e
disinformazioni che ancora oggi circondano la malattia (Roccella M., op. cit).
Nonostante
i
progressi
compiuti
dalla
scienza
nell’ambito
della
ricerca
farmacologica, le manifestazioni improvvise e gravi di questa patologia, oltre che le
43
condizioni generali di vita, rendono interessante notare come sia attuale un concetto
perpetuato verso gli epilettici, ovvero che epilessia e genio vanno spesso d’accordo.
4. Alcune concezioni etnopsichiatriche dell’epilessia
La storia dell’epilessia si può ricostruire partendo da diversi punti di vista. Rispetto
alle altre malattie, infatti, l’epilessia, a causa della sua singolare sintomatologia, è
stata oggetto d’interesse di scienze quali, tra le altre, anche l’antropologia e
l’etnologia. In particolar modo l’etnopsichiatria, una disciplina al confine fra
l’antropologia, l’etnologia e la psichiatria, ne ha saputo cogliere i diversi aspetti che
la riguardano.
Ogni sistema culturale stimola particolari disturbi psicologici (un discorso a parte va
fatto per le psicopatologie gravi), quindi per comprendere pienamente le sindromi
dipendenti da fattori culturali è indispensabile riuscire ad identificare il substrato
fisiologico o psicologico in cui quei fattori esercitano la loro influenza, sia le
eventuali funzioni che queste sindromi ricoprono per l’individuo e per la collettività.
In Puglia, per esempio, il “rito della tarantola5” era considerato un segno di
distinzione e solo pochi, fino al secolo scorso, in quelle zone ritenevano il tarantismo
una stranezza. Nessuno ne metteva in dubbio il carattere sacrale e non era considerato
affatto, come ritenuto oggi, una patologia comportamentale. Le donne che lo
5
Il tarantismo si connotò come fenomeno storico religioso che caratterizzò l'Italia meridionale e in particolare la Puglia
fin dal Medioevo; visse un periodo felice fino al XVIII secolo, per subire nel XIX secolo un lento ed inesorabile
declino. Le vittime più frequenti del tarantismo erano le donne, in quanto durante la stagione della mietitura, le
raccoglitrici di grano erano maggiormente esposte al rischio di essere morsicate da questo fantomatico ragno.
Attraverso la musica e la danza era però possibile dare guarigione ai tarantati, realizzando un vero e proprio esorcismo a
carattere musicale. Ogni volta che un tarantato esibiva i sintomi associati al tarantismo, dei suonatori di tamburello,
violino, organetto, armonica a bocca ed altri strumenti musicali andavano nell'abitazione del tarantato oppure nella
piazza principale del paese. I musicisti cominciavano a suonare la pizzica, una musica dal ritmo sfrenato, e il tarantato
cominciava a danzare e cantare per lunghe ore sino allo sfinimento. La credenza voleva infatti, che mentre si
consumavano le proprie energie nella danza, anche la taranta si consumasse e soffrisse sino ad essere annientata. Alla
leggenda popolare può essere in realtà legata anche una spiegazione strettamente scientifica: il ballo convulso,
accelerando il battito cardiaco e stimolando il rilascio di endorfine, favorisce l'eliminazione del veleno e contribuisce ad
alleviare il dolore provocato dal morso del ragno e di simili insetti. Non è quindi da escludere che il ballo venisse
utilizzato originariamente come vero e proprio rimedio medico, a cui solo in seguito sono stati aggiunti connotati
religiosi ed esoterici.
44
praticavano erano, infatti, rispettate e temute. Tra l’800 e il ‘900, a causa delle
restrizioni nelle quali versavano le donne, vi fu un alto tasso di nevrosi isteriche e di
conversione. La mancanza di libertà sessuale e le barriere sessuofobiche erette tra
uomini e donne, creavano forti stati di tensione soprattutto nelle donne più riservate e
prive di sfoghi sessuali.
Rituali, procedure e credenze ritenute sacrali in alcune epoche, in altre sono state
considerate follie. Questo genere di studi ci ha permesso di capire perché la medicina
rituale poteva guarire malattie complesse come l’epilessia, considerata un male sacro
e confusa con altre malattie. Quello che è significativo di questi studi, è che
permettono di individuare nuove patologie, che possono essere comprese e guarite
soltanto nel contesto storico-culturale in cui vengono studiate.
In Italia lo sviluppo dell’etnopsichiatria si deve ad Ernesto De Martino (1959); il suo
contributo è relativo al sud Italia, perché è lì che il De Martino ha fatto le sue
ricerche. Nei suoi scritti si è occupato di alcune malattie psicosomatiche di matrice
culturale, che sono specifiche di alcune aree culturalmente definite.
Nell’impostazione di ricerca interdisciplinare diretta dall’autore, si voleva avviare
concretamente il confronto tra le ricerche psichiatriche e lo studio antropologico, in
modo da interpretare i disturbi mentali alla luce delle pressioni socio-culturali e degli
istituti storico-religiosi che se ne fanno carico. Secondo Giovanni Jervis (1967), che
partecipò alle ricerche di De Martino, esiste una corrispondenza tra il tarantismo e
l’epilessia, sia nella sintomatologia che nelle pratiche terapeutiche cui venivano
sottoposte.
Il tarantismo non aveva nulla a che fare con il “latrodectismo”, ma si ritenne che la
sindrome tossica causata dalla puntura del ragno velenoso (Latrodectus tredecim
guttatus), fosse solo in parte analoga al comportamento del tarantato.
Si potrebbe sostenere, dal punto di vista psichiatrico, che il tarantismo colpisse i
soggetti psichicamente fragili, suggestionabili e dal basso livello culturale, perciò i
comportamenti alterati dei tarantati vennero alla fine ricondotti alle nevrosi isteriche
o di delirio di possessione e, in alcuni casi, alle crisi epilettiche (Lanternari V., 1995).
45
Il contributo di De Martino, ha fatto da sfondo a successive ricerche in ambito
folkloristico e nell’ampia casistica dei rituali popolari tradizionali e dei culti di
guarigione.
L’epilessia è stata, nel corso dei secoli, la malattia che più delle altre è stata oggetto
di pratiche rituali magiche e religiose. I bambini affetti dalle crisi venivano sottoposti
ai riti di guarigione, con effetto quasi sempre miracoloso. Oggi, che riguardo la
malattia abbiamo raggiunto conoscenze neuropsichiatriche adeguate, sappiamo che la
risoluzione dell’epilessia nei soggetti in età evolutiva non è affatto miracolosa, ma di
tipo biochimico e neurologico.
In passato, il fatto che le crisi scomparivano in età puberale, dopo che il soggetto era
stato sottoposto al rituale adeguato, non faceva altro che alimentare credenze e
pregiudizi sulla malattia, confermando la validità delle pratiche magiche ed
esorcistiche. Per questo, ricostruire la raffigurazione dell’epilessia negli ex-voto
significa allargare lo sguardo verso le concezioni sulla follia in generale, sulla
possessione demoniaca, sul tarantismo, poiché nel corso della storia, i confini fra
queste diverse forme di sofferenza sono stati spesso intrecciati e confusi.
Giuseppe Pitrè (1900) a proposito della “follia”, scriveva che in Sicilia, sotto il titolo
di “fuddria” si includeva qualunque malattia mentale o stato di sofferenza al quale
non si sapeva dare alcuna spiegazione o individuare alcuna causa.
Era diffusa la credenza che il bene dell’intelletto fosse un dono di Dio e che Questi lo
togliesse a chi voleva male. L’autore riferisce di una pratica rituale che era compiuta
nelle zone di Castelbuono: gli alienati si curavano facendo loro attingere da un pozzo
dell’acqua, con un paniere o con un secchio senza fondo, che non riteneva quindi
alcuna goccia. In questo strano rituale “i folli” dovevano, un pò per volta, rientrare in
sé, pensare che con un paniere è impossibile trattenere acqua e, così, riflettendoci
sopra riacquistavano la ragione.
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CAPITOLO TERZO
POSSESSIONE ED EPILESSIA
1. Psicopatologia della possessione
Jaspers (1913) definisce la possessione come “lo stato in cui l’ammalato di per se
prova l’esperienza che egli è contemporaneamente due esseri, due modi di sentire
completamente diversi, che trovano il loro compimento in due io diversi”, e ne
distingue due forme, una a coscienza lucida, che considera schizofrenica, l’altra con
alterazione dello stato di coscienza, che considera nevrotica. Ammette anche
l’esistenza di una forma intermedia che è caratterizzata dalla presenza prevalente di
fenomeni ossessivi.
La teoria di Mead (1934), invece, ha un taglio più psicologico, in quanto
distinguendo tra un io ed un me, ritiene che la possessione sia una condizione in cui
viene drammatizzata una parte del me. In questo modo si attuerebbe
un’identificazione forzata e pressante
con un’altra personalità, di natura
trascendente, il cui rapporto con il soggetto non si basa sulla realtà ma è elaborato
nella fantasia.
Yap (1967) intende la possessione come una reazione sempre isterica, a volte pseudopsicotica, che scaturisce da un disturbo del Sé, cioè un disturbo del bilanciamento
continuo tra l’Io e il Me.
Altra tesi interessante è quella di Jung (1921) che distingue complessi derivanti
dall’inconscio personale, a cui è da riferire l’idea dell’anima, e complessi derivanti
dall’inconscio collettivo, a cui riferisce l’idea dello spirito. Da ciò scaturisce la
possibilità di classificare gli stati di possessione in due specie, aventi differente
significato psicologico: quella che interessa la possessione di parenti morti e quella
che si riferisce ad eroi cultuali (deità, demoni, satana).
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Non meno importante è la presenza del Disturbo Dissociativo da Trance all’interno
del DSM IV (APA, 1994). La caratteristica essenziale di tale disturbo consiste nella
produzione involontaria di uno stato di trance, che viene riconosciuto come elemento
estraneo alle pratiche religiose tipiche di una data cultura. I criteri diagnostici che
individuano il Disturbo Dissociativo da Trance richiedono la presenza di uno stato di
trance oppure uno stato di trance da possessione.
Nel primo caso si ha un’alterazione dello stato di coscienza o perdita del senso
d’identità senza, però, l’emergere di una personalità alternativa. Nel secondo caso,
invece, l’alterazione dello stato di coscienza è caratterizzata dalla sostituzione
dell’abituale senso d’identità personale con una nuova identità, attribuita all’influenza
di uno spirito o deità.
Ogni distinta identità alternativa presenterebbe comportamenti specifici e
caratteristici (anche se relativamente complessi, come ad esempio la possibilità di
mantenere conversazioni coerenti, o la presenza di espressioni mimiche e gestuali
congrue con lo stato di coscienza presentato), memorie ed attitudini.
Spesso vi è un’amnesia più o meno completa dopo un episodio di trance da
possessione (Ferracuti S. et al, 1995). In oltre negli stati di trance, gli individui
possono mostrare un aumento considerevole della soglia a stimoli dolorosi, possono
mangiare o inghiottire particolari materiali, oltre che sperimentare una forza
muscolare eccezionale. Janet (1889) aveva riconosciuto che il Disturbo Dissociativo
da Trance appartiene ad un gruppo eterogeneo di fenomeni comportamentali di tipo
dissociativo.
Con il termine disagregation (non integrazione) egli indicava il meccanismo
attraverso il quale poter segregare, rispetto al normale fluire dei contenuti di
coscienza, strutture o complessi ideo-affettivi, talora talmente estesi da costituire una
seconda personalità.
I fenomeni dissociativi di coscienza sono anche correlati, assieme a fattori emotivi e
sociali, all’epilessia temporale (Mercuriali, E. et al., 1988).
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2. La possessione come sindrome di disordini mentali
In un lavoro di Oesterreich del 1966, intitolato Possession: Demoniacal and Other,
viene definita la possessione come una sindrome psichiatrica con diverse
caratteristiche impressionanti. Una di queste è che “l’organismo appare invaso da una
nuova personalità, è governato da un’anima estranea. I sintomi includono
cambiamenti fisiognomici, cambiamenti nel tono della voce, che di solito diventa più
profonda, e vigorosi movimenti scomposti del corpo.
Riveste notevole importanza il fatto che i pensieri espressi dalla nuova personalità
siano completamente differenti da quelli della precedente e di solito abbiano un
contenuto escatologico o blasfemo. Gli episodi di possessione sono spesso seguiti da
amnesia. Questi sintomi sono definiti comportamentali, Oesterreich non credeva che
avesse luogo una reale possessione da parte di un demone o di un altro agente. La
possessione, nel modo in cui è stata definita da Osterreich , è raramente riscontrata da
psichiatri e psicologi, sebbene occasionalmente vengano riportati alcuni casi. Alcuni
sintomi si presentano piuttosto frequentemente in altri disturbi, per esempio la
credenza di essere posseduti si ritrova a volte nelle sindromi schizofreniche. Il
disturbo che condivide la maggior parte dei sintomi è la sindrome di Gilles de la
Tourette, caratterizzata da tic involontari e pronunzia compulsiva di oscenità.
Si pensava che un fattore chiave nello scatenarsi di una sindrome da possessione
fosse l’appartenenza ad una determinata cultura o subcultura che presentasse delle
credenze sulla realtà della possessione. Ciò ha portato gli antropologi a studiare la
possessione e la trance da possessione in varie culture. L’incidenza della possessione
in una società è correlata a variabili sociali: società relativamente rigide o praticanti la
schiavitù, con più probabilità presentano fenomeni di possessione. Gli individui
posseduti appartengono ai ceti più bassi, oppure sono donne nelle società maschiliste.
Nelle sette Pentecostali cristiane di oggi, diffuse nei paesi occidentali, possiamo
riscontrare due tipi di possessione: la prima, che spesso è caratterizzata dal “parlare le
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lingue” (glossolalia), è attribuita al potere dello Spirito Santo; la seconda è vista con
orrore perché si crede che abbia un’origine diabolica.
Molti sociologi distinguono due tipi di possessione: una è centrale ed ammessa in
alcune società, spesso accompagnata da rituali, l’altra è vista come periferica, si
presenta spontaneamente e richiede trattamenti particolari. La possessione rituale non
sembra essere patologica ed è generalmente vista con favore dagli interessati (Lewis
J. M., 1966; Ward C., 1980). Quella periferica, d’altra parte, è considerata come una
forma di disturbo mentale (Lewis J. M., 1993).
Quando si presenta un caso di possessione demoniaca spesso si ricorre all’esorcismo,
chiamato “liberazione” nelle sette pentecostali cristiane, il quale sembra avere
efficacia all’interno del contesto culturale in cui opera (Francis, P.L., Baker G.A.,
1999).
L’ipotesi più semplice che può essere fatta circa la credenza in una reale possessione
diabolica, nell’Europa medievale, è che le persone erano viste come indemoniate
solamente quando mostravano i sintomi della sindrome da possessione. Di
conseguenza, in accordo con tale ipotesi, ci si può aspettare che la frequenza dei casi
di possessione sia stata più alta nel Medioevo che oggi, a causa della maggiore
ricettività dell’ambiente culturale di allora verso questi fenomeni.
3. Il diavolo e la malattia nelle religioni
La storia del demonio, del diavolo, di quell’entità malefica a cui maggiormente
vengono attribuite le cause di tutti i mali dell’uomo, è proceduta parallelamente con
la storia dell’umanità in tutte le sue epoche e latitudini.
La figura, l’esistenza, l’idea, il fascino inerente il “principe delle tenebre” fanno parte
del patrimonio profondo delle culture umane più diverse. Il dramma del male, della
sofferenza e della morte, si riflette nei mitemi demoniaci di tutte le culture e in tutte
le diverse epoche storiche (Carbeland D., 2000).
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Studiosi di diverse discipline come antropologi, etnologi, sociologi, psicologi,
teologi, e psicopatologi hanno apportato contributi di notevole valore sul tema del
male e del demonio. Tuttavia l’argomento mantiene sempre, per le sue caratteristiche
intrinseche, un alone enigmatico che spinge sempre alla ricerca di nuove verità.
In ogni cultura la realtà è stata frammentata, nei due opposti poli di bene/male, e nelle
loro proiezioni dio/epifania del male. In ultima analisi, tutti i demoni fungono da
incantesimo nel quale si dissolve la concretezza della natura e della storia umana.
La figura demoniaca è presente nelle vicende delle popolazioni chiamate primitive e
che vengono assegnate alle culture senza scrittura. Anche qui il diavolo nasce da un
senso di insofferenza del mondo presente, che si proietta in un’ideologia leggendaria
e mitica, variante secondo diverse etnie.
L’ombra del demonio è entrata potentemente nell’immaginario collettivo di antiche
società, tanto da modificarne le abitudini e i modi di vivere o si è insinuata
subdolamente nei vissuti di diversi strati sociali all’interno di società più evolute
(Costa G., 1936).
I diavoli, relativamente alla loro consistenza reale, sono un nulla, appartengono
all’immaginario in cui hanno diverse forme proiettate anche in raffigurazioni visibili
e fantastiche. Essi testimoniano il conflitto tra uomo e natura e tra uomo e storia.
Così, quando il flusso degli eventi è sentito totalmente contrario, come nel caso della
malattia, e l’uomo non può realizzare un’esistenza piena, la comparsa del diavolo, cui
attribuire tutti i mali, può essere una possibile soluzione. L’argomento mantiene
sempre, per le sue caratteristiche intrinseche, un alone enigmatico che spinge sempre
alla ricerca di nuove verità.
L’immagine diabolica si oppone a quella di Dio, cui vengono attribuite tutte le cose
buone e giuste; con la sua azione il diavolo cancella la positività e origina,
spiegandolo, il disagio del tempo (Crispino A.M., 1986).
Alcune volte il diavolo è stato il mezzo attraverso il quale emarginare e stigmatizzare
culture, religioni, nazioni diverse da quella di appartenenza; altre volte è stato il
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portavoce del malessere, dell’insofferenza verso il potere costituito, opprimente ed
asfissiante, molto più spesso è stato ritenuto causa di malattie, pestilenze, tempeste.
Come dice Di Nola (1994): “In presenza delle situazioni di disagio, genericamente
definite come male, ed in presenza dello scandalo cosmico che è la morte,
all’accettazione della naturale condizione dell’uomo, che accoglie momenti di
pienezza e momenti di crisi vitale, si è sostituito il tormentante quesito sulla causa del
male.
In alcune culture, dice Di Nola (1994), l’atto della creazione del mondo non è
attribuito all’essere supremo, ma ad una figura eroica o umana secondaria, che ha la
funzione di demiurgo, il quale contrasta il piano d’azione dell’essere supremo.
In tali culture spesso il demonio è ritenuto essere la causa delle malattie secondo una
linea d’interpretazione demonologica che è anche delle culture occidentali.
Gli Akikuyu dall’Africa ricorrono ad un rito del vomitare i peccati, detto potahikio,
quando lo stregone ha diagnosticato la presenza di uno spirito o di un demonio nel
corpo del malato.
I Jacuti credono nello yor, che sono gli spiriti di coloro che si sono staccati dalla vita,
dalle loro intense attività, dalle loro passioni o che sono deceduti di morte violenta.
Ritornano nei luoghi loro cari ma si presentano sempre come malefici, potendo
provocare malattie, in particolare disordini nervosi, per la cura dei quali si ricorre allo
sciamano.
Anche nel Perù antico la religione Inca ripete lo schema noto dell’origine malefica
delle malattie che si ritenevano provocate da indeterminate forze nefaste, dalla
volontà perversa di uno stregone o dal comportamento moralmente riprovevole.
La malattia consisteva nella presenza di un corpo estraneo nell’organismo, dal quale
esso doveva essere rimosso. Nella mitologia dell’antico mondo iranico si anticipa la
visione dualistica ed oppositoria della storia e del cosmo (un principio malefico si
oppone ad un principio benefico, che ha dato origine al creato), che sarà rilevante
nella demonologia cristiana. Con il Mandeismo il conflitto viene racchiuso nell’uomo
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in cui coesistono i due elementi in opposizione, il corpo, appartenente al mondo delle
tenebre, e l’anima irraggiata dal mondo di gloria e di luce (Di Nola A.M., 1970).
La tradizione iranica ha influenzato, nella sua concezione dualistica, anche gli Slavi
orientali e i Russi. In queste popolazioni l’invasamento diabolico assume i caratteri
del vampirismo e della licantropia (Bruckner A., 1923).
Nella mitologia greco-romana il diavolo esprime, nelle forme di Pan, il carattere di
una sfrenata libertà nel vivere una vita senza leggi, tutta immersa nel godimento di
una natura selvaggia. I satiri e i sileni sono esseri intermedi, divinità terrestri, che i
greci chiamarono demoni e che esprimono, come Pan, la carica sessuale che è propria
della vita. Questi dèi terrestri influiranno molto sulla demonologia cristiana, si pensi,
per esempio, a livello iconografico, ai tratti teriomorfici che assumevano, con corna,
coda e piedi caprini e che si ritroveranno anche tra gli Etruschi.
Nella demonologia dell’India antica, i demoni rappresentano le forze disgregatrici
non solo del benessere del gruppo ma anche della sicurezza esistenziale individuale,
favorendo la dissociazione interiore, il crollo della personalità. In genere tutte le
creature demoniache espongono l’uomo alla malattia e alla morte; invadono
particolarmente le persone soggette a periodi di crisi; sono le specifiche condizioni di
labilità mentale e psichica, la perdita del senno, del soffio, della presenza. Per questo
il fedele, per difendersi da loro, costituisce la barriera delle pratiche religiose, ma si
affida anche alle potenze numinose e divine (Di Nola A.M., op. cit.).
Anche nelle religioni dell’area tibetana le malattie dipendono da invasamenti
demoniaci, che provocano la fuga dell’anima dalla vittima. La cura è affidata ad un
esorcizzatore-sciamano che richiama l’anima, entrando in trance e danzando
selvaggiamente. Dopo aver individuato il demone responsabile della malattia indica
gli espedienti che favoriscono la guarigione (Tucci G., 1952).
Nella religione della Cina antica riveste grande importanza la stregoneria.
Gli stregoni, chiamati wu ed appartenenti ad entrambi i sessi, erano impegnati
nell’allontanamento, per mezzo di esorcismi, dei demoni e del male, espellendo così
le malattie. Normalmente essi operavano in uno stato di invasamento-trance che era
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provocato dalla discesa di uno spirito o di un demone nel corpo, talvolta nello spirito
di un morto. I posseduti vengono chiamati ling-pao (Di Nola A.M., 1994).
La forma più antica di demonologia, che dagli Assiro-Babilonesi, attraverso il mondo
ebraico giungerà fino al Cristianesimo, è da ricercare nella cultura sumerica.
I Sumeri reagivano, con il ricorso a varie forme di esorcismo, contro i rischi di
malattia, di morte e di disfacimento. La causa dei mali veniva fatta risalire
generalmente all’azione di forze avverse, dalle quali l’operatore magico difendeva la
società. Un testo della dinastia di Isin, riportato da Chiera (1924), ci fornisce
l’esempio di un esorcismo diretto a liberare un ammalato dalle invasioni demoniache
che hanno provocato il suo stato morboso.
Sempre nella società mesopotamica erano in uso delle tecniche magiche per arginare
la forza delle energie di disgregazione, che sono fra le più antiche a noi note e che
somigliano molto alle esperienze religiose posteriori, infatti la difesa principale era
costituita dallo scongiuro, la cui efficacia derivava dalla ripetizione del nome o della
parola protettrici.
Anche nella tradizione ebraica antica si possono trovare i precedenti storici del tema
demoniaco Cristiano. Nell’ideologia demoniaca esposta nell’Antico Testamento la
figura del diavolo è inquadrata all’interno della creazione di Dio ed ha lo scopo di
mettere l’uomo alla prova. La figura di Satana, il cui nome deriva dalla radice ebraica
stn che vuol dire “essere nemico”, “osteggiare”, e che ritroveremo poi nel
Cristianesimo, è collegata sia al peccato di Adamo ed Eva, sia alla ribellione degli
angeli a Dio (Carbeland D., op. cit.).
Il mito demoniaco ebraico oscilla tra due concezioni: nella prima la figura del
demonio è diretta emanazione della volontà divina e ad essa ubbidiente, nella seconda
il male fa parte della volontà di Dio e comprende in sé uno spirito malvagio.
È molto stretta la connessione fra la rovina fisica e morale, la malattia, la morte,
costantemente rappresentate come un abbandono del Dio, il quale, allontanandosi dal
suo fedele, lo espone agli attacchi di altri spiriti e di altre potenze, che lo invadono, lo
possiedono (Carbeland D., op. cit.).
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È certamente difficile, secondo Di Nola (1970), definire un assoluto limite fra
atteggiamento religioso, atteggiamento magico ed esorcistico-apotropaico nella
cultura ebraica antica.
L’ipotesi secondo cui responsabili dell’epilessia erano i demoni piuttosto che le
divinità, ricevette sempre maggiori consensi con l’avvento dei Vangeli, dove vi si
allude nei miracoli compiuti da Cristo (Carbeland D., op. cit.).
Nel Nuovo Testamento possiamo rintracciare l’insieme di tutte le credenze
demonologiche dal Medioevo all’età contemporanea. Vi si delinea un’immagine del
demonio forte ed invadente che attinge ai più diversi precedenti storici.
Nei vangeli il termine demonio, soltanto riferito ai casi di possessione diabolica,
appare per ben 52 volte, e nelle pagine della narrazione della vita pubblica di Gesù
spesso si ricorda un invasamento demoniaco o se ne fa allusione.
Satana è il calunniatore, l’avversario per eccellenza, egli distrugge la buona parola
seminata dal Vangelo (Mc 10,15), tenta Gesù, produce mali fisici, si impadronisce
dell’anima e dei sentimenti di Giuda.
Altro nominativo del diavolo è Belzebul che, secondo le accuse dei farisei, avrebbe
conferito a Gesù stesso il potere di scacciare i demoni poiché Egli stesso ne sarebbe
stato posseduto (Mc 3,22).
Molti sono nei Vangeli i riferimenti alle azioni del demonio, in particolare ai
fenomeni di possessione, cioè l’invasamento dell’anima da parte di Satana o di uno
spirito demoniaco.
Il demonio, possedendo un uomo può parlare per mezzo di lui, come avviene nel
brano della sinagoga di Cafarnao, dove Gesù incontra un indemoniato, che lo attacca
violentemente, e subito lo libera dallo spirito che lo possiede: “Allora lo spirito
impuro lo scosse violentemente, poi mandò un grido e uscì da lui” (Mc 1,23-28; Lc
4,33-37).
La persona posseduta dai demoni tende ad isolarsi, a vivere una vita selvatica, come
l’indemoniato del paese dei Geraseni, il quale “appena Gesù scese dalla barca, subito
gli si fece incontro, aveva la sua dimora nelle tombe e nessuno riusciva più a legarlo,
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nemmeno con catene poiché più volte le aveva spezzate e nessuno era riuscito a
domarlo (Mt 8,28ss).
I demoni espulsi dall’uomo errano in luoghi aridi in cerca di riposo e, quando non lo
trovano, tornano nel posseduto più potenti di prima (Mt 12,43; Lc 11,24).
La facoltà di scacciare i demoni è data anche ai discepoli, i quali agiscono in nome di
Gesù, (Mt 10,1; Mc 3,10; 6,7; 16,15-18) fatto questo che legittimerà il potere della
chiesa nell’effettuare gli esorcismi.
Altro brano è tratto dal Vangelo secondo Matteo, cap.17, versetti 15-17.
“ Signore, abbi pietà di mio figlio! è pazzo e molto agitato; spesso cade in acqua o nel
fuoco. L’ho portato dai tuoi discepoli ma non hanno saputo curarlo”.
E Gesù rispose: “O perversa ed infedele generazione, quanto ancora dovrò stare con
voi? Portatemelo qui”.
E così Gesù cacciò il diavolo, che abbandonò il ragazzo, ed egli, da quel momento fu
guarito dal suo male.
In questo brano vi sono alcuni elementi interessanti. Prima di tutto il padre ritiene che
il figlio sia pazzo, opinione persistita a lungo nella gente riguardo gli epilettici, ed
ancora persistente in molti. Inoltre il riferimento al rischio che il soggetto epilettico
possa cadere nelle fiamme o nell’acqua durante la crisi, cosa possibile ancora oggi.
Un ulteriore riferimento biblico, infine, si rintraccia nel Vangelo secondo Luca,
cap.8, versetti 38-42. In tale brano si possono notare delle differenze rispetto al
primo, dettate dal fatto che Luca fosse probabilmente un medico.
“Un uomo gridò tra la folla, dicendo: Maestro ti scongiuro, volgi il tuo sguardo a mio
figlio, il mio unico figlio. Lo spirito lo ha catturato e lui improvvisamente ha emesso
un grido; lo spirito è entrato in lui, e mio figlio ha cominciato ad emettere bava dalla
bocca. Lo spirito lo ha tormentato, lo ha lasciato tutto malconcio. Ho cercato i tuoi
discepoli per scacciare il demone, ma non ci sono riusciti”.
E Gesù cosi disse: “O perversa ed infedele generazione, quanto ancora dovrò stare
con voi e soffrire per causa vostra? Portatemi il ragazzo”.
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Quando il ragazzo fu giunto, il demonio lo invase e lo scaraventò a terra. Gesù cacciò
lo spirito impuro dal ragazzo, questi guarì e ritornò da suo padre.
In quest’ultimo brano vi è una descrizione più dettagliata della crisi, con il
riferimento al grido iniziale, ed anche qui troviamo un’allusione al pericolo di traumi.
La descrizione della bava alla bocca, in molti scritti antichi sull’epilessia, viene
sempre messa in rilievo come anche oggi. La bava fu addirittura ritenuta sorgente di
infezione per coloro che ne fossero venuti in contatto. Il risultato fu il confinamento
degli epilettici con i lebbrosi, portatori di una malattia infettiva. Questo errato
concetto sull’epilessia si è mantenuto fino ad epoca recente ed ha fatto apparire
razionale l’isolamento del malato dalla comunità, inteso come “misura preventiva a
salvaguardare la salute pubblica”.
Da questi esempi si può dedurre che nella tradizione cristiana la possessione
demoniaca era ritenuta essere alla base di una grande varietà di disturbi, inclusa
l’epilessia. Il potere di scacciare i demoni non solo fu usato da Gesù, ma egli stesso
incoraggiò i suoi apostoli e discepoli a farne uso. In seguito la Chiesa rivendicò,
tramite successione apostolica, lo stesso potere.
I sinodi della Chiesa cristiana primitiva fanno frequenti riferimenti alla possessione
demoniaca. Nel 305 d.C., ad esempio, (sinodo di Elvira) si decise di escludere gli
indemoniati dalle funzioni liturgiche, permettendogli di essere battezzati solamente in
punto di morte (Hefele C. J., 1872).
Nel sinodo di Orange (441 d.C.) si presero le contromisure per proteggere il clero dal
demonio: “chi è stato posseduto dal demonio una sola volta non può essere ordinato
prete, se ordinato precedentemente perde il proprio officio” (Hefele C.J., op. cit.).
Nella legge canonica, la possessione demoniaca, l’epilessia e la follia sono
classificate come irregolarità che impediscono l’ordinamento. Papa Gelasio proibì
agli epilettici di farsi preti sulla base del fatto che tale malattia favoriva la
possessione demoniaca (Reichel O. J., 1896).
L’epilessia, la follia e la possessione demoniaca rimasero poco differenziate fino al
tardo Medioevo. Nel XVI secolo i testi latini identificavano caduces (epilettico) con
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demoniacus e prescrivevano un rimedio “per epilettici, per esempio indemoniati e chi
soffre di convulsioni” (Temkim O., 1945).
Isidoro di Siviglia (d.C.560-636) notò che gli epilettici erano chiamati pazzi dalle
persone comuni, rivelando così una comune confusione.
I numerosi scrittori medici cristiani dall’ XI all’ XV secolo trattarono i disturbi
mentali
e l’epilessia in termini
medici, ed occasionalmente in termini
comportamentali, comunque attingendo spesso alle fonti arabe.
Costantino d’Africa costruì un test per la distinzione della possessione demoniaca
dall’epilessia. Veniva recitata una formula all’orecchio del paziente in cui si intimava
al diavolo di andare via: se il paziente era posseduto cadeva in coma, al contrario di
un epilettico, al quale non succedeva nulla. L’uso dell’esorcismo come strumento di
diagnosi diventò molto comune: John di Gaddesden, nel XIV secolo, suggerì l’uso di
una procedura simile, che Bernardo di Gordon derise sarcasticamente non credendo
nell’approccio religioso all’epilessia (Temkin O., 1945; Lennox W.G., 1970; Clarke
B., 1975).
La Chiesa medievale assimilò molto lentamente la spiegazione fisiologica
dell’epilessia: per esempio Sant’Ildegarda di Bingen, nel XII secolo, asseriva che
nell’epilessia interagivano fattori umorali e fattori demoniaci. “Il diavolo non causa
gli attacchi epilettici con il suo potere. Egli esercita la sua influenza quando il corpo è
fuori equilibrio, gli umori sono sballati e il cervello malato” (Temkin O., op. cit.).
Nel XV secolo, comunque, nel Malleus Malleficarum (1487) si affermava che,
mentre le streghe avevano il potere di provocare l’epilessia, questa di solito derivava
“da qualche predisposizione o difetto fisico di lunga durata”.
Allo stesso modo, sebbene fosse diagnosticata la possessione demoniaca, altre erano
le cause dei disturbi mentali riconosciute dagli scrittori religiosi.
Tommaso D’Aquino (1225-1274), per esempio, sosteneva che la possessione fosse
un tipo di pazzia: “fra coloro che hanno perso l’uso della ragione vi sono anche i
posseduti”, ma riconobbe anche altre cause: “i pazzi perdono l’uso della ragione per
accidens, cioè in relazione con un organo corporeo danneggiato”.
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Da altri studi si può dedurre che la possessione era correlata ad una grande varietà di
malattie più dai contadini che da istruiti uomini di chiesa.
La tesi di Sant’Ildegarda (1098-1179), che riconduceva i disturbi mentali ad una
combinazione di fattori umorali e demoniaci, fu sviluppata anche per l’epilessia. In
parte, questo sviluppo nacque dalla considerazione del potere del diavolo di indurre
in tentazione.
Lutero (1483-1546), per esempio, registrò le conversazioni con il diavolo che,
secondo lui, cercava di tentarlo in svariati modi. La sua esperienza fu simile a quella
di molti santi, ed anche a quella di Cristo nel deserto (Matteo 4,1-11). Le forti
tentazioni includono anche allucinazioni, come dice il Malleus Maleficarum “i
diavoli possono smuovere ed eccitare le percezioni interne e gli umori, così quelle
idee che erano contenute nei meandri della mente diventano vivide nell’immagine in
modo tale da sembrare reali” (Kramer H. e Sprenger J., 1487).
Strettamente correlato a ciò è l’idea che la debolezza mentale o fisica può essere
sfruttata dai diavoli: “in accordo con i fisici, la mania predispone molto un uomo alla
demenza e conseguentemente all’ossessione demoniaca” (Kramer H. e Sprenger J.,
op. cit.). In alcuni casi riportati l’epilessia è descritta nei termini di un modello
medico che chiama in causa una ostruzione cerebrale.
I casi di epilessia, comunque, non sempre erano ricondotti all’azione del diavolo. Un
paziente che “urlava di essere soffocato dagli spiriti maligni” si rivelò intossicato
dall’ingestione di salmone. Questo caso è particolarmente interessante perché nella
descrizione viene usata una terminologia diabolica, anche se era riconosciuta la causa
biologica del problema.
Nell’insieme i casi del XII secolo rivelano una propensione a dare la colpa al diavolo
di tutti i disturbi mentali, includendone alcuni che chiaramente non somigliano alla
sindrome da possessione. La serie dei casi del XV secolo mostra anch’essa una simile
propensione. Molta attività demoniaca, comunque, non è evidentemente possessione.
Per esempio Agnes Alyn fu colpita “dalla furia violenta di uno spirito cattivissimo,
realmente e non invisibilmente”. Un episodio narra di un cappellano che fu spinto dal
59
diavolo a suicidarsi, e molti altri casi sono descritti come “deliranti o pieni di
demoni”. Anche qui, come nei precedenti, i demoni non sono ritenuti i responsabili
dell’epilessia.
Se i casi ottenuti dai santuari medievali inglesi attribuiscono ampiamente la causa dei
disturbi mentali all’azione del demonio, lo stesso non si può dire per le inchieste
legali sui disturbi mentali riportati da Neugebauer (1979). Le registrazioni dei
processi, dalla metà del XII secolo al XVII, mettono in evidenza che la demonologia
non fu molto impiegata nella spiegazione della pazzia. In un solo caso i giudici
attribuirono la pazzia “all’influenza di spiriti maligni” (Neugebauer R., 1979).
Si adottarono spesso spiegazioni di tipo naturalistico. Allo stesso modo la corte si
rimetteva ai criteri del senso comune per esprimere un giudizio sulle facoltà mentali
dei processati. In pratica, la diagnosi sulle cause del disturbo dipendeva molto da chi
la faceva, per esempio in un racconto del XV secolo, che parla della malattia di un
certo Hugo Van der Goes, “alcune persone asseriscono che si tratti di un caso
peculiare di frenesis magna, la grande malattia del cervello”.
Altri credono che sia posseduto da uno spirito maligno. Certamente le differenze
individuali e culturali avevano molta importanza nell’attribuire le cause di un
disturbo all’influenza del demonio. Tuttavia si possono anche identificare alcune
caratteristiche comuni nelle credenze sulla possessione demoniaca nel tardo
Medioevo. In primo luogo era stato pubblicamente riconosciuto che non tutti i
disturbi mentali provenissero dal demonio. In secondo luogo era stato accettato il
fatto che l’epilessia non era dovuta alla possessione demoniaca. Infine molte altre
cause, principalmente fisiche e contestuali, furono chiamate in causa per spiegare
l’origine dei disturbi mentali.
Alla fine dell’era medievale solo alcuni tipi di disturbi mentali erano ricondotti alla
possessione demoniaca, probabilmente perchè mostravano i sintomi della sindrome
da possessione. Nell’Europa moderna, malgrado la notevole diffusione della
possessione, vi era una certa riluttanza nel diagnosticarla senza aver prima fatto un
esame accurato (Oesterreich T. K., 1966). Per esempio Richard Napier (1550-1617),
60
famoso fisico-astrologo elisabettiano, esaminò 2483 pazienti affetti da disturbi
mentali durante il periodo che va dal 1597 al 1625, e sebbene 148 di questi
lamentavano di essere perseguitati dal diavolo, solamente 18 furono classificati come
posseduti.
In questo periodo emersero due fattori nuovi che influenzarono il modo di vedere la
possessione e aumentarono lo scetticismo nei confronti delle cause demoniache della
sindrome da possessione. Il primo di questi fu un drammatico aumento della
stregoneria, considerata alla base della possessione demoniaca: uno dei poteri delle
streghe, infatti, era di indurre la possessione (Kramer H. e Sprenger J., op. cit.).
I soggetti indemoniati erano spesso interrogati su chi li avesse stregati, e le loro
risposte diventavano le basi di un’accusa alla presunta strega. Ciò portò in molti casi
all’impiccagione. Il secondo fattore fu la Riforma. Sebbene non vi fossero differenze
dottrinali tra cattolici e protestanti per quanto riguardava la demonologia e la
stregoneria, non così si poteva dire per la concezione dell’esorcismo. Il punto di vista
dei cattolici era che Cristo avesse delegato il potere di esorcizzare i demoni ai suoi
discepoli e, da questi, alla Chiesa. I protestanti invece credevano che né i loro ministri
né i cattolici avessero questo potere, soltanto la preghiera poteva intercedere. Lutero
stesso usò e raccomandò questa pratica che derivava direttamente dalla Bibbia
(Marco 9, 28-29). Il risultato di tale diatriba portò ad un uso propagandistico dei
propri metodi e ad una denigrazione reciproca. Un’altra conseguenza fu che bastava
accusare i sintomi della sindrome da possessione per chiamare in causa il diavolo. A
tal fine alcuni segni furono interpretati come precipui della possessione diabolica.
Secondo Walker (1981) questi erano: la capacità di parlare e capire lingue
sconosciute al paziente, la conoscenza dei segreti delle altre persone, una forza fisica
superiore a quella che il paziente ha normalmente, orrore e repulsione verso ciò che è
sacro. La compresenza di tre di questi segni in una persona costituisce una prova
sicura della presenza demoniaca.
Lo scetticismo sulle origini diaboliche della possessione si sviluppò lentamente e
irregolarmente. Nel 1775 Gassner indusse pubblicamente le convulsioni in due suore
61
ordinando ai demoni di manifestarsi, poi rivendicò la loro complicità nell’origine del
disturbo.
Le opere che vedono la luce nel periodo che va dal XV al XVII secolo sviluppano le
concezioni demonologiche tenendo conto sia del patrimonio dottrinario dei secoli
precedenti, sia delle tradizioni popolari e del folklore. I demonologi, spesso
inquisitori, avevano conoscenza non solo di antichi testi teologici ma anche delle
dichiarazioni e delle confessioni dei condannati. Per loro rivestiva molta importanza
la ricerca di quei segni diagnostici che permettessero di distinguere i sintomi propri
della possessione dalle cause naturali, eventualmente occorrenti. Francesco Maria
Guaccio (1608) riporta 47 sintomi suddivisi in due categorie, una concernente le
manifestazioni sensorie e fisiologiche, l’altra la manifestazione di facoltà paranormali
o eccezionali.
Molti sono stati i tentativi di comprendere e dare una spiegazione all’esperienza
diabolica in un’epoca tanto lunga quanto il Medioevo. Gli studi di tali avvenimenti
irrazionali, sin dai tempi antichi, tendevano ad isolare i fenomeni dal loro contesto
storico, rivelando solamente gli elementi morbosi e anormali presenti in essi, e
considerandoli esclusivamente sotto la prospettiva dell’esame clinico.
Già nel Canon Episcopi viene portata avanti la tesi dell’intervento diabolico come il
risultato di “uno stato di turbamento sensoriale”. Il Bourneville (1883) osserva:
“All’idea corrente di un’operazione diabolica attiva si sostituisce l’idea nuova di una
diavoleria passiva, dell’ossessione, della possessione, l’idea di una sofferenza degna
di pietà”.
Un altro studioso, Wier (1660) , anche se riconosce ancora l’influenza del demonio,
sostiene la natura morbosa dei fenomeni, che attribuisce alla fervida ed esaltata
immaginazione femminile.
L’attuale atteggiamento della Chiesa Cattolica verso la possessione è cauto: essa è
considerata un fenomeno reale che sopravviene raramente ed è, altresì, riconosciuto
che la maggior parte dei sintomi presentati abbia una causa naturale.
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4. Il diavolo nelle credenze popolari
Nell’immaginario collettivo popolare la figura del diavolo assume molteplici
significati, ad essa, per esempio, viene attribuita l’origine delle tempeste e di tutte
quelle calamità naturali che minacciavano, in particolare, il mondo contadino. Non
meno importanza veniva attribuita al demonio per ciò che riguardava le cause della
malattia. Il diavolo colpisce l’uomo nel suo stesso corpo, tanto è vero che le malattie,
specialmente quelle mentali e nervose, sono ritenute essere una sua opera (Cocchiara
G., 1945).
Il Pitrè (1896) ci informa che in Sicilia “alcuni ritengono che l’epilessia provenga da
spiriti che abbiano invaso il corpo del paziente”. In Sardegna vi era la credenza che le
convulsioni e l’epilessia fossero causate dalle ossessioni di un “malo spirito” o del
diavolo in persona (Bresciani A., 1840).
Il De Martino (1959), in “Sud e Magia”, descrive la possessione come “la temporanea
insorgenza di personalità seconde, con impersonazione dei relativi caratteri,
tradizionalmente interpretato come possessione da parte di spiriti, o come vera e
propria possessione demoniaca quando la personalità seconda è aberrante, in conflitto
con il carattere normale del soggetto, e con qualsiasi norma morale” (De Martino, E.,
1959), facendola rientrare all’interno di quelle malattie magicamente curabili in cui vi
è un’esperienza di dominazione, un sentirsi agito da una forza esterna e maligna.
Quando l’insicurezza della vita quotidiana si accresce, quando la capacità di reagire
ai momenti critici dell’esistenza è insufficiente, la presenza entra in crisi per il crollo
della stessa possibilità di farsi centro di decisione e di scelta.
In questo contesto può innestarsi un’alterità sui generis, occulta e malefica,
qualitativamente diversa dall’alterità ordinaria. Tuttavia proprio l’ideologia della
possessione e dell’esorcismo offrono “un quadro rappresentativo stabile, socializzato
e tradizionalizzato, nel quale il rischio di alienazione delle singole presenze si
converte in ordine metastorico, cioè in un piano sul quale può essere effettuata la
ripresa e la reintegrazione del rischio; d’altra parte queste ultime possono aver luogo
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nella misura in cui la negatività attuale o possibile del divenire possono essere
ritualmente destorificati” (De Martino, E., op. cit.).
Sulla stessa linea di pensiero si mantiene Guggino, secondo cui “attraverso la magia
una classe subalterna protesta la propria volontà di esserci nel mondo, tenta un
riscatto alla crisi della presenza e sostanzialmente si prova a strutturare una realtà che
appare ed è talvolta un casuale aggregato di eventi” (Guggino, E., 1984).
Il limite della magia, tuttavia, è legato al suo ambito d’azione che è limitato
all’immediato e prescinde da una progettazione futura lungimirante.
La Guggino (1984) mette in evidenza come nell’ambito popolare non vi è
praticamente distinzione tra possessione diabolica (come credenza ammessa
ufficialmente dalla Chiesa) e fattura (pratica che rientra nell’ambito delle
superstizioni), e sottolinea la contraddizione di un prete esorcista dell’epoca, che in
teoria differenzia le due cose ma in pratica, sulla base di esperienze personali, non
può farlo (Guggino E., 1986).
Altrettanto interessante è la constatazione che nel mondo delle credenze popolari vi è
una grande confusione tra Dio, esseri e santi, i quali convivono tutti nello stesso
Olimpo, che non si pone in contrapposizione al mondo medico ufficiale ma,
addirittura, lo affianca.
5. Il diavolo nella tradizione popolare siciliana
Alla costruzione dell’immagine diabolica hanno contribuito leggende e credenze
popolari di epoca imprecisata e spesso di origine territoriale ignota. Relativamente
alla tradizione popolare siciliana, il Pitrè riferisce un lungo elenco di epiteti usati al
suo tempo: il diavolo è “lu tintu” – il cattivo -, “lu virseriu” – l’avversario-, “l’ancilu
niru” – l’angelo nero-, “lu nnimicu” –il nemico -.
Molto spesso le leggende diaboliche vengono ambientate sull’Etna, ponendo il fuoco
etneo in relazione con quello infernale. Più in generale, tutti i vulcani vennero
considerati come delle bocche dell’inferno, dove si sarebbero raccolti tutti gli spiriti
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malvagi, passando per i crateri vulcanici. Non soltanto il popolo ma anche la Chiesa
credeva che il cratere dell’Etna fosse una bocca infernale, come dimostra il racconto
della vita di S. Filippo D’Agira (V sec.) scritto dal monaco Eusebio nel VII-VIII sec.
Questo Santo, salvatosi per intercessione di S. Pietro, da un naufragio, giunge a Roma
dove viene consacrato prete ed inviato in Sicilia a combattere i demoni alloggiati in
quella bocca infernale che è il cratere dell’Etna.
Anche la storia di S. Calogero (V sec.) è molto simile; egli, come tanti monaci di quel
periodo, ebbe fama di taumaturgo.
Calogero, nato in Calcedonia, dopo una vita fatta di preghiere, vestito dal suo saio
umile e logoro, arriva in vetta al monte Cronio nelle cui grotte era il demonio. Per gli
anni che gli rimangono da vivere egli si dedica alla salute delle anime e del corpo
curando le più svariate malattie con i fanghi, le acque sulfuree, il vapore delle grotte.
In questa leggenda si può ritrovare il culto primigenio dei siculi Palici, ripreso e
riadattato in modo tale da poter essere accettato dal contesto religioso e culturale del
periodo. Secondo un’antica credenza, tra Mineo e Palagonia si ergeva un tempio
famoso dedicato alle due divinità dei Palici, demoni ctonici figli gemelli di Zeus e
della ninfa Talia. Nei pressi del tempio vi erano due crateri, il cui ribollire era ritenuto
un fenomeno religioso, per cui il tempio divenne il più “santo” che esistesse e fu il
luogo dove venivano compiuti i giuramenti e condannati gli spergiuri. Alle acque che
ribollivano in questi crateri vennero inoltre attribuite varie facoltà terapeutiche.
Il potere di queste acque è stato assunto di volta in volta da santi diversi, per guarire
varie malattie. Tra queste rientrano tutte le forme di possessione demoniaca,
compresa l’epilessia. Si afferma, infatti, che l’indemoniato manifesta l’invasamento
attraverso manifestazioni epilettiche o epilettoidi, digrigna i denti, si irrigidisce,
emette bava dalla bocca.
Il paganesimo comunque non scompare mai del tutto; si crea così un sincretismo
religioso che, in qualche modo, resta inalterato sino ad oggi. Un esempio di ciò è
rappresentato dai vecchi amuleti che gli epilettici cominciarono a portare addosso e
sui quali erano scritte formule ritenute efficaci. Il Pitrè (1913) riferisce che in alcune
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zone della Sicilia, per preservare il soggetto dall’attacco epilettico, gli si fa mettere al
collo un chiavino generalmente d’argento. Le parole di Tommaso Fazello (14981570), storico del suo tempo, ci danno un’esatta dimensione di come fosse radicato il
pregiudizio che assimilava l’epilettico all’indemoniato. Egli nel “De Rebus Siculis
decades duae” racconta: “A questo punto non tanto per dare degna meraviglia ai
miracoli ma perché da molti uomini non sono ancora credute queste faccende degli
indemoniati, non mi par fuor di proposito parlarne. La medesima fede cristiana
conferma che molte persone sono tormentate ed agitate dai demoni. I nostri teologi li
definiscono indemoniati ma volgarmente sono detti spiritati. Mi meraviglio della
poca prudenza di qualcuno che attribuisce queste cose non ai demoni ma agli umori
melanconici. Ippocrate e Galeno hanno detto che la malinconia si genera nei nostri
corpi da cause naturali, in altre parole da una temperatura eccessivamente fredda o
dal comune vitto freddo e asciutto. L’umore così naturalmente formatosi viene detto
“malinconico”. Questi medici hanno pensato e detto che se l’umore malinconico
offende la mente provoca la malinconia, se invece serra i meati del corpo genera il
mal caduco. Apportando queste ragioni costoro vogliono dimostrare che le persone
indemoniate o spiritate sono agitate piuttosto da un’infermità che dal demonio. Io,
personalmente, ne ho visti molti indemoniati e per amor del vero sono costretto a
farne breve cenno. Nell’anno 1541 mi trovavo ad Agira proprio il giorno di S.
Filippo; dentro la Chiesa dedicata al Santo erano stati condotti circa duecento
spiritati.
Era uno spettacolo orrendo vedere loro non se stessi ma demoni; agitavano le
braccia, digrignavano i denti, la bava usciva dalle loro bocche, storcevano il capo, la
bocca, gli occhi. A lume di torce sfilavano davanti l’altare innalzato al centro della
Chiesa. Ad un certo punto, alla presenza del popolo, fu liberata una certa donna
ragusana, della cui liberazione poi si ebbe un segno. Nello stesso istante in cui la
donna venne liberata, il candelabro d’argento, posto sull’altare, cominciò a girare
su se stesso velocemente, le candele si spezzarono, le altre lampade posizionate
sempre sull’altare si spensero. Era l’umore malinconico che muoveva il corpo della
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donna e, contemporaneamente un corpo lontano ed inanimato? (Vengano avanti
coloro che attribuiscono queste cose alla natura. Io penso che ciascuno di noi può
facilmente riconoscere ed ammettere che la loro è un’opinione sciocca, i loro scritti
ridicoli, la loro parola vana)".
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CAPITOLO QUARTO
L’EPILESSIA NELLA TRADIZIONE POPOLARE: RITI
ANTICHI E RITUALI MODERNI
1. La medicina popolare
Un’idea che ha attraversato la storia della medicina è quella che ricollega gli stati
morbosi all’effetto negativo e malefico di forze occulte appartenenti alla sfera del
demoniaco. A partire da Ippocrate, soprattutto con l’Illuminismo, la medicina colta si
libera progressivamente dal demoniaco, dalle streghe, dalla magia. La spiegazione
razionale diviene quindi il principale strumento di conoscenza: è sull’alternativa tra
razionalità e magia che si fonda la civiltà moderna e la medicina biochimica
abbandona la concezione magica per rivolgersi esclusivamente a quella razionale.
La medicina popolare cerca invece di tenere uniti questi due universi; essa non opera
scelte ma lascia aperte le due possibilità. In questo modo viene soddisfatta la richiesta
di protezione psicologica di fronte alla drammaticità della malattia (Miceli S., 1983).
Il negativo quotidiano viene quindi mantenuto su un piano metastorico, che vede
ancora l’uomo preda di deliberate fatture ordite da invidiosi o da esseri soprannaturali
e terribili; il ricorso a potenze benefiche, rappresentate di volta in volta da divinità,
santi, madonne, guaritori, diventa, quindi, la soluzione più naturale al problema.
Elementi naturali e fenomeni magici intervengono nella spiegazione dell’origine della
crisi epilettica, agendo a volte in maniera combinata. La malattia viene cosi attribuita
all’azione degli spiriti, ma anche a quella dei vermi. Questo duplice ordine di cause si
ritrova ancora nella classificazione delle diverse forme cliniche in cui si tiene conto
del modo in cui la malattia si manifesta, come pure del fattore etiologico. Infine lo si
riscontra nella terapia, con la quale ci si rivolge alle forze naturali ed extra-naturali
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nell’intento di ripristinare l’equilibrio tra il soggetto colpito dal male ed il suo
universo (Restuccia P., 1991).
Quando il male risulta refrattario agli espedienti comuni, ai rimedi domestici, o c’è il
sospetto di “cause superiori” che escono dalla sfera del naturale, vengono chiamati in
causa degli individui che, per poteri ereditati o per dono proprio, ma anche perché
“spiritati”, possono costringere le potenze benefiche sia naturali che divine ad
intervenire ed agire secondo la loro volontà. Viene richiesto, infatti, l’intervento di
una figura particolare, “il rimediante”, che è dotato di poteri tali da costringere le
forze naturali o extra-naturali ad agire secondo la propria volontà (Restuccia P., op.
cit.).
L’intervento diventa allora magico (Guggino E., 1986).
Alcune volte l’intercessione delle potenze benigne è chiesta dalla comunità attraverso
particolari riti, in cui la forza naturale e quella divina si integrano per l’opera di
mediazione svolta dal rimediante. Il rito svolge la funzione di restaurazione
dell’equilibrio sociale e psicologico. Esso rappresenta uno strumento per cercare di
risolvere il conflitto tra uomo e natura, ma esso è, inoltre, l’espressione di un mito, di
credenze condivise che hanno origini lontane. Al rito può seguire la prescrizione di
sostanze naturali o, in tempi più recenti, di veri e propri farmaci. Ai soggetti, ad
esempio, poteva essere somministrata dell’acqua, con la quale era stato lavato il
cadavere di un bambinello di pochi mesi, morto però di malattia che non gli aveva
causato febbre; mangiare un poco di mestruo di donna, un brano di placenta, un brano
di cordone ombelicale di feto maschio, seccato e polverizzato o, infine, triturare
finemente ed ingoiare la polvere di un osso di morto sciolta nell’acqua, per tre
mattine di seguito, a stomaco digiuno (Zanetti Z., 1892).
Tra i più antichi rituali di guarigione utilizzati in Grecia per guarire l’essere umano
dall’epilessia, va ricordata la “pratica dell’incubazione”, che consisteva nel far
dormire, sopra una lastra di pietra, l’individuo affetto da epilessia, nel tempio
d’Esculapio, il dio dell’arte medica, attendendo la guarigione. Nonostante le
interessanti descrizioni dell’epilessia di molti autori del passato, le cure di questa
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patologia continuarono per molto tempo ad avere forti connotazioni magiche. Così,
ad esempio, era unanimemente considerata fondamentale l’influenza della luna piena
sulla ricorrenza degli attacchi epilettici. Altresì per curare questa patologia si
utilizzavano frequentemente i semi e le radici della peonia, si faceva grande uso della
polvere delle ossa di cranio e del sangue umano. A questo proposito, vi era anche
l’usanza, com’è testimoniato da Plinio il Vecchio, di cospargere di sangue umano la
bocca di un epilettico o fargli succhiare il sangue che usciva dalla bocca di un
gladiatore morente per trarne risultati terapeutici.
La liberazione dal sintomo, quando a determinare il male sono cause superiori, ha
un’importanza relativa; ciò che effettivamente conta è la liberazione dalle forze
occulte, negative, del maligno, senza la quale le cure naturali sia empiriche che
mediche non avrebbero alcuna utilità (Dini V., 1992).
Schematizzando è possibile allora dividere l’intervento terapeutico in due tempi: la
liberazione dalle forze occulte negative (attraverso il rito) e liberazione dal sintomo
(attraverso cure empiriche della stessa medicina popolare e mediante le cure della
medicina colta) (Dini V., op. cit.).
La medicina popolare costituisce un ponte tra due universi perché si fonda su una
dialettica tra l’irrazionale e la ragione, rivolgendosi alla stessa maniera alla magia ed
alla medicina ufficiale. Essa, infatti, per quanto si serva di una terapeutica propria, di
fatto non si pone mai contro la medicina ufficiale. Si assiste, quindi, ad una
contaminazione di chiavi di lettura diverse del fenomeno patologico e questo offre
una possibilità di protezione psicologica del soggetto in tutta la sua complessità
(Restuccia P., op. cit.).
Maghi, guaritori e sacerdoti, che potremmo considerare il primo esempio di casta
medica, diventarono il tramite principale tra il mondo soprannaturale e quello umano:
ad essi furono affidati la guarigione e i tentativi terapeutici del tempo. Elemento
centrale della cura era il ricongiungimento tra l’uomo, punito dal male, ed il volere
divino; esso si realizzava tramite una serie di riti e pratiche finalizzate alla
purificazione dell’epilettico. È all’interno di questo contesto culturale che deve essere
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inserita la pratica della trapanazione cranica, con la quale si determinava una
fuoriuscita di pus che avrebbe anche consentito l’espulsione del “male” presente nel
soggetto. La paura di essere contaminati dalla presunta impurità dell’epilettico, aveva
generato l’usanza di sputare addosso al soggetto per eliminare tale pericolo.
Il paziente è sempre chiamato in causa in prima persona, non solo in quanto è colui
che è stato colpito dal male ma anche perché, facendo parte di una comunità più
ampia ed allargata, può contribuire ad identificare il maligno. Il suo corpo che
“patisce” diventa il teatro dell’azione malefica, costituendo una risorsa per la
comunità stessa, che può evocare il positivo, vincere il maligno, opporsi al negativo
una volta identificatolo (Restuccia P., op. cit.).
Di fondamentale importanza per la medicina popolare era l’utilizzo di alcune
tipologie di piante a cui venivano attribuite poteri medicinali nella cura dei fenomeni
epilettici. Nella Roma del Medioevo, ad esempio, era noto il culto di Santa Bibbiana.
In particolare, la canapa acquatica (Eupoatorium cannabinum), assieme all’acqua del
pozzo antistante la chiesa di S.Bibbiana, veniva reputata terapeutica (Suozzi R. M.,
Alicicco E., 1986).
Le piante impiegate con maggiore frequenza erano: il vischio quercino (Loranthus
europaeus) e la peonia (Peonia officinalis), il tiglio (Tilia europea), il semprevivo dei
tetti (Sempervivum tectorum), la digitale (Digitalis purpurea), la camomilla
(Matricaria recutita), il papavero (Papaver rhoeas), gli amenti secchi e polverizzati
del noce (Juglans regia) (Nicolais G., 1991).
Attualmente gli studi sulla capacità delle piante medicinali di trattare le forme
epilettiche si stanno moltiplicando, attingendo informazioni ed esperienze soprattutto
dalla etnobotanica, ed in particolare dai sistemi curativi dei popoli africani.
Sono note, infatti, le indagini e le esperienze condotte in Mali, ove la medicina
tradizionale adopera piante quali la Khaya senegalensis, il Tamarindus indica
(tamarindo), lo Zizphus Mauritania (Suozzi R. M., Alicicco E., op. cit.).
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Le convulsioni dei bambini in Nigeria sono controllate mediante l’uso di preparati di
piante medicinali. Tra le piante più comunemente adoperate vi sono il tabacco,
l’estratto acquoso ed alcolico del Cynodon dactylon, da noi conosciuto con il nome di
gramigna rossa (Suozzi R. M., Alicicco E., op. cit.).
Queste piante, infatti, sembrerebbero possedere un’azione anticonvulsivante, legata
probabilmente ad un’azione depressiva del Sistema Nervoso Centrale.
Anche il regno animale forniva rimedi contro il male. Si andava dai pezzettini di
carne di ramarro mangiati crudi a digiuno, al sangue bovino bevuto ancora caldo, in
giorno di giovedì; dall’olio di scorpione con il quale erano unte le tempie ed il naso
del malato (Zanetti Z., op. cit.) a quello in cui era stato fritto un cagnolino da latte
(Rossi C., 1874); dal fiele di agnello bevuto nel vino puro, all’uccello estratto dal
corpo di una serpe che l’abbia appena ingoiato, da far mangiare all’infermo a sua
insaputa (Zanetti Z., op. cit.).
2. I Santi protettori degli epilettici
L’abilità di esorcizzare i demoni fu interpretata come un segno divino o come indizio
di santità. Ciò spiega il frequente riferimento all’esorcismo nella vita dei santi e la
ricerca di casi di esorcismo per supportare una causa di santità.
Nella religione cattolica ad ogni santo è riconosciuto uno specifico potere
taumaturgico: ad ogni malattia, infatti, corrisponde un particolare patrono (Kerler D.
H., 1905). Nella farmacopea popolare, nelle formule scongiuratorie e nei rituali
elaborati nei secoli per la conservazione della salute, il nome del santo ricorre spesso
per conferire maggiore efficacia all’assunzione di un infuso d’erbe o alla gestualità
magica di un guaritore di campagna. Nell’epilessia, invece, la presenza potente del
santo non è invocata nei soli momenti di necessità, bensì avvertita costantemente
poiché, invisibile, accompagna il malato per sempre, dal manifestarsi della prima
crisi fino alla morte (Murphy E. L. , 1959).
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I santi protettori degli epilettici presenti nel Cristianesimo occidentale sono circa
cinquanta, di cui una ventina hanno goduto, o ancora oggi godono, in Italia, di una
particolare devozione popolare. Sono perlopiù santi che subirono il martirio per
decapitazione (da cui il patronato nei confronti di quanti soffrono di mali localizzati
nella testa o nel cervello), tra cui: San Giovanni Battista, San Vicinio, San Genesio,
San Vito, San Donato (molto venerato nel sud d’Italia), Sant’Andrea Avellino, San
Calogero, Santa Febronia, Santa Margherita, San Vincenzo Ferreri, santa Bibbiana e
soprattutto San Valentino. Quest’ultimo era un monaco del III secolo. Avrebbe
guarito Cheremone, figlio epilettico di Cratone, maestro di retorica a Roma, per cui
tutta la sua famiglia si sarebbe convertita al cristianesimo. Fu ucciso dai pagani il 14
febbraio e sepolto dai suoi fratelli a Terni, di cui è protettore. La leggenda di aver
aiutato due fidanzati a sposarsi, diventando protettore degli innamorati, è posteriore.
In particolare nelle regioni dell’Italia nord-orientale, ancora fino ai primi decenni del
‘900, erano operate in nome di S.Valentino due significative misure terapeutiche a
carattere magico-religioso. Una di queste consisteva nel far filare, per mano di dodici
donne, la sera precedente il giorno di S.Valentino, che ricorre il 14 Febbraio, una
quantità di canapa o di lino, raccolto per elemosina nel vicinato, poi tessere la tela,
tagliarla nei pezzi dovuti, cucirla insieme in forma di camicia, e, al primo tocco della
mezzanotte, farla indossare all’ammalato. Tutto questo doveva avvenire nel tempo
che corre dall’ora di notte appena suonata alle dodici precise (Mazzucchi P., 1912).
A Venezia, invece, si consigliava: “A quei che ga sto mal se ghe mete al colo la ciave
d’argento de San Valentin, che costa 33 soldi e bisogna i sia fati de carità da 33
donne maridae, un solo a testa” (Bernoni DG., 1968).
Questi due rimedi, riguardanti l’area veneta, si presentano non dissimili da altri
registrati nelle diverse regioni italiane: in essi, infatti, emergono alcuni motivi
comuni, come la questua per procurarsi la tela o il denaro; l’elemento femminile,
come le filatrici o le donatrici dell’obolo, prescritto per l’acquisto della chiave
benedetta; i numeri, ai quali viene attribuito un grande valore magico e simbolico.
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Queste due pratiche ricordano molto quanto annotava il Pitrè a proposito delle terapie
magico-religiose adottate in Sicilia nei confronti del male (Pitrè G., 1896).
Al centro, invece, la devozione appare estremamente frazionata, perché diretta a
numerosi santi invocati dal popolo per tenere lontani gli attacchi del male: S.
Bibbiana, S. Genesio, il beato Gioacchino, ecc.
Un rituale abbastanza singolare è quello che si svolge nel santuario mariano di
Canoscio, in Umbria, molto frequentato anche dai devoti della limitrofa provincia di
Arezzo. Condotto l’infermo davanti l’altare, presso il quale sono raffigurati gli
apostoli in piedi davanti alla Vergine morente, si accende davanti ad ognuno di essi
una piccola candela: quella che si spegnerà per ultima starà ad indicare a quale santo
la Madonna ha inteso “delegare” i suoi poteri per la guarigione dell’epilettico.
Incontrastato patrono dell’epilessia nell’Italia meridionale, ad eccezione della Sicilia,
è, fin dai primi secoli del Medioevo, San Donato vescovo di Arezzo, ritenuto
erroneamente martire, per decapitazione, verso il 362 d.C. (Lützenkirchen G., 2000).
Come S. Giovanni Battista e S. Valentino, anche S. Donato dà il nome alla malattia:
“male di San Donato” (o anche, nelle varianti dialettali: mòto, tòcco guàije) è la
denominazione comune a tutte le regioni un tempo comprese nel regno borbonico,
dall’Abruzzo alla Calabria. È intorno alla figura di questo santo che si sono venute a
costruire leggende, credenze e rituali di particolare interesse antropologico e storicoreligioso: oggi in via di modificazione, essi costituivano gli elementi caratteristici di
una devozione che si manifestava in rigide e precise cadenze nei giorni della vigilia e
del festivo del santo (6-7 Agosto).
Nelle località meridionali in cui ricorre la festa di S. Donato, circa cinquanta, si
rinvengono tuttora, seppur sparsi e talvolta frammentari, i residui elementi di culto
attraverso i quali è possibile ricostruire il pellegrinaggio-tipo al santo, così come
veniva effettuato fino a quattro o cinque decenni or sono. I pellegrinaggi a S. Donato
potevano essere compiuti sia per la richiesta di grazia, sia come ringraziamento per
l’ottenuta guarigione. In ogni caso il malato era obbligato a recarsi ogni anno dal
“suo” santo, per tutta la durata della sua vita. In genere il pellegrinaggio “di richiesta”
74
era formato da un gruppo ristretto di persone (l’epilettico, i genitori ed alcuni parenti
prossimi), mentre quello di “ringraziamento” vedeva il miracolato seguito da un folto
numero di accompagnatori - parenti ma anche semplici compaesani – che venivano a
rendere testimonianza delle eccezionali virtù taumaturgiche del patrono. Questo
“andare a S. Donato” comportava anche tre o quattro giorni di marcia, accompagnata
dal canto continuo, quasi ossessivo, che la “compagnia” intonava in onore e lode del
santo, e di brevi e disagiate soste di riposo, all’aperto e per pochissime ore ogni notte.
Un pellegrinaggio lungo ed estenuante, ma proporzionato all’eccezionalità della
grazia che si andava a domandare o che si era ottenuta. Gli ultimi chilometri che
separavano la “compagnia” dal santuario, erano obbligatoriamente compiuti a piedi
scalzi, soprattutto dalla madre del malato che, da questo momento, diveniva la figura
centrale dell’intero gruppo, sostenendo, da sola, tutto il peso di una serie di atti
penitenziali. La donna, quindi, in ginocchio e strisciando la lingua sul pavimento fino
a farla sanguinare abbondantemente, raggiungeva dalla soglia della chiesa la statua
del santo, posta davanti all’altare. Qui si abbandonava ad un drammatico monologo
nel quale, tra lacrime e grida, narrava al patrono la storia del figlio e lo implorava di
mostrare tutta la sua grande potenza guaritrice (Lützenkirchen G., op. cit.).
La donna affrontava il pellegrinaggio per chiedere sì una grazia ma, in realtà, anche
per espiare una sua colpa: quella di aver messo al mondo un figlio epilettico. Non
importava se fosse stato il marito a bestemmiare il patrono, ad aver lavorato in giorni
proibiti o aver abusato quotidianamente del vino: il figlio, se affetto da quel male, era
considerato soltanto tuo ed ad altre donne si doveva rivolgere obbligatoriamente per
aiutarla ad acquistare la miracolosa “chiavetta antiepilettica”.
La notte tra la vigilia ed il festivo, i pellegrini la trascorrevano sul pavimento della
chiesa, vicino al simulacro del santo. Il sonno dei pellegrini durante questa notte,
ricorda il rito dell’incubatio praticato nei templi dell’Esculapio: un sonno a scopo
terapeutico a cui si abbandonava il fedele in attesa che il dio gli apparisse in sogno,
rivelandogli la natura del male e la terapia che avrebbe dovuto seguire (Deubner L.,
75
1900). Il pellegrinaggio aveva il suo culmine nella lunga processione che si snodava
per tutte le strade del paese.
Queste pratiche, radicate da secoli nella cultura contadina e pastorale italiana,
sembrano ai nostri giorni pressoché abbandonate o addirittura scomparse.
Il perchè di questo mutato rapporto tra il fedele ed il patrono non va certo individuato
nella minor diffusione del “male di S. Donato” rispetto ad un tempo, né tantomeno
nel fatto che la moderna medicina sia riuscita ad abbattere definitivamente le antiche
superstizioni, sostituendosi validamente alla figura taumaturgica. È invece nella
modificazione intervenuta nel comportamento, più che nella coscienza morale e
civile, degli eredi della vecchia società agro-pastorale: il benessere economico
finalmente raggiunto e l’acquisizione passiva dei modelli di vita borghese, si sono
innestati su una mentalità ancora saldamente legata al passato (Lützenkirchen G., op.
cit.).
3. La medicina popolare siciliana
Nella medicina popolare della cultura siciliana si realizza una fusione di pensiero
greco, cultura araba, pensiero rinascimentale-illuministico e contenuti religiosi, da cui
si origina un sistema unitario che consente di tenere compresente credenze e tecniche
sia magiche che razionali (Pitrè G., 1896).
Diverse sono le terapie adottate per le convulsioni.
Esiste una terapia d’urgenza, che comprende quei rimedi che di solito vengono
praticati in casa seguendo consigli dettati dalla tradizione e che hanno il preciso
scopo di porre un primo soccorso alla crisi. Quando le convulsioni sono causate dai
vermi, per esempio, è necessario: far odorare l’aglio, oppure la ruta o l’aceto; mettere
l’aglio da solo o insieme alla ruta o con l’aceto sull’ombelico del paziente; strofinare
l’aglio sotto il naso, sulle tempie, sulle labbra, sotto il mento, sull’ombelico; mettere
una pezza imbevuta d’aceto dentro l’ano; fare massaggi con olio d’oliva sull’addome.
A parte questi rimedi, che rivestono carattere d’urgenza, la tradizione popolare
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utilizza altri elementi che tendono a curare i vermi in modo “profilattico”. In questo
caso le operazioni da compiere sono: mettere intorno al collo del bambino una
collana con sette spicchi d’aglio durante la notte; porre un ramoscello di erba bianca
sotto il cuscino o dentro una tasca del pigiama; spolverare sull’addome del bambino
un po’ di polvere da sparo bianca; applicare sull’addome del paziente un cataplasma
di cipolla bianca; mettere sull’ombelico un po’ di cenere di lana; porre sull’addome
una foglia di cavolo oppure pane arrostito inzuppato di vino (Pitrè G., op. cit.).
Diverso è il caso in cui il male si origina in una fattura o nell’intervento di “spiriti
maligni”: un primo rimedio potrà essere quello di mettere nel convulsivante una
chiave mascolina, oppure spruzzargli sul viso acqua benedetta raccolta da sette chiese
dedicate a sante, e detta quindi “acqua di setti chisi fimmini”. Questo presidio è
anche utile contro gli spiriti ed i demoni. Altri rimedi possono essere quelli di
sussurrare all’orecchio del convulsivante i nomi dei tre Re Magi – “Aspanu, Minzioni
e Batassanu”- oppure la preghiera di S. Francesco Ferreri “S. Francescu chinu di
puritati / scanzatilu di ogni mali / e di la vostra brutta ‘nfirmitati”.
In questi ultimi esempi si prescinde dalle cause che possano avere determinato
l’accesso e viene invocato un aiuto dei santi preservatori (i Magi) o di quelli
taumaturghi (S. Vincenzo).
Altri rimedi che rivestono il carattere d’urgenza sono: mettere il bambino sotto sopra
tenendolo per le gambe e, contemporaneamente, stringergli le natiche e soffiare nelle
sue orecchie per “mandargli al cervello ossigeno” (Cocchiara G., 1938).
In quest’ultima pratica è evidente l’influenza della medicina greca ippocratea.
Ancora, si possono immergere le mani del convulsivante in una bacinella piena di
acqua e aceto stringendogli forte i polsi: questo metodo va collegato all’influenza
greco-romana. La medicina popolare siciliana cristianizza ed adatta alla nuova
religione le antiche pratiche mediche e magiche. In uno scongiuro, ad esempio, Gesù
suggerisce a S. Antonio, a cui “cci pigghiò lu bruttu mali”, di stringere “quantu pari a
tia” per far cessare l’attacco epilettico. Sant’Antoni annò pi mari / e cci pigghiò lu
bruttu mali / non lu lassava annari avanti. / “’Ntoni picchì no lu ‘ncanti? / Vattinni
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‘ntà la cammira mia / ddà c’è la mè currìa / e strinci quantu pari a tia”. / ‘Ntoni
strincìa e lu mali sparìa / ‘Ntoni bintava / e lu mali sqagghiava. / A nomu di la
vergini Maria / e di lu Spiritu santu. (Bonomo G., 1953).
4. Etiologia e nosografia della crisi epilettica nella tradizione popolare siciliana
La crisi di Grande Male epilettico è una manifestazione estremamente drammatica: la
convulsione comporta una disgregazione del corpo dalla coscienza, annullata ed
incapace di essere centro decisionale. Essa pertanto rappresenta il più classico
momento di possessione, dell’ “essere agito da”.
Le espressioni “u motu”, “cummursioni pilètichi”, “attacchi”, “mali di San Vincenzu
(Pitrè G., 1896), proprie del dialetto siciliano, servono proprio a denominare questo
tipo di crisi, che viene generalmente attribuita a due ordini di fattori: per quanto
riguarda il contributo del pensiero magico-superstizioso vengono chiamati in causa
Spiriti, Malocchio-fattura, Scantu; alle influenze della medicina illuminata si
collegano invece l’irritazione, gli strapazzi sessuali, l’astinenza sessuale e la castità,
“sangu ’ntesta”, vena della testa ingrossata (Cocchiara G., 1982).
Il fattore eziologico non è sempre collegato in maniera lineare con il conseguente
intervento terapeutico. I modelli utilizzati sono costituiti a volte da elementi magici,
altre volte da elementi naturali, ma più spesso da elementi magici e naturali insieme.
È possibile individuare una serie di manifestazioni patologiche accostabili fenomeno
logicamente a sindromi epilettiche (Pitrè G., 1896; Mortillaro V., 1971):
a) Motu, comprende gli attacchi tonico-clonici del Grande Male e gli accessi mio
clonici dell’epilessia mioclonica.
b) Cummursioni di picciriddi, comprendono tutte le convulsioni dell’infanzia; nel
loro ambito, notevole importanza rivestono quelle determinate da vermi, che
possono costituire un’entità a parte.
c) U ‘ngusciu, accostabile agli spasmi infantili, non viene considerato come un
fenomeno epilettico così come nella medicina ufficiale.
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d) U stinnicchiu, caratterizzato da ipertonia generalizzata e perdita di coscienza;
lo stesso sintomo può essere riconosciuto come isterico (“stericu”), venendo
così ridicolizzato con il nome di “viticchiu”.
e) U svinimentu, ipotonia generalizzata e perdita di coscienza (“abbannuna”).
f) ‘ncantisìmu, per il quale il paziente resta incantato, “ncantisimatu” per qualche
secondo. Più recentemente viene anche definito “assenza” per la chiara
influenza della medicina colta.
g) Mali di luna, comprende “u lupunaru”, forma epilettica per cui in luna
quindicina si cade in convulsione, si esce di casa, si urla per strada e si piomba
per terra per rotolarsi nel fango e nella polvere; mentre l’“allunatu” designa
l’episodio convulsivo preceduto da vertigini.
In alcuni paesi dell’isola l’episodio convulsivo, sia nell’adulto che nel bambino,
prende il nome di “San Vincenzo” o di “cosi di San Vincenzu”.
Questo santo, il cui culto fu portato nell’isola dagli spagnoli, secondo la tradizione
popolare era affetto da epilessia e perciò considerato il protettore degli epilettici.
Nel diagnosticare uno stato patologico gli specialisti-maghi della medicina popolare
siciliana, più che ricorrere ad una diagnosi che tenga conto della sintomatologia,
considerando le manifestazioni cliniche solo effetti svariati e mutevoli delle forze
negative sia naturali che demoniache, ricorrono ad una diagnosi “etiologica”.
Così un malessere determinato, per esempio, da scantu, vermi o spiriti sarà
diagnosticato come Vermi, come Scantu o come Spiriti incorporati.
Per quanto riguarda le manifestazioni convulsive e le sindromi epilettiche in generale
l’eziologia viene ricondotta a (Pitrè G., 1896; Guggino E., 1986):
a) Spirdi (spiriti), le anime degli impiccati, degli uccisi, dei suicidi, di chi non ha
ricevuto ancora sepoltura che sono, secondo la tradizione popolare “armi
cunnannati” (anime condannate); esse vagheranno nel luogo dove cadde il loro
corpo per tutto il periodo della loro esperienza terrena ipotizzata.
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Per sottrarsi a questa condanna o per cacciare un ospite indesiderato, purchè
richiamati da una fattucchiera, possono penetrare nel corpo di una persona e
determinare anche convulsioni. L’armi cunnannati possono fissare la loro
dimora in una casa, di solito quella dove cade il proprio corpo; quando non
gradiscono un ospite “u ‘ncuètanu”, “u toccanu” causandogli malattie,
convulsioni, paralisi.
b) Malocchio – Fattura, il malocchio è un’influenza nociva e maligna che prende
origine dallo sguardo invidioso (malocchio=invidia) e può originare
un’ifluenza negativa, più o meno volontaria, sino alla fattura deliberatamente
ordita. Nella tradizione siciliana infatti ogni malattia, che non sia attribuibile
all’azione di vermi o delle paure, è certamente causata da sortilegi delle
streghe o da gente invidiosa.
c) Scantu (paura intensa),può causare convulsioni perché “smovi u sangu” o i
vermi. In altri casi si carica di valenze oscure che sono fortemente negative e
giungono sino al sospetto di una “maaria” (fattura). È inteso allora come
possessione da parte di un essere, possessione che può verificarsi anche senza
una fattura ordita: un’ “arma cunnannata” vagante, approfittando di un
momento
di
precarietà
dell’individuo,
può
incorporarsi
in
lui,
impossessandosene. È spesso chiamata in causa per spiegare le “cummursioni
di picciriddi”, soprattutto quelle assimilabili agli spasmi della sindrome di
West.
d) Vermi, sono presenti nell’intestino del bambino a causa della nutrizione lattea,
e restano come assopiti in un angolo, raccolti, secondo alcuni, a “cuddura”
(gomitolo). In questa condizione sono praticamente innocui, ma possono essere
smossi da varie cause e allora risalgono lungo lo stomaco e l’esofago per
portarsi nei vari organi; possono arrivare sino alla gola, stringerla come per
soffocare il bambino che andrà incontro a convulsioni.
e) Dentizione, causa di convulsioni nel primo anno di vita.
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f) Dibulizza (debolezza), che può determinare “sviniminti”, “cummursioni di
picciriddi”, “’ncantisìmu”.
g) Mestruazioni, possono essere causa di “sviniminti” e “stinnicchi”.
Insieme alla dibulizza possono rappresentare momenti critici in cui le forze
negative possono prendere il sopravvento sull’individuo.
h) Irritazione, è una chiara influenza della medicina colta.
i) Sangu ‘ntesta (sangue alla testa), è un grumo di sangue nel cervello esito di
una “botta ‘ntesta” (trauma cranico); causa di “motu”.
j) Vena ingrossata della testa, per vizio congenito o acquisito (irritazione, “botta
‘ntesta”). Viene chiamata in causa per spiegare i “cummursioni pilètichi”
quando non si trova l’intervento del demonio o dei vermi.
k) Essere nati la notte di Natale, in quanto mancanza di rispetto a Gesù. Questa
credenza è comunque scomparsa del tutto.
l) Movimenti lunari e luna piena, l’essere nati durante la luna piena determina “u
lupunaru”; l’avere dormito all’aperto con la faccia rivolta alla luna piena
determina l’essere “allunatu”.
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CAPITOLO QUINTO
LA RAPPRESENTAZIONE DELL’EPILESSIA NEGLI
EX-VOTO
1. La malattia negli ex-voto
La storia della medicina è legata a risvolti di carattere religioso, filosofico, etnologico
e magico. La cura dei malati, specialmente quelli di mente, era nelle mani di guaritori
locali classificabili in due categorie: erboristi e guaritori religiosi (Restuccia P.,
1991).
La metodica adottata dai guaritori religiosi si basava su credenze animistiche di
natura simbolica e magica. Il medico era, quasi sempre, il sacerdote o il guaritore,
una persona alla quale si attribuivano speciali poteri e capacità terapeutiche. Le
uniche cure riconosciute erano: affidarsi alle abilità di queste persone, all’esorcista
che faceva da intermediario con il divino nell’invocazione della grazia da parte del
malato stesso o della sua famiglia. Nella serie di guarigioni da malattie gravi e
liberazione dal male, le proprietà forti e miracolose erano affidate a speciali luoghi (i
santuari, dove venivano portati i doni, gli ex voto, testimonianza del miracolo), ed a
pellegrinaggi e preghiere (Segala P., 1979).
Gli ex voto (dal latino ex voto suscepto = secondo la promessa fatta), sono dei doni
fatti alla Madonna, ad un santo o ad altre divinità, in segno di riconoscenza per la
grazia ricevuta (Toschi P., 1944).
La motivazione che spingeva il devoto, o chi per lui, a richiedere l’aiuto della
Madonna o di un Santo, è legata alla profonda angoscia esistenziale provocata dalla
malattia e dalla sofferenza inspiegabile.
Nel mondo cristiano, ad esempio, nel III e IV sec. era diffusa la pratica di offrire
membra umane in oro, argento, legno, cera, che erano appese presso i sepolcri dei
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santi martiri, non solo a significare la riconoscenza del devoto per l’avvenuta
guarigione, ma l’offerta era fatta anche a priori, nella speranza di ottenere la grazia.
Nel mondo contadino e popolare del sud, la malattia grave è un problema enorme,
spesso incurabile per carenza di assistenza medica, ed ancora occasione di morte
improvvisa o prematura e di catastrofi familiari per un mondo in gran parte privo di
assicurazioni sociali, segnato da una elevatissima mortalità infantile e da una scarsa
durata media della vita (Dini V., 1992).
Nella rappresentazione delle diverse malattie negli ex voto, l’artigiano era chiamato a
costruire una statuetta che, a livello simbolico, rappresentava il sofferente, oppure la
parte del corpo guarita, in cera, argento o altro materiale.
Vi erano casi in cui l’artigiano, per una forma di perfezione o per un’esplicita
richiesta del devoto, si sforzava di rappresentare, nel modo più realistico possibile, le
deformità provocate dalle malattie e la topografia, anche interna, degli organi colpiti
dalle stesse (Segala P., op. cit.).
Non si esclude che alcune patologie dermatologiche e di altro tipo, potessero essere
espresse con colorazioni e segni ora non più rintracciabili per l’usura del tempo.
Dai numerosi ex voto anatomici presenti nei santuari, gli studiosi moderni hanno
cercato di delineare una storia della medicina antica, per definire quale fosse in
passato il livello di conoscenze scientifiche ricavabili. Le figurine e le teste votive,
rinvenute per lo più nel sud Italia, sono tra gli esemplari più antichi, i primi risalenti
al VI-V sec. a.C., e manifestano la richiesta rivolta alla divinità, di una protezione che
riguarda essenzialmente le condizioni di salute dell’offerente o degli animali di sua
proprietà (Toschi P., op. cit.).
Gli ex voto che attestano un rendimento di grazia per la guarigione di un animale
sono numerosi, sia sotto forma di oggetti che di tavolette dipinte.
Per esempio “la vacca” d’argento era probabilmente donata per l’esito felice di un
parto e per la guarigione da qualche epidemia del bestiame.
Si è cercato di verificare fino a che punto gli organi raffigurati negli ex voto
corrispondessero ad una reale anatomia del corpo umano.
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Considerato che gli artigiani che eseguivano i doni votivi erano per lo più analfabeti,
non in grado, quindi, di rappresentare con esattezza il fegato, lo stomaco, i polmoni,
ha portato gli studiosi a concludere che (probabilmente) gli ex voto più antichi
presentano quadri irreali, fondati sull’immaginazione e sulla fantasia del singolo
artigiano, quindi vanno interpretati.
Il medico era, secondo una concezione popolare della medicina, l’esercente di un’arte
medica, miscuglio di medicina primitiva, empirismo, magia e religione. Per esempio,
in Sicilia, nell’800 il medico era anche il barbiere che godeva di una tale fiducia
presso il popolo, e a lui ci si rivolgeva per chiedere consigli e farsi visitare quando si
stava male.
Era diffusa anche la pratica di affidarsi a guaritori, più spesso guaritrici, che per ogni
tipo di malattia avevano la cura più adatta: erbe miracolose, oli speciali, acque
purificatrici, sempre accompagnate da orazioni e preghiere. Il medico-sacerdote
invece faceva in modo che l’ammalato venisse condotto in chiesa per essere
sottoposto a certe torturanti ed affliggenti pratiche, soprattutto se si trattava di un
malato di mente, il cui fine ultimo era la liberazione dal male e dalla sofferenza.
Secondo la terapeutica popolare, il malato doveva soffrire molto e provare dolore
durante i riti, poiché solo a queste condizioni il Santo invocato avrebbe concesso la
grazia (Dini V., op. cit.).
Tra i doni più diffusi la testa, che rappresentava varie patologie, sia di natura psichica
che fisica, comprese tutte le patologie della faccia, delle labbra, del naso, del collo.
Per le guarigioni dalla follia veniva donata la testa, ma anche il cuore, simbolo
totalizzante della persona, e quindi, in questo caso, simbolo della mente, della
sapienza, della ragione, delle virtù riacquistate (Segala P., op. cit.).
Venivano donati occhi d’argento o riproduzioni in cera per tutte le affezioni oculari.
Anche gli organi interni venivano ampiamente raffigurati, dal fegato, ai polmoni, allo
stomaco. Gli organi genitali maschili e femminili indicavano malattie dell’apparato
urinario, impotenza nell’uomo, sterilità nella donna. Gran parte di questi ex voto
anatomici sono ormai scomparsi dai santuari, anche perché la stessa pratica è
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notevolmente diminuita. Nei pochi esemplari conservati ancora oggi nei santuari,
sono stati cancellati, per l’usura del tempo e per la cattiva conservazione, i segni
indicativi del tipo di patologia rappresentata, per esempio: certe cicatrici in alcune
parti anatomiche, il gonfiore delle teste, il rossore degli occhi, delle guance, del collo.
Da ciò si può dedurre che la lettura degli ex voto va fatta in modo interpretativo,
considerando che abbraccia un contesto multidisciplinare: antropologico, medico,
psicologico.
Per secoli la Chiesa ha guardato con atteggiamento critico le pratiche votive,
preoccupata soprattutto per le implicazioni superstiziose e magiche del fenomeno. La
condanna cadeva soprattutto sugli ex-voto anatomici, come le rappresentazioni di
uteri, visceri, considerati osceni e poco adatti ad essere esposti in chiesa. Solo con il
Concilio Vaticano II la posizione della Chiesa ha avuto una svolta positiva nei
confronti della religiosità popolare e, finalmente nel 1974 col Sinodo dei vescovi si
afferma che la religione popolare può essere vista come punto di partenza per una
realistica evangelizzazione (Dini V., op. cit.).
2. L’epilessia negli ex-voto
Attorno all’epilessia, prima che le scoperte scientifiche ne chiarissero l’origine e le
cause, c’era un alone di mistero che, data la spettacolarità delle crisi, non faceva altro
che incrementare paure e pregiudizi. Le donazioni per la grazia ricevuta che
riguardavano l’epilessia erano varie (Manganelli G., 1975).
La famiglia dell’epilettico, soprattutto se trattasi di un bambino, quasi sempre non
faceva scrivere sulla tabella dell’ex voto la natura della malattia, ma solo la sigla P.
G. R. (per grazia ricevuta) e, qualche volta, il nome e l’età del bambino.
Le motivazioni erano legate principalmente alle credenze magico-religiose della
malattia,oltre che alla vergogna e alla paura che questo tipo di crisi provocava
nell’immaginario collettivo.
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Se ancora oggi, alla luce delle conoscenze mediche, si rimane sconvolti e impauriti di
fronte ad un attacco epilettico, possiamo meglio capire come nel passato la ricerca
delle spiegazioni e delle cause fosse intrisa di elementi soprannaturali.
L’offerta votiva, come segno di omaggio e attestazione di fede in cambio di una
grazia ricevuta, ha origini antichissime. Essa costituisce la testimonianza più
immediata e genuina della religiosità popolare, attraverso la quale il tempo della
“disgrazia” abbattutasi sull’uomo, viene tradotto in tempo di “grazia” (Manganelli G.,
op. cit.).
È significativo sottolineare come vi fosse, nell’antichità, un’enorme confusione fra
l’epilessia e la follia.
Nell’epoca classica e nel Settecento le descrizioni delle crisi epilettiche sono non
prive di elementi superstiziosi e, da allora, fino a tutto l’800, l’epilessia e la follia
venivano sottoposte alle stesse pratiche terapeutiche, negli stessi reparti degli
ospedali, e la loro storia ebbe per decenni una sorte inscindibile. Solo nella seconda
metà dell’800 si sarebbero aperti negli ospedali reparti riservati agli epilettici. Ma
nonostante tutto, ciò non toglie che la malattia, restando per lo più incomprensibile,
stimolasse l’utilizzo di pratiche alternative per la sua cura. Ed ecco che, soprattutto
nel mondo popolare, delle regioni del sud Italia, ci si rivolgeva ai Santi, e non ai
medici, per chiedere la risoluzione della malattia (Dini V., 1992).
Di fronte alle scosse violente, alle cadute fulminanti, si capisce facilmente come, in
epoche passate, si sia potuto intravedere, in questa agitazione incontenibile, lo spettro
del demonio.
Per questo gli epilettici non venivano considerati dei malati da soccorrere, piuttosto
dei maledetti da isolare: l’unico rimedio era rimettersi alla volontà di Dio. Le
famiglie si rivolgevano direttamente ad esorcisti e guaritori locali.
I Santi protettori degli epilettici cambiavano a seconda delle zone.
In tutti i casi di guarigione avvenuta, era doveroso ringraziare il Santo protettore con
un qualsiasi tipo di offerta, ex voto, denaro.
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L’ex-voto, diffuso anche nelle religioni primitive, è la testimonianza di una mentalità
fortemente religiosa. Sia esso un oggetto (protesi di arti, trecce, etc.) o una
rappresentazione votiva in cui è presente l’immagine divina, interpreta, appunto,
questo passaggio e sottintende una pratica devozionale legata al culto di un
personaggio sacro, prescelto di volta in volta, nonché al luogo di culto, meta di
pellegrinaggi (Segala P., 1979).
Gli ex voto oggettuali e le tavolette votive si trovano esposti nei santuari 6 e nei musei
etnologici, e sono la testimonianza che nel passato le malattie, le calamità naturali ed
ogni tipo di sofferenza, trovavano la speranza di un superamento, solo per intervento
divino.
Gli ex-voto mantengono un significato storico, di fede e di cultura, ed hanno lo stesso
valore “artistico” che in epoca medioevale assumevano i capitelli romanici o certe
sculture decorative, la cui esecuzione non sempre era opera di artisti, bensì di
artigiani, i quali, interpretando un sentimento collettivo di fede, si facevano portavoce
di una situazione sociale che riscattava, attraverso l’opera, le colpe, il male, le paure
vissute dall’umanità. Gli ex-voto, offerti individualmente, rappresentavano la
testimonianza pubblica di una paura o di un male, sofferto e superato attraverso la
forza salvifica della fede. La cura delle malattie per le quali non si avevano
Il Santuario, spazio privilegiato destinatario e depositario degli ex-voto, attesta la forza ed il significato dell’ethos
popolare. Il Santuario è il luogo sacro, dedicato al culto pubblico, dove sono conservate in modo visibile e con sicurezza
le testimonianze votive dell’arte e della pietà, dove si sciolgono i voti e si venera l’immagine della Madonna o del Santo
ritenuta miracolosa. Nei confronti di questi luoghi di culto il mondo ecclesiastico ha mostrato un atteggiamento di
intolleranza, tanto che la stessa parola “santuario” non figura nel Codice di diritto Canonico fino al 1959, perché i
pellegrinaggi ai Santuari così come tutte le altre espressioni della religiosità popolare, erano visti come superstizioni che
dai bassi strati del cattolicesimo si introducevano tra le classi elevate.
La revisione del Codice di diritto Canonico, indetta da Papa Giovanni XXIII, dedica alla definizione del Santuario ben
quattro canoni. Finalmente il Santuario è riconosciuto come luogo sacro, dove i fedeli per un peculiare motivo di pietà
(per esempio per un’immagine sacra venerata, per una reliquia insigne conservata, per un miracolo da Dio operato), si
recano numerosi in pellegrinaggio. La stessa etimologia della parola “santuario” implica una località sacralizzata dalla
presenza del “sanctus”.
In seguito, proprio sulla scorta delle leggende di fondazione, saranno le apparizioni o le guarigioni miracolose a rendere
“santuari” quei luoghi di culto fino ad allora scarsamente frequentati, o semplici edicole poste ai bordi di strade, o
ancora cappelle site su terreni aperti. L’offerta dell’ex-voto appare prevalentemente legata al pellegrinaggio, come se
sciogliere un voto implicasse anche un iter penitenziale non solo spirituale ma anche fisico: di cammini, di salite
talvolta impervie, di digiuni, di fatiche.
Ecco il motivo per cui la maggior parte dei Santuari si trova disposto in luoghi difficilmente raggiungibili con i soliti
mezzi di trasporto, e piuttosto isolati e lontani dai centri abitati.
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spiegazioni scientifiche e razionali, era affidata non ai medici ma a guaritori,
sacerdoti ed esorcisti (Cocchiara G., 1982).
Soprattutto la malattia mentale, la più inspiegabile, appariva terrificante agli occhi del
popolo per le sue manifestazioni, ed era sottoposta a pratiche terapeutiche basate su
rituali magici e religiosi. L’epilessia rientrava nella categoria delle “follie” in
generale. Tutta la storia di questa malattia è caratterizzata da tentativi di differenziarla
da altre patologie: malattia mentale in generale, nevrosi isterica, delirio di
possessione demoniaca. La progressiva scoperta dell’iconografia religiosa permette di
attingere aspetti di arte, di religiosità e di cultura popolare a lungo trascurati.
Gli ex-voto dipinti rappresentano un “genere d’arte” che si affianca alla parallela
produzione delle opere d’arte, rispetto alla quale il valore estetico è necessariamente
diverso, per le intrinseche ragioni che la determinano (Segala P., op. cit.).
3. Tipi di ex-voto
La religiosità popolare non si pone in antinomia con l’apparato ecclesiale o con le
normative sociali, ma si costruisce un proprio spazio. All’interno di questo spazio
trovano luogo pratiche magico-sacrali, diverse da quelle liturgiche ufficiali (Dini V.,
1992).
L’ex-voto è un universo simbolico molto complesso, carico di segni e significati che
vanno al di là dell’apparenza iconica. È espressione della quotidianità, descrizione di
miracoli avvenuti, tende a trasmettere un messaggio, un fatto straordinario per la
persona che lo ha vissuto, per questo è importante che se ne faccia memoria.
Il complesso degli oggetti che chiamiamo ex-voto comprende cose di due generi
diversi: da un lato abbiamo prodotti con funzione votiva principale, dall’altro con
funzione votiva secondaria. Appartengono al primo genere gli ex-voto dipinti e quelli
plasmati in cera o in argento; al secondo tutti quegli oggetti che, inizialmente
destinati ad altro uso, per esempio sanitario (stampelle, ingessature ecc..),
successivamente, a guarigione avvenuta, sono portati al Santuario. A questo secondo
88
gruppo appartengono anche abiti da sposa, gioielli di vario tipo, ed altro (Toschi P.,
1944).
Nel mondo classico c’era una netta distinzione tra due categorie di ex-voto: i Greci
chiamavano ikesìa il dono fatto per ricevere una grazia, e karisterion o soterìa quello
per grazia ricevuta.
Nei quadretti votivi si poteva trovare la sigla V.F.G.R. (Votum Fecit Gratiam
Recepit) o V.F.G.A. (Votum Fecit Gratiam Accepit), per quelli che comportano il
tempo della promessa, mentre gli ex-voto privi di richiesta sono più propriamente
voti di ringraziamento, ai quali si può riferire soltanto la seconda parte della sigla
(Gratiam Recepit).
Anche i romani distinguevano gli ex-voto propiziatori, contraddistinti dalla sigla V.
F. L. M. (votum feci libens merito), da quelli per grazia ricevuta, contraddistinti dalla
sigla V. F. G. A. (votum feci graziam accepit). Nel tempo il termine ha finito per
designare qualsiasi categoria di offerta votiva.
L’ex-voto non è una caratteristica peculiare della religione cristiana, bensì si ritrova
anche in altre religioni primitive (Toschi P., op. cit.).
Le malattie, come le calamità naturali, erano considerate un castigo divino dal quale
ci si poteva sottrarre solo con il sacrificio, che era in origine cruento, cioè costituito
da un olocausto animale o, presso alcune popolazioni, umano. La raffigurazione
votiva delle mani o del cuore divenne una pratica sostitutiva dell’olocausto poiché,
sia l’una che l’altro, erano considerati simboli vitali dell’uomo (Segala P., 1979).
Piccoli oggetti in terracotta, pietra e bronzo, sotto forma di figura umana o animale,
risalenti al VII sec. a.C. sono stati ritrovati in Spagna, in Egitto. In Grecia si trova uno
degli esemplari più antichi e sconosciuti, esposto al museo nazionale di Atene, che
rappresenta un vecchio barbuto che abbraccia una gamba enorme con una varice.
L’offerta votiva si esplica in vari modi: sotto forma di denaro, di un oggetto più o
meno prezioso, di una parte del corpo umano riprodotta in cera, argento, oro, o altro
materiale, ed anche cappelli, capi di vestiario, attrezzi ortopedici, armi e qualsiasi
altro oggetto che abbia avuto relazione con la grazia ricevuta.
89
La rappresentazione della malattia mentale, e dell’epilessia in particolare, nei doni
votivi, deve essere interpretata sulla base delle concezioni mediche del contesto
culturale siciliano. L’ex voto anatomico, rispetto ad altre forme, è stato forse
privilegiato perché è rientrato nell’ambito degli studi di demonologia e di storia della
medicina (Toschi P., op. cit.).
Il cuore non rientra più tra gli anatomici, poiché non veniva offerto soltanto come
organo malato da guarire ma, in quanto sede della vita, dei sentimenti e
dell’intelligenza, veniva considerato il simbolo stesso dell’offerente, e donato per
varie malattie sia fisiche che psichiche.
Il dono più diffuso era la statuetta d’argento, simbolo della bambina o del bambino,
sulla quale veniva aggiunto un nastro rosa o celeste per indicare il sesso, in altri casi
si aggiungeva qualche altro oggetto, come il succhiotto, un giocattolo, un vestitino.
Anche la testa chiusa era simbolo dell’epilessia, sia d’argento che in cera;
quest’ultima veniva donata anche per i disturbi psichici (Toschi P., op. cit.).
Tra gli ex voto più antichi, la testa chiusa era considerata sede della psiche, simbolo
delle guarigioni da possessione demoniaca, dalle malattie mentali e dall’epilessia; la
testa aperta o con ferite rappresentava le guarigioni da gravi incidenti e da malattie
cerebrali.
Tra gli ex-voto figurativi i più interessanti sono certamente quelli che si è soliti
chiamare “tavolette votive”, diffuse in tutta Italia. Le tavolette, di interesse artistico
oltre che antropologico, sono veri e propri quadri, di materiale vario, che riproducono
mediante un disegno pittorico la scena del miracolo, il particolare momento di grave
pericolo che si ritiene superato per intervento divino.
Le prime tavolette votive risalgono alla seconda metà del ‘400, depurate da ogni
motivo ornamentale, mosse dalla sola fede e dal bisogno di ringraziare il Santo per il
miracolo concesso (Segala P., op. cit.).
Un breve rallentamento nella produzione delle tavolette si ebbe dalla metà del ‘500 ai
primi del ‘600; il periodo di massima produzione in Italia è rappresentato dall’800,
per affievolirsi nuovamente dopo la prima guerra mondiale. Molto significative sono
90
le tavolette votive che raffigurano il bambino in fasce: si tratta di guarigioni da
malattie ad esordio infantile; l’epilessia può esordire alla nascita e può essere causata
da traumi dovuti al parto o ad infezioni (Segala P., op. cit.).
Un aspetto importante da considerare, riguardo alle tavolette votive, è che,
indipendentemente dalle descrizioni delle tabelle, spesso generiche o assenti, vanno
interpretate in base a piccoli particolari che emergono dal contenuto figurativo. Per
esempio dall’atteggiamento dei personaggi, dall’età di questi, dall’espressione di
disperazione dei familiari sulla scena, dalla presenza del sacerdote, è possibile
cogliere il tipo di miracolo invocato.
La storia dell’ex-voto costituisce la storia dell’umanità: un’umanità sofferente che,
visto vano ogni ricorso ai rimedi terreni, si rivolge alla divinità per impetrare grazia e
offrire con sincerità di sentimenti un dono (Cocchiara G., 1938).
L’ex-voto ha, sempre, almeno nella sua motivazione iniziale, l’instaurazione di un
contratto tra l’umano e il divino, il miracolato e il miracolante. Esso in genere ne
rappresenta lo scioglimento.
Sul far voto e sulla necessità di adempierlo, nel Deuteronomio, 23 i versi 22-24
sono molto chiari: "Quando tu avrai fatto un voto al Signore, Iddio tuo, non
tardare a compierlo, perché il Signore, Iddio tuo, te ne chiederebbe certamente
conto, e tu saresti reo di peccato. Ma se ti astieni dal far voti non ci sarà peccato
per te. Mantieni la parola che avrai pronunziato con le tue labbra, e adempi il
voto che liberamente hai fatto al Signore, Iddio tuo, con la tua propria bocca".
Pertanto, l'ex voto, in quanto testimonianza di una crisi esistenziale (chi sta bene,
chi non ha problemi, chi non deve dirimere una situazione non ricorre al divino,
non promette, non fa voti, anzi, per ringraziare il Signore del proprio star bene,
elargisce beni, fa donazioni), esplica un intervento, divenendo testimone,
svolgendo cioè una funzione testimoniale definibile anzitutto come religiosa,
sempre in riferimento al clima, alla situazione del tempo ed anche dalla
tradizione (valenza socio-religiosa) (Dini V., op. cit.).
91
Nell’ex voto cristiano non ha molto rilievo l'apporto magico-religioso, mentre si
tratta piuttosto di una dimostrazione di affetto, il bisogno cioè di offrire a Dio un
dono, un segno; è una preghiera che si è tradotta in immagine. Per renderci
maggiormente conto del significato che ha assunto nel tempo, e che assume
ancora oggi l’ex voto, si rendono opportune alcune brevi notizie storiche.
L'ex voto rientra sempre nel significato religioso e perciò è l'espressione
esterna, rituale, sacrificale del sentimento religioso di un individuo, di un
popolo. Sacrificando qualcosa e consacrando se stesso, il soggetto compie
sempre un atto sacro, un atto di culto: costruire templi ed altari, portare doni
votivi, dedicarsi ad una vita di missione, tutto ciò fa parte delle manifestazioni
del sentimento di religione nella forma esteriore; ciò si è sempre verificato nel
tempo, da quando cioè un certo senso religioso è penetrato nel cuore dell'uomo.
Gli ex voto, pertanto, sono sempre esistiti, in tutte le religioni. Si tenga presente
che sia presso i Greci che presso i Romani venivano praticati voti pubblici e
riguardavano l'intera collettività; i voti privati erano individuali per malattie,
parti, viaggi di mare, ecc. Per gli ex voto presenti nel Cristianesimo si tratta di
stabilire, attraverso un qualcosa, un rapporto con Dio, con la Vergine, o con i
Santi. Già sulla fine del VI secolo sulla croce del Golgota vi erano numerosi ex
voto e nella grotta di Betlemme, lo stesso presepio era ornato con oro e argento
(Toschi P., op. cit.).
Nella tradizione cristiana, già nell'Alto Medioevo, il segno di ex voto si
definisce prima sotto forma di ceri e candele di varia grandezza (talora di
dimensioni della persona offerente), poi sotto forma di pani o altri cibi, fino ad
altre forme, anche di animali ed oggetti di vario tipo. Nella tradizione cattolica
della Controriforma, l’ex voto, in un primo momento, appare come un prodotto
abbastanza alto, talora di gara a chi potesse farlo più grande, più bello e più
costoso. Poi, dalle classi agiate è avvenuto un progressivo trasferimento verso le
classi umili, in particolare verso gli ambienti di campagna, con diverse
caratterizzazioni, sotto forma della cosiddetta “arte povera”, prodotto di
92
artigianato modesto o di piccola bottega. Non si tratta soltanto di un'espressione
delle classi subalterne: l'ex voto appartiene a tutte le classi sociali (Cocchiara
G., 1982).
Nell'ex voto si concentra, quindi, un vasto mondo; è una vera e propria fonte
storica, è testimonianza connotata in primo luogo da una componente religiosa.
È senza dubbio uno degli elementi socio-culturali al crocevia dell'incontro stesso
tra oggettività e soggettività, tra momento e documento storici. È un oggetto che
possiede come particolare attributo quello di comunicare: si esterna, infatti, la
funzione prima (staccata in linea di massima, dalla forma dell'oggetto stesso) del
comunicare
e,
subordinatamente,
dell'
esprimere,
facendo
trasparire
rappresentazioni, azioni sociali, funzioni, messaggi simbolici.
I cosiddetti ex voto oggettuali indicano una categoria di ex voto molto vasta e
diversificata, che va dagli attrezzi ortopedici (busti, stampelle, ecc.), alle trecce di
capelli, ai ricami, agli abiti da sposa ecc.
Per esempio la treccia di capelli, in Sicilia, veniva donata dalle donne quando
trovavano marito, infatti i capelli lunghi erano simbolo della condizione di “ragazza
da marito” (Naselli C., 1932).
Tutte queste testimonianze di vita e di pietà popolare, dal ‘500 in poi, venivano create
all’interno di botteghe artigianali da pittori, specializzati in scene votive: il devoto
narrava al pittore il miracolo ricevuto, e questi glielo rappresentava secondo richiesta.
Per i meno abbienti c’era anche la possibilità di usufruire di sfondi già preparati, su
cui venivano aggiunti l’apparizione del Santo o della Madonna, oltre alle generalità
del votante (Segala P., op. cit.).
Intorno ai santuari gravitavano sia botteghe che banchi di vendita che offrivano
modelli prefabbricati di varie forme e tipologie; chi voleva fare un dono più prezioso
o aveva bisogno di una raffigurazione particolare che si discostasse dal modulo
standardizzato, poteva rivolgersi ad argentieri e cesellatori specializzati in questo
genere di oggetti (Scavone Trupia J., 1984).
93
Altri ex voto significativi, di un periodo più recente (primi del ‘900), sono: quadretti
ricavati a mano o lavorati con l’uncinetto che raffigurano la Madonna col Bambino,
scarpette con fiocchi rosa o celesti, bavette, vestitini, fotografie, la riproduzione in
cera del Bambino Gesù e tanti altri oggetti che indicano che il miracolato è un
bambino. Dietro questi ex voto apparentemente anonimi, spesso si nasconde il
dramma di una famiglia con un bambino colpito da crisi epilettiche, che si è affidata
alla protezione della Madonna (Manganelli G., op. cit.).
In qualche biglietto attaccato a questi ex voto si possono leggere frasi di questo
genere: “Per grazia ricevuta alla Madonna di … per aver salvato il mio bambino …
da un male che lo coglieva all’improvviso …” oppure: “a devozione a San … per
aver liberato il piccolo … dalle forze del maligno”.
Queste frasi, lette alla luce delle credenze medico-popolari e religiose, testimoniano
che si trattava di epilessia. Emerge che, quando si parlava di “male che coglie di
sorpresa” e di possessione da spiriti maligni, si trattava di crisi epilettiche; questo
soprattutto valeva per la cosiddetta epilessia benigna (crisi parziali idiopatiche), che
esordisce fra i tre e gli otto anni con crisi parziali di tipo semplice, per lo più durante
il sonno, e scompare naturalmente durante il periodo puberale.
Riguardo agli ex voto pittorici c’è da considerare che non si tratta solo di fotogrammi
della realtà, ma di eventi vissuti nella sfera del mito, in quanto agiti da forze che non
sono di questo mondo (Segala P., op. cit.).
Il pittore di ex voto, quasi sempre anonimo, era un artigiano che apprendeva da
giovane di bottega da precisi stilemi, la cui violazione avrebbe costituito un grave
pregiudizio al suo futuro di maestro; l’aderenza alle strutture culturali collettive era la
misura del suo successo. Sua costante preoccupazione era dilatare il pathos degli
eventi raffigurati, sottolineare gli aspetti tragici e mantenere il rispetto della norma,
per altro rafforzata dal potere che la Chiesa poteva esercitare al momento
dell’accettazione degli ex voto nei santuari. L’ex voto, come ogni fatto culturale,
appartiene all’universo della comunicazione, e la sua forza simbolica è tale da
rendere marginale la presenza del codice linguistico (Manganelli G., op. cit.).
94
L’assenza delle indicazioni del nome del miracolato e della grazia, non limitano la
sua natura come fatto di affermazione di memoria individuale e collettiva nello stesso
tempo.
4. Gli ex-voto nella tradizione siciliana
In Sicilia l’ex voto si può considerare una delle caratteristiche sopravvivenze lasciate
nell’isola dai Greci. Riferisce Cocchiara (1938) che i primi prodotti artistici dell’età
del ferro in Sicilia erano dei doni votivi; offrire la propria immagine o parte di questa,
significava mettersi sotto la protezione assoluta di una divinità.
Tra i Santuari siciliani ricordiamo quello della Madonna del Romitello a Borgetto,
della Madonna del Ponte a Partinico, dove si trovano molti ex voto in cera con una
maggiore prevalenza di teste.
La maggior parte delle tavolette votive dei santuari siciliani, si riferiscono al periodo
di massima produzione delle stesse, e cioè dalla fine del ‘700 alla seconda metà
dell’800.
Al santuario della Madonna di Trapani sono di gran valore artistico le tavolette votive
marinare. Altri Santuari siciliani dove si trovano immagini votive sono: il Santuario
della Madonna del Balzo a Bisacquino (Palermo), che ne contiene una decina del
1600 e del 1700, la Chiesa di Maria S.S. del Soccorso a Castellammare del Golfo
(Trapani), il Santuario di S. Maria di Tindari a Patti (Messina) e il Museo Pitrè di
Palermo, che contiene alcuni ex voto esclusivamente siciliani dal 1600 ad oggi
(Cocchiara G., 1982).
La pittura degli ex voto in Sicilia risente molto degli influssi dell’iconografia greca;
il pittore dei miracoli si atteneva a dei canoni che a lui erano trasmessi dalle botteghe
artigianali di appartenenza. L’ex voto scandisce una tensione religiosa che possiamo
sintetizzare in tre momenti tra loro collegati: l’evento-supplica, l’offerta-rendimento
di grazie, la testimonianza-profezia. In quanto racconto di un avvenimento, l’ex voto
è espressione di una memoria laica e religiosa, offre informazioni su usi e costumi del
95
popolo, sul modo di lavorare, di praticare la medicina, sulle malattie dell’uomo, della
donna e la vulnerabilità magica del bambino. È segno di una supplica, nella quale il
singolo stabilisce un rapporto diretto con la Madonna o con il Santo invocato, o
richiede la mediazione del sacerdote o del luogo sacro, affinché la grazia gli sia
concessa. Il rituale che in passato accompagnava l’offerta del dono, seguiva un
cerimoniale interessante: l’ex voto era condotto in forma solenne, magari attaccato ad
una torcia alta quanto la persona che, a piedi scalzi, si recava al santuario e, dopo aver
fatto le proprie devozioni, consegnava il tutto ai responsabili, così il dono veniva
conservato ed esposto a futura memoria. Ancora oggi, ad esempio, ad Altavilla
Milicia, l’8 Settembre, festa della Madonna, viene fatta la cosiddetta processione
della “condotta dei doni7”. Durante il Medioevo e fino al Seicento la produzione di ex
voto si è enormemente attenuata, per riapparire in occasione delle due guerre
mondiali. Possiamo tuttavia escludere che tale pratica si sia mai interrotta. Ancora
oggi, come in passato, l’ex voto trova la sua naturale collocazione nello spazio sacro
del santuario, e mantiene la sua funzione comunicativa di messaggio religioso
(Cocchiara G., op. cit.).
Per quanto riguarda l'ex voto dipinto (le tavolette dipinte rappresentano la
stragrande maggioranza degli ex voto) l'elemento caratterizzante, che costituisce,
nello stesso tempo, anche il suo vantaggio comunicativo rispetto agli altri tipi di
ex voto, è la possibilità di esprimere la modalità completa della grazia ricevuta:
la rappresentazione del caso, spesso eseguito in modo particolareggiato, la
visualizzazione dell'intervento divino, l'attestazione della grazia ricevuta (Naselli
C., 1932).
Rispetto al secolo scorso è notevolmente diminuita la donazione dei dipinti, mentre
vengono donate più spesso fotografie,disegni fatti dai bambini, denaro, oggetti
preziosi e gioielli (questi ultimi si trovano soprattutto nel santuario di S. Rosalia a
Palermo e nel santuario dell’Annunziata a Trapani).
7
Sono atti di pietà non scevri da possibili equivoci, qualcosa di misto tra pietà e superstizione, devozione e fanatismo.
96
A Trapani, in occasione della processione del venerdì santo, prima della Pasqua, i
doni votivi più preziosi vengono esposti presso il santuario.
Gli ex voto dipinti e non, in quanto testimonianze di sofferenza umana, sono in
perfetta linea con questa tendenza, che lega quasi sempre la pietà popolare al Cristo
sofferente del venerdì Santo, più che al Cristo glorioso della domenica di Pasqua.
Questo è il frutto di una catechesi deficitaria, che ha ritenuto il corpo prigione
dell’anima e la sofferenza mezzo di liberazione. Chi ha avuto occasione di
partecipare ai pellegrinaggi nella vigilia della festa di Pasqua ha visto: devoti che
giungono da ogni parte, ammalati, convalescenti, uomini, donne, bambini, ai quali
Maria, o il santo invocato, ha concesso la grazia; ora sono venuti a sciogliere il voto,
chi in torcia, chi in “miracoli”, chi in denaro.
Gli ex voto più preziosi durante il resto dell’anno vengono custoditi con cura dalla
Curia vescovile. La pratica delle tavolette votive si è interrotta anche a causa della
chiusura delle botteghe artigianali e delle scuole di pittura in ex voto (Cocchiara G.,
op. cit.).
“Qui si fanno i miracoli” era il cartello con cui venivano indicate le botteghe di
pittura di ex voto a Palermo. Oggi non si leggono più insegne di questo tipo, segno
che la tipologia di offerte votive è cambiata. Questo ha fatto sì che i dipinti
divenissero pregevoli, rari documenti d’arte popolare, ricercati come oggetti di
antiquariato dai più colti collezionisti. La maggior parte delle donazioni oggi viene
fatta in denaro, sono poche le testimonianze iconografiche delle grazie ricevute. Tra
le manifestazioni più recenti ricordiamo che durante l’eruzione dell’Etna nel 1992 il
telegiornale ha mostrato delle immagini di una contadina che proteggeva i suoi campi
di mandorli attaccandovi dei santini.
Il fenomeno dell’ex voto deve essere compreso all’interno della cultura di riferimento
e interpretato sulla base delle credenze del periodo storico considerato.
97
CAPITOLO SESTO
LA RAPPRESENTAZIONE DELL’EPILESSIA NEGLI
EX-VOTO: ANALISI DI UN GRUPPO DI TAVOLETTE
VOTIVE
1. Premessa
Dall’analisi delle immagini devozionali è possibile ricavare le testimonianze di
concezioni eziopatogenetiche e di principi della medicina da tempo superati, che
permettono di comprendere alcune connessioni tra medicina popolare e medicina
ufficiale. Gli ex-voto dipinti raffigurano eventi vissuti nella sfera dell’immaginario,
ed altri che devono essere considerati come fotogrammi della realtà. La forte
stilizzazione delle persone e degli oggetti in essi rappresentati, la loro improbabilità
rispetto ad individui ed a cose del quotidiano, sono tipiche di tutte le forme connesse
all’arte popolare, assunta come chiave di rappresentazione del reale.
La tavoletta votiva viene riconosciuta sia come documento di storia quotidiana sia
come strumento di comunicazione, utilizzato per trasmettere storie drammatiche,
disagi sociali, emarginazione.
Come fatto culturale, gli ex-voto dipinti possono essere osservati da diversi punti di
vista.
Studiati come documenti della cultura figurativa popolare, gli ex-voto dipinti, offrono
elementi interessanti per individuare quei processi che intervengono nella formazione
della cultura dei ceti popolari tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo.
Nell’ambito delle tavolette votive, così come di tutti gli altri tipi di ex-voto, il
Santuario assume un ruolo di fondamentale importanza.
98
Il Santuario, infatti, veniva considerato come un luogo diverso dalla comune chiesa,
essendo dotato di attributi particolari, sintetizzabili nella presenza in esso di una
potenza superiore dispensatrice di grazie.
La presenza del Santuario ricopre un ruolo notevole all’interno dell’appropriazione e
del conseguente uso del territorio; esso rappresenta un luogo di culto particolare in
cui avviene l’unificazione tra sacralità e religiosità, al quale si accede attraverso un
lungo percorso penitenziale, antidoto alla natura diabolica della malattia (Lima A.,
1984; Toschi P., 1971).
Nei santuari, più che altrove, la spia del forte rapporto storico che li lega alle masse
divengono gli ex-voto. Questi minuti e colorati documenti, sempre datati e spesso
trascurati, talmente fitti, a volte, da rivestire pareti senza soluzione di continuità,
costituiscono l’archivio segreto di intere comunità. Sono forse l’unica storia che il
popolo ha potuto scrivere, il disegno e quanto da esso discende, analogamente ai
bambini che non padroneggiano la lingua, diviene il solo mezzo di espressione.
Tra i numerosi temi rappresentati nelle tavolette votive, la malattia occupa un posto
di rilievo. Attraverso il loro esame si è voluto valutare come veniva rappresentata
l’epilessia, malattia che, come abbiamo ampiamente discusso, in passato veniva
spesso associata a fenomeni di possessione demoniaca.
2. Casistica e metodi
La ricerca ha preso in esame 1.250 quadretti votivi di alcuni Santuari del sud d’Italia
ed altri ex-voto facenti parte di due collezioni private, risalenti al periodo che va dalla
fine del XIX all’inizio del XX secolo.
Come si evince dalla tabella 1, il campione oggetto di studio è costituito da 350
tavolette del Santuario della Madonna di Altavilla Milicia (PA), 350 del Santuario dei
SS. Martiri Alfio, Cirino, Filadelfio di Trecastagni (CT), 200 del Santuario della
Madonna dell’Arco di Napoli, 200 del Santuario della Madonna di Pompei (NA), 100
99
della Chiesa dell’ospedale S. Marta di Catania e 50 appartenenti a due collezioni
private.
Le immagini sono state classificate secondo i temi rappresentati: malattie, incidenti
domestici o sul lavoro, interventi chirurgici, eventi sanguinosi (risse, rapine,
fucilazioni), naufragi, parti difficili, possessioni demoniache o attacchi epilettici 8.
Tab. 1 – Tavolette votive esaminate
Luogo
N° tavolette
Santuario della Madonna della Milicia - Altavilla Milicia (PA)
350
Santuario dei SS. Martiri Alfio, Cirino, Filadelfio - Trecastagni (CT)
350
Santuario della Madonna dell’Arco - Napoli
200
Santuario della Madonna di Pompei – Pompei (NA)
200
Chiesa dell’ospedale S. Marta - Catania
100
Collezioni private
50
Totale
1.250
Di ogni immagine sono state esaminate le dimensioni, l’ambientazione, la presenza
del sacerdote o del medico, la presenza di elementi atti ad individuare l’evento
rappresentato e il trattamento, il paesaggio, gli interni della casa, gli arredi e i rapporti
tra di essi, i colori utilizzati.
Successivamente, dopo aver effettuato una visione d’insieme delle caratteristiche
principali del campione esaminato, si è proceduto all’analisi di un gruppo di tavolette
votive riconducibili a sintomatologia convulsiva.
8
La scelta di includere nella stessa categoria la possessione demoniaca e gli episodi convulsivi è dettata dal fatto che nel
passato le crisi epilettiche venivano spesso ricondotte all’intervento del diavolo.
100
3. Le tavolette votive esaminate
Volendo effettuare una prima classificazione delle tavolette votive esaminate, si
osserva che
444 (35,5% del totale analizzato) rappresentano una situazione di
malattia, in alcuni casi con pericolo per la vita; 393 (31,4%) incidenti domestici o sul
lavoro; 160 (12,8%) interventi chirurgici, 122 (9,8%) eventi sanguinosi (risse, rapine,
fucilazioni); 59 (4,7%) naufragi; 44 (3,5%) parti difficili; 29 (2,3%) possessioni
demoniache o attacchi epilettici (Tab. 2).
Tab. 2 – Eventi raffigurati nelle tavolette votive prese in esame
Evento raffigurato
N. tavolette
%
Malattia
444
35,5
Incidenti domestici e/o sul lavoro
393
31,4
Intervento chirurgico
160
12,8
Evento sanguinoso
122
9,8
Naufragio
59
4,7
Parto difficile
44
3,5
Epilessia
29
2,3
1.250
100,0
Totale
Riguardo le dimensioni, la gran parte delle tavolette ha una forma rettangolare (con la
base più lunga dell’altezza) e la misura media è di 35x25 cm.
Il materiale prevalentemente utilizzato dai pittori di ex-voto è il legno, nonostante il
sorgere di nuove soluzioni quali la tela, il compensato, il cartone, la masonite e la
latta.
Di norma dipinti su tela o latta, gli ex-voto generalmente consistono di tre elementi:
un’illustrazione della malattia o della preghiera, una descrizione narrativa e una
rappresentazione del Santo o della divinità che ha corrisposto alla preghiera.
101
Tra le malattie la più rappresentata è la tisi, mentre a livello pittorico gli sbocchi di
sangue sono molto marcati e il rosso è molto acceso. C’è sicuramente una valenza
simbolica nell’accentuazione del sangue. Proprio in quanto nesso dialettico vitamorte, il sangue introduce ad una dimensione sacra. La ritualità rappresenta la
trascrizione, sul piano simbolico, dell’esperienza di vita e di morte.
Si pone enfasi agli aspetti drammatici di una malattia, includendo in essa i sintomi
della persona sofferente che validano l’importanza dell’elemento divino nel recupero
dalla sofferenza.
Per quanto riguarda l’ambientazione, le scene sono sempre raffigurate nei luoghi
dove verosimilmente sono accaduti gli eventi (per es. ospedale, strada, abitazione
ecc.); è in genere un membro della famiglia che invoca l’aiuto divino.
Molte rappresentazioni sono ambientate in casa, dove medici e familiari si prendono
cura del malato. Le abitazioni sono generalmente decorate in maniera modesta e
includono sempre icone religiose. I pazienti sono raffigurati a letto e, talvolta,
appaiono calmi e sereni, come se la fede e la devozione li rendesse capaci di
trascendere la loro sofferenza e il loro dolore.
In tutti gli ex-voto analizzati è evidente l’uso simbolico magico che viene fatto del
colore: l’azzurro sta a significare il divino; il bianco la luce; il nero la perdizione
eterna. Gli interni della casa sono descritti molto accuratamente, soprattutto quegli
elementi che toccano il privato, come la devozione alla Madonna o ad altri Santi:
pareti ricoperte di immagini sacre, crocifissi, simulacri sul cassettone.
La potenza divina non è vissuta come invadenza della comunità sulla storia, essa sta
in alto, in genere rinchiusa in una piccola lunetta, a guardare ciò che accade.
La Madonna viene collocata nella parte alta delle tavolette, circondata da un alone
luminoso e da nubi; non vi è una linea retta fatta da nuvole o altro simile che divide
in due piani la superficie pittorica.
In alcuni casi, il Santo è raffigurato non più immobile e distante ma accanto al
malato, nell’atto di toccarlo. È evidente, in questo caso, l’assunzione del principio
102
magico che, “per contatto”, rende parimenti sacro il soggetto che riceve il “tocco”
divino.
Quando è presente la figura di San Francesco D’Assisi, il Santo spesso è
rappresentato in ginocchio. In alcuni casi è presente un prete, in altri un membro della
famiglia invoca l’aiuto divino per guarire il malato; il sacerdote è descritto mentre
compie le proprie funzioni ministeriali (per es. unzione dei malati).
Di particolare interesse sono gli strumenti per gli interventi chirurgici: piccoli tavoli
con sopra una serie di ferri, che riproducono quelli usati per la crocifissione.
L’elemento in basso è la descrizione narrativa della malattia o dell’evento, che
include parole di supplica ad un Santo in particolare o ad una divinità, e la
descrizione del miracolo.
Le tavolette votive oggetto di studio portano la sigla V.F.G.A. (Votum Fecit Gratiam
Accepit) o V.F.G.R. (Votum Fecit Gratiam Recepit), nel caso in cui si tratta del
tempo della promessa; mentre gli ex-voto privi di richiesta sono più propriamente
voti di ringraziamento, ai quali si può riferire soltanto la seconda parte della sigla
(G.R.).
4. L’epilessia nelle tavolette votive
L’analisi delle 29 tavolette votive raffiguranti attacchi epilettici ha permesso di poter
dare un contributo conoscitivo rispetto alla percezione della patologia nel contesto
socio-culturale dei secoli scorsi.
La quasi totalità delle tavolette votive oggetto di studio è ambientata in stanze in cui
il malato è adagiato su un letto. Il soggetto, affetto da attacchi epilettici, è sempre
circondato da uno o più familiari (coniuge, genitori, figli, fratelli, ecc.) che pregano o
si inginocchiano per chiedere la grazia alla Madonna o ad uno specifico Santo,
ovvero nell’atto di ringraziarli (Figg. 1-2).
103
Fig. 1 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici
Fonte: Santuario della Madonna della Milicia
104
Fig. 2 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici
Fonte: Chiesa dell’Ospedale di Santa Marta
105
Altre presenze riscontrate nelle tavolette votive sono quella del medico e del prete,
presenti singolarmente o contemporaneamente. Ciò potrebbe essere indice
dell’alternanza del binomio scienza-religione che, nei secoli passati, ha avvolto la
malattia in un alone di mistero.
Se, infatti, da un lato ci si rivolgeva al medico per cercare una cura contro gli attacchi
convulsivi, dall’altro il prete aveva il compito di esorcizzare il malato, evidenziando
la stretta connessione che intercorreva tra l’epilessia e la possessione demoniaca.
Altra caratteristica evidente in molti quadretti votivi, è la presenza di unguenti e/o
pozioni vicino al capezzale del malato, anche in presenza del medico. Si nota, in tal
modo, la forte relazione tra la medicina popolare e quella ufficiale, esistente nella
cultura dei secoli scorsi.
In molti degli ex-voto esaminati, inoltre, si può osservare la presenza del crocifisso e
di altri simboli religiosi (acquasantiere, candele, icone, coroncine del rosario, ecc…),
che testimoniano la fede del soggetto e dei suoi congiunti.
La guarigione dagli episodi convulsivi spesso viene raffigurata anche attraverso
sbocchi di sangue nero, che rappresenta la liberazione dalla malattia, attraverso la
fuoriuscita del maligno dal corpo (Figg. 3-4).
Nelle tavolette 3 e 4 si riscontra, ai piedi del letto del malato, uno o più soggetti che,
in ginocchio, invocano l’intercessione di più figure celesti.
In particolare nella figura 3, accanto alla Madonna ed ai Santi, vengono rappresentati
una serie di personaggi (probabilmente anche essi affetti dalla malattia) che invocano
aiuto dinanzi una Chiesa.
Sempre nella figura 3, l’ambiente si presenta colmo di immagini sacre alle pareti,
oltre ad acquasantiere, tali da far apparire la scena un po’ confusionaria e a voler
mettere in evidenza l’elemento religioso piuttosto che la malattia in sé. Altra
caratteristica comune a queste due figure è la presenza del medico che, con gli occhi
chiusi e la mano sulla fronte (Fig. 3) o inginocchiato (Fig. 4), ostenta un
atteggiamento di disperazione e di impotenza dinanzi la malattia, evidenziando
l’impotenza della medicina ufficiale dinanzi agli attacchi epilettici.
106
Fig. 3 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici
Fonte: collezione privata
107
Fig. 4 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici
Fonte: Santuario della Madonna di Pompei
108
In tutte le tavolette votive esaminate appare l’immagine della Madonna o del Santo
protettore, a volte compresenti. Essi sono raffigurati usualmente nella parte superiore
del dipinto (al centro o agli angoli), facendo ben risaltare la loro natura ultraterrena
che domina la scena, in segno di devozione. Spesso le figure divine sono
rappresentate all’interno di nuvole bianche, come a voler significare l’abbaglio della
luce divina. In altri casi la raffigurazione dell’epilessia viene interpretata come una
possessione diabolica.
La stretta connessione tra epilessia e possessione demoniaca è alquanto evidente
nelle figure 5 e 6, in cui viene messo in atto l’esorcismo per scacciare il demonio.
Le pratiche esorcistiche, infatti, mirano a far vomitare “il maligno”, attraverso
complessi rituali che rendono assai incerti i confini tra religione e magia.
Nella tavoletta n. 5 un’ indemoniata viene esorcizzata da tre padri domenicani. Uno
di essi pronuncia la formula di rito quasi sulla bocca della donna, mentre un altro le
tiene avvolta la stola intorno al collo ed incita, con la mano, il demone ad uscire.
Il risultato è una fuga disordinata di spiriti maligni che, sotto forma di pipistrelli,
lasciano il corpo dell’ossessa, mentre l’arcangelo Gabriele sopraggiunge con la spada
sguainata. Due congiunte sostengono la donna durante questa pratica esorcistica.
Appare interessante, infine, notare come questa tavoletta non sia ambientata
all’interno di una stanza, bensì in un luogo aperto. Inoltre, per quanto riguarda l’uso
simbolico del colore, in questa tavoletta il nero, dominante, lascia intendere l’intensa
presenza del maligno.
Nella tavoletta n. 6 si osserva, invece, una donna adagiata su un letto, circondata da
una corte di congiunte che pregano e da due sacerdoti che la esorcizzano. L’ossessa,
tenuta per forza davanti la Santa Immagine, è cinta da quattro uomini ed è ritratta
nell’atto di vomitare tre serpenti. La simmetria nella disposizione delle donne e la
gestualità dei presenti, fa intendere come sia in atto una preghiera all’unisono rivolta
alla Madonna, che compare, al centro della scena, insieme a Suo figlio.
109
Fig. 5 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici
Fonte: Santuario della Madonna dell’Arco
110
Fig. 6 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici
Fonte: Santuario della Madonna dell’Arco
111
Queste ultime due figure sono ben delimitate all’interno di una nuvola bianca che,
sovrapponendosi perfettamente allo sfondo azzurro della parete, richiama il divino.
La percezione dell’epilessia, quale possessione demoniaca, trova ulteriore conferma
nella figura 7, che mostra un soggetto, in preda ad attacchi convulsivi, mentre viene
letteralmente “strangolato” dal demonio.
La patologia prende “volto” nella persona di Satana che coglie di sorpresa il soggetto,
adagiato sul suo letto, sotto lo sguardo protettore della Madonna con bambino ed il
Santo, nell’angolo superiore destro della scena.
L’ambientazione, in questo caso, è povera di altri oggetti sullo sfondo (non vi sono
suppellettili né arredi fastosi né icone alle pareti) rivelando, in tal modo, il desiderio
del richiedente di comunicare l’essenzialità dell’evento. Anche il numero dei
protagonisti, ridotto ad una coppia, comunica in maniera chiara il focus
dell’accaduto.
Altra tavoletta in cui appare chiara la presenza del demonio, associata ad attacchi
epilettici, è la n. 8 in cui il soggetto, disteso sul letto, è circondato da ben tre diavoli.
Uno di essi tenta di strappare il lenzuolo del malato, come se volesse attirarlo a sé;
un altro tiene tra le mani un’immagine della Madonna (che il malato cerca di
trattenere), mentre il terzo tenta di vanificare l’intervento liberatorio del prete. La
presenza del male in questo ex-voto dipinto è rafforzata dalla raffigurazione di un
serpente, animale simbolo del demonio.
L’alternanza tra bene e male è accentuata anche dal contrasto tra la tenda, di colore
nero, e la luce proveniente dal fondo della scena, raffigurante il Santo che veglia
sull’accaduto.
Dall’analisi della tavoletta, infine, si può osservare la dinamicità della scena,
attraverso: i movimenti dei tre demoni, il malato che cerca invano di liberarsene,
l’angelo che, con le ali spiegate, vola accanto al malato.
112
Fig. 7 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici
Fonte: Santuario della Madonna della Milicia
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Fig. 8 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici
Fonte: Santuario dei SS. Martiri Alfio, Cirino, Filadelfio
114
Interessante, inoltre, appare la rappresentazione dell’epilessia nella figura 9. Questa
tavoletta, a differenza delle precedenti, mostra la sconfitta del demonio da parte degli
angeli. In particolare, nella scena sono dipinti due angeli, di cui uno al fianco del
soggetto affetto da attacchi epilettici e l’altro, con la spada sguainata, atto ad
annientare il demonio. Quest’ultimo, infatti, vinto, viene relegato in un angolo in
atteggiamento di sottomissione.
La scena è arricchita dalla presenza dei familiari, del prete e del medico che stanno
vicino al soggetto, il quale stringe tra le mani un crocifisso. La presenza del medico,
alla destra del malato, con le mani giunte, mostra un atteggiamento di impotenza, di
chi si rimette all’intervento divino. Ciò denota come, nella tradizione popolare, la
guarigione dall’epilessia venisse associata all’intervento soprannaturale (santi,
Madonna) piuttosto che alla medicina ufficiale.
Un caso particolare è la tavoletta n.10, raffigurante “S. Calogero che guarisce un
epilettico”. In questo caso il Santo non è più raffigurato in alto, immobile e distante
dal malato, racchiuso in una piccola lunetta, ma si trova accanto a lui nell’atto di
toccarlo. Risulta evidente, così, l’assunzione del principio magico che, “per contatto”,
rende parimenti sacro il soggetto che riceve il “tocco” divino.
Quest’ultima tavoletta, a differenza delle altre, è realizzata in ceramica.
La scena, rappresentata nella sua essenzialità (non solo per il numero dei protagonisti
ma anche per il fatto che questi vengono dipinti in maniera quasi elementare), mostra
in primo piano, tra i due protagonisti, le iniziali “SC” riferite proprio a S. Calogero.
Il Santo viene raffigurato accanto ad una cerva che, secondo la legenda, lo nutriva
con il suo latte, dato che durante la vecchiaia non poteva più chinarsi per raccogliere
le erbe.
115
Fig. 9 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici
Fonte: Santuario della Madonna di Pompei
116
Fig. 10 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici
Fonte: Collezione privata
117
CONCLUSIONI
L’onnipresente conflitto tra uomo e natura e tra uomo e storia trova, presso tutti i
popoli, una duplice modalità di risoluzione: l’individuo di fronte al male, spesso
incomprensibile, può combattere gli eventi negativi servendosi della ragione, e
modificarli, assegnandoli al dominio del controllo umano, oppure considerarli come
dovuti all’azione di forze malefiche, relegandoli nell’immaginario in forma di figure,
con caratteristiche variabili a seconda del contesto culturale dell’epoca.
L’epilessia, in quanto espressione di un tale conflitto ed in quanto manifestazione
patologica che più delle altre è ammantata di mistero e di incomprensibilità, è stata
considerata da entrambe le prospettive, per cui, da un contesto prevalentemente
centrato su una spiegazione ed interpretazione magico-religiosa si è passati ad una
sua analisi fondata esclusivamente sulla razionalità.
Così l’immaginazione popolare, basandosi su miti e leggende di atavica memoria, ha
guidato l’osservazione empirica di manifestazioni epilettiche e fenomeni ad essa
connessi, dando origine a teorie etiopatogenetiche e terapeutiche quanto meno
bizzarre. Del resto il pensiero neuropsichiatrico non è certo riuscito ad eliminare
l’influenza degli stereotipi culturali, anzi ha addirittura conferito loro una dignità
scientifica. Il paradigma magico-religioso e quello scientifico sembrano essere in
netta contrapposizione ma una loro analisi consente di evidenziare la presenza di
elementi comuni in grado di mostrare l’azione della dimensione emozionale e di
spiegare il perché dei molti atteggiamenti pregiudiziali che stigmatizzano l’epilettico.
Magia e religione possono essere considerate due poli opposti di un’unica dimensione
che si caratterizza per:
il controllo del soprannaturale ad opera dell’uomo, la
credenza del potere di tali forze, l’utilizzo di formule verbali e riti, l’uso di sostanze
ritenute dotate di poteri, la fiducia nell’intervento di aiuto da parte di forze
extraumane, il ricorso alla preghiera per invocare tale aiuto, i riti simbolici e i
sacrifici offerti ad esseri spirituali.
118
Che si tratti di interventi divini o diabolici l’individuo ha comunque la necessità di far
rientrare un fenomeno a lui incomprensibile in un universo comprensibile.
La possibilità di comprensione si connette infatti ad una maggiore possibilità di
controllo dello stesso fenomeno.
Gli apparati simbolici della magia e della religione consentono di operare un
controllo della natura secondo una correlazione di causa-effetto che si serve di un
pensiero più affettivo che cognitivo. L’efficacia di queste pratiche magico-religiose
non può certo essere negata: osservando le modalità di funzionamento dell’universo
magico si pongono in evidenza l’azione ed il valore dei simboli, le molteplicità di
combinazioni che essi consentono grazie alla loro duttilità. Il simbolo, essendo un
elemento unificatore svolge anche una funzione terapeutica producendo un
sentimento di partecipazione ad una forza sovra individuale che rassicura l’uomo.
Il “danno reale”, quale può essere considerata una manifestazione epilettica, viene
trasferito dentro gli apparati simbolici, offrendo, così, una possibilità di lettura,
comprensione, soluzione del problema.
Oggi la società sembra operare più che mai un controllo razionale esclusivamente
cognitivo-pratico sulla natura; non c’è più posto, almeno apparentemente, per
spiegazioni magico-religiose, per un universo alternativo in cui tentare un diverso
approccio alla comprensione dell’esistenza e delle sue perturbazioni. La conoscenza
scientifica tende ad una progressiva eliminazione di ciò che resta di simbolico nel
linguaggio, ritenendo valida solo la misura esatta.
Credenze magiche e concezioni pseudoscientifiche restano operanti nel contesto
attuale e, cosa ancor più grave, ad un livello per lo più inconsapevole, andando a
fondersi con l’intolleranza della nostra società che, essendo altamente competitiva ad
avendo un orientamento narcisistico, esclude spesso il soggetto epilettico e non
consente di elaborare spazi per una sua pensabilità.
La spiegazione razionale ha potuto affermarsi solo grazie ad un’operazione che
potremmo definire “neutralizzazione affettiva”; essa ha comportato il mettere da
parte tutto ciò che non era comprensibile nell’universo del dato osservabile, tutto ciò
119
che era quindi relativo alla sfera emozionale ed irrazionale. Sono state così
abbandonate spiegazioni e terapie che si basavano sulla considerazione di questi
elementi.
Ma qual è la funzione del rito e come esso agisce nel contesto attuale?
Da un certo punto di vista il rito può essere considerato come la struttura d’insieme di
quegli schemi che fungono da paradigma in un dato contesto storico e culturale, in
quanto definiscono il modo in cui alcune attività relative alla società dovranno essere
realizzate, sia dal punto di vista dell’immaginazione che da quello simbolico del
sentimento. In questo senso esso ha una funzione fondamentale nell’economia della
cultura pratica, poiché consente la realizzazione di una comunicazione affettiva senza
far necessariamente ricorso al simbolismo verbale. Per queste sue caratteristiche il
rito – che in alcune sue forme è stato istituzionalizzato – è sempre presente in tutte le
culture di ogni tempo nelle sue forme di culto (rito sacro) e cerimonia (rito profano).
Se, in generale, il rito consente un’espressione della dinamica emotiva attraverso la
prescrizione di modalità convenzionali e simboliche, più specificatamente il
ritualismo risponde in parte al bisogno di mantenimento dell’equilibrio sociale e
costituisce così anche un meccanismo di difesa e prevenzione nei confronti della
natura e del caso. Al di fuori dell’ambiente medico aspetti ritualistici possono ancora
essere riscontrati nelle modalità di relazione di genitori, fratelli, insegnanti, compagni
ed ambiente sociale in genere nei riguardi dell’epilettico.
Essi comportano limitazioni, proibizioni, attenzioni, misure precauzionali che, molto
spesso, vanno al di là degli atteggiamenti che possono essere considerati logici
relazionandosi con un soggetto affetto da epilessia.
I messaggi mediati da questi atteggiamenti e comportamenti hanno un’influenza
ancor più deleteria su pazienti in età evolutiva, in cui si deve ancora compiere o
consolidare il processo di strutturazione della personalità.
Il rito può essere mezzo attraverso il quale si trasmettono una serie di credenze e
valori, spesso non servendosi della comunicazione verbale diretta. Ma il rito non è
120
altro che la messa in scena di un mito ed il mito è la struttura delle credenze di un
gruppo.
L’alone di negatività, l’insieme dei pregiudizi, l’immagine di devianza e pericolosità
costituiscono il patrimonio culturale sulla base del quale è stato elaborato il mito
dell’epilettico. Attorno all’epilessia, prima che le scoperte scientifiche ne chiarissero
l’origine e le cause, c’era un alone di mistero che, data la spettacolarità delle crisi,
non faceva altro che incrementare paure e pregiudizi.
Per molti secoli, infatti, l’epilessia è stata considerata segno di una maledizione e
spesso associata e confusa con una forma di possessione demoniaca. L’unico rimedio
per la famiglia dell’epilettico era, quindi, rimettersi alla volontà divina, attraverso
l’invocazione di un Santo protettore e/o l’offerta dell’ex-voto in segno di richiesta
della grazia o di riconoscenza per l’avvenuta guarigione.
L’ex-voto è il racconto di una quotidianità di vita, carico di una tensione religiosa,
atto a creare nuova religiosità. Racconta un evento, la guarigione da una grave
malattia che interessa la sfera dell’individuo e abbraccia, nello stesso tempo, fatti
collettivi e interventi misteriosi di tipo religioso.
Si può affermare che, in quanto prodotto culturale, si collega alla storia del popolo: i
singoli fatti accaduti sono vissuti come episodi di vita personale, che acquisteranno
valore simbolico per tutti. È il segno di come si concepiva la malattia e la sofferenza.
In particolare ciò è evidente nelle tavolette votive, in cui il pittore non fa dei
sopralluoghi, ma traduce l’evento e la sua ambientazione in un codice figurativo in
relazione alla condizione sociale del committente. La forza comunicativa
dell’immagine è tale che le indicazioni scritte sono ridotte al minimo.
Nei quadretti votivi si poteva trovare la sigla V.F.G.R. (Votum Fecit Gratiam
Recepit) o V.F.G.A. (Votum Fecit Gratiam Accepit), per quelli che comportano il
tempo della promessa, mentre gli ex-voto privi di richiesta sono più propriamente
voti di ringraziamento, ai quali si può riferire soltanto la seconda parte della sigla
(Gratiam Recepit).
121
La presenza della Madonna è una caratteristica costante e precisa degli ex-voto. Essa
fa pensare ad un canone cui le varie botteghe dei pittori facevano riferimento. Il
canone non è semplicemente di natura estetica, ma specificatamente rinvia a precisi
contenuti religioso-teologici, propri dei moduli figurativi che le varie botteghe si
tramandavano.
Tra tutte le tipologie di ex-voto, le tavolette votive rappresentano probabilmente lo
strumento più efficace per poter meglio comprendere la percezione della patologia
epilettica nel corso dei secoli.
Gli ex-voto dipinti fungono da testimonianza sia del livello di conoscenze mediche e
anatomofisiologiche del tempo sulla malattia, che della tradizione popolare (credenze
e superstizioni). Dalle tavolette votive è possibile fare un confronto tra le
manifestazioni sintomatiche e comportamentali della crisi epilettica e quelle di
possessione.
In molti ex-voto dipinti, infatti, il soggetto epilettico veniva rappresentato come
posseduto da spiriti maligni o in lotta con il demonio. Ciò evidenzia come, nei secoli
scorsi, l’attacco epilettico fosse sinonimo di possessione demoniaca e, piuttosto che
rivolgersi ad un medico, la famiglia del malato cercava l’aiuto di un esorcista o
direttamente dell’intercessione della Madonna e/o di un Santo protettore.
La tavoletta votiva, quindi, viene riconosciuta sia come documento di storia
quotidiana che come strumento di comunicazione, utilizzato per trasmettere storie
drammatiche, disagi sociali, emarginazione (Bucaro G., 1983; Lombardi Satriani
LM., 1983; Caggiano P., 1990).
L’obiettivo del pittore è quello di rimarcare l’eccezionalità dell’evento vissuto dal
miracolato (Clemente P., 1987; Sironi V.A., 1989).
Gli ex-voto dipinti devono essere considerati dei fotogrammi della realtà. Il recupero
e lo studio di tali memorie non solo consentirebbe a ciascuno di appropriarsi di un
vastissimo patrimonio artistico e, quindi, culturale, ma sarebbe anche un valido
contributo all’approfondimento dei rapporti tra uomo e luogo, tra comunità e
ambiente (Cerasoli G., 1996).
122
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