UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PALERMO ______________________________________ Dottorato di Ricerca in STORIA DELLA CULTURA E DELLA TECNICA XXIII Ciclo La percezione del soggetto epilettico tra riti antichi e rituali moderni attraverso lo studio degli ex-voto Tesi di Dottorato di: Dott.ssa Teresa Di Filippo Tutor: Ch.mo Prof. Michele Roccella Coordinatore: Ch.mo Prof. Pietro Di Giovanni Settore Scientifico Disciplinare: MED/039 ___________________________________________________________ ANNI ACCADEMICI 2008/09-2009/10-2010/11 1 UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PALERMO ______________________________________ Dottorato di Ricerca in STORIA DELLA CULTURA E DELLA TECNICA XXIII Ciclo La percezione del soggetto epilettico tra riti antichi e rituali moderni attraverso lo studio degli ex-voto Tesi di Dottorato di: Dott.ssa Teresa Di Filippo Tutor: Ch.mo Prof. Michele Roccella Coordinatore: Ch.mo Prof. Pietro Di Giovanni Settore Scientifico Disciplinare: MED/039 ____________________________________________________________ ANNI ACCADEMICI 2008/09-2009/10-2010/11 2 INDICE INTRODUZIONE .............................................................................................................................. 5 CAPITOLO PRIMO L’EPILESSIA NELLA STORIA ........................................................................................................ 9 1. L’epilessia nella cultura greca................................................................................................... 9 2. L’epilessia nelle culture orientali (Babilonia, Cina e India) ................................................... 13 3. L’epilessia nella cultura latina ................................................................................................ 15 4. L’epilessia nel Medio Evo ...................................................................................................... 16 5. L’epilessia dal Settecento al secondo dopoguerra .................................................................. 18 6. Personaggi famosi affetti da crisi epilettiche .......................................................................... 28 CAPITOLO SECONDO PSICOPATOLOGIA DELL’EPILESSIA: ASPETTI COGNITIVI COMPORTAMENTALI E RELAZIONALI AD ESSA CONNESSI .......................................................................................... 33 1. Le conoscenze contemporanee................................................................................................ 33 2. Aspetti cognitivi e comportamentali ....................................................................................... 36 3. Aspetti relazionali ................................................................................................................... 40 4. Alcune concezioni etnopsichiatriche dell’epilessia ............................................................... 44 CAPITOLO TERZO POSSESSIONE ED EPILESSIA ..................................................................................................... 47 1. Psicopatologia della possessione ............................................................................................ 47 2. La possessione come sindrome di disordini mentali ............................................................... 49 3. Il diavolo e la malattia nelle religioni ..................................................................................... 50 4. Il diavolo nelle credenze popolari ........................................................................................... 63 5. Il diavolo nella tradizione popolare siciliana .......................................................................... 64 CAPITOLO QUARTO L’EPILESSIA NELLA TRADIZIONE POPOLARE: RITI ANTICHI E RITUALI MODERNI ....... 68 1. La medicina popolare .............................................................................................................. 68 2. I Santi protettori degli epilettici .............................................................................................. 72 3 3. La medicina popolare siciliana ............................................................................................... 76 4. Etiologia e nosografia della crisi epilettica nella tradizione popolare siciliana ...................... 78 CAPITOLO QUINTO LA RAPPRESENTAZIONE DELL’EPILESSIA NEGLI EX-VOTO ........................................... 82 1. La malattia negli ex-voto ........................................................................................................ 82 2. L’epilessia negli ex-voto ......................................................................................................... 85 3. Tipi di ex-voto......................................................................................................................... 88 4. Gli ex-voto nella tradizione siciliana ...................................................................................... 95 CAPITOLO SESTO LA RAPPRESENTAZIONE DELL’EPILESSIA NEGLI EX-VOTO: ANALISI DI UN GRUPPO DI TAVOLETTE VOTIVE ............................................................................................................... 98 1. Premessa.................................................................................................................................. 98 2. Casistica e metodi ................................................................................................................... 99 3. Le tavolette votive esaminate ................................................................................................ 101 4. L’epilessia nelle tavolette votive........................................................................................... 103 CONCLUSIONI ............................................................................................................................. 118 BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................................ 123 4 INTRODUZIONE Situata al crocevia di molteplici specialità mediche e non, l’epilessia, è stata e continua ad essere oggetto di studio da prospettive di ricerca divergenti oppure parallele. Le molteplici formule verbali che nel tempo sono state coniate per definirla mostrano come mitologia, religione, magia e scienza siano state di volta in volta chiamate in causa - in relazione ai diversi contesti storici, culturali e sociali - nel tentativo di trovare una spiegazione ed una terapia a tale patologia. Sino ai primi anni del diciannovesimo secolo, la superstizione, il mito e le credenze popolari condizionarono completamente la cura di questi particolari pazienti, ad eccezione d’alcuni isolati tentativi d’approccio scientifico a questa malattia, tra i quali deve essere menzionato il nome e il contributo d’Ippocrate di Cos, uno dei primi studiosi del passato a rifiutare il carattere sovrannaturale delle malattie mentali. Le fonti storiche più antiche circa la patologia risalgono a molti secoli prima di Cristo, attraverso testi accadici assiro-babilonesi scritti su tavolette d’argilla. Nelle culture primitive, confrontarsi con l’epilessia mobilitava una tale angoscia da indurre ad interpretare la manifestazione convulsiva come un’inequivocabile segno di punizione ad opera di qualche essere soprannaturale, identificato ora negli Dei ora negli astri. Questa modalità di lettura degli eventi negativi, del male e della sofferenza è tipica del pensiero primitivo, in cui è assente il concetto di causalità, elaborato dall’uomo moderno, ed il polo negativo del reale è sempre considerato legato alla colpa. Le idee di colpa e di punizione vengono già elaborate nella cultura greca e latina; si origina così un modo di relazionarsi al paziente epilettico che incide profondamente sul vissuto di questi, influenzando il suo rapporto con la malattia ed il mondo. Conosciuta ed accuratamente descritta già dai medici babilonesi l’epilessia è stata designata nel tempo con molti nomi, più o meno immaginifici, che riflettono l’atteggiamento della cultura che li ha espressi. 5 Termini descrittivi come miqtu (malattia che fa cadere) delle tavolette babilonesi, falling sickness e mal caduco della cultura medievale e rinascimentale si alternano con definizioni che alludono ad una supposta origine soprannaturale del disturbo, come male sacro, espressione di un pregiudizio già contestato da Ippocrate. Di questa visione mistica rimangono le tracce nel termine medico epilessia, dal greco epilembàno, che significa “essere colti di sorpresa” e che richiama l’immagine della possessione. Tale definizione sintetizza perfettamente i caratteri fondamentali della crisi epilettica, che si manifesta all’improvviso, cessa spontaneamente e tende solitamente a ripetersi, senza che colui il quale n’è affetto, possa opporvisi. L’uomo, sin dai tempi più antichi e nelle più diverse culture, ha cercato di descrivere e spiegare questa particolare patologia. Ma, così com’è accaduto per la storia di molti altri eventi morbosi, anche la storia dell’epilessia ha risentito per molto tempo della concezione che la voleva causata da forze maligne della natura o da divinità avverse. Il mito si proponeva di dare una risposta ai fondamentali problemi della vita umana, al perché della vita e della morte, specie quando essi non trovano una esauriente spiegazione nel campo della religione ufficiale o della scienza, era un modo per rendere più tollerabili e gestibili le paure, prima tra tutte la paura della morte. Esso si caratterizza per la compresenza di elementi reali ed elementi fantastici che contribuiscono alla costruzione di una realtà funzionale a determinati bisogni emotivi dell’uomo, e quindi alla necessità di dare un senso ad un insieme di avvenimenti ambigui ed incomprensibili che diventano tanto più minacciosi quanto più non è possibile individuarne l’origine. L’epilessia è stata e continua ad essere oggetto di studio da prospettive di ricerca divergenti oppure parallele. Lo studio della malattia ha sempre affascinato non soltanto psichiatri e medici ma ha anche stimolato un interesse multidisciplinare: antropologico, etnologico, psicologico. L’immagine dell’epilettico come di un posseduto da forze oscure divine (donde il termine “male sacro”) o demoniache (donde le pratiche esorcistiche ancora presenti 6 in varie culture religiose) ha radici forti che sopravvivono anche nella nostra era tecnologica e che sarebbe semplicistico e controproducente limitarsi a negare. La comprensione dei meccanismi neurologici che portano all’epilessia prese veramente corpo solo alla fine dell’Ottocento, quando i principi organizzativi del sistema nervoso vennero chiarendosi per la convergenza degli studi sulla struttura e la funzione della cellula nervosa e sull’attività integrativa dei grandi sistemi cerebrali. Grazie agli studi sulle localizzazioni delle funzioni motorie a livello della corteccia cerebrale, e quelli degli effetti della stimolazione corticale con correnti elettriche, cambiò radicalmente la conoscenza del sistema nervoso centrale. Alla fine dell’Ottocento si svilupparono, e convissero, seppur apparentemente contrastanti tra loro, la teoria neurologica e quella psichiatrica dell’epilessia. La presente ricerca ha analizzato la figura dell’epilettico e l’immagine popolare che l’epilessia ha assunto nel corso delle varie epoche storiche. Nello specifico, lo studio è articolato in sei capitoli. Nel primo si è analizzata l’evoluzione del concetto di epilessia nelle diverse culture, a partire dai greci sino alle odierne conoscenze del secondo dopoguerra, prendendo in considerazione anche le illustri personalità affette da questo male. Nel secondo capitolo si è focalizzata l’attenzione sugli aspetti cognitivi, comportamentali e relazionali connessi all’epilessia, con particolare riguardo alla psicopatologia della stessa. La ricerca, in seguito, ha preso in considerazione il legame tra possessione ed epilessia, partendo dal presupposto che i soggetti affetti da attacchi epilettici venivano spesso etichettati come posseduti dal demonio. A tal proposito, si è descritta la figura del diavolo nelle diverse religioni, nelle credenze popolari e la sua stretta connessione con i disturbi mentali. Successivamente sono stati presi in esame i riti ed i rituali relativi alla cura della malattia nella medicina popolare (con particolare riferimento a quella siciliana) e i santi protettori degli epilettici, invocati all’occorrenza delle crisi. 7 La medicina popolare costituisce un ponte tra due universi perché si fonda su una dialettica tra l’irrazionale e la ragione, rivolgendosi alla stessa maniera alla magia e alla medicina ufficiale. con particolare riferimento a quella siciliana. Nel quinto capitolo si è proceduto, quindi, all’analisi delle varie tipologie di ex-voto, ponendo particolare attenzione a quelle riguardanti la rappresentazione dell’epilessia. La motivazione che spingeva il devoto, o chi per lui, a commissionare un ex-voto è legata alla profonda angoscia esistenziale provocata dalla sofferenza, inspiegabile per la medicina ufficiale, o al rendimento di grazie a guarigione avvenuta. Lo studio è proseguito effettuando un’analisi di un gruppo di tavolette votive, presenti in alcuni Santuari dell’Italia meridionale e taluni facenti parte di collezioni private. Dalle immagini devozionali è stato possibile ricavare le testimonianze di concezioni etio-patogenetiche e di principi della medicina da tempo superati che permettono di comprendere la percezione che si aveva dell’epilessia nei ceti popolari dei secoli scorsi, considerando gli ex-voto dipinti come dei fotogrammi della realtà. 8 CAPITOLO PRIMO L’EPILESSIA NELLA STORIA 1. L’epilessia nella cultura greca I greci definirono l’epilessia “morbo sacro” per la natura divina che le veniva attribuita, mentre si parlava di “malis herculeus” per alludere alla forza veramente sorprendente manifestata dal malato durante il parossismo convulsivo e perché, secondo un’antica credenza, lo stesso Ercole ne era affetto. Questa descrizione ci consente di evidenziare come già a quel tempo fosse presente una distinzione tra le diverse forme cliniche, corrispondente all’attuale classificazione dell’epilessia in generalizzata e parziale e come, nel contesto clinico, fosse stata accuratamente delineata la sintomatologia specifica di certi quadri. Nell’antica Grecia, l’intera tradizione culturale da Omero ad Erodoto, la religione popolare, la dottrina medica stessa come si era sviluppata ad opera dei sacerdotimedici nei templi di Asclepio, concepivano come normale un diretto intervento della divinità sullo sviluppo delle malattie, tra le quali l’epilessia. Quindi la comparsa di un fattore divino o in ogni modo trascendente come diretto protagonista dei fenomeni naturali annullava, di fatto, la possibilità da parte dell’uomo di comprendere la vera causa del fenomeno, così per ottenere la guarigione da questa malattia era invocato l’aiuto della divinità. Da diversi autori, infatti, la malattia viene assimilata ad un’esperienza di morte e resurrezione, ad un evento che avvicina il mondo umano e mortale a quello divino ed eterno. La mitologia greca abbonda di personaggi che simboleggiano questa esperienza, come il bellissimo Adone che, ferito mortalmente da un cinghiale, per volontà di Zeus fu destinato a trascorrere metà dell’anno nel mondo dei vivi e metà tra i morti con Persefone. Ancora Omero, nell’Odissea narra dell’immortalità 9 intermittente dei Dioscuri i quali di sotterra, per privilegio concesso loro da Zeus, in vece alterna tornano vivi un giorno e il giorno dopo son morti, e ricevono onori pari agli Dei immortali (Foucault M., 1992). Un tentativo di riabilitazione della malattia si ebbe con Ippocrate di Cos (460-380 a.C.) il quale scriveva: hic morbus nihil reliquis divinius, sed eamdem etiam quam alii morbi naturam et originis causam habere videtur e solo per meraviglia o ignoranza gli uomini potevano considerarla tale. Nella considerazione ippocratea l’epilessia era una malattia ereditaria causata da una degenerazione del cervello; essa si sarebbe determinata a causa di una stagnazione del flegma e della bile nei vasi del cervello che avrebbe causato un’interruzione dell’apporto di aria. Questa la descrizione del medico “Quelli che impazziscono per il flegma sono tranquilli e non turbatori né gridatori, mentre quelli per via della bile, urlatori, perversi e non pacifici, ma che sempre compiono qualcosa di inopportuno”. Anche in queste parole si evidenzia come fosse già chiara una distinzione tra le diverse forme cliniche. Secondo il medico greco, la manifestazione epilettica si protrae fino a quando il flegma e la bile non ritornano nel corpo, ripristinando il precedente equilibrio e lasciando in tal modo all’aria la possibilità di circolare e di raggiungere nuovamente il cervello. In questa concezione è il capo ad essere considerato la sede della malattia; l’epilessia verrà in seguito definita “alto male” proprio perché la parte del corpo interessata è quella posta più in alto. L’autore, che dedicò un’intera opera allo studio dell’epilessia intitolata “De Morbo Sacro”, sostiene che i primi ad aver sacralizzato tale malattia sarebbero stati proprio maghi, guaritori, ciarlatani, preti legati al culto di Cibele. Adottando una logica comune, essi avevano stilato un vero e proprio sistema terapeutico che prevedeva la limitazione di alcuni comportamenti abituali. Ad esempio l’epilettico avrebbe dovuto evitare i bagni, astenersi da molti alimenti considerati inadatti tra i quali: pesci di mare come la triglia, l’occhiata, il muggine; carni di capra, cervo, maiale perché considerate più difficili da digerire; carni di uccello come la gallina, la tortora e le 10 otarde perché anch’esse pesanti; ortaggi tra cui la menta, l’aglio e la cipolla perché l’acre avrebbe potuto favorire la comparsa di un accesso convulsivo. Tra i comportamenti proibiti vi era inoltre l’indossare vestiti di colore nero, essendo il colore della morte, ed il giocare su una pelle di capra o tenere un piede sull’altro o una mano sull’altra, poiché questi gesti avrebbero potuto indurre il parossismo. Ippocrate riferisce ancora che questi guaritori chiamavano in causa gli dei del Pantheon greco in relazione alla sintomatologia clinica manifestata dal malato. La madre degli dei era invocata quando il soggetto esibiva un comportamento simile ad una capra ed erano presenti spasmi a destra; Poseidone, nel caso in cui il soggetto emetteva una voce più acuta ed intensa, paragonandolo ad un cavallo, ma anche quando la crisi esordiva con l’urlo iniziale; Ecate, dea degli spettri, se vi era una perdita del controllo sfinterico; Apollo Nomio quando si presentavano evacuazioni più fitte e più tenui, come quelle degli uccelli; Ares se il paziente emetteva schiuma dalla bocca o batteva i piedi; Ecate e gli Eroi quando predominavano terrori e paure, comportamenti strani, balzi sul letto e fughe e nel caso in cui prevalevano reazioni di tipo psicotico. Ippocrate, inoltre, sosteneva che si poteva ritenere il coito come un breve attacco epilettico, interpretazione ripresa da Reich (1897-1957) in epoca recente. Da più parti si affermò che l’età adolescenziale fosse un momento cruciale nell’evoluzione della malattia; con la pubertà, infatti, si poteva verificare una remissione delle crisi o, al contrario, una loro cronicizzazione. Molti adolescenti furono costretti ad accoppiamenti precoci mentre altri furono castrati. Il principio che guida la pratica terapeutica è sempre quello della purificazione, e questo giustifica la prescrizione di salassi, emetici, sostanze particolari per fare starnutire. Malgrado la tesi sostenuta da Ippocrate sull’origine naturale della malattia e la sua ferma e convinta posizione contro la magia, il carattere di sacralità incombe nella concezione popolare articolandosi nelle modalità più eterogenee in relazione ai 11 diversi contesti. Il dilagante pregiudizio sarà destinato a dominare la scena ancora per molto tempo. Più tardi, durante l’epoca di Platone (427-347 a.C.) la civiltà ellenica esprimeva i suoi punti di vista sull’epilessia attraverso due “entusiasmi”: il coribantico, il frenetico e il convulso, dove la possessione era vista come una caduta dalla quale si doveva uscire, e quella mistica nel quale la possessione era una via per erompere dalla condizione umana verso il divino. L'episodio epilettico andava guarito, mentre l’entusiasmo mistico “epilettoide” serviva per raggiungere la dimensione divina. In ogni modo, per i greci l'epilessia era uno stato d’ispirazione divina. Per loro, infatti, era presente una differenza di valutazione che si spiegava analizzando l'epilessia come un fenomeno nevrotico, sconfinante nell'ambito della psicologia e, di conseguenza, nel comportamento religioso. È all’interno di questo contesto culturale che deve essere inserita la pratica della trapanazione cranica, con la quale si determinava una fuoriuscita di pus che avrebbe anche consentito l’espulsione del “male” presente nel soggetto. La paura di essere contaminati dalla presunta impurità dell’epilettico aveva generato l’usanza di sputare addosso al soggetto per eliminare tale pericolo. Per la religione ufficiale del tempo la malattia era inequivocabilmente un segno del peccato, così i sacerdoti elaborarono una terapia basata sui tabù, proibizioni ed imposizioni, che trovò la sua massima approvazione presso l’opinione pubblica. La scuola empirica del III sec. ritenne infruttuoso l’apporto della teoria scientifica che, se contribuiva alla ricerca dell’origine della malattia sul piano teorico, non aveva conseguenze su quello pratico. Questa concezione contribuì a determinare un declino della scienza antica; cominciarono così a rifiorire, anche nella medicina colta, le pratiche magiche. 12 2. L’epilessia nelle culture orientali (Babilonia, Cina e India) Parallelamente alla medicina greca si sviluppò quella delle Civiltà Mediorientali tra cui la medicina babilonese. Recentemente è stata tradotta una tavoletta di pietra babilonese, risalente al 500 a.C., che rappresenta quasi sicuramente il più antico documento scritto sull’epilessia. È una testimonianza molto interessante sulle idee mediche dell’epoca e sulle modalità con cui venivano affrontate le manifestazioni epilettiche. La tavoletta fa parte di una serie di 40 tavolette che rientrano nel testo di medicina diagnostica babilonese, noto come Sikkiku, ed ogni tavoletta è l’equivalente di un capitolo di un testo di medicina odierno. La traduzione evidenzia che i babilonesi, come i loro contemporanei greci, erano convinti che le manifestazioni epilettiche fossero opera di demoni o spiriti. La parola “possedere” era equivalente a “prendere con violenza”. L’attacco aveva inizio con l’aura, la quale poi si esauriva per lasciare posto all’acme della crisi, che giungeva alla fine della fase tonica; la seguente fase clonica veniva considerata una fase di liberazione e l’inizio dell’abbandono del corpo da parte del demone. Anche l’argomento degli “spiriti” riceve attenzione nei testi babilonesi. Gli spiriti popolano la notte, ed espressioni quali “catturato dagli spiriti” e “in mano agli spiriti”, secondo Kinnier Wilson e Reynolds (1990), stavano ad indicare l’epilessia notturna. Vengono individuati anche altri aspetti degli attacchi, ovvero vengono osservati e registrati con precisione gli episodi di assenza, le deviazioni della testa e degli occhi, gli automatismi semplici e complessi e molti altri “segni” distintivi ed individuali del disturbo epilettico. Inoltre viene conteggiato il numero delle convulsioni o possessioni che avrebbero potuto colpire il soggetto in un determinato periodo, descritte le peculiarità delle crisi del lobo temporale, l’aura epigastrica e le allucinazioni uditive (ronzii, fischi, soffi e tintinnii). Secondo la credenza dell’epoca inoltre si riteneva il numero degli attacchi importante nell’ambito di quella condizione che oggi chiamiamo stato epilettico. Sembra che sette o otto attacchi fossero particolarmente pericolosi per la vita del paziente. In ambito 13 terapeutico viene menzionato, insieme ad un’ampia varietà di farmaci, unguenti e clisteri, anche il ricorso agli esorcismi. Atreya, il padre della medicina indiana, definì l’epilessia “una perdita parossistica di coscienza”, considerandola un disturbo mentale piuttosto che determinato da demoni o spiriti. La terapia consisteva nel guarire dalle “impurità”, ritenute una delle cause principali della malattia; pertanto, come primo approccio, venivano consigliati clisteri, purghe e il vomito ripetuto. Tra gli altri rimedi, ad esempio, tre cortecce di piante diverse, cotte nel burro sciolto nel latte acido cagliato, l’ingestione di parti di animali ed anche di escrementi, utilizzati fino a tutto il Medioevo. È interessante notare come già in queste epoche antiche fosse ben nota la natura cronica della malattia e la sua resistenza alla terapia. Il primo documento cinese conosciuto sull’epilessia appare nei “Classici di Medicina interna dell’imperatore Giallo” che, come il Corpus Ippocratico, fu scritto da più medici tra il 1770 e il 221 a.C. La descrizione prende in considerazione soltanto le crisi generalizzate e denota la difficoltà nel distinguere l’epilessia da alcune forme di malattie mentali, come la psicosi e le manie. La classificazione cinese delle crisi era complessa e colorita e si basava sul tipo di grido emesso dal paziente, paragonato all’animale (capra, cavallo, maiale, mucca, gallina o cane) che produceva un suono simile. La terapia era basata su una combinazione di specifiche proporzioni dei due principi fondamentali dell’universo, lo Ying e lo Yang; la salute dipendeva dalla condensazione dell’energia cosmica nel corpo umano. La moderna medicina cinese fa uso di una varietà di erbe, oltre che dell’agopuntura. Il medico Yang Meng Lang, nel 1983, ha inserito in un testo di medicina tradizionale cinese alcune importanti indicazioni per il trattamento dell’epilessia. Tra esse: i pazienti devono essere visitati il più spesso possibile, l’osservatore deve dare una precisa descrizione della crisi e, infine, si devono prendere in considerazione le problematiche riguardanti i fattori precipitanti e le circostanze nelle quali si manifestano gli attacchi. 14 3. L’epilessia nella cultura latina Nella cultura medica latina si ritrovano diverse espressioni per definire l’epilessia. Accanto al termine greco “male sacro” i Romani usavano la denominazione di “morbus caducus” per sottolineare la debolezza del soggetto colpito che durante la crisi cadeva a terra. Celso (I sec. d.C.) parlò di “morbus major”, per contrapporlo al “morbus minor”, cioè l’isteria. Aureliano la chiamò “passio puerilis”, per la frequenza con cui si manifesta nei bambini. Per sottolineare l’alone di soprannaturalità ed il carattere demoniaco della malattia si parlava di “morbus deificus”. Di questo avviso è pure Celio Aureliano (V secolo) che, pur dando prova in molteplici occasioni di notevole serietà scientifica, definendo l’epilessia De possessione, assume nei suoi confronti un atteggiamento mistico magico. Plinio il Vecchio (I secolo) usò l’espressione di “morbus comizialis”, infatti se uno dei presenti alle riunioni del popolo aveva una crisi, le assemblee venivano immediatamente interrotte, ritenendo che ci fosse una cattiva predisposizione degli Dei. Plinio, nel suo “naturalis historia”, consiglia come rimedio per il mal caduco l’aglio, medicamento da sempre ritenuto efficace contro la malattia; ancora, lo sputo, secondo l’eclettico autore, costituisce un rimedio per allontanare il malocchio e quindi evitare il pericolo di essere colpiti dall’epilessia. L’idea che attraverso un colpo d’occhio si potesse generare malattia era una credenza antica e diffusa già al tempo di Plinio e sarà quella che più di tutte resisterà inalterata per millenni. Scrive il Bonomo (1969): “La ragione precipua di un tale influsso dannoso, attribuito all’occhio, va cercata nell’antichissima convinzione ch’ esso fosse la sede dell’anima e che di questa riflettesse le passioni. Dall’occhio, quindi, può essere emanato un fluido in grado di agire a distanza; sotto l’influsso di sentimenti malvagi il fluido, carico di perniciose proprietà, diventa un mezzo potentissimo per nuocere a qualsiasi persona, animale o cosa su cui si ferma lo sguardo”. A Roma per secoli opererò una legge già del mondo greco; essa si fondava sulla credenza che annusare fumi di corno o di becchi bruciati potesse determinare lo 15 scatenarsi di una crisi convulsiva. Per tale motivo gli schiavi romani acquistati nelle fiere erano obbligati ad odorare tali fumi e, nel caso in cui si fosse manifestata una crisi, anche dopo sei mesi dall’acquisto, essi sarebbero stati restituiti al venditore, in quanto considerati inadatti per le mansioni che avrebbero dovuto svolgere. Gli stessi compagni, temendo di potersi contagiare con il respiro, allontanavano lo schiavo epilettico. Al pari di Ippocrate nella cultura greca, Galeno (129-216 d. C.) rappresenta una grossa eccezione. Egli fornì un apporto notevole anche allo studio dell’epilessia, elaborando una teoria capace di resistere per molti secoli. Galeno pensava che, a livello dei ventricoli, può raccogliersi un umore denso e vischioso che causa l’epilessia. Questa malattia può regredire spontaneamente con la pubertà o con il sopravvenire di una febbre quartana, in quanto brividi, portando calore al corpo, trasformano l’umore denso in fluido, eliminandolo. Per allontanare l’umore nocivo si può ricorrere ai purganti o ai salassi, da eseguire in primavera. Per controllare le crisi, che hanno inizio in genere agli arti, inoltre, Galeno consigliava di applicare un tourniquet sul braccio, in modo da evitare che presunte sostanze tossiche raggiungessero il cervello diffondendo l’epilessia in tutto il corpo; nei casi più gravi viene riportata anche l’amputazione, come metodo più drastico di terapia. Galeno, infine, divise i segni premonitori in vari gruppi in rapporto alla natura prevalentemente sensitiva, come ad esempio avvertire dei rumori nella testa, o prevalentemente psichica, come l’impaccio dell’eloquio. 4. L’epilessia nel Medio Evo Gli studi e le osservazioni sull’epilessia subirono un lungo periodo di stasi durante tutto il Medio Evo, epoca in cui la spiegazione razionale dei fenomeni morbosi fu abbandonata a favore di una concezione demonologica, che sembrava far ritornare la medicina in epoca pre-ippocratica. 16 In questo periodo gli epilettici erano considerati “posseduti dal demonio” e, dunque, “contagiosi” per i propri simili. Questo fece si che si diffondessero ovunque pratiche d’esorcismo molto violente (che spesso provocavano la morte dell’ammalato) e che il fanatismo religioso condizionasse completamente il trattamento di questi particolari pazienti. Non era infrequente inoltre che donne epilettiche rimaste incinte venissero sepolte vive con la propria prole e che gli uomini fossero castrati. Ovunque ed in mille forme può presentarsi il demonio, colpendo le singole parti del corpo o generando malattie, soprattutto mentali. L’esorcismo diventa, così, l’unica pratica terapeutica di cui si dispone per liberare il malato dalla possessione demoniaca, mentre lo psichiatra assume il ruolo di demonologo, che si occupa dello studio tutti i segni che la caratterizzano. Nel 1478 Torquemada introdusse il tribunale spagnolo della Sacra Inquisizione che divenne operante nel 1512. Inizialmente perseguitò, come in Spagna, i cristiani giudaizzati, ma poi lo spietato tribunale cominciò a giudicare i bigami, i luterani, le streghe, le fattucchiere, i possessi. Se per alcuni versi la medicina, con il ricorso all’esperienza, favorita dalla crescente pratica chirurgica e dalla dissezione anatomica, cercava di uscire da certi schemi, essa restò fortemente coinvolta dal clima medievale che vedeva nel demonio la causa di molti mali, ed il ricorso a pratiche esorcistiche diventò un fenomeno abbastanza diffuso anche nella medicina ufficiale. Viene codificata una serie di sintomi sotto il nome di “demonopatia”. Nasce la necessità di separare il malato fisico da quello mentale, considerando quest’ultimo come una vittima dell’intervento soprannaturale, conforme agli interessi politici ed economici dell’Inquisizione. Quest’indirizzo “scientifico” trova la sua massima espressione nell’opera di Heinrich Institor e Jacob Sprenger del 1669, “Malleus maleficarum” il più ampio trattato di vera e propria demonologia clinica. Adesso l’uomo deve essere punito perché deliberatamente sceglie il male. Torture e persecuzioni di vario tipo si abbatterono su migliaia di innocenti, tra cui anche gli epilettici. 17 Circa le cause dell’epilessia nel Medioevo circolavano tre teorie che attribuivano la malattia, rispettivamente, a forze soprannaturali, ad umori ed a sostanze tossiche o irritanti. Riguardo le cause soprannaturali, si arrivò all’introduzione di suppliche come: “O demoni abbandonate il corpo di questo malato”, formula che ancora oggi viene utilizzata in pratiche esorcistiche. Fra le altre cause veniva considerato lo squilibrio tra gli umori, che si credeva fossero quattro: il sangue (caldo ed umido), il flemma (freddo ed umido), la bile rossa (calda ed asciutta), la bile nera (fredda ed asciutta). Fattori responsabili di un’eventuale crisi epilettica, infine, potevano essere sostanze irritanti o tossiche, così come le infezioni. 5. L’epilessia dal Settecento al secondo dopoguerra Il pensiero illuminista del XVIII secolo consentì l’accesso a nuove conoscenze ed ipotesi nel campo della malattia mentale, determinando anche un cambiamento di atteggiamento nei confronti dell’alienato; tale tentativo di riabilitazione è rintracciabile nell’opera di Pinel in Francia, di Tuke in Inghilterra e Chiarugi in Italia. Nel 1793 il medico francese Pinel (1745-1826) entrò nell’ospedale di Bicetre per compiere un atto a forte contenuto simbolico, la liberazione dei folli dalle catene. In questo periodo l’epilessia, pur essendo compresa tra le turbe mentali, venne tuttavia considerata ancora una malattia diversa dalle altre, per l’influenza di antiche credenze e suggestioni che determinarono un rinforzamento dell’atteggiamento di discriminazione nei confronti del soggetto epilettico. Il periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento, è un epoca di avanzamento delle conoscenze scientifiche che hanno investito, travolto, superato, mutato ogni preesistente conoscenza nei vari campi delle scienze della natura e dell’uomo. È l’epoca dell’affermazione di grandi teorie biologiche, come quella dell’ereditarietà e dell’evoluzione. 18 Al passaggio tra l’Ottocento ed il Novecento, infatti, la conoscenza del cervello umano, anche se rudimentale, era pressoché esaustiva. I neuroscienziati dell’Ottocento hanno infatti prodotto una descrizione della morfologia e delle funzioni delle maggiori strutture cerebrali, sostanzialmente corretta alla luce delle acquisizioni odierne. Durante questo periodo, infatti, si vede l’inizio dello studio fisiologico sperimentale del cervello e la scoperta della sua struttura microscopica, aprendo la strada a nuove concezioni del rapporto fra l’organo del pensiero e la mente. Ci si è definitivamente resi conto che il cervello, in particolare la sua corteccia, è l’organo fondamentale che l’uomo possiede. Sulla corteccia cerebrale si proiettano gli stimoli provenienti dal mondo esterno, nella corteccia sono elaborate ed attivate le azioni che compiamo quotidianamente. Il cervello, rispetto ai secoli passati, non è più considerato esclusivamente oggetto di controversie filosofiche e scientifiche. Le manifestazioni della malattia erano chiaramente note, tutti i trattatisti riconobbero una serie di cause in grado di scatenare le crisi o di modificarne il decorso, anche se l’intima natura del morbo continuava a sfuggire. La comprensione dei meccanismi neurologici che portano all’epilessia prese veramente corpo solo alla fine dell’Ottocento quando i principi organizzativi del sistema nervoso vennero chiarendosi per la convergenza degli studi sulla struttura e la funzione della cellula nervosa e sull’attività integrativa dei grandi sistemi cerebrali. Grazie agli studi sulle localizzazioni delle funzioni motorie a livello della corteccia cerebrale, e quelli degli effetti della stimolazione corticale con correnti elettriche, cambiò radicalmente la conoscenza del sistema nervoso centrale. Le conoscenze scientifiche in questo campo hanno portato a un vero e proprio cambiamento del nostro vissuto e della percezione che l’uomo ha del proprio corpo. Le cause interpretative del male erano spesso contraddittorie fra loro. Soprattutto durante l’Ottocento l’epilessia è una terra di confine. Da una parte si svilupparono le teorie organiciste, basate sulle acquisizioni derivate dallo studio 19 strutturale del sistema nervoso centrale; dall’altra si è dibattuto sulle manifestazioni patologiche e psichiche della malattia. L’epilessia non è solo una malattia del cervello oppure, più in generale, che si manifesta con disturbi provocati nel cervello da un disequilibrio organico. Secondo alcune interpretazioni l’epilettico e il malato mentale in generale, rappresentano il prodotto di una tendenza atavica alla morbosità, alla degenerazione fisica e psichica. Per sostenere tale tesi si è fatto ricorso alle maggiori teorie della storia della biologia che venivano delineandosi proprio nella seconda metà dell’Ottocento, come quella dell’evoluzione e dell’ereditarietà, da cui derivarono la teoria della degenerazione morale1 e dell’eugenetica2. Dopo i primi studi scientifici del secolo del francese Bravais del 1827, fu Jackson che nel 1861 affermò, con la sola osservazione clinica, che la crisi epilettica dipende da “una scarica occasionale, improvvisa, eccessiva e rapida, localizzata nelle cellule nervose della materia grigia”. Jackson sosteneva che il danno psichico non fosse tanto determinato dalla gravità e dalla frequenza degli episodi comiziali, quanto da ricondurre a quel quadro nosografico chiamato “piccolo male”, caratterizzato da Il vero ideatore dell’ipotesi della degenerazione fu Bènèdict-Augustin Morel (1809-1873), nato a Vienna da genitori francesi. La teoria della degenerazione aveva carattere sia psichiatrico che antropologico-sociologico; dai caratteri al tempo stesso religiosi e scientifici. La sua definizione generale è la seguente: “Le degenerazioni sono deviazioni patologiche della tipologia umana normale, sono trasmissibili in via ereditaria e si sviluppano in maniera progressiva fino a provocare la scomparsa di chi ne è affetto”. Morel aveva lavorato a questo problema a partire dal 1839 ma ne diede formulazione definitiva solo nel 1857 nel suo Traitè des dègènèrescences physiques, intèllectuelles et moralès de l’espèce humaine. La degenerazione poteva secondo Morel insorgere attraverso: 1. avvelenamento, 2. l’ambiente sociale; 3. un temperamento patologico; 4. una malattia morale; 5. danni innati oppure acquisiti e 6. l’ereditarietà. La degenerazione obbediva alla cosiddetta legge della “pregressività”, ovvero se per esempio la prima generazione di malati era affetta solo da comune nervosismo, la seconda sarà affetta da nevrosi, la terza da psicosi più gravi fino alla completa cancellazione della stirpe malata. Sulla base della sua teoria della degenerazione Morel effettuò una nuova classificazione delle malattie mentali, evidenziandone il carattere eziologico più che sintomatologico. Strettamente legato al problema della degenerazione è la discussione, molto in voga all’epoca, sulla connessione tra genio, follia e delinquenza. Secondo Morel e Magnan (medico francese) per i delinquenti, i geni e i malati mentali entrava in gioco la stessa disposizione costituzionale e in tutti e tre i casi si trattava naturalmente di degenerazione. Lo psichiatra italiano Cesare Lombroso riprese in mano questo problema nel suo libro L’uomo delinquente del 1870, dando così inizio all’”antropologia criminale”. In questo libro egli considerava i criminali una forma di razza primigenia sopravvissuta alla selezione naturale. 2 Negli anni sessanta dell'Ottocento l'eugenetica venne portata in auge da Francis Galton (cugino di Charles Darwin) che teorizzò il miglioramento progressivo della razza secondo criteri analoghi a quelli dell'evoluzione biologica. Sosteneva necessario un intervento delle istituzioni per questo fine, mediante l'incrocio selettivo degli adatti. Galton ideò anche il termine, traendolo dal greco classico. Specialmente in Inghilterra ed in Germania, questa teoria ebbe grande successo, grazie anche alla forte impostazione positivista della scienza e all'ideale imperante di progresso della civiltà. 1 20 frequenti e brevi assenze, interruzioni della coscienza, sensazioni vertiginose. L’autore si riferiva a quelle che sono definite “crisi psichiche o assenze temporali, alquanto simili, che differiscono però dal piccolo male puro; tale differenza potè essere chiarita solo con l’introduzione dell’elettroencefalogramma. Jackson fornì la prima definizione scientifica della malattia: “scariche occasionali, improvvise, eccessive, rapide e localizzate di sostanza grigia”. Come già sostenuto da Ippocrate, egli ritenne che la causa delle crisi fosse un deficit nutritivo cellulare; descrisse l’epilessia motoria, per questo chiamata anche jacksoniana, e le crisi uncinate. L’autore fornì anche una spiegazione dell’origine delle crisi generalizzate che si sarebbero manifestate quando fosse stato colpito “l’organo della mente” (in particolare la corteccia frontale e prefrontale), substrato anatomico della coscienza. La descrizione delle crisi uncinate, e quindi delle crisi psichiche come manifestazioni epilettiche a pieno titolo, pose il problema di stabilire se alterazioni dell’umore o disturbi affettivi, comportamenti automatici o esperienze psichiche potessero manifestarsi in assenza di una crisi epilettica o se dovessero essere considerati solo come una conseguenza della patologia, come sostenuto da Jackson. Venne così utilizzato il concetto di “equivalente” per spiegare alterazioni comportamentali o psichiche intercritiche; in seguito si parlò di “equivalente psicomotorio”. Gli studi di Jackson permisero di porre le basi neurofisiologiche per la comprensione della scarica epilettica e per la nascita della chimica di sintesi, quindi per la terapia dell’epilessia. Difatti nel 1912 Hauptmann introdusse in terapia il fenobarbitale, un composto con un’attività anticonvulsivante intensa e poco tossico. Intorno alla metà del XIX secolo esistevano in psichiatria due concezioni contrastanti riguardo alla natura delle turbe mentali. La prima di queste si riallacciava al pensiero di Sydenham ed ai sistematici del XVIII secolo e prevedeva un elevato numero di entità morbose, considerate come discrete, che vennero incluse dai diversi Autori in classificazioni molto elaborate. Con il passare del tempo si cercò di ridurre le diverse entità patologiche a pochi tipi principali; Kraepelin nelle sue prime edizioni del 21 “Trattato di Psichiatria” (1883) fece rientrare l’epilessia tra le nevrosi generali, assieme alla nevrastenia e all’isteria. L’opera dell’autore diverrà nota con la sesta edizione, quando ancora era previsto questo tipo di classificazione. Tuttavia nell’edizione successiva per l’epilessia fu elaborata una categoria a parte, distinta sia dalle personalità psicopatiche che dalle malattie mentali di origine costituzionale. L’altra concezione della malattia mentale dell’epoca non prevedeva la presenza di entità discrete e differenziate; tutti i disturbi mentali erano riconducibili ad un’unica malattia che poteva però esprimersi in diversi livelli di gravità; il deterioramento maggiore era rappresentato dalla demenza. Seguendo questa linea di pensiero l’epilessia viene considerata sia come un fenomeno regressivo, sia come un fenomeno di disintegrazione, venendo a mancare il controllo da parte dei centri superiori. In Italia, Cesare Lombroso (1835-1909), istituì una scuola scientifica di antropologia criminale. Egli pubblicò il suo testo “Genio e Follia”, e con estrema audacia definì il genio non altro che una forma larvata di epilessia, che parve a molti una teoria esagerata. Lombroso introdusse il concetto di “delinquente epilettico”, ritenendo con questo che il soggetto affetto da epilessia avesse molto in comune con il folle morale e con il delinquente. Nella sua classificazione incluse anche la “psicosi epilettoide del genio”, sostenendo che gli epilettici presentavano molte delle caratteristiche tipiche degli uomini di genio. Egli cosi scriveva: “Solo gli epilettici possono abbracciare, come i folli morali ed i criminali, sotto una forma clinica eguale, una divergenza intellettuale enorme che va dal genio fino all’imbecillità” (Lombroso C., 1924). A suo parere gli epilettici sono “bigotti con Dio per la lingua, ma hanno il pugnale nel cuore. Essi mostrano la tendenza al vagabondaggio, l’amore per le bestie e l’oscenità”. Lombroso sostiene anche la precocità sessuale di questi soggetti affermando: “Io ho veduto tendenze sessuali nei fanciulli epilettici di quattro anni, e, caso unico, in uno che la madre vide in erezione e sfregamento osceno fra le sue mammelle ad una anno di età.” 22 L’opera di Lombroso mostra una preconcetta impostazione ideologica che vede nell’epilettico l’espressione della massima devianza, in assenza di qualunque tipo di comprensione del vissuto di questi soggetti. Non possiamo separare il contributo della psichiatria da quello della neurologia poiché, in merito all’epilessia, le scoperte fatte in un campo influenzarono il pensiero e l’orientamento della ricerca dell’altro; in alcuni casi i teorici avevano una formazione sia psichiatrica che neurologica. L’esperienza maturata nei reparti ospedalieri, nei laboratori e negli studi privati portò ad una maggiore considerazione degli aspetti neurofisiologici. Diversi autori si interessarono di casi in cui i soggetti apparivano del tutto normali dal punto di vista psichico; così nel 1861 Russel Reynolds, ponendosi in netta contrapposizione con la teoria sostenuta da Morel, affermò che circa il 40% dei soggetti da lui analizzati non mostrava alcun deficit mentale. Sulla base del fattore etiologico egli distinse, per la prima volta, le epilessie primarie in idiopatiche o essenziali o criptogenetiche, alla cui origine vi era un fattore genetico, e secondarie o sintomatiche in cui vi era l’intervento di un fattore lesionale. Anche per Gowes (1907) la maggior parte dei soggetti epilettici era psichicamente normale ed i riferimenti a disturbi psichici erano molto limitati. Egli potè osservare che gli epilettici con deficit mentali presentavano delle crisi con una frequenza maggiore rispetto agli altri e l’intervallo tra le crisi stesse era più ridotto. Tra i principali studiosi del fenomeno epilettico degno di nota è lo studioso B.A. Morel. Egli nel 1857 elaborò la “teoria della degenerazione” che ebbe un’influenza determinante in psichiatria per molto tempo. Secondo tale teoria l’epilessia, come le altre malattie mentali, era causata da un tratto degenerativo, progressivo, ereditario, destinato a diventare sempre più grave con il succedersi delle generazioni e che avrebbe infine portato ad un quadro di idiozia con cui il tratto stesso si sarebbe cancellato. La follia conclamata, l’epilessia, la debolezza del carattere, i difetti morali, l’insufficienza mentale costituivano delle prove di tale degenerazione; inoltre era 23 possibile identificare dei segni fisici, come, ad esempio, la conformazione degli orecchi, indicativa della degenerazione. Morel parlò anche di “epilessia larvata”, entità nosografica che comprendeva forme di epilessia che si manifestavano “coi segni della follia” e non necessariamente in connessione con il fenomeno convulsivo. La teoria degenerativa di Morel raccolse molti consensi ed il soggetto epilettico venne considerato il “degenerato” per eccellenza. In Inghilterra Maudsley (1873) nel suo libro “Body and mind” scrisse: “Morel ha fatto fondate ed interessanti osservazioni sul fatto che la nevrosi epilettica può esistere per lungo tempo sotto forma embrionaria o mascherata, manifestandosi non con convulsioni ma con attacchi periodici di mania o con estrema perversione morale, da considerare come immoralità ostinata”. La nevrosi epilettica certamente è maggiormente affine alla nevrosi psichica, e quando esiste in forma mascherata con interessamento psichico prima dell’insorgenza delle crisi è molto difficile da riconoscere; e lo è ancor di più quando l’epilessia o la follia di un genitore possono provocare rispettivamente la nevrosi psichica o quella epilettica nel bambino. Una caratteristica che accomuna la nevrosi psichica a quella epilettica è la tendenza a tradursi in esplosioni di violenza. I maggiori sostenitori della teoria di Morel sull’epilessia furono L. Pierce Clark in America e Stauder in Germania. Il primo, nel 1917, introdusse il concetto di “personalità epilettica”, elaborato sulla base della sua esperienza con epilettici cronici rinchiusi in istituti; secondo l’autore essa, al pari delle crisi, avrebbe trovato una spiegazione nell’assetto psicopatico ereditario costituzionale del paziente. Nel 1938 Stauder portò a sostegno della teoria i risultati del test di Rorschach. Nei primi decenni del Novecento, nel frattempo, si assiste anche ad un eccezionale passo avanti nelle indagini diagnostiche grazie al tedesco Berger che, nel 1921, ottenne la prima registrazione dell’attività elettrica celebrale nell’uomo. L’influenza del pensiero di Morel si può ancora ritrovare nel nostro secolo. 24 Nel 1930 William Osler, nel “Textbook of medicine”, riprende la descrizione data da Pierce Clark della personalità epilettica che si caratterizza per “egocentrismo, ipersensibilità, povertà emozionale, intrinseca mancanza di adattabilità alla vita sociale”. Si deve a Minkowska (1932) la descrizione accurata della “personalità epilettica”3. Caratteristica principale dell’ “epilettoidia” è un’organizzazione caratteriale bipolare con oscillazioni tra bradipsichismo, bradicinesia e perseverazione, ad un polo, e impulsività, con esplosioni di ira e violenza incontrollata, dall’altro. Quest’organizzazione degli aspetti istintivo-affettivi determinerebbe nel soggetto un’incapacità di stabilire un adeguato rapporto empatico con gli altri, una dimensione affettiva priva di dinamismo, vischiosa ed adesiva; l’ideazione e la motricità sarebbero lente, mentre il soggetto vivrebbe in un mondo rigido, dai confini ristretti, ordinato con meticolosità e pedanteria. Questo modo di rapportarsi all’epilessia ha determinato un duplice ordine di conseguenze ancora rintracciabili nel nostro secolo: da una parte il paziente epilettico acquista uno status particolare in quanto è un uomo che, a differenza degli altri, è predestinato ad essere folle e cattivo, colto da improvvisi attacchi di violenza, forse anche un assassino, e, di certo, depravato moralmente. Egli è quindi incapace di adattarsi alle esigenze della vita sociale e forse condannato ad un deterioramento intellettivo, morale e sociale, irreversibile. In secondo luogo, tutte le manifestazioni comportamentali e gli atteggiamenti psichici tipici degli epilettici erano spiegati con la teoria della nevrosi epilettica, per cui diventava superfluo ricercare altre possibili cause. 3 La personalità epilettica, secondo Minkowska, era caratterizzata da egocentrismo, ipocondria, religiosità bigotta, ed impulsività aggressiva. Nel 1932 essa stessa introdusse il termine “epilettoide” per indicare una personalità caratterizzata da due poli: l’adesività e la vischiosità, da un lato, e l’esplosività dall’altro. 25 Con il convegno della Società di Fisiologia a Cambridge ha inizio l’era moderna in cui un ruolo centrale è giocato dall’utilizzo dell’elettroencefalogramma nell’uomo, strumento diagnostico scoperto all’inizio del secolo da Hans Berger (1924)4. Molti furono gli studi portati avanti sull’epilessia prima e durante la seconda guerra mondiale, comunque riconducibili a due filoni principali: quelli di Harvard condotti da Lennox e Gibbs (1934) e quelli di Montreal portati avanti da Jaspers, Erickson e Penfield (1941). Progressivamente le metodologie usate nei due diversi laboratori scientifici sono diventate sempre più simili, portando anche a simili conclusioni. La scoperta più importante riguarda la correlazione tra la localizzazione cerebrale del focus epilettico e la natura ed il carattere delle crisi. Nel 1949 venne elaborato il concetto di epilessie temporali, comprendenti, tra le altre forme, anche le crisi uncinate. Grazie all’ausilio dei reperti elettroencefalografici si potè distinguere il “piccolo male puro”, definito da Penfield (1891-1976) “epilessia centroencefalica”, dall’epilessia corticale focale, comprendente anche l’epilessia temporale. L’esperienza con i pazienti epilettici istituzionalizzati portò ad attribuire i deficit intellettivi e neurologici alla patologia cerebrale diffusa e l’epilessia fu considerata proprio come una conseguenza di queste lesioni gravi. Altri soggetti mostrarono invece psicosi allucinatorie paranoidi e croniche, descritte nel 1963 da Slater ed altri autori e chiamate “schizofrenosimili”. Da varie parti si sostenne che una delle cause principali della manifestazione convulsiva fosse da rintracciarsi nell’alcolismo cronico, riscontrato in almeno la metà dei casi degli epilettici folli. 4 Nell'anno 1924 Hans Berger ha costruito il primo elettroencefalografo (EEG), l'impianto per la registrazione elettrica nella forma grafica dell'attività di cervello, misurata sulla superficie della testa. Facendo le registrazioni al proprio figlio, Berger ha osservato i cambiamenti ritmici del potenziale della frequenza di 10 Hz. Quest'attività, dominante nello stato di rilassamento, viene definita come onde Alfa (8-13 Hz). Le ricerche seguenti hanno condotto ad individuare nell'attività del cervello le altre specie di onde, legate ai rispettivi stati della coscienza: onde Delta, che compaiono nel sonno più profondo; onde Theta, dominanti, sopratutto, nel sonno, ma anche presenti, per esempio, durante immagini particolarmente realistiche; onde Beta tipiche della persona adulta nella sua attività giornaliera. 26 Altri autori rinvennero nel paziente epilettico condizioni psichiche seriamente compromesse notando come molti sintomi critici, quali stati simil-crepuscolari, automatismi, crisi maniacali, portassero il soggetto ad esplosioni di violenza che potevano culminare anche nell’omicidio. Nel 1950 A. L. Lewis scriveva che “i modi impulsivi, presuntuosi, adulatori o collerici di alcuni epilettici possono essere considerati in gran parte come un’espressione variabile della loro predisposizione costituzionale (alla quale sono verosimilmente dovute le crisi motorie) e in parte come reazione situazionale”. Tale autore introdusse anche il concetto di “equivalenti epilettici”, manifestazioni cliniche che possono sostituirsi alla convulsione, quali manifestazioni di furore, stato crepuscolare, fuga con amnesia dell’evento. Nello stesso anno Henderson riprendeva la sua descrizione dei tre tipi principali di disturbi psicopatici; uno dei sottotipi del gruppo comprendente soggetti aggressivi era proprio il carattere epilettoide. L’epilettoidismo, compreso tra le psicopatie, poteva portare ad un’alterazione della coscienza, definendo, in tal caso, l’epilessia come psichica o affettiva (quadro che aveva anche delle implicazioni medico-legali). Il concetto di “devianza epilettica” è dominante negli anni ’50 sia nella cultura scientifica che nell’opinione pubblica. Per lo psichiatra francese Ey “l’epilessia sembra sconvolgere la struttura psichica dell’essere. È nell’ambito di questo sconvolgimento che l’aggressività e la criminalità virtuale sembrano occupare un posto centrale”. 27 6. Personaggi famosi affetti da crisi epilettiche La storia dell’umanità è ricca di personaggi famosi affetti da epilessia (Tab. 1). Tra i più noti ricordiamo Giulio Cesare (100-44 a.C.), dittatore e generale romano. Di lui lo scrittore greco Plutarco (75 d.C.) riferisce infatti che era sofferente di mal di testa e soggetto ad epilessia, mentre il romano Svetonio (119 d.C.) racconta che godeva di eccellente salute, ad eccezione del fatto che verso la fine della sua vita fu soggetto ad improvvisi svenimenti, oltre a disturbi del sonno. Quindi, stando a quest’ultimo autore, la malattia di Cesare compare tardivamente il che fa supporre che sia acquisita e non ereditaria, nonostante il fatto che esistesse una familiarità per le crisi epilettiche: suo figlio Cesarione, avuto da Cleopatra, ne soffriva già nell’infanzia come altri discendenti più lontani, quali Caligola e Britannico. Tra i personaggi affetti da epilessia si annovera Maometto, nato nel 570 e deceduto nel 612 d.C. in seno ad una povera famiglia, da padre pagano e madre ebrea. Si narra che, vivendo lo stato di “Morbo sacro”, seppe giovarsi di questa sua infermità per confermare la religione da sé inventata. Egli affermò che quelle frequenti cadute non erano altro che rapimenti, che gli davano la possibilità di tenere colloqui con l’Arcangelo Gabriele. Altro personaggio epilettico fu il Sommo Poeta Dante Alighieri (1265-1321) sul quale il criminologo Cesare Lombroso si soffermò notando che: “Nell’Inferno sono frequenti le cadute, come è proprio degli epilettici. Nel Purgatorio predomina la forma delle visioni, com’è proprio de’ sonnambuli; nel Paradiso l’estasi, com’è proprio degli allucinati”. Qual è la conclusione secondo Lombroso? Egli dedusse che il Sommo Dante viveva spesso uno stato nevrotico o patologico, analogo a quello dell’epilettico. L’originale medico così scrive dell’ artista: “come se il divino poeta realmente fosse stato all’altro mondo in ‘anima e corpo’; in altre parole “scambia un lavoro d’arte o di fantasia con la realtà della vita”. Anche Francesco Petrarca (1260-1338) fu un soggetto epilettico, ma la sua malattia si manifestò solo dopo i 70 anni, forse a causa di una vasculopatia. 28 Un altro personaggio che visse lo stato di epilessia fu Giovanna D’Arco, la “Pulzella d’Orléans”. Questi nacque nel 1412 e passò ad altra vita nel 1450. A 13 anni cominciò a sentire una voce divina che le indicava la strada da seguire nella vita. In seguito continuò a sentire delle voci. Quella che la storia ricorda è la frase:”Il Regno di Francia può essere salvato”. Essa si riferiva al fatto che soltanto grazie all’ intervento di un re, la Francia si poteva salvare. Pare che nessuno gli abbia dato ascolto e fu per questo che gli inglesi con Enrico V sconfissero i francesi. Tra gli epilettici ricordiamo anche il Beato Amedeo IX e Duca di Savoia (14351472), che non soffrì solo d’epilessia, ma era anche debole ed indeciso. Avrebbe infatti desiderato di diventare monaco preferendo le preghiere e l’ascetismo al governo, ove occorreva troppa responsabilità. Martin Lutero (1483-1546), religioso che aprì le porte al protestantesimo, fu anch’egli sofferente del mal caduco. Intorno al 1500, nei suoi “Detti Conviviali”, scrisse: “È meraviglioso come Dio abbia messo tante virtù nel vile letame. Noi sappiamo per esperienza che lo sterco di maiale regola il sangue, quello di cavallo serve per la pleurite, dell'uomo guarisce le ferite e le pustole, di mucca, con le rose, serve per l'epilessia e le convulsioni del bambino”. Altro personaggio affetto da epilessia fu l’Imperatore di Spagna Carlo V (1500 1558) anche lui schiavo del “Morbus Sacer”. Egli trascorreva ore in canto e in preghiera nel coro della chiesa. Soffrì di vari malanni da non essere capace, addirittura, neanche di fare la sua firma. I terribili disturbi psichici si presentarono in lui sin da giovane. Infatti, a 19 anni, mentre ascoltava la messa a Saragozza, cadde a terra privo di sensi; si racconta che rimase così per ore con un forte pallore in volto. Fra i “Geniali epilettici” non si dimentica lo scrittore dell’Orlando Furioso, Torquato Tasso, vissuto dal 1544 al 1595. La sua opera più importante e conosciuta è la Gerusalemme liberata, scritta nel 1575, in cui vengono descritti gli scontri tra cristiani e musulmani alla fine della Prima Crociata, durante l'assedio di Gerusalemme. 29 Altro malato sofferente di epilessia fu il pittore Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, (1571-1610). Un altro interessante malato di “mal caduco” fu il Jean du Plessis Richelieu, che visse dal 1585 al 1642 i cui primi passi non furono fortunati. Infatti, Alberto di Luynes, il favorito del giovane re Luigi XIII°, provocò la disgrazia della regina madre, Maria de’ Medici, che aveva notato il Richelieu e ne aveva favorito la nomina a Segretario di Stato. Così lasciò Parigi e si ritirò ad Avignone, dove si immerse in studi di teologia. Altri personaggi furono il rappresentatore teatrale Jean-Baptiste Poquelin, denominato Moliére (1621-1673) e Pietro il Grande, zar di Russia (1672-1725). Un’altra grande personalità che s’inserì nell’elenco dei malati di epilessia, veramente degna di nota, fu quella del musicista Antonio Vivaldi, vissuto dal 1678 al 1741. La sua malattia lo tormentò per tutta la vita, oltre al rachitismo, tisi, angina pectoris e asma bronchiale. Malanni in genere molto comuni, soprattutto i disturbi broncopolmonari, a chi soffriva d’epilessia. Il giovane si presentava molto nervoso ed aveva più a cuore la musica che la liturgia. Un giorno mentre diceva messa, essendogli venuto in mente il tema di una fuga, abbandonò l'altare per scriverlo sulla partitura e poi tornò ad officiare come se nulla fosse accaduto. Il fatto però fu preso in considerazione e quindi denunciato all'Inquisizione, che però lo giudicò come un musicista, cioè come un pazzo, e si limitò a proibirgli di dire messa in futuro. Tra i soggetti epilettici si può annoverare anche Papa Pio IX (1792-1878) , il quale fu definito il Papa della Croce poiché il suo pontificato fu tutto un calvario, dal primo all’ultimo giorno. In realtà, fin dai più teneri anni d’età, mentre stava per affrontare gli studi ecclesiastici, presentò lo stato d’essere “epilettoide”. Infatti molti studiosi erano certi che soffrisse d’epilessia, dato che non poteva vivere una vita normale, soprattutto perché con poca memoria, ma questo non fu il caso del papa al quale si poteva ipotizzare che a causa di questa malattia, non avrebbe potuto accedere all’applicazione degli studi teologici, ne fare una vita normale. Non fu però così poiché scelse, in modo definitivo, la via del sacerdozio. Fu da allora che non vide più infranti d’un colpo tutti i suoi sogni, ma anzi, poté constatare che in lui erano presenti 30 delle forze per concretizzare un avvenire molto luminoso. Egli fu infatti santificato nel 2000 da Papa Giovanni Paolo II. Non va dimenticato il famoso scrittore russo Fedor Michajlovic Dostoevskij sofferente d’epilessia e tubercolosi (1821-1881). Fa parte dei “Grandi epilettici” anche lo svedese, creatore dell'omonimo premio, Alfred Bernhard Nobel, chimico industriale e filantropico, vissuto dal 1833 al 1896, che, dopo essersi interessato per una vita d’esplosivi, riuscito ad accumulare un’enorme ricchezza con brevetti e varie invenzioni, destinò la cifra alla “Fondazione Nobel”. Il pittore Van Gogh (1853-1890), infine, fu curato con la digitale per guarire dall’epilessia; e fu grazie a questo farmaco, che blocca la xantopsia, cioè un disturbo visivo provocato da sostanze tossiche, che ebbe una visione gialla del mondo che visse un periodo in cui dipingeva soprattutto di giallo. Questa la vita di alcuni grandi uomini che, pur attraverso la loro sofferenza, riuscirono a portare a termine disegni inaspettati. 31 Tab. 1 – Principali personaggi epilettici della storia Pitagora 575–495 a.C. Matematico Giulio Cesare 100-44 a.C. Dittatore e generale romano Alessandro Magno 356-323 a.C. Re di Macedonia Maometto 570-612 Religioso Dante Alighieri 1265-1321 Scrittore e Poeta italiano Francesco Petrarca 1260-1338 Scrittore e Poeta italiano Giovanna D’Arco 1412-1450 Patriota francese Beato Amedeo IX 1435-1472 Religioso Martin Lutero 1483-1546 Religioso Carlo V 1500-1558 Imperatore di Spagna Torquato Tasso 1544-1595 Scrittore e Poeta italiano Caravaggio 1571-1610 Pittore italiano Jean du Plessis Richelieu 1585-1642 Segretario di Stato francese Moliére 1621-1673 Rappresentatore teatrale Pietro il Grande 1672-1725 Zar di Russia Antonio Vivaldi 1678-1741 Musicista italiano Papa Pio IX 1792-1878 Religioso Fedor Michajlovic Dostoevskij 1821-1881 Scrittore russo Alfred Bernhard Nobel 1833-1896 Chimico industriale svedese Van Gogh 1853-1890 Pittore olandese 32 CAPITOLO SECONDO PSICOPATOLOGIA DELL’EPILESSIA: ASPETTI COGNITIVI COMPORTAMENTALI E RELAZIONALI AD ESSA CONNESSI 1. Le conoscenze contemporanee Vengono definite epilessie delle sindromi cerebrali croniche, caratterizzate dalla presenza di crisi epilettiche. Le crisi epilettiche sono delle crisi cerebrali dovute alla scarica ipersincrona di un gruppo di neuroni. Le manifestazioni accessuali sono secondarie alla repentina alterazione dell’equilibrio del potenziale di membrana dei neuroni che provoca una depolarizzazione rapida e prolungata della membrana cellulare. La cronicità differenzia in modo sostanziale le epilessie dalle crisi epilettiche occasionali, che possono costituire eventi isolati nel corso della vita. Convulsioni possono presentarsi nel corso di malattie congenite o acquisite del sistema nervoso, o come complicanze di malattie sistemiche (Roccella M., 2007). La denominazione di epilessia deriva dal greco “epilambanein” per esprimere l’aspetto tipico della crisi epilettica, ovvero il “cogliere di sorpresa” l’individuo che ne è affetto. È stato stimato che il 5% della popolazione abbia presentato una crisi epilettica durante la vita. Attualmente si ritiene che l’epilessia non sia una malattia ma un gruppo di disordini, ognuno con la propria eziologia ed evoluzione clinica. Dal punto di vista eziologico le epilessie vengono classificate come idiopatiche (dal greco idios che significa proprio, personale, non derivabile da altro), criptogenetiche (la cui causa non si riesce a dimostrare con le attuali tecniche diagnostiche) e 33 sintomatiche (la cui causa è nota). Queste ultime sono imputabili ad una sofferenza in epoca prenatale, perinatale o postnatale (Roccella M., op. cit.). Esistono alcune situazioni in cui l’epilessia si associa con maggiore o minore frequenza ad aspetti malformativi multipli. Dal punto di vista fisiopatologico il meccanismo che produce la scarica epilettica è lo stesso sia nei soggetti con epilessia idiopatica che in quelli con epilessia sintomatica. Durante l’età evolutiva le epilessie si differenziano in maniera notevole da quelle dell’adulto. Ciò trova spiegazione nelle caratteristiche anatomofisiologiche dell’encefalo del bambino. Il cervello infantile presenta, infatti, una maggiore tendenza a convulsivare rispetto a quello dell’adulto, anche per una inadeguatezza dei meccanismi inibitori (Gaba, glicina), ed inoltre per squilibri idroelettrolitici, ipossia, ipoglicemia, intossicazioni, ipertermia. La rapida maturazione delle sinapsi assodendritiche di tipo eccitatorio rispetto alle connessioni inibitorie facilita l’insorgere di manifestazioni parossistiche nel bambino al di sotto dei tre anni. Vengono definite generalizzate le sindromi e le epilessie nelle quali la modificazione clinica indica che fin dall’inizio vi sia stato un coinvolgimento di entrambi gli emisferi; in questo caso la scarica origina dalle strutture mediane del cervello e si diffonde all’interno del SNC (Roccella M., op. cit.). Nelle epilessie e sindromi parziali la scarica può limitarsi ad un’area corticale specifica rimanendo circoscritta ad un’area del cervello; se durante la crisi lo stato di coscienza non è compromesso parleremo di crisi parziali semplici o elementari. Nelle crisi parziali complesse viene sempre compromesso lo stato di coscienza. Alcune epilessie sono resistenti ai trattamenti farmacologici. A volte le crisi epilettiche sono abbastanza prolungate e ripetute ad intervalli brevi da provocare uno stato di male epilettico. Fanno parte della clinica delle epilessie i disturbi psicopatologici che possono essere distinti in base al momento della loro insorgenza e alla loro durata. I primi vengono classificati in pre-critici, critici, postcritici ed intercritici, i secondi in parossistici, episodici, permanenti ed evolutivi (Roccella M., op. cit.). 34 Il disturbo pre-critico va distinto dall’aura, e sembra ricorrere maggiormente prima delle crisi di grande male ; la sintomatologia prodromica è caratterizzata da disturbi vegetativi sintomi somatici e disordini di tipo emotivo-affettivo (ipotimico e/o ipertimico). La sintomatologia psichica critica è parte integrante della semeiologia delle stesse crisi; essa si presenta in modo differente a seconda del tipo di crisi. La coscienza è totalmente abolita nelle crisi generalizzate convulsive ed in molte di quelle non convulsive e parziali complesse. L’entità della degradazione dello stato di coscienza è più rilevante nelle crisi parziali complesse che offrono una maggiore varietà di disturbi psichici: crisi allucinatorie plurisensoriali, mnesiche, emotivoaffettive, disturbi del pensiero, stati confusionali. Nelle crisi parziali semplici la componente psichica è strettamente legata alla funzione senso-percettiva dell’area coinvolta; in questo caso il soggetto ha anche la possibilità di osservare la fenomenologia critica. Le sindromi psichiche post-critiche possono durare giorni o mesi; la vigilanza è in genere buona anche se la coscienza può essere occupata dai contenuti della psicosi. Clinicamente le sindromi psichiche post-critiche sono di tipo distimico o di tipo confuso delirante con comportamenti a volte violenti o aggressivi. Le alterazioni psicopatologiche persistenti o intercritiche sono sindromi episodiche, stabili o con carattere evolutivo. Vengono così definite in quanto non sembrano avere un rapporto temporale significativo con la crisi ed interessano l’intelligenza e la personalità. I disturbi della personalità possono manifestarsi con sindromi emotivo-affettive, sindromi schizofrenosimili, disordini della personalità e del carattere. Viene anche descritta una demenza epilettica legata all’evoluzione della cerebropatia epilettogena o ad una evoluzione simil-demenziale di casi con psicosi cronica schizofrenosimile (Roccella M., op. cit.) 35 2. Aspetti cognitivi e comportamentali Il soggetto epilettico vede la sua crisi attraverso gli occhi degli altri e la conosce per quanto gli altri gli riferiscono. Durante il parossismo egli infatti non è presente a se stesso, mentre il suo corpo diventa teatro di tutta una serie di drammatici eventi che verranno in seguito attribuiti al soggetto stesso, influenzando il rapporto con sé e la malattia. Non vi è in realtà una chiara distinzione tra momento privato e momento pubblico della patologia, anzi essi non esistono l’uno a prescindere dall’altro. Il disagio vissuto dal soggetto all’occorrenza delle crisi (l’esperienza della crisi è già di per sé frustrante a causa dell’imprevedibilità e delle manifestazioni ad essa connesse, quali fuoriuscita di bava, la caduta al suolo, la perdita del controllo sfinterico, spesso fonte di umiliazione) può essere aggravato dall’atteggiamento, spesso incongruo, dell’ambiente, nutrito di pregiudizi assai diffusi. Il carattere episodico della crisi epilettica, che irrompe nel soggetto in modo improvviso ed inevitabile, suscita, infatti, nell’immaginario collettivo la visione di qualcosa di estraneo, che prende temporaneamente possesso della persona, estraniandola a se stessa. L’attesa della crisi determina nel soggetto un permanente stato di tensione, ed è proprio l’attesa che organizza la dimensione temporale dell’epilettico. Essa condiziona il presente, le azioni quotidiane, ma anche il futuro, le sue possibilità di progettazione. Nel soggetto cresce l’idea di essere affetto da una patologia grave e vergognosa di cui doversi giustificare. Emblematico appare l’atteggiamento positivista che assimila il significato della crisi in quanto dimensione essenziale altra (= aliena) a quello della condizione assunta come tipica dell’alienazione: la malattia mentale (Roccella M., 1999). Questa reazione può reificarsi nei pregiudizi che si ritrovano non solo nella cultura popolare, ma anche in quella scientifica o pseudo-scientifica di tutti i tempi. La relazione tra epilessia e psicopatologia è un tema di grande interesse ma ancora poco definito. Molto si è discusso sul fatto che l’epilessia come tale possa rappresentare di per sé un fattore di rischio per l’insorgenza di disturbi psichiatrici. 36 Le posizioni a questo proposito sono due: da una parte si collocano coloro che considerano le distorsioni di personalità dell’epilettico derivanti dalla malattia neurologica, quindi come conseguenze di questa, dall’altra coloro che interpretano tali manifestazioni come “difese” dell’individuo in seguito alle sofferenze fisiche e psichiche derivanti dall’epilessia, per cui il soggetto presenterebbe dei disturbi anche a livello caratteriale e comportamentale (Aicardi J., 1989). L’epilessia è una patologia molto particolare, tendente a coinvolgere molti aspetti della vita del paziente. Ne risulterebbe una compromissione dell’intera sfera sociale e relazionale, soprattutto nelle forme più gravi. I fattori che in ogni modo possono concorrere alla comparsa di disturbi psichici negli individui affetti da epilessia sono raggruppabili in tre principali categorie: fattori clinici, fattori psicosociali e fattori biologici. Fra i primi gli elementi di maggiore importanza risultano essere l’età d’esordio della sintomatologia, la durata della sindrome comiziale, il tipo e la frequenza delle crisi e le alterazioni elettroencefalografiche relative. I fattori psicosociali che sembrano essere collegati allo sviluppo di un disturbo psichico, negli individui affetti da epilessia, sono l’andamento cronico della malattia, la capacità d’adattamento alla malattia, eventuali forme di discriminazione vissute dal soggetto, i rapporti intrafamiliari, le limitazioni legali e i sentimenti di bassa autostima. I fattori biologici che possono predisporre allo sviluppo di un disturbo psichico sono la presenza d’alterazioni in aree cerebrali coinvolte nel funzionamento psichico ed alcuni effetti collaterali dei farmaci antiepilettici. I sintomi psichici sono distinti, inoltre, in base al momento della loro comparsa in: Disturbi Acuti e Critici, che precedono la crisi vera e propria e consistono generalmente in uno stato di confusione mentale, in automatismi psicomotori (atti incoscienti e istintivi, frequenti nell’epilessia temporale), in allucinazioni o in fatti “crepuscolari” o stato crepuscolare, che rientra nell’ambito dei disturbi di coscienza. Questo stato crepuscolare consiste nel dirigere la coscienza su un aspetto della realtà 37 ristretto; al di fuori di tale ambito, nulla della realtà viene colto e vissuto, come se il paziente se ne mantenesse distaccato. Con l’avvicinarsi della crisi epilettica possono comparire anche altri sintomi, quali instabilità, ansia e umore depresso. Questi sintomi si associano più spesso a crisi parziali complesse, presenti in particolare nell’epilessia temporale (Roccella M., op. cit.). I disturbi post-critici compaiono dopo la fine della crisi stessa e consistono soprattutto in alterazioni cognitive, affettive e comportamentali, in particolare stato confusionale, caratterizzato da agitazione ansiosa e disorientamento spaziotemporale. Il paziente appare trasognato, perplesso e le sue funzioni psichiche sono rallentate e “vischiose” (cioè il paziente mostra una certa lentezza a staccarsi da determinate attitudini mentali), accompagnate da un’indifferenza riguardante la propria condizione. Tra questi disturbi può essere presente talvolta anche uno stato onirico. Questa condizione può condurre il soggetto epilettico anche a compiere atti abbastanza pericolosi, come atti distruttivi e aggressivi, e arrivare addirittura a compiere un delitto del tutto inconsapevolmente. Da quanto detto emerge che non si può parlare di un “tipo psicologico epilettico”, ma più precisamente di strutture di carattere diverse, determinate dalla propria esperienza personale, dalla capacità di istaurare rapporti interpersonali, dalla maggiore o minore capacità di accettare il fenomeno per quello che è, dal tipo d’epilessia caratteristica del soggetto. La terapia farmacologica nel paziente epilettico deve rappresentare un compromesso ragionevole tra la malattia e le possibili complicazioni della terapia. Se essa rappresenta un rischio d’effetti collaterali equivalenti alla malattia da trattare, è probabilmente non indicata. Lo scopo della terapia è quello di migliorare la qualità della vita del paziente nel senso più ampio, e non solo ridurre il numero delle crisi (Scott. D.F., 1994). 38 Considerando gli imprevedibili effetti collaterali e l’intolleranza ai farmaci antiepilettici, la terapia giornaliera con questi farmaci non dovrebbe essere intrapresa dopo una singola crisi, piuttosto dopo più episodi. All’inizio della terapia con farmaci antiepilettici, il paziente e la sua famiglia devono essere consapevoli del fatto che l’assunzione di questi farmaci non durerà per tutta la vita. Infatti se le crisi sono state eliminate per diversi anni con i farmaci, questi possono solitamente essere sospesi con successo nei casi d’epilessia meno gravi. Molti pazienti risultano farmacologicamente intrattabili, quindi inadeguati ad intraprendere una terapia con farmaci antiepilettici, o perché il tipo specifico d’epilessia non risponde al trattamento terapeutico o perché intolleranti agli stessi farmaci. In questi casi si valuta l’ipotesi di trattamento chirurgico delle crisi come unica alternativa all’inefficacia farmacologica, naturalmente in casi particolarmente gravi (Scott. D.F., op. cit.). Il successo del trattamento chirurgico può condurre ad un miglioramento delle condizioni generali del paziente. Tuttavia, dalla chirurgia possono derivare anche degli effetti collaterali quali, ad esempio, alterazioni cognitive. Per questo è necessario che un trattamento di questo tipo sia svolto solo da personale altamente specializzato e in un centro adeguato. Oggi, grazie alla scoperta di sempre più efficaci farmaci epilettici e di tecniche diagnostiche sempre più all’avanguardia, questa patologia è divenuta più tollerabile sia da parte del paziente che da parte della società. La terapia attuale dell’epilessia si avvale di diversi farmaci tra cui ricordiamo il l’acido valproico, la carbamazepina, ecc. (Roccella M., op. cit.). 39 3. Aspetti relazionali Interessante risulta l’aspetto relazionale della patologia che, per essere compresa adeguatamente non ha bisogno di interpretazioni in senso strettamente neurologico, ma deve essere inquadrata in una prospettiva più ampia che consideri sia gli aspetti organici che quelli psicologici e sociali. La terapia dell’epilessia richiede in genere un lungo periodo di tempo, durante il quale potrà rendersi necessario modificare sia la dose che il farmaco stesso, in relazione al tipo di risposta clinica ottenuta. Tale terapia deve essere scrupolosamente seguita e controllata per garantire un’efficace gestione della crisi. Questo comporta la necessità di servirsi dell’elettroencefalogramma per svelare la presenza di eventuali scariche anomale, clinicamente non evidenti, il ricorso al dosaggio ematico del farmaco per stabilire se la dose somministrata è compresa entro i valori minimi e massimi che garantiscono l’efficacia terapeutica e l’assenza di eccessivi effetti indesiderati o rischi di tossicità. Al paziente è inoltre attribuito il compito di compilare delle schede di registrazione delle informazioni relative al contesto ed alle modalità di comparsa della crisi, coinvolgendo necessariamente tutto l’ambiente circostante. Il fenomeno della richiesta esorbitante di esami ed accertamenti sembra rispondere proprio ad una motivazione di carattere ritualistico, ad un cerimoniale di esorcismo della malattia. L’elemento rituale, proprio della magia e della religione, si ripresenta, in forma mascherata, anche nei rapporti tra medico, familiari e paziente, e tale elemento in questo contesto veicola proprio la comunicazione affettiva, quella strettamente controllata in un contesto scientifico. Particolari modalità relazionali caratterizzano il soggetto epilettico, quali un ridotto livello di autostima, la presenza di sentimenti di colpa e di insicurezza, l’incapacità di tollerare le frustrazioni, aggressività reattiva, immaturità a diversi gradi, difficoltà nelle relazioni interpersonali così come nell’apprendimento di modelli di comportamento socialmente approvati. L’unione di queste modalità relazionali e di 40 probabili componenti somatiche può originare aggressività, impulsività, accessi di collera, instabilità psicomotoria, irritabilità, tendenza alla depressione e all’isolamento, ansia (Romanis (de) F., 1991). Accostarsi alla persona epilettica vuol dire considerare tutti questi elementi da cui indubbiamente deriva una difficile vita di relazione. La condizione psicologica del soggetto epilettico è molto ambigua, in quanto egli non presenta tratti esteriori che manifestano visibilmente la sua condizione, ed inoltre le manifestazioni di questa patologia non sono costantemente preavvertite, ma possono esplodere improvvisamente e in tutta la loro drammaticità. Ed è proprio questa particolare situazione a creare molto spesso nel soggetto epilettico una relazione di dipendenza nei confronti del gruppo, familiare o sociale. Il soggetto colpito da una crisi, in molti casi è attore e spettatore della crisi stessa, nel senso che assiste in prima persona alle modificazioni della propria immagine sia fisica che psichica, ma la “vede” anche nello sguardo di chi gli sta intorno, di chi lo circonda e che è coinvolto, spesso suo malgrado, in questi episodi caratterizzati dalla repentinità e dalla drammaticità. Nella persona epilettica possono convivere ambivalenti reazioni di difesa e senso d’impotenza nei confronti della malattia, percepita come forza malvagia e distruttiva, minacciosa per la propria sicurezza personale, che ha il potere di modificare gli stati d’animo e le reazioni dell’ambiente circostante. Spesso le conseguenze di questa patologia, incidono anche sulla vita delle persone vicine ai soggetti epilettici (Magliano R., 2001). Uno dei pregiudizi sull’epilessia è quello che sostiene la tesi dell’ereditarietà della malattia. Si parla, infatti, di “tara”, di “cattivo sangue” indice di colpa. In genere i genitori si sentono responsabili della malattia del proprio figlio, determinando pericolosi sensi di colpa. Il bambino viene considerato un “prodotto cattivo” e, in quanto tale, risulta difficile costruire una progettualità su di lui. Egli costituisce per i genitori un grosso investimento narcisistico, oltre che economico, progettuale ed emozionale. 41 Nell’ambito di una famiglia la nascita di un figlio epilettico rappresenta un vero e proprio shock, al quale seguono reazioni diverse in rapporto alla classe sociale d’appartenenza, al livello culturale, alle modalità d’insorgenza delle crisi ed alla maggiore o minore precocità delle manifestazioni della malattia. Nel caso in cui si scopre la presenza di tale malattia nel proprio figlio in età pediatrica, con la tendenza a persistere nel tempo, si condizionano pesantemente i rapporti, il vissuto emotivo e affettivo all’interno del gruppo familiare. I genitori tendono a negare, dapprima, l’esistenza della malattia, poi ad ignorarla e solo quando ciò non è più possibile, ha inizio una seconda fase, non meno dolorosa, di rassegnazione. Nel caso particolare di individuo affetto da crisi tonico-cloniche di “grande male” il rapporto fra madre e figlio è molto particolare, caratterizzato dal fatto che il figlio non è più semplicemente figlio ma è “il figlio epilettico” (Magliano R., op. cit.). È soprattutto la madre che soffre di questa nuova situazione. Quest’ultima, sentendosi direttamente o indirettamente colpevole della situazione del figlio, prova sensi di colpa per la sua malattia e per una sua eventuale esclusione dalla vita sociale. Gli atteggiamenti di iperprotezione e la tendenza al controllo trovano una motivazione più profonda che và al di là dei comportamenti logici nei riguardi di un bambino affetto da epilessia. Essi sono spesso indice di ostilità, anche se mascherata, e di rifiuto. In molti casi è lo stesso nucleo familiare del soggetto epilettico che tende ad isolarsi dai contatti sociali. Se invece l’epilessia si manifesta in età adulta, la situazione è differente, poiché la personalità del paziente è, almeno nei suoi tratti fondamentali, già compiuta. Non mancano in ogni modo anche in questo caso una serie di problemi legati all’improvviso cambiamento della propria immagine e del proprio schema corporeo (Romanis (de) F., op. cit.). Le istituzioni scolastiche, che per tradizione dovrebbero rappresentare i luoghi deputati all’apprendimento e alla crescita personale, possono assumere il ruolo di ulteriore fonte di conflitti e frustrazioni per il soggetto epilettico, se questi non è 42 accettato dall’intero gruppo classe e dai docenti. La serenità con la quale l’alunno affronterà la sua esperienza con la scuola dipenderà soprattutto dalla qualità dei rapporti istauratisi in famiglia, ma anche dagli atteggiamenti assunti dai genitori nei confronti dell’istituzione scolastica. Accade molto spesso che i genitori di individui epilettici assumano degli atteggiamenti piuttosto ambivalenti, rappresentati dal rifiuto di mandare a scuola il proprio figlio, dal completo disinteressamento del problema o dalla ricerca di alleanza con il personale scolastico. Nel rapporto scuola-soggetto epilettico è molto importante anche il ruolo degli insegnanti, dai quali dipende la comunicazione di stereotipi negativi e di pregiudizi nei confronti degli epilettici, oppure il tentativo di accostarsi a questo argomento in maniera più serena possibile. Quindi l’atteggiamento dell’insegnante nei confronti di uno scolaro epilettico risulta fondamentale, poiché sarà a questo che gli altri alunni faranno riferimento per comportarsi, a loro volta, con il proprio compagno “particolare”. Per fare in modo che gli altri alunni accettino con la maggiore serenità possibile la patologia del proprio compagno, l’insegnante dovrebbe innanzi tutto avere delle conoscenze fondamentali sulla malattia e adottare per quanto possibile un atteggiamento sereno e rassicurante, sdrammatizzando, non solo a parole ma anche con i fatti, la situazione, mettendo da parte timori inutili, stereotipi e commiserazione. L’inserimento di soggetti epilettici nelle scuole comuni è di primaria importanza per due fondamentali motivi: da un lato essi potranno usufruire di quelle stimolazioni fondamentali per un certo sviluppo delle potenzialità e della maturità per affrontare la vita sociale; dall’altro perché i compagni impareranno a superare pregiudizi e paure immotivate. I giovani epilettici possono avere, oltre ai già citati problemi relazionali e d’accettazione della stessa patologia, una serie di difficoltà anche pratiche, come: ottenere la patente di guida, ottenere un impiego o una polizza assicurativa. Il medico, dunque, dovrebbe incoraggiare il paziente a superare stereotipi e disinformazioni che ancora oggi circondano la malattia (Roccella M., op. cit). Nonostante i progressi compiuti dalla scienza nell’ambito della ricerca farmacologica, le manifestazioni improvvise e gravi di questa patologia, oltre che le 43 condizioni generali di vita, rendono interessante notare come sia attuale un concetto perpetuato verso gli epilettici, ovvero che epilessia e genio vanno spesso d’accordo. 4. Alcune concezioni etnopsichiatriche dell’epilessia La storia dell’epilessia si può ricostruire partendo da diversi punti di vista. Rispetto alle altre malattie, infatti, l’epilessia, a causa della sua singolare sintomatologia, è stata oggetto d’interesse di scienze quali, tra le altre, anche l’antropologia e l’etnologia. In particolar modo l’etnopsichiatria, una disciplina al confine fra l’antropologia, l’etnologia e la psichiatria, ne ha saputo cogliere i diversi aspetti che la riguardano. Ogni sistema culturale stimola particolari disturbi psicologici (un discorso a parte va fatto per le psicopatologie gravi), quindi per comprendere pienamente le sindromi dipendenti da fattori culturali è indispensabile riuscire ad identificare il substrato fisiologico o psicologico in cui quei fattori esercitano la loro influenza, sia le eventuali funzioni che queste sindromi ricoprono per l’individuo e per la collettività. In Puglia, per esempio, il “rito della tarantola5” era considerato un segno di distinzione e solo pochi, fino al secolo scorso, in quelle zone ritenevano il tarantismo una stranezza. Nessuno ne metteva in dubbio il carattere sacrale e non era considerato affatto, come ritenuto oggi, una patologia comportamentale. Le donne che lo 5 Il tarantismo si connotò come fenomeno storico religioso che caratterizzò l'Italia meridionale e in particolare la Puglia fin dal Medioevo; visse un periodo felice fino al XVIII secolo, per subire nel XIX secolo un lento ed inesorabile declino. Le vittime più frequenti del tarantismo erano le donne, in quanto durante la stagione della mietitura, le raccoglitrici di grano erano maggiormente esposte al rischio di essere morsicate da questo fantomatico ragno. Attraverso la musica e la danza era però possibile dare guarigione ai tarantati, realizzando un vero e proprio esorcismo a carattere musicale. Ogni volta che un tarantato esibiva i sintomi associati al tarantismo, dei suonatori di tamburello, violino, organetto, armonica a bocca ed altri strumenti musicali andavano nell'abitazione del tarantato oppure nella piazza principale del paese. I musicisti cominciavano a suonare la pizzica, una musica dal ritmo sfrenato, e il tarantato cominciava a danzare e cantare per lunghe ore sino allo sfinimento. La credenza voleva infatti, che mentre si consumavano le proprie energie nella danza, anche la taranta si consumasse e soffrisse sino ad essere annientata. Alla leggenda popolare può essere in realtà legata anche una spiegazione strettamente scientifica: il ballo convulso, accelerando il battito cardiaco e stimolando il rilascio di endorfine, favorisce l'eliminazione del veleno e contribuisce ad alleviare il dolore provocato dal morso del ragno e di simili insetti. Non è quindi da escludere che il ballo venisse utilizzato originariamente come vero e proprio rimedio medico, a cui solo in seguito sono stati aggiunti connotati religiosi ed esoterici. 44 praticavano erano, infatti, rispettate e temute. Tra l’800 e il ‘900, a causa delle restrizioni nelle quali versavano le donne, vi fu un alto tasso di nevrosi isteriche e di conversione. La mancanza di libertà sessuale e le barriere sessuofobiche erette tra uomini e donne, creavano forti stati di tensione soprattutto nelle donne più riservate e prive di sfoghi sessuali. Rituali, procedure e credenze ritenute sacrali in alcune epoche, in altre sono state considerate follie. Questo genere di studi ci ha permesso di capire perché la medicina rituale poteva guarire malattie complesse come l’epilessia, considerata un male sacro e confusa con altre malattie. Quello che è significativo di questi studi, è che permettono di individuare nuove patologie, che possono essere comprese e guarite soltanto nel contesto storico-culturale in cui vengono studiate. In Italia lo sviluppo dell’etnopsichiatria si deve ad Ernesto De Martino (1959); il suo contributo è relativo al sud Italia, perché è lì che il De Martino ha fatto le sue ricerche. Nei suoi scritti si è occupato di alcune malattie psicosomatiche di matrice culturale, che sono specifiche di alcune aree culturalmente definite. Nell’impostazione di ricerca interdisciplinare diretta dall’autore, si voleva avviare concretamente il confronto tra le ricerche psichiatriche e lo studio antropologico, in modo da interpretare i disturbi mentali alla luce delle pressioni socio-culturali e degli istituti storico-religiosi che se ne fanno carico. Secondo Giovanni Jervis (1967), che partecipò alle ricerche di De Martino, esiste una corrispondenza tra il tarantismo e l’epilessia, sia nella sintomatologia che nelle pratiche terapeutiche cui venivano sottoposte. Il tarantismo non aveva nulla a che fare con il “latrodectismo”, ma si ritenne che la sindrome tossica causata dalla puntura del ragno velenoso (Latrodectus tredecim guttatus), fosse solo in parte analoga al comportamento del tarantato. Si potrebbe sostenere, dal punto di vista psichiatrico, che il tarantismo colpisse i soggetti psichicamente fragili, suggestionabili e dal basso livello culturale, perciò i comportamenti alterati dei tarantati vennero alla fine ricondotti alle nevrosi isteriche o di delirio di possessione e, in alcuni casi, alle crisi epilettiche (Lanternari V., 1995). 45 Il contributo di De Martino, ha fatto da sfondo a successive ricerche in ambito folkloristico e nell’ampia casistica dei rituali popolari tradizionali e dei culti di guarigione. L’epilessia è stata, nel corso dei secoli, la malattia che più delle altre è stata oggetto di pratiche rituali magiche e religiose. I bambini affetti dalle crisi venivano sottoposti ai riti di guarigione, con effetto quasi sempre miracoloso. Oggi, che riguardo la malattia abbiamo raggiunto conoscenze neuropsichiatriche adeguate, sappiamo che la risoluzione dell’epilessia nei soggetti in età evolutiva non è affatto miracolosa, ma di tipo biochimico e neurologico. In passato, il fatto che le crisi scomparivano in età puberale, dopo che il soggetto era stato sottoposto al rituale adeguato, non faceva altro che alimentare credenze e pregiudizi sulla malattia, confermando la validità delle pratiche magiche ed esorcistiche. Per questo, ricostruire la raffigurazione dell’epilessia negli ex-voto significa allargare lo sguardo verso le concezioni sulla follia in generale, sulla possessione demoniaca, sul tarantismo, poiché nel corso della storia, i confini fra queste diverse forme di sofferenza sono stati spesso intrecciati e confusi. Giuseppe Pitrè (1900) a proposito della “follia”, scriveva che in Sicilia, sotto il titolo di “fuddria” si includeva qualunque malattia mentale o stato di sofferenza al quale non si sapeva dare alcuna spiegazione o individuare alcuna causa. Era diffusa la credenza che il bene dell’intelletto fosse un dono di Dio e che Questi lo togliesse a chi voleva male. L’autore riferisce di una pratica rituale che era compiuta nelle zone di Castelbuono: gli alienati si curavano facendo loro attingere da un pozzo dell’acqua, con un paniere o con un secchio senza fondo, che non riteneva quindi alcuna goccia. In questo strano rituale “i folli” dovevano, un pò per volta, rientrare in sé, pensare che con un paniere è impossibile trattenere acqua e, così, riflettendoci sopra riacquistavano la ragione. 46 CAPITOLO TERZO POSSESSIONE ED EPILESSIA 1. Psicopatologia della possessione Jaspers (1913) definisce la possessione come “lo stato in cui l’ammalato di per se prova l’esperienza che egli è contemporaneamente due esseri, due modi di sentire completamente diversi, che trovano il loro compimento in due io diversi”, e ne distingue due forme, una a coscienza lucida, che considera schizofrenica, l’altra con alterazione dello stato di coscienza, che considera nevrotica. Ammette anche l’esistenza di una forma intermedia che è caratterizzata dalla presenza prevalente di fenomeni ossessivi. La teoria di Mead (1934), invece, ha un taglio più psicologico, in quanto distinguendo tra un io ed un me, ritiene che la possessione sia una condizione in cui viene drammatizzata una parte del me. In questo modo si attuerebbe un’identificazione forzata e pressante con un’altra personalità, di natura trascendente, il cui rapporto con il soggetto non si basa sulla realtà ma è elaborato nella fantasia. Yap (1967) intende la possessione come una reazione sempre isterica, a volte pseudopsicotica, che scaturisce da un disturbo del Sé, cioè un disturbo del bilanciamento continuo tra l’Io e il Me. Altra tesi interessante è quella di Jung (1921) che distingue complessi derivanti dall’inconscio personale, a cui è da riferire l’idea dell’anima, e complessi derivanti dall’inconscio collettivo, a cui riferisce l’idea dello spirito. Da ciò scaturisce la possibilità di classificare gli stati di possessione in due specie, aventi differente significato psicologico: quella che interessa la possessione di parenti morti e quella che si riferisce ad eroi cultuali (deità, demoni, satana). 47 Non meno importante è la presenza del Disturbo Dissociativo da Trance all’interno del DSM IV (APA, 1994). La caratteristica essenziale di tale disturbo consiste nella produzione involontaria di uno stato di trance, che viene riconosciuto come elemento estraneo alle pratiche religiose tipiche di una data cultura. I criteri diagnostici che individuano il Disturbo Dissociativo da Trance richiedono la presenza di uno stato di trance oppure uno stato di trance da possessione. Nel primo caso si ha un’alterazione dello stato di coscienza o perdita del senso d’identità senza, però, l’emergere di una personalità alternativa. Nel secondo caso, invece, l’alterazione dello stato di coscienza è caratterizzata dalla sostituzione dell’abituale senso d’identità personale con una nuova identità, attribuita all’influenza di uno spirito o deità. Ogni distinta identità alternativa presenterebbe comportamenti specifici e caratteristici (anche se relativamente complessi, come ad esempio la possibilità di mantenere conversazioni coerenti, o la presenza di espressioni mimiche e gestuali congrue con lo stato di coscienza presentato), memorie ed attitudini. Spesso vi è un’amnesia più o meno completa dopo un episodio di trance da possessione (Ferracuti S. et al, 1995). In oltre negli stati di trance, gli individui possono mostrare un aumento considerevole della soglia a stimoli dolorosi, possono mangiare o inghiottire particolari materiali, oltre che sperimentare una forza muscolare eccezionale. Janet (1889) aveva riconosciuto che il Disturbo Dissociativo da Trance appartiene ad un gruppo eterogeneo di fenomeni comportamentali di tipo dissociativo. Con il termine disagregation (non integrazione) egli indicava il meccanismo attraverso il quale poter segregare, rispetto al normale fluire dei contenuti di coscienza, strutture o complessi ideo-affettivi, talora talmente estesi da costituire una seconda personalità. I fenomeni dissociativi di coscienza sono anche correlati, assieme a fattori emotivi e sociali, all’epilessia temporale (Mercuriali, E. et al., 1988). 48 2. La possessione come sindrome di disordini mentali In un lavoro di Oesterreich del 1966, intitolato Possession: Demoniacal and Other, viene definita la possessione come una sindrome psichiatrica con diverse caratteristiche impressionanti. Una di queste è che “l’organismo appare invaso da una nuova personalità, è governato da un’anima estranea. I sintomi includono cambiamenti fisiognomici, cambiamenti nel tono della voce, che di solito diventa più profonda, e vigorosi movimenti scomposti del corpo. Riveste notevole importanza il fatto che i pensieri espressi dalla nuova personalità siano completamente differenti da quelli della precedente e di solito abbiano un contenuto escatologico o blasfemo. Gli episodi di possessione sono spesso seguiti da amnesia. Questi sintomi sono definiti comportamentali, Oesterreich non credeva che avesse luogo una reale possessione da parte di un demone o di un altro agente. La possessione, nel modo in cui è stata definita da Osterreich , è raramente riscontrata da psichiatri e psicologi, sebbene occasionalmente vengano riportati alcuni casi. Alcuni sintomi si presentano piuttosto frequentemente in altri disturbi, per esempio la credenza di essere posseduti si ritrova a volte nelle sindromi schizofreniche. Il disturbo che condivide la maggior parte dei sintomi è la sindrome di Gilles de la Tourette, caratterizzata da tic involontari e pronunzia compulsiva di oscenità. Si pensava che un fattore chiave nello scatenarsi di una sindrome da possessione fosse l’appartenenza ad una determinata cultura o subcultura che presentasse delle credenze sulla realtà della possessione. Ciò ha portato gli antropologi a studiare la possessione e la trance da possessione in varie culture. L’incidenza della possessione in una società è correlata a variabili sociali: società relativamente rigide o praticanti la schiavitù, con più probabilità presentano fenomeni di possessione. Gli individui posseduti appartengono ai ceti più bassi, oppure sono donne nelle società maschiliste. Nelle sette Pentecostali cristiane di oggi, diffuse nei paesi occidentali, possiamo riscontrare due tipi di possessione: la prima, che spesso è caratterizzata dal “parlare le 49 lingue” (glossolalia), è attribuita al potere dello Spirito Santo; la seconda è vista con orrore perché si crede che abbia un’origine diabolica. Molti sociologi distinguono due tipi di possessione: una è centrale ed ammessa in alcune società, spesso accompagnata da rituali, l’altra è vista come periferica, si presenta spontaneamente e richiede trattamenti particolari. La possessione rituale non sembra essere patologica ed è generalmente vista con favore dagli interessati (Lewis J. M., 1966; Ward C., 1980). Quella periferica, d’altra parte, è considerata come una forma di disturbo mentale (Lewis J. M., 1993). Quando si presenta un caso di possessione demoniaca spesso si ricorre all’esorcismo, chiamato “liberazione” nelle sette pentecostali cristiane, il quale sembra avere efficacia all’interno del contesto culturale in cui opera (Francis, P.L., Baker G.A., 1999). L’ipotesi più semplice che può essere fatta circa la credenza in una reale possessione diabolica, nell’Europa medievale, è che le persone erano viste come indemoniate solamente quando mostravano i sintomi della sindrome da possessione. Di conseguenza, in accordo con tale ipotesi, ci si può aspettare che la frequenza dei casi di possessione sia stata più alta nel Medioevo che oggi, a causa della maggiore ricettività dell’ambiente culturale di allora verso questi fenomeni. 3. Il diavolo e la malattia nelle religioni La storia del demonio, del diavolo, di quell’entità malefica a cui maggiormente vengono attribuite le cause di tutti i mali dell’uomo, è proceduta parallelamente con la storia dell’umanità in tutte le sue epoche e latitudini. La figura, l’esistenza, l’idea, il fascino inerente il “principe delle tenebre” fanno parte del patrimonio profondo delle culture umane più diverse. Il dramma del male, della sofferenza e della morte, si riflette nei mitemi demoniaci di tutte le culture e in tutte le diverse epoche storiche (Carbeland D., 2000). 50 Studiosi di diverse discipline come antropologi, etnologi, sociologi, psicologi, teologi, e psicopatologi hanno apportato contributi di notevole valore sul tema del male e del demonio. Tuttavia l’argomento mantiene sempre, per le sue caratteristiche intrinseche, un alone enigmatico che spinge sempre alla ricerca di nuove verità. In ogni cultura la realtà è stata frammentata, nei due opposti poli di bene/male, e nelle loro proiezioni dio/epifania del male. In ultima analisi, tutti i demoni fungono da incantesimo nel quale si dissolve la concretezza della natura e della storia umana. La figura demoniaca è presente nelle vicende delle popolazioni chiamate primitive e che vengono assegnate alle culture senza scrittura. Anche qui il diavolo nasce da un senso di insofferenza del mondo presente, che si proietta in un’ideologia leggendaria e mitica, variante secondo diverse etnie. L’ombra del demonio è entrata potentemente nell’immaginario collettivo di antiche società, tanto da modificarne le abitudini e i modi di vivere o si è insinuata subdolamente nei vissuti di diversi strati sociali all’interno di società più evolute (Costa G., 1936). I diavoli, relativamente alla loro consistenza reale, sono un nulla, appartengono all’immaginario in cui hanno diverse forme proiettate anche in raffigurazioni visibili e fantastiche. Essi testimoniano il conflitto tra uomo e natura e tra uomo e storia. Così, quando il flusso degli eventi è sentito totalmente contrario, come nel caso della malattia, e l’uomo non può realizzare un’esistenza piena, la comparsa del diavolo, cui attribuire tutti i mali, può essere una possibile soluzione. L’argomento mantiene sempre, per le sue caratteristiche intrinseche, un alone enigmatico che spinge sempre alla ricerca di nuove verità. L’immagine diabolica si oppone a quella di Dio, cui vengono attribuite tutte le cose buone e giuste; con la sua azione il diavolo cancella la positività e origina, spiegandolo, il disagio del tempo (Crispino A.M., 1986). Alcune volte il diavolo è stato il mezzo attraverso il quale emarginare e stigmatizzare culture, religioni, nazioni diverse da quella di appartenenza; altre volte è stato il 51 portavoce del malessere, dell’insofferenza verso il potere costituito, opprimente ed asfissiante, molto più spesso è stato ritenuto causa di malattie, pestilenze, tempeste. Come dice Di Nola (1994): “In presenza delle situazioni di disagio, genericamente definite come male, ed in presenza dello scandalo cosmico che è la morte, all’accettazione della naturale condizione dell’uomo, che accoglie momenti di pienezza e momenti di crisi vitale, si è sostituito il tormentante quesito sulla causa del male. In alcune culture, dice Di Nola (1994), l’atto della creazione del mondo non è attribuito all’essere supremo, ma ad una figura eroica o umana secondaria, che ha la funzione di demiurgo, il quale contrasta il piano d’azione dell’essere supremo. In tali culture spesso il demonio è ritenuto essere la causa delle malattie secondo una linea d’interpretazione demonologica che è anche delle culture occidentali. Gli Akikuyu dall’Africa ricorrono ad un rito del vomitare i peccati, detto potahikio, quando lo stregone ha diagnosticato la presenza di uno spirito o di un demonio nel corpo del malato. I Jacuti credono nello yor, che sono gli spiriti di coloro che si sono staccati dalla vita, dalle loro intense attività, dalle loro passioni o che sono deceduti di morte violenta. Ritornano nei luoghi loro cari ma si presentano sempre come malefici, potendo provocare malattie, in particolare disordini nervosi, per la cura dei quali si ricorre allo sciamano. Anche nel Perù antico la religione Inca ripete lo schema noto dell’origine malefica delle malattie che si ritenevano provocate da indeterminate forze nefaste, dalla volontà perversa di uno stregone o dal comportamento moralmente riprovevole. La malattia consisteva nella presenza di un corpo estraneo nell’organismo, dal quale esso doveva essere rimosso. Nella mitologia dell’antico mondo iranico si anticipa la visione dualistica ed oppositoria della storia e del cosmo (un principio malefico si oppone ad un principio benefico, che ha dato origine al creato), che sarà rilevante nella demonologia cristiana. Con il Mandeismo il conflitto viene racchiuso nell’uomo 52 in cui coesistono i due elementi in opposizione, il corpo, appartenente al mondo delle tenebre, e l’anima irraggiata dal mondo di gloria e di luce (Di Nola A.M., 1970). La tradizione iranica ha influenzato, nella sua concezione dualistica, anche gli Slavi orientali e i Russi. In queste popolazioni l’invasamento diabolico assume i caratteri del vampirismo e della licantropia (Bruckner A., 1923). Nella mitologia greco-romana il diavolo esprime, nelle forme di Pan, il carattere di una sfrenata libertà nel vivere una vita senza leggi, tutta immersa nel godimento di una natura selvaggia. I satiri e i sileni sono esseri intermedi, divinità terrestri, che i greci chiamarono demoni e che esprimono, come Pan, la carica sessuale che è propria della vita. Questi dèi terrestri influiranno molto sulla demonologia cristiana, si pensi, per esempio, a livello iconografico, ai tratti teriomorfici che assumevano, con corna, coda e piedi caprini e che si ritroveranno anche tra gli Etruschi. Nella demonologia dell’India antica, i demoni rappresentano le forze disgregatrici non solo del benessere del gruppo ma anche della sicurezza esistenziale individuale, favorendo la dissociazione interiore, il crollo della personalità. In genere tutte le creature demoniache espongono l’uomo alla malattia e alla morte; invadono particolarmente le persone soggette a periodi di crisi; sono le specifiche condizioni di labilità mentale e psichica, la perdita del senno, del soffio, della presenza. Per questo il fedele, per difendersi da loro, costituisce la barriera delle pratiche religiose, ma si affida anche alle potenze numinose e divine (Di Nola A.M., op. cit.). Anche nelle religioni dell’area tibetana le malattie dipendono da invasamenti demoniaci, che provocano la fuga dell’anima dalla vittima. La cura è affidata ad un esorcizzatore-sciamano che richiama l’anima, entrando in trance e danzando selvaggiamente. Dopo aver individuato il demone responsabile della malattia indica gli espedienti che favoriscono la guarigione (Tucci G., 1952). Nella religione della Cina antica riveste grande importanza la stregoneria. Gli stregoni, chiamati wu ed appartenenti ad entrambi i sessi, erano impegnati nell’allontanamento, per mezzo di esorcismi, dei demoni e del male, espellendo così le malattie. Normalmente essi operavano in uno stato di invasamento-trance che era 53 provocato dalla discesa di uno spirito o di un demone nel corpo, talvolta nello spirito di un morto. I posseduti vengono chiamati ling-pao (Di Nola A.M., 1994). La forma più antica di demonologia, che dagli Assiro-Babilonesi, attraverso il mondo ebraico giungerà fino al Cristianesimo, è da ricercare nella cultura sumerica. I Sumeri reagivano, con il ricorso a varie forme di esorcismo, contro i rischi di malattia, di morte e di disfacimento. La causa dei mali veniva fatta risalire generalmente all’azione di forze avverse, dalle quali l’operatore magico difendeva la società. Un testo della dinastia di Isin, riportato da Chiera (1924), ci fornisce l’esempio di un esorcismo diretto a liberare un ammalato dalle invasioni demoniache che hanno provocato il suo stato morboso. Sempre nella società mesopotamica erano in uso delle tecniche magiche per arginare la forza delle energie di disgregazione, che sono fra le più antiche a noi note e che somigliano molto alle esperienze religiose posteriori, infatti la difesa principale era costituita dallo scongiuro, la cui efficacia derivava dalla ripetizione del nome o della parola protettrici. Anche nella tradizione ebraica antica si possono trovare i precedenti storici del tema demoniaco Cristiano. Nell’ideologia demoniaca esposta nell’Antico Testamento la figura del diavolo è inquadrata all’interno della creazione di Dio ed ha lo scopo di mettere l’uomo alla prova. La figura di Satana, il cui nome deriva dalla radice ebraica stn che vuol dire “essere nemico”, “osteggiare”, e che ritroveremo poi nel Cristianesimo, è collegata sia al peccato di Adamo ed Eva, sia alla ribellione degli angeli a Dio (Carbeland D., op. cit.). Il mito demoniaco ebraico oscilla tra due concezioni: nella prima la figura del demonio è diretta emanazione della volontà divina e ad essa ubbidiente, nella seconda il male fa parte della volontà di Dio e comprende in sé uno spirito malvagio. È molto stretta la connessione fra la rovina fisica e morale, la malattia, la morte, costantemente rappresentate come un abbandono del Dio, il quale, allontanandosi dal suo fedele, lo espone agli attacchi di altri spiriti e di altre potenze, che lo invadono, lo possiedono (Carbeland D., op. cit.). 54 È certamente difficile, secondo Di Nola (1970), definire un assoluto limite fra atteggiamento religioso, atteggiamento magico ed esorcistico-apotropaico nella cultura ebraica antica. L’ipotesi secondo cui responsabili dell’epilessia erano i demoni piuttosto che le divinità, ricevette sempre maggiori consensi con l’avvento dei Vangeli, dove vi si allude nei miracoli compiuti da Cristo (Carbeland D., op. cit.). Nel Nuovo Testamento possiamo rintracciare l’insieme di tutte le credenze demonologiche dal Medioevo all’età contemporanea. Vi si delinea un’immagine del demonio forte ed invadente che attinge ai più diversi precedenti storici. Nei vangeli il termine demonio, soltanto riferito ai casi di possessione diabolica, appare per ben 52 volte, e nelle pagine della narrazione della vita pubblica di Gesù spesso si ricorda un invasamento demoniaco o se ne fa allusione. Satana è il calunniatore, l’avversario per eccellenza, egli distrugge la buona parola seminata dal Vangelo (Mc 10,15), tenta Gesù, produce mali fisici, si impadronisce dell’anima e dei sentimenti di Giuda. Altro nominativo del diavolo è Belzebul che, secondo le accuse dei farisei, avrebbe conferito a Gesù stesso il potere di scacciare i demoni poiché Egli stesso ne sarebbe stato posseduto (Mc 3,22). Molti sono nei Vangeli i riferimenti alle azioni del demonio, in particolare ai fenomeni di possessione, cioè l’invasamento dell’anima da parte di Satana o di uno spirito demoniaco. Il demonio, possedendo un uomo può parlare per mezzo di lui, come avviene nel brano della sinagoga di Cafarnao, dove Gesù incontra un indemoniato, che lo attacca violentemente, e subito lo libera dallo spirito che lo possiede: “Allora lo spirito impuro lo scosse violentemente, poi mandò un grido e uscì da lui” (Mc 1,23-28; Lc 4,33-37). La persona posseduta dai demoni tende ad isolarsi, a vivere una vita selvatica, come l’indemoniato del paese dei Geraseni, il quale “appena Gesù scese dalla barca, subito gli si fece incontro, aveva la sua dimora nelle tombe e nessuno riusciva più a legarlo, 55 nemmeno con catene poiché più volte le aveva spezzate e nessuno era riuscito a domarlo (Mt 8,28ss). I demoni espulsi dall’uomo errano in luoghi aridi in cerca di riposo e, quando non lo trovano, tornano nel posseduto più potenti di prima (Mt 12,43; Lc 11,24). La facoltà di scacciare i demoni è data anche ai discepoli, i quali agiscono in nome di Gesù, (Mt 10,1; Mc 3,10; 6,7; 16,15-18) fatto questo che legittimerà il potere della chiesa nell’effettuare gli esorcismi. Altro brano è tratto dal Vangelo secondo Matteo, cap.17, versetti 15-17. “ Signore, abbi pietà di mio figlio! è pazzo e molto agitato; spesso cade in acqua o nel fuoco. L’ho portato dai tuoi discepoli ma non hanno saputo curarlo”. E Gesù rispose: “O perversa ed infedele generazione, quanto ancora dovrò stare con voi? Portatemelo qui”. E così Gesù cacciò il diavolo, che abbandonò il ragazzo, ed egli, da quel momento fu guarito dal suo male. In questo brano vi sono alcuni elementi interessanti. Prima di tutto il padre ritiene che il figlio sia pazzo, opinione persistita a lungo nella gente riguardo gli epilettici, ed ancora persistente in molti. Inoltre il riferimento al rischio che il soggetto epilettico possa cadere nelle fiamme o nell’acqua durante la crisi, cosa possibile ancora oggi. Un ulteriore riferimento biblico, infine, si rintraccia nel Vangelo secondo Luca, cap.8, versetti 38-42. In tale brano si possono notare delle differenze rispetto al primo, dettate dal fatto che Luca fosse probabilmente un medico. “Un uomo gridò tra la folla, dicendo: Maestro ti scongiuro, volgi il tuo sguardo a mio figlio, il mio unico figlio. Lo spirito lo ha catturato e lui improvvisamente ha emesso un grido; lo spirito è entrato in lui, e mio figlio ha cominciato ad emettere bava dalla bocca. Lo spirito lo ha tormentato, lo ha lasciato tutto malconcio. Ho cercato i tuoi discepoli per scacciare il demone, ma non ci sono riusciti”. E Gesù cosi disse: “O perversa ed infedele generazione, quanto ancora dovrò stare con voi e soffrire per causa vostra? Portatemi il ragazzo”. 56 Quando il ragazzo fu giunto, il demonio lo invase e lo scaraventò a terra. Gesù cacciò lo spirito impuro dal ragazzo, questi guarì e ritornò da suo padre. In quest’ultimo brano vi è una descrizione più dettagliata della crisi, con il riferimento al grido iniziale, ed anche qui troviamo un’allusione al pericolo di traumi. La descrizione della bava alla bocca, in molti scritti antichi sull’epilessia, viene sempre messa in rilievo come anche oggi. La bava fu addirittura ritenuta sorgente di infezione per coloro che ne fossero venuti in contatto. Il risultato fu il confinamento degli epilettici con i lebbrosi, portatori di una malattia infettiva. Questo errato concetto sull’epilessia si è mantenuto fino ad epoca recente ed ha fatto apparire razionale l’isolamento del malato dalla comunità, inteso come “misura preventiva a salvaguardare la salute pubblica”. Da questi esempi si può dedurre che nella tradizione cristiana la possessione demoniaca era ritenuta essere alla base di una grande varietà di disturbi, inclusa l’epilessia. Il potere di scacciare i demoni non solo fu usato da Gesù, ma egli stesso incoraggiò i suoi apostoli e discepoli a farne uso. In seguito la Chiesa rivendicò, tramite successione apostolica, lo stesso potere. I sinodi della Chiesa cristiana primitiva fanno frequenti riferimenti alla possessione demoniaca. Nel 305 d.C., ad esempio, (sinodo di Elvira) si decise di escludere gli indemoniati dalle funzioni liturgiche, permettendogli di essere battezzati solamente in punto di morte (Hefele C. J., 1872). Nel sinodo di Orange (441 d.C.) si presero le contromisure per proteggere il clero dal demonio: “chi è stato posseduto dal demonio una sola volta non può essere ordinato prete, se ordinato precedentemente perde il proprio officio” (Hefele C.J., op. cit.). Nella legge canonica, la possessione demoniaca, l’epilessia e la follia sono classificate come irregolarità che impediscono l’ordinamento. Papa Gelasio proibì agli epilettici di farsi preti sulla base del fatto che tale malattia favoriva la possessione demoniaca (Reichel O. J., 1896). L’epilessia, la follia e la possessione demoniaca rimasero poco differenziate fino al tardo Medioevo. Nel XVI secolo i testi latini identificavano caduces (epilettico) con 57 demoniacus e prescrivevano un rimedio “per epilettici, per esempio indemoniati e chi soffre di convulsioni” (Temkim O., 1945). Isidoro di Siviglia (d.C.560-636) notò che gli epilettici erano chiamati pazzi dalle persone comuni, rivelando così una comune confusione. I numerosi scrittori medici cristiani dall’ XI all’ XV secolo trattarono i disturbi mentali e l’epilessia in termini medici, ed occasionalmente in termini comportamentali, comunque attingendo spesso alle fonti arabe. Costantino d’Africa costruì un test per la distinzione della possessione demoniaca dall’epilessia. Veniva recitata una formula all’orecchio del paziente in cui si intimava al diavolo di andare via: se il paziente era posseduto cadeva in coma, al contrario di un epilettico, al quale non succedeva nulla. L’uso dell’esorcismo come strumento di diagnosi diventò molto comune: John di Gaddesden, nel XIV secolo, suggerì l’uso di una procedura simile, che Bernardo di Gordon derise sarcasticamente non credendo nell’approccio religioso all’epilessia (Temkin O., 1945; Lennox W.G., 1970; Clarke B., 1975). La Chiesa medievale assimilò molto lentamente la spiegazione fisiologica dell’epilessia: per esempio Sant’Ildegarda di Bingen, nel XII secolo, asseriva che nell’epilessia interagivano fattori umorali e fattori demoniaci. “Il diavolo non causa gli attacchi epilettici con il suo potere. Egli esercita la sua influenza quando il corpo è fuori equilibrio, gli umori sono sballati e il cervello malato” (Temkin O., op. cit.). Nel XV secolo, comunque, nel Malleus Malleficarum (1487) si affermava che, mentre le streghe avevano il potere di provocare l’epilessia, questa di solito derivava “da qualche predisposizione o difetto fisico di lunga durata”. Allo stesso modo, sebbene fosse diagnosticata la possessione demoniaca, altre erano le cause dei disturbi mentali riconosciute dagli scrittori religiosi. Tommaso D’Aquino (1225-1274), per esempio, sosteneva che la possessione fosse un tipo di pazzia: “fra coloro che hanno perso l’uso della ragione vi sono anche i posseduti”, ma riconobbe anche altre cause: “i pazzi perdono l’uso della ragione per accidens, cioè in relazione con un organo corporeo danneggiato”. 58 Da altri studi si può dedurre che la possessione era correlata ad una grande varietà di malattie più dai contadini che da istruiti uomini di chiesa. La tesi di Sant’Ildegarda (1098-1179), che riconduceva i disturbi mentali ad una combinazione di fattori umorali e demoniaci, fu sviluppata anche per l’epilessia. In parte, questo sviluppo nacque dalla considerazione del potere del diavolo di indurre in tentazione. Lutero (1483-1546), per esempio, registrò le conversazioni con il diavolo che, secondo lui, cercava di tentarlo in svariati modi. La sua esperienza fu simile a quella di molti santi, ed anche a quella di Cristo nel deserto (Matteo 4,1-11). Le forti tentazioni includono anche allucinazioni, come dice il Malleus Maleficarum “i diavoli possono smuovere ed eccitare le percezioni interne e gli umori, così quelle idee che erano contenute nei meandri della mente diventano vivide nell’immagine in modo tale da sembrare reali” (Kramer H. e Sprenger J., 1487). Strettamente correlato a ciò è l’idea che la debolezza mentale o fisica può essere sfruttata dai diavoli: “in accordo con i fisici, la mania predispone molto un uomo alla demenza e conseguentemente all’ossessione demoniaca” (Kramer H. e Sprenger J., op. cit.). In alcuni casi riportati l’epilessia è descritta nei termini di un modello medico che chiama in causa una ostruzione cerebrale. I casi di epilessia, comunque, non sempre erano ricondotti all’azione del diavolo. Un paziente che “urlava di essere soffocato dagli spiriti maligni” si rivelò intossicato dall’ingestione di salmone. Questo caso è particolarmente interessante perché nella descrizione viene usata una terminologia diabolica, anche se era riconosciuta la causa biologica del problema. Nell’insieme i casi del XII secolo rivelano una propensione a dare la colpa al diavolo di tutti i disturbi mentali, includendone alcuni che chiaramente non somigliano alla sindrome da possessione. La serie dei casi del XV secolo mostra anch’essa una simile propensione. Molta attività demoniaca, comunque, non è evidentemente possessione. Per esempio Agnes Alyn fu colpita “dalla furia violenta di uno spirito cattivissimo, realmente e non invisibilmente”. Un episodio narra di un cappellano che fu spinto dal 59 diavolo a suicidarsi, e molti altri casi sono descritti come “deliranti o pieni di demoni”. Anche qui, come nei precedenti, i demoni non sono ritenuti i responsabili dell’epilessia. Se i casi ottenuti dai santuari medievali inglesi attribuiscono ampiamente la causa dei disturbi mentali all’azione del demonio, lo stesso non si può dire per le inchieste legali sui disturbi mentali riportati da Neugebauer (1979). Le registrazioni dei processi, dalla metà del XII secolo al XVII, mettono in evidenza che la demonologia non fu molto impiegata nella spiegazione della pazzia. In un solo caso i giudici attribuirono la pazzia “all’influenza di spiriti maligni” (Neugebauer R., 1979). Si adottarono spesso spiegazioni di tipo naturalistico. Allo stesso modo la corte si rimetteva ai criteri del senso comune per esprimere un giudizio sulle facoltà mentali dei processati. In pratica, la diagnosi sulle cause del disturbo dipendeva molto da chi la faceva, per esempio in un racconto del XV secolo, che parla della malattia di un certo Hugo Van der Goes, “alcune persone asseriscono che si tratti di un caso peculiare di frenesis magna, la grande malattia del cervello”. Altri credono che sia posseduto da uno spirito maligno. Certamente le differenze individuali e culturali avevano molta importanza nell’attribuire le cause di un disturbo all’influenza del demonio. Tuttavia si possono anche identificare alcune caratteristiche comuni nelle credenze sulla possessione demoniaca nel tardo Medioevo. In primo luogo era stato pubblicamente riconosciuto che non tutti i disturbi mentali provenissero dal demonio. In secondo luogo era stato accettato il fatto che l’epilessia non era dovuta alla possessione demoniaca. Infine molte altre cause, principalmente fisiche e contestuali, furono chiamate in causa per spiegare l’origine dei disturbi mentali. Alla fine dell’era medievale solo alcuni tipi di disturbi mentali erano ricondotti alla possessione demoniaca, probabilmente perchè mostravano i sintomi della sindrome da possessione. Nell’Europa moderna, malgrado la notevole diffusione della possessione, vi era una certa riluttanza nel diagnosticarla senza aver prima fatto un esame accurato (Oesterreich T. K., 1966). Per esempio Richard Napier (1550-1617), 60 famoso fisico-astrologo elisabettiano, esaminò 2483 pazienti affetti da disturbi mentali durante il periodo che va dal 1597 al 1625, e sebbene 148 di questi lamentavano di essere perseguitati dal diavolo, solamente 18 furono classificati come posseduti. In questo periodo emersero due fattori nuovi che influenzarono il modo di vedere la possessione e aumentarono lo scetticismo nei confronti delle cause demoniache della sindrome da possessione. Il primo di questi fu un drammatico aumento della stregoneria, considerata alla base della possessione demoniaca: uno dei poteri delle streghe, infatti, era di indurre la possessione (Kramer H. e Sprenger J., op. cit.). I soggetti indemoniati erano spesso interrogati su chi li avesse stregati, e le loro risposte diventavano le basi di un’accusa alla presunta strega. Ciò portò in molti casi all’impiccagione. Il secondo fattore fu la Riforma. Sebbene non vi fossero differenze dottrinali tra cattolici e protestanti per quanto riguardava la demonologia e la stregoneria, non così si poteva dire per la concezione dell’esorcismo. Il punto di vista dei cattolici era che Cristo avesse delegato il potere di esorcizzare i demoni ai suoi discepoli e, da questi, alla Chiesa. I protestanti invece credevano che né i loro ministri né i cattolici avessero questo potere, soltanto la preghiera poteva intercedere. Lutero stesso usò e raccomandò questa pratica che derivava direttamente dalla Bibbia (Marco 9, 28-29). Il risultato di tale diatriba portò ad un uso propagandistico dei propri metodi e ad una denigrazione reciproca. Un’altra conseguenza fu che bastava accusare i sintomi della sindrome da possessione per chiamare in causa il diavolo. A tal fine alcuni segni furono interpretati come precipui della possessione diabolica. Secondo Walker (1981) questi erano: la capacità di parlare e capire lingue sconosciute al paziente, la conoscenza dei segreti delle altre persone, una forza fisica superiore a quella che il paziente ha normalmente, orrore e repulsione verso ciò che è sacro. La compresenza di tre di questi segni in una persona costituisce una prova sicura della presenza demoniaca. Lo scetticismo sulle origini diaboliche della possessione si sviluppò lentamente e irregolarmente. Nel 1775 Gassner indusse pubblicamente le convulsioni in due suore 61 ordinando ai demoni di manifestarsi, poi rivendicò la loro complicità nell’origine del disturbo. Le opere che vedono la luce nel periodo che va dal XV al XVII secolo sviluppano le concezioni demonologiche tenendo conto sia del patrimonio dottrinario dei secoli precedenti, sia delle tradizioni popolari e del folklore. I demonologi, spesso inquisitori, avevano conoscenza non solo di antichi testi teologici ma anche delle dichiarazioni e delle confessioni dei condannati. Per loro rivestiva molta importanza la ricerca di quei segni diagnostici che permettessero di distinguere i sintomi propri della possessione dalle cause naturali, eventualmente occorrenti. Francesco Maria Guaccio (1608) riporta 47 sintomi suddivisi in due categorie, una concernente le manifestazioni sensorie e fisiologiche, l’altra la manifestazione di facoltà paranormali o eccezionali. Molti sono stati i tentativi di comprendere e dare una spiegazione all’esperienza diabolica in un’epoca tanto lunga quanto il Medioevo. Gli studi di tali avvenimenti irrazionali, sin dai tempi antichi, tendevano ad isolare i fenomeni dal loro contesto storico, rivelando solamente gli elementi morbosi e anormali presenti in essi, e considerandoli esclusivamente sotto la prospettiva dell’esame clinico. Già nel Canon Episcopi viene portata avanti la tesi dell’intervento diabolico come il risultato di “uno stato di turbamento sensoriale”. Il Bourneville (1883) osserva: “All’idea corrente di un’operazione diabolica attiva si sostituisce l’idea nuova di una diavoleria passiva, dell’ossessione, della possessione, l’idea di una sofferenza degna di pietà”. Un altro studioso, Wier (1660) , anche se riconosce ancora l’influenza del demonio, sostiene la natura morbosa dei fenomeni, che attribuisce alla fervida ed esaltata immaginazione femminile. L’attuale atteggiamento della Chiesa Cattolica verso la possessione è cauto: essa è considerata un fenomeno reale che sopravviene raramente ed è, altresì, riconosciuto che la maggior parte dei sintomi presentati abbia una causa naturale. 62 4. Il diavolo nelle credenze popolari Nell’immaginario collettivo popolare la figura del diavolo assume molteplici significati, ad essa, per esempio, viene attribuita l’origine delle tempeste e di tutte quelle calamità naturali che minacciavano, in particolare, il mondo contadino. Non meno importanza veniva attribuita al demonio per ciò che riguardava le cause della malattia. Il diavolo colpisce l’uomo nel suo stesso corpo, tanto è vero che le malattie, specialmente quelle mentali e nervose, sono ritenute essere una sua opera (Cocchiara G., 1945). Il Pitrè (1896) ci informa che in Sicilia “alcuni ritengono che l’epilessia provenga da spiriti che abbiano invaso il corpo del paziente”. In Sardegna vi era la credenza che le convulsioni e l’epilessia fossero causate dalle ossessioni di un “malo spirito” o del diavolo in persona (Bresciani A., 1840). Il De Martino (1959), in “Sud e Magia”, descrive la possessione come “la temporanea insorgenza di personalità seconde, con impersonazione dei relativi caratteri, tradizionalmente interpretato come possessione da parte di spiriti, o come vera e propria possessione demoniaca quando la personalità seconda è aberrante, in conflitto con il carattere normale del soggetto, e con qualsiasi norma morale” (De Martino, E., 1959), facendola rientrare all’interno di quelle malattie magicamente curabili in cui vi è un’esperienza di dominazione, un sentirsi agito da una forza esterna e maligna. Quando l’insicurezza della vita quotidiana si accresce, quando la capacità di reagire ai momenti critici dell’esistenza è insufficiente, la presenza entra in crisi per il crollo della stessa possibilità di farsi centro di decisione e di scelta. In questo contesto può innestarsi un’alterità sui generis, occulta e malefica, qualitativamente diversa dall’alterità ordinaria. Tuttavia proprio l’ideologia della possessione e dell’esorcismo offrono “un quadro rappresentativo stabile, socializzato e tradizionalizzato, nel quale il rischio di alienazione delle singole presenze si converte in ordine metastorico, cioè in un piano sul quale può essere effettuata la ripresa e la reintegrazione del rischio; d’altra parte queste ultime possono aver luogo 63 nella misura in cui la negatività attuale o possibile del divenire possono essere ritualmente destorificati” (De Martino, E., op. cit.). Sulla stessa linea di pensiero si mantiene Guggino, secondo cui “attraverso la magia una classe subalterna protesta la propria volontà di esserci nel mondo, tenta un riscatto alla crisi della presenza e sostanzialmente si prova a strutturare una realtà che appare ed è talvolta un casuale aggregato di eventi” (Guggino, E., 1984). Il limite della magia, tuttavia, è legato al suo ambito d’azione che è limitato all’immediato e prescinde da una progettazione futura lungimirante. La Guggino (1984) mette in evidenza come nell’ambito popolare non vi è praticamente distinzione tra possessione diabolica (come credenza ammessa ufficialmente dalla Chiesa) e fattura (pratica che rientra nell’ambito delle superstizioni), e sottolinea la contraddizione di un prete esorcista dell’epoca, che in teoria differenzia le due cose ma in pratica, sulla base di esperienze personali, non può farlo (Guggino E., 1986). Altrettanto interessante è la constatazione che nel mondo delle credenze popolari vi è una grande confusione tra Dio, esseri e santi, i quali convivono tutti nello stesso Olimpo, che non si pone in contrapposizione al mondo medico ufficiale ma, addirittura, lo affianca. 5. Il diavolo nella tradizione popolare siciliana Alla costruzione dell’immagine diabolica hanno contribuito leggende e credenze popolari di epoca imprecisata e spesso di origine territoriale ignota. Relativamente alla tradizione popolare siciliana, il Pitrè riferisce un lungo elenco di epiteti usati al suo tempo: il diavolo è “lu tintu” – il cattivo -, “lu virseriu” – l’avversario-, “l’ancilu niru” – l’angelo nero-, “lu nnimicu” –il nemico -. Molto spesso le leggende diaboliche vengono ambientate sull’Etna, ponendo il fuoco etneo in relazione con quello infernale. Più in generale, tutti i vulcani vennero considerati come delle bocche dell’inferno, dove si sarebbero raccolti tutti gli spiriti 64 malvagi, passando per i crateri vulcanici. Non soltanto il popolo ma anche la Chiesa credeva che il cratere dell’Etna fosse una bocca infernale, come dimostra il racconto della vita di S. Filippo D’Agira (V sec.) scritto dal monaco Eusebio nel VII-VIII sec. Questo Santo, salvatosi per intercessione di S. Pietro, da un naufragio, giunge a Roma dove viene consacrato prete ed inviato in Sicilia a combattere i demoni alloggiati in quella bocca infernale che è il cratere dell’Etna. Anche la storia di S. Calogero (V sec.) è molto simile; egli, come tanti monaci di quel periodo, ebbe fama di taumaturgo. Calogero, nato in Calcedonia, dopo una vita fatta di preghiere, vestito dal suo saio umile e logoro, arriva in vetta al monte Cronio nelle cui grotte era il demonio. Per gli anni che gli rimangono da vivere egli si dedica alla salute delle anime e del corpo curando le più svariate malattie con i fanghi, le acque sulfuree, il vapore delle grotte. In questa leggenda si può ritrovare il culto primigenio dei siculi Palici, ripreso e riadattato in modo tale da poter essere accettato dal contesto religioso e culturale del periodo. Secondo un’antica credenza, tra Mineo e Palagonia si ergeva un tempio famoso dedicato alle due divinità dei Palici, demoni ctonici figli gemelli di Zeus e della ninfa Talia. Nei pressi del tempio vi erano due crateri, il cui ribollire era ritenuto un fenomeno religioso, per cui il tempio divenne il più “santo” che esistesse e fu il luogo dove venivano compiuti i giuramenti e condannati gli spergiuri. Alle acque che ribollivano in questi crateri vennero inoltre attribuite varie facoltà terapeutiche. Il potere di queste acque è stato assunto di volta in volta da santi diversi, per guarire varie malattie. Tra queste rientrano tutte le forme di possessione demoniaca, compresa l’epilessia. Si afferma, infatti, che l’indemoniato manifesta l’invasamento attraverso manifestazioni epilettiche o epilettoidi, digrigna i denti, si irrigidisce, emette bava dalla bocca. Il paganesimo comunque non scompare mai del tutto; si crea così un sincretismo religioso che, in qualche modo, resta inalterato sino ad oggi. Un esempio di ciò è rappresentato dai vecchi amuleti che gli epilettici cominciarono a portare addosso e sui quali erano scritte formule ritenute efficaci. Il Pitrè (1913) riferisce che in alcune 65 zone della Sicilia, per preservare il soggetto dall’attacco epilettico, gli si fa mettere al collo un chiavino generalmente d’argento. Le parole di Tommaso Fazello (14981570), storico del suo tempo, ci danno un’esatta dimensione di come fosse radicato il pregiudizio che assimilava l’epilettico all’indemoniato. Egli nel “De Rebus Siculis decades duae” racconta: “A questo punto non tanto per dare degna meraviglia ai miracoli ma perché da molti uomini non sono ancora credute queste faccende degli indemoniati, non mi par fuor di proposito parlarne. La medesima fede cristiana conferma che molte persone sono tormentate ed agitate dai demoni. I nostri teologi li definiscono indemoniati ma volgarmente sono detti spiritati. Mi meraviglio della poca prudenza di qualcuno che attribuisce queste cose non ai demoni ma agli umori melanconici. Ippocrate e Galeno hanno detto che la malinconia si genera nei nostri corpi da cause naturali, in altre parole da una temperatura eccessivamente fredda o dal comune vitto freddo e asciutto. L’umore così naturalmente formatosi viene detto “malinconico”. Questi medici hanno pensato e detto che se l’umore malinconico offende la mente provoca la malinconia, se invece serra i meati del corpo genera il mal caduco. Apportando queste ragioni costoro vogliono dimostrare che le persone indemoniate o spiritate sono agitate piuttosto da un’infermità che dal demonio. Io, personalmente, ne ho visti molti indemoniati e per amor del vero sono costretto a farne breve cenno. Nell’anno 1541 mi trovavo ad Agira proprio il giorno di S. Filippo; dentro la Chiesa dedicata al Santo erano stati condotti circa duecento spiritati. Era uno spettacolo orrendo vedere loro non se stessi ma demoni; agitavano le braccia, digrignavano i denti, la bava usciva dalle loro bocche, storcevano il capo, la bocca, gli occhi. A lume di torce sfilavano davanti l’altare innalzato al centro della Chiesa. Ad un certo punto, alla presenza del popolo, fu liberata una certa donna ragusana, della cui liberazione poi si ebbe un segno. Nello stesso istante in cui la donna venne liberata, il candelabro d’argento, posto sull’altare, cominciò a girare su se stesso velocemente, le candele si spezzarono, le altre lampade posizionate sempre sull’altare si spensero. Era l’umore malinconico che muoveva il corpo della 66 donna e, contemporaneamente un corpo lontano ed inanimato? (Vengano avanti coloro che attribuiscono queste cose alla natura. Io penso che ciascuno di noi può facilmente riconoscere ed ammettere che la loro è un’opinione sciocca, i loro scritti ridicoli, la loro parola vana)". 67 CAPITOLO QUARTO L’EPILESSIA NELLA TRADIZIONE POPOLARE: RITI ANTICHI E RITUALI MODERNI 1. La medicina popolare Un’idea che ha attraversato la storia della medicina è quella che ricollega gli stati morbosi all’effetto negativo e malefico di forze occulte appartenenti alla sfera del demoniaco. A partire da Ippocrate, soprattutto con l’Illuminismo, la medicina colta si libera progressivamente dal demoniaco, dalle streghe, dalla magia. La spiegazione razionale diviene quindi il principale strumento di conoscenza: è sull’alternativa tra razionalità e magia che si fonda la civiltà moderna e la medicina biochimica abbandona la concezione magica per rivolgersi esclusivamente a quella razionale. La medicina popolare cerca invece di tenere uniti questi due universi; essa non opera scelte ma lascia aperte le due possibilità. In questo modo viene soddisfatta la richiesta di protezione psicologica di fronte alla drammaticità della malattia (Miceli S., 1983). Il negativo quotidiano viene quindi mantenuto su un piano metastorico, che vede ancora l’uomo preda di deliberate fatture ordite da invidiosi o da esseri soprannaturali e terribili; il ricorso a potenze benefiche, rappresentate di volta in volta da divinità, santi, madonne, guaritori, diventa, quindi, la soluzione più naturale al problema. Elementi naturali e fenomeni magici intervengono nella spiegazione dell’origine della crisi epilettica, agendo a volte in maniera combinata. La malattia viene cosi attribuita all’azione degli spiriti, ma anche a quella dei vermi. Questo duplice ordine di cause si ritrova ancora nella classificazione delle diverse forme cliniche in cui si tiene conto del modo in cui la malattia si manifesta, come pure del fattore etiologico. Infine lo si riscontra nella terapia, con la quale ci si rivolge alle forze naturali ed extra-naturali 68 nell’intento di ripristinare l’equilibrio tra il soggetto colpito dal male ed il suo universo (Restuccia P., 1991). Quando il male risulta refrattario agli espedienti comuni, ai rimedi domestici, o c’è il sospetto di “cause superiori” che escono dalla sfera del naturale, vengono chiamati in causa degli individui che, per poteri ereditati o per dono proprio, ma anche perché “spiritati”, possono costringere le potenze benefiche sia naturali che divine ad intervenire ed agire secondo la loro volontà. Viene richiesto, infatti, l’intervento di una figura particolare, “il rimediante”, che è dotato di poteri tali da costringere le forze naturali o extra-naturali ad agire secondo la propria volontà (Restuccia P., op. cit.). L’intervento diventa allora magico (Guggino E., 1986). Alcune volte l’intercessione delle potenze benigne è chiesta dalla comunità attraverso particolari riti, in cui la forza naturale e quella divina si integrano per l’opera di mediazione svolta dal rimediante. Il rito svolge la funzione di restaurazione dell’equilibrio sociale e psicologico. Esso rappresenta uno strumento per cercare di risolvere il conflitto tra uomo e natura, ma esso è, inoltre, l’espressione di un mito, di credenze condivise che hanno origini lontane. Al rito può seguire la prescrizione di sostanze naturali o, in tempi più recenti, di veri e propri farmaci. Ai soggetti, ad esempio, poteva essere somministrata dell’acqua, con la quale era stato lavato il cadavere di un bambinello di pochi mesi, morto però di malattia che non gli aveva causato febbre; mangiare un poco di mestruo di donna, un brano di placenta, un brano di cordone ombelicale di feto maschio, seccato e polverizzato o, infine, triturare finemente ed ingoiare la polvere di un osso di morto sciolta nell’acqua, per tre mattine di seguito, a stomaco digiuno (Zanetti Z., 1892). Tra i più antichi rituali di guarigione utilizzati in Grecia per guarire l’essere umano dall’epilessia, va ricordata la “pratica dell’incubazione”, che consisteva nel far dormire, sopra una lastra di pietra, l’individuo affetto da epilessia, nel tempio d’Esculapio, il dio dell’arte medica, attendendo la guarigione. Nonostante le interessanti descrizioni dell’epilessia di molti autori del passato, le cure di questa 69 patologia continuarono per molto tempo ad avere forti connotazioni magiche. Così, ad esempio, era unanimemente considerata fondamentale l’influenza della luna piena sulla ricorrenza degli attacchi epilettici. Altresì per curare questa patologia si utilizzavano frequentemente i semi e le radici della peonia, si faceva grande uso della polvere delle ossa di cranio e del sangue umano. A questo proposito, vi era anche l’usanza, com’è testimoniato da Plinio il Vecchio, di cospargere di sangue umano la bocca di un epilettico o fargli succhiare il sangue che usciva dalla bocca di un gladiatore morente per trarne risultati terapeutici. La liberazione dal sintomo, quando a determinare il male sono cause superiori, ha un’importanza relativa; ciò che effettivamente conta è la liberazione dalle forze occulte, negative, del maligno, senza la quale le cure naturali sia empiriche che mediche non avrebbero alcuna utilità (Dini V., 1992). Schematizzando è possibile allora dividere l’intervento terapeutico in due tempi: la liberazione dalle forze occulte negative (attraverso il rito) e liberazione dal sintomo (attraverso cure empiriche della stessa medicina popolare e mediante le cure della medicina colta) (Dini V., op. cit.). La medicina popolare costituisce un ponte tra due universi perché si fonda su una dialettica tra l’irrazionale e la ragione, rivolgendosi alla stessa maniera alla magia ed alla medicina ufficiale. Essa, infatti, per quanto si serva di una terapeutica propria, di fatto non si pone mai contro la medicina ufficiale. Si assiste, quindi, ad una contaminazione di chiavi di lettura diverse del fenomeno patologico e questo offre una possibilità di protezione psicologica del soggetto in tutta la sua complessità (Restuccia P., op. cit.). Maghi, guaritori e sacerdoti, che potremmo considerare il primo esempio di casta medica, diventarono il tramite principale tra il mondo soprannaturale e quello umano: ad essi furono affidati la guarigione e i tentativi terapeutici del tempo. Elemento centrale della cura era il ricongiungimento tra l’uomo, punito dal male, ed il volere divino; esso si realizzava tramite una serie di riti e pratiche finalizzate alla purificazione dell’epilettico. È all’interno di questo contesto culturale che deve essere 70 inserita la pratica della trapanazione cranica, con la quale si determinava una fuoriuscita di pus che avrebbe anche consentito l’espulsione del “male” presente nel soggetto. La paura di essere contaminati dalla presunta impurità dell’epilettico, aveva generato l’usanza di sputare addosso al soggetto per eliminare tale pericolo. Il paziente è sempre chiamato in causa in prima persona, non solo in quanto è colui che è stato colpito dal male ma anche perché, facendo parte di una comunità più ampia ed allargata, può contribuire ad identificare il maligno. Il suo corpo che “patisce” diventa il teatro dell’azione malefica, costituendo una risorsa per la comunità stessa, che può evocare il positivo, vincere il maligno, opporsi al negativo una volta identificatolo (Restuccia P., op. cit.). Di fondamentale importanza per la medicina popolare era l’utilizzo di alcune tipologie di piante a cui venivano attribuite poteri medicinali nella cura dei fenomeni epilettici. Nella Roma del Medioevo, ad esempio, era noto il culto di Santa Bibbiana. In particolare, la canapa acquatica (Eupoatorium cannabinum), assieme all’acqua del pozzo antistante la chiesa di S.Bibbiana, veniva reputata terapeutica (Suozzi R. M., Alicicco E., 1986). Le piante impiegate con maggiore frequenza erano: il vischio quercino (Loranthus europaeus) e la peonia (Peonia officinalis), il tiglio (Tilia europea), il semprevivo dei tetti (Sempervivum tectorum), la digitale (Digitalis purpurea), la camomilla (Matricaria recutita), il papavero (Papaver rhoeas), gli amenti secchi e polverizzati del noce (Juglans regia) (Nicolais G., 1991). Attualmente gli studi sulla capacità delle piante medicinali di trattare le forme epilettiche si stanno moltiplicando, attingendo informazioni ed esperienze soprattutto dalla etnobotanica, ed in particolare dai sistemi curativi dei popoli africani. Sono note, infatti, le indagini e le esperienze condotte in Mali, ove la medicina tradizionale adopera piante quali la Khaya senegalensis, il Tamarindus indica (tamarindo), lo Zizphus Mauritania (Suozzi R. M., Alicicco E., op. cit.). 71 Le convulsioni dei bambini in Nigeria sono controllate mediante l’uso di preparati di piante medicinali. Tra le piante più comunemente adoperate vi sono il tabacco, l’estratto acquoso ed alcolico del Cynodon dactylon, da noi conosciuto con il nome di gramigna rossa (Suozzi R. M., Alicicco E., op. cit.). Queste piante, infatti, sembrerebbero possedere un’azione anticonvulsivante, legata probabilmente ad un’azione depressiva del Sistema Nervoso Centrale. Anche il regno animale forniva rimedi contro il male. Si andava dai pezzettini di carne di ramarro mangiati crudi a digiuno, al sangue bovino bevuto ancora caldo, in giorno di giovedì; dall’olio di scorpione con il quale erano unte le tempie ed il naso del malato (Zanetti Z., op. cit.) a quello in cui era stato fritto un cagnolino da latte (Rossi C., 1874); dal fiele di agnello bevuto nel vino puro, all’uccello estratto dal corpo di una serpe che l’abbia appena ingoiato, da far mangiare all’infermo a sua insaputa (Zanetti Z., op. cit.). 2. I Santi protettori degli epilettici L’abilità di esorcizzare i demoni fu interpretata come un segno divino o come indizio di santità. Ciò spiega il frequente riferimento all’esorcismo nella vita dei santi e la ricerca di casi di esorcismo per supportare una causa di santità. Nella religione cattolica ad ogni santo è riconosciuto uno specifico potere taumaturgico: ad ogni malattia, infatti, corrisponde un particolare patrono (Kerler D. H., 1905). Nella farmacopea popolare, nelle formule scongiuratorie e nei rituali elaborati nei secoli per la conservazione della salute, il nome del santo ricorre spesso per conferire maggiore efficacia all’assunzione di un infuso d’erbe o alla gestualità magica di un guaritore di campagna. Nell’epilessia, invece, la presenza potente del santo non è invocata nei soli momenti di necessità, bensì avvertita costantemente poiché, invisibile, accompagna il malato per sempre, dal manifestarsi della prima crisi fino alla morte (Murphy E. L. , 1959). 72 I santi protettori degli epilettici presenti nel Cristianesimo occidentale sono circa cinquanta, di cui una ventina hanno goduto, o ancora oggi godono, in Italia, di una particolare devozione popolare. Sono perlopiù santi che subirono il martirio per decapitazione (da cui il patronato nei confronti di quanti soffrono di mali localizzati nella testa o nel cervello), tra cui: San Giovanni Battista, San Vicinio, San Genesio, San Vito, San Donato (molto venerato nel sud d’Italia), Sant’Andrea Avellino, San Calogero, Santa Febronia, Santa Margherita, San Vincenzo Ferreri, santa Bibbiana e soprattutto San Valentino. Quest’ultimo era un monaco del III secolo. Avrebbe guarito Cheremone, figlio epilettico di Cratone, maestro di retorica a Roma, per cui tutta la sua famiglia si sarebbe convertita al cristianesimo. Fu ucciso dai pagani il 14 febbraio e sepolto dai suoi fratelli a Terni, di cui è protettore. La leggenda di aver aiutato due fidanzati a sposarsi, diventando protettore degli innamorati, è posteriore. In particolare nelle regioni dell’Italia nord-orientale, ancora fino ai primi decenni del ‘900, erano operate in nome di S.Valentino due significative misure terapeutiche a carattere magico-religioso. Una di queste consisteva nel far filare, per mano di dodici donne, la sera precedente il giorno di S.Valentino, che ricorre il 14 Febbraio, una quantità di canapa o di lino, raccolto per elemosina nel vicinato, poi tessere la tela, tagliarla nei pezzi dovuti, cucirla insieme in forma di camicia, e, al primo tocco della mezzanotte, farla indossare all’ammalato. Tutto questo doveva avvenire nel tempo che corre dall’ora di notte appena suonata alle dodici precise (Mazzucchi P., 1912). A Venezia, invece, si consigliava: “A quei che ga sto mal se ghe mete al colo la ciave d’argento de San Valentin, che costa 33 soldi e bisogna i sia fati de carità da 33 donne maridae, un solo a testa” (Bernoni DG., 1968). Questi due rimedi, riguardanti l’area veneta, si presentano non dissimili da altri registrati nelle diverse regioni italiane: in essi, infatti, emergono alcuni motivi comuni, come la questua per procurarsi la tela o il denaro; l’elemento femminile, come le filatrici o le donatrici dell’obolo, prescritto per l’acquisto della chiave benedetta; i numeri, ai quali viene attribuito un grande valore magico e simbolico. 73 Queste due pratiche ricordano molto quanto annotava il Pitrè a proposito delle terapie magico-religiose adottate in Sicilia nei confronti del male (Pitrè G., 1896). Al centro, invece, la devozione appare estremamente frazionata, perché diretta a numerosi santi invocati dal popolo per tenere lontani gli attacchi del male: S. Bibbiana, S. Genesio, il beato Gioacchino, ecc. Un rituale abbastanza singolare è quello che si svolge nel santuario mariano di Canoscio, in Umbria, molto frequentato anche dai devoti della limitrofa provincia di Arezzo. Condotto l’infermo davanti l’altare, presso il quale sono raffigurati gli apostoli in piedi davanti alla Vergine morente, si accende davanti ad ognuno di essi una piccola candela: quella che si spegnerà per ultima starà ad indicare a quale santo la Madonna ha inteso “delegare” i suoi poteri per la guarigione dell’epilettico. Incontrastato patrono dell’epilessia nell’Italia meridionale, ad eccezione della Sicilia, è, fin dai primi secoli del Medioevo, San Donato vescovo di Arezzo, ritenuto erroneamente martire, per decapitazione, verso il 362 d.C. (Lützenkirchen G., 2000). Come S. Giovanni Battista e S. Valentino, anche S. Donato dà il nome alla malattia: “male di San Donato” (o anche, nelle varianti dialettali: mòto, tòcco guàije) è la denominazione comune a tutte le regioni un tempo comprese nel regno borbonico, dall’Abruzzo alla Calabria. È intorno alla figura di questo santo che si sono venute a costruire leggende, credenze e rituali di particolare interesse antropologico e storicoreligioso: oggi in via di modificazione, essi costituivano gli elementi caratteristici di una devozione che si manifestava in rigide e precise cadenze nei giorni della vigilia e del festivo del santo (6-7 Agosto). Nelle località meridionali in cui ricorre la festa di S. Donato, circa cinquanta, si rinvengono tuttora, seppur sparsi e talvolta frammentari, i residui elementi di culto attraverso i quali è possibile ricostruire il pellegrinaggio-tipo al santo, così come veniva effettuato fino a quattro o cinque decenni or sono. I pellegrinaggi a S. Donato potevano essere compiuti sia per la richiesta di grazia, sia come ringraziamento per l’ottenuta guarigione. In ogni caso il malato era obbligato a recarsi ogni anno dal “suo” santo, per tutta la durata della sua vita. In genere il pellegrinaggio “di richiesta” 74 era formato da un gruppo ristretto di persone (l’epilettico, i genitori ed alcuni parenti prossimi), mentre quello di “ringraziamento” vedeva il miracolato seguito da un folto numero di accompagnatori - parenti ma anche semplici compaesani – che venivano a rendere testimonianza delle eccezionali virtù taumaturgiche del patrono. Questo “andare a S. Donato” comportava anche tre o quattro giorni di marcia, accompagnata dal canto continuo, quasi ossessivo, che la “compagnia” intonava in onore e lode del santo, e di brevi e disagiate soste di riposo, all’aperto e per pochissime ore ogni notte. Un pellegrinaggio lungo ed estenuante, ma proporzionato all’eccezionalità della grazia che si andava a domandare o che si era ottenuta. Gli ultimi chilometri che separavano la “compagnia” dal santuario, erano obbligatoriamente compiuti a piedi scalzi, soprattutto dalla madre del malato che, da questo momento, diveniva la figura centrale dell’intero gruppo, sostenendo, da sola, tutto il peso di una serie di atti penitenziali. La donna, quindi, in ginocchio e strisciando la lingua sul pavimento fino a farla sanguinare abbondantemente, raggiungeva dalla soglia della chiesa la statua del santo, posta davanti all’altare. Qui si abbandonava ad un drammatico monologo nel quale, tra lacrime e grida, narrava al patrono la storia del figlio e lo implorava di mostrare tutta la sua grande potenza guaritrice (Lützenkirchen G., op. cit.). La donna affrontava il pellegrinaggio per chiedere sì una grazia ma, in realtà, anche per espiare una sua colpa: quella di aver messo al mondo un figlio epilettico. Non importava se fosse stato il marito a bestemmiare il patrono, ad aver lavorato in giorni proibiti o aver abusato quotidianamente del vino: il figlio, se affetto da quel male, era considerato soltanto tuo ed ad altre donne si doveva rivolgere obbligatoriamente per aiutarla ad acquistare la miracolosa “chiavetta antiepilettica”. La notte tra la vigilia ed il festivo, i pellegrini la trascorrevano sul pavimento della chiesa, vicino al simulacro del santo. Il sonno dei pellegrini durante questa notte, ricorda il rito dell’incubatio praticato nei templi dell’Esculapio: un sonno a scopo terapeutico a cui si abbandonava il fedele in attesa che il dio gli apparisse in sogno, rivelandogli la natura del male e la terapia che avrebbe dovuto seguire (Deubner L., 75 1900). Il pellegrinaggio aveva il suo culmine nella lunga processione che si snodava per tutte le strade del paese. Queste pratiche, radicate da secoli nella cultura contadina e pastorale italiana, sembrano ai nostri giorni pressoché abbandonate o addirittura scomparse. Il perchè di questo mutato rapporto tra il fedele ed il patrono non va certo individuato nella minor diffusione del “male di S. Donato” rispetto ad un tempo, né tantomeno nel fatto che la moderna medicina sia riuscita ad abbattere definitivamente le antiche superstizioni, sostituendosi validamente alla figura taumaturgica. È invece nella modificazione intervenuta nel comportamento, più che nella coscienza morale e civile, degli eredi della vecchia società agro-pastorale: il benessere economico finalmente raggiunto e l’acquisizione passiva dei modelli di vita borghese, si sono innestati su una mentalità ancora saldamente legata al passato (Lützenkirchen G., op. cit.). 3. La medicina popolare siciliana Nella medicina popolare della cultura siciliana si realizza una fusione di pensiero greco, cultura araba, pensiero rinascimentale-illuministico e contenuti religiosi, da cui si origina un sistema unitario che consente di tenere compresente credenze e tecniche sia magiche che razionali (Pitrè G., 1896). Diverse sono le terapie adottate per le convulsioni. Esiste una terapia d’urgenza, che comprende quei rimedi che di solito vengono praticati in casa seguendo consigli dettati dalla tradizione e che hanno il preciso scopo di porre un primo soccorso alla crisi. Quando le convulsioni sono causate dai vermi, per esempio, è necessario: far odorare l’aglio, oppure la ruta o l’aceto; mettere l’aglio da solo o insieme alla ruta o con l’aceto sull’ombelico del paziente; strofinare l’aglio sotto il naso, sulle tempie, sulle labbra, sotto il mento, sull’ombelico; mettere una pezza imbevuta d’aceto dentro l’ano; fare massaggi con olio d’oliva sull’addome. A parte questi rimedi, che rivestono carattere d’urgenza, la tradizione popolare 76 utilizza altri elementi che tendono a curare i vermi in modo “profilattico”. In questo caso le operazioni da compiere sono: mettere intorno al collo del bambino una collana con sette spicchi d’aglio durante la notte; porre un ramoscello di erba bianca sotto il cuscino o dentro una tasca del pigiama; spolverare sull’addome del bambino un po’ di polvere da sparo bianca; applicare sull’addome del paziente un cataplasma di cipolla bianca; mettere sull’ombelico un po’ di cenere di lana; porre sull’addome una foglia di cavolo oppure pane arrostito inzuppato di vino (Pitrè G., op. cit.). Diverso è il caso in cui il male si origina in una fattura o nell’intervento di “spiriti maligni”: un primo rimedio potrà essere quello di mettere nel convulsivante una chiave mascolina, oppure spruzzargli sul viso acqua benedetta raccolta da sette chiese dedicate a sante, e detta quindi “acqua di setti chisi fimmini”. Questo presidio è anche utile contro gli spiriti ed i demoni. Altri rimedi possono essere quelli di sussurrare all’orecchio del convulsivante i nomi dei tre Re Magi – “Aspanu, Minzioni e Batassanu”- oppure la preghiera di S. Francesco Ferreri “S. Francescu chinu di puritati / scanzatilu di ogni mali / e di la vostra brutta ‘nfirmitati”. In questi ultimi esempi si prescinde dalle cause che possano avere determinato l’accesso e viene invocato un aiuto dei santi preservatori (i Magi) o di quelli taumaturghi (S. Vincenzo). Altri rimedi che rivestono il carattere d’urgenza sono: mettere il bambino sotto sopra tenendolo per le gambe e, contemporaneamente, stringergli le natiche e soffiare nelle sue orecchie per “mandargli al cervello ossigeno” (Cocchiara G., 1938). In quest’ultima pratica è evidente l’influenza della medicina greca ippocratea. Ancora, si possono immergere le mani del convulsivante in una bacinella piena di acqua e aceto stringendogli forte i polsi: questo metodo va collegato all’influenza greco-romana. La medicina popolare siciliana cristianizza ed adatta alla nuova religione le antiche pratiche mediche e magiche. In uno scongiuro, ad esempio, Gesù suggerisce a S. Antonio, a cui “cci pigghiò lu bruttu mali”, di stringere “quantu pari a tia” per far cessare l’attacco epilettico. Sant’Antoni annò pi mari / e cci pigghiò lu bruttu mali / non lu lassava annari avanti. / “’Ntoni picchì no lu ‘ncanti? / Vattinni 77 ‘ntà la cammira mia / ddà c’è la mè currìa / e strinci quantu pari a tia”. / ‘Ntoni strincìa e lu mali sparìa / ‘Ntoni bintava / e lu mali sqagghiava. / A nomu di la vergini Maria / e di lu Spiritu santu. (Bonomo G., 1953). 4. Etiologia e nosografia della crisi epilettica nella tradizione popolare siciliana La crisi di Grande Male epilettico è una manifestazione estremamente drammatica: la convulsione comporta una disgregazione del corpo dalla coscienza, annullata ed incapace di essere centro decisionale. Essa pertanto rappresenta il più classico momento di possessione, dell’ “essere agito da”. Le espressioni “u motu”, “cummursioni pilètichi”, “attacchi”, “mali di San Vincenzu (Pitrè G., 1896), proprie del dialetto siciliano, servono proprio a denominare questo tipo di crisi, che viene generalmente attribuita a due ordini di fattori: per quanto riguarda il contributo del pensiero magico-superstizioso vengono chiamati in causa Spiriti, Malocchio-fattura, Scantu; alle influenze della medicina illuminata si collegano invece l’irritazione, gli strapazzi sessuali, l’astinenza sessuale e la castità, “sangu ’ntesta”, vena della testa ingrossata (Cocchiara G., 1982). Il fattore eziologico non è sempre collegato in maniera lineare con il conseguente intervento terapeutico. I modelli utilizzati sono costituiti a volte da elementi magici, altre volte da elementi naturali, ma più spesso da elementi magici e naturali insieme. È possibile individuare una serie di manifestazioni patologiche accostabili fenomeno logicamente a sindromi epilettiche (Pitrè G., 1896; Mortillaro V., 1971): a) Motu, comprende gli attacchi tonico-clonici del Grande Male e gli accessi mio clonici dell’epilessia mioclonica. b) Cummursioni di picciriddi, comprendono tutte le convulsioni dell’infanzia; nel loro ambito, notevole importanza rivestono quelle determinate da vermi, che possono costituire un’entità a parte. c) U ‘ngusciu, accostabile agli spasmi infantili, non viene considerato come un fenomeno epilettico così come nella medicina ufficiale. 78 d) U stinnicchiu, caratterizzato da ipertonia generalizzata e perdita di coscienza; lo stesso sintomo può essere riconosciuto come isterico (“stericu”), venendo così ridicolizzato con il nome di “viticchiu”. e) U svinimentu, ipotonia generalizzata e perdita di coscienza (“abbannuna”). f) ‘ncantisìmu, per il quale il paziente resta incantato, “ncantisimatu” per qualche secondo. Più recentemente viene anche definito “assenza” per la chiara influenza della medicina colta. g) Mali di luna, comprende “u lupunaru”, forma epilettica per cui in luna quindicina si cade in convulsione, si esce di casa, si urla per strada e si piomba per terra per rotolarsi nel fango e nella polvere; mentre l’“allunatu” designa l’episodio convulsivo preceduto da vertigini. In alcuni paesi dell’isola l’episodio convulsivo, sia nell’adulto che nel bambino, prende il nome di “San Vincenzo” o di “cosi di San Vincenzu”. Questo santo, il cui culto fu portato nell’isola dagli spagnoli, secondo la tradizione popolare era affetto da epilessia e perciò considerato il protettore degli epilettici. Nel diagnosticare uno stato patologico gli specialisti-maghi della medicina popolare siciliana, più che ricorrere ad una diagnosi che tenga conto della sintomatologia, considerando le manifestazioni cliniche solo effetti svariati e mutevoli delle forze negative sia naturali che demoniache, ricorrono ad una diagnosi “etiologica”. Così un malessere determinato, per esempio, da scantu, vermi o spiriti sarà diagnosticato come Vermi, come Scantu o come Spiriti incorporati. Per quanto riguarda le manifestazioni convulsive e le sindromi epilettiche in generale l’eziologia viene ricondotta a (Pitrè G., 1896; Guggino E., 1986): a) Spirdi (spiriti), le anime degli impiccati, degli uccisi, dei suicidi, di chi non ha ricevuto ancora sepoltura che sono, secondo la tradizione popolare “armi cunnannati” (anime condannate); esse vagheranno nel luogo dove cadde il loro corpo per tutto il periodo della loro esperienza terrena ipotizzata. 79 Per sottrarsi a questa condanna o per cacciare un ospite indesiderato, purchè richiamati da una fattucchiera, possono penetrare nel corpo di una persona e determinare anche convulsioni. L’armi cunnannati possono fissare la loro dimora in una casa, di solito quella dove cade il proprio corpo; quando non gradiscono un ospite “u ‘ncuètanu”, “u toccanu” causandogli malattie, convulsioni, paralisi. b) Malocchio – Fattura, il malocchio è un’influenza nociva e maligna che prende origine dallo sguardo invidioso (malocchio=invidia) e può originare un’ifluenza negativa, più o meno volontaria, sino alla fattura deliberatamente ordita. Nella tradizione siciliana infatti ogni malattia, che non sia attribuibile all’azione di vermi o delle paure, è certamente causata da sortilegi delle streghe o da gente invidiosa. c) Scantu (paura intensa),può causare convulsioni perché “smovi u sangu” o i vermi. In altri casi si carica di valenze oscure che sono fortemente negative e giungono sino al sospetto di una “maaria” (fattura). È inteso allora come possessione da parte di un essere, possessione che può verificarsi anche senza una fattura ordita: un’ “arma cunnannata” vagante, approfittando di un momento di precarietà dell’individuo, può incorporarsi in lui, impossessandosene. È spesso chiamata in causa per spiegare le “cummursioni di picciriddi”, soprattutto quelle assimilabili agli spasmi della sindrome di West. d) Vermi, sono presenti nell’intestino del bambino a causa della nutrizione lattea, e restano come assopiti in un angolo, raccolti, secondo alcuni, a “cuddura” (gomitolo). In questa condizione sono praticamente innocui, ma possono essere smossi da varie cause e allora risalgono lungo lo stomaco e l’esofago per portarsi nei vari organi; possono arrivare sino alla gola, stringerla come per soffocare il bambino che andrà incontro a convulsioni. e) Dentizione, causa di convulsioni nel primo anno di vita. 80 f) Dibulizza (debolezza), che può determinare “sviniminti”, “cummursioni di picciriddi”, “’ncantisìmu”. g) Mestruazioni, possono essere causa di “sviniminti” e “stinnicchi”. Insieme alla dibulizza possono rappresentare momenti critici in cui le forze negative possono prendere il sopravvento sull’individuo. h) Irritazione, è una chiara influenza della medicina colta. i) Sangu ‘ntesta (sangue alla testa), è un grumo di sangue nel cervello esito di una “botta ‘ntesta” (trauma cranico); causa di “motu”. j) Vena ingrossata della testa, per vizio congenito o acquisito (irritazione, “botta ‘ntesta”). Viene chiamata in causa per spiegare i “cummursioni pilètichi” quando non si trova l’intervento del demonio o dei vermi. k) Essere nati la notte di Natale, in quanto mancanza di rispetto a Gesù. Questa credenza è comunque scomparsa del tutto. l) Movimenti lunari e luna piena, l’essere nati durante la luna piena determina “u lupunaru”; l’avere dormito all’aperto con la faccia rivolta alla luna piena determina l’essere “allunatu”. 81 CAPITOLO QUINTO LA RAPPRESENTAZIONE DELL’EPILESSIA NEGLI EX-VOTO 1. La malattia negli ex-voto La storia della medicina è legata a risvolti di carattere religioso, filosofico, etnologico e magico. La cura dei malati, specialmente quelli di mente, era nelle mani di guaritori locali classificabili in due categorie: erboristi e guaritori religiosi (Restuccia P., 1991). La metodica adottata dai guaritori religiosi si basava su credenze animistiche di natura simbolica e magica. Il medico era, quasi sempre, il sacerdote o il guaritore, una persona alla quale si attribuivano speciali poteri e capacità terapeutiche. Le uniche cure riconosciute erano: affidarsi alle abilità di queste persone, all’esorcista che faceva da intermediario con il divino nell’invocazione della grazia da parte del malato stesso o della sua famiglia. Nella serie di guarigioni da malattie gravi e liberazione dal male, le proprietà forti e miracolose erano affidate a speciali luoghi (i santuari, dove venivano portati i doni, gli ex voto, testimonianza del miracolo), ed a pellegrinaggi e preghiere (Segala P., 1979). Gli ex voto (dal latino ex voto suscepto = secondo la promessa fatta), sono dei doni fatti alla Madonna, ad un santo o ad altre divinità, in segno di riconoscenza per la grazia ricevuta (Toschi P., 1944). La motivazione che spingeva il devoto, o chi per lui, a richiedere l’aiuto della Madonna o di un Santo, è legata alla profonda angoscia esistenziale provocata dalla malattia e dalla sofferenza inspiegabile. Nel mondo cristiano, ad esempio, nel III e IV sec. era diffusa la pratica di offrire membra umane in oro, argento, legno, cera, che erano appese presso i sepolcri dei 82 santi martiri, non solo a significare la riconoscenza del devoto per l’avvenuta guarigione, ma l’offerta era fatta anche a priori, nella speranza di ottenere la grazia. Nel mondo contadino e popolare del sud, la malattia grave è un problema enorme, spesso incurabile per carenza di assistenza medica, ed ancora occasione di morte improvvisa o prematura e di catastrofi familiari per un mondo in gran parte privo di assicurazioni sociali, segnato da una elevatissima mortalità infantile e da una scarsa durata media della vita (Dini V., 1992). Nella rappresentazione delle diverse malattie negli ex voto, l’artigiano era chiamato a costruire una statuetta che, a livello simbolico, rappresentava il sofferente, oppure la parte del corpo guarita, in cera, argento o altro materiale. Vi erano casi in cui l’artigiano, per una forma di perfezione o per un’esplicita richiesta del devoto, si sforzava di rappresentare, nel modo più realistico possibile, le deformità provocate dalle malattie e la topografia, anche interna, degli organi colpiti dalle stesse (Segala P., op. cit.). Non si esclude che alcune patologie dermatologiche e di altro tipo, potessero essere espresse con colorazioni e segni ora non più rintracciabili per l’usura del tempo. Dai numerosi ex voto anatomici presenti nei santuari, gli studiosi moderni hanno cercato di delineare una storia della medicina antica, per definire quale fosse in passato il livello di conoscenze scientifiche ricavabili. Le figurine e le teste votive, rinvenute per lo più nel sud Italia, sono tra gli esemplari più antichi, i primi risalenti al VI-V sec. a.C., e manifestano la richiesta rivolta alla divinità, di una protezione che riguarda essenzialmente le condizioni di salute dell’offerente o degli animali di sua proprietà (Toschi P., op. cit.). Gli ex voto che attestano un rendimento di grazia per la guarigione di un animale sono numerosi, sia sotto forma di oggetti che di tavolette dipinte. Per esempio “la vacca” d’argento era probabilmente donata per l’esito felice di un parto e per la guarigione da qualche epidemia del bestiame. Si è cercato di verificare fino a che punto gli organi raffigurati negli ex voto corrispondessero ad una reale anatomia del corpo umano. 83 Considerato che gli artigiani che eseguivano i doni votivi erano per lo più analfabeti, non in grado, quindi, di rappresentare con esattezza il fegato, lo stomaco, i polmoni, ha portato gli studiosi a concludere che (probabilmente) gli ex voto più antichi presentano quadri irreali, fondati sull’immaginazione e sulla fantasia del singolo artigiano, quindi vanno interpretati. Il medico era, secondo una concezione popolare della medicina, l’esercente di un’arte medica, miscuglio di medicina primitiva, empirismo, magia e religione. Per esempio, in Sicilia, nell’800 il medico era anche il barbiere che godeva di una tale fiducia presso il popolo, e a lui ci si rivolgeva per chiedere consigli e farsi visitare quando si stava male. Era diffusa anche la pratica di affidarsi a guaritori, più spesso guaritrici, che per ogni tipo di malattia avevano la cura più adatta: erbe miracolose, oli speciali, acque purificatrici, sempre accompagnate da orazioni e preghiere. Il medico-sacerdote invece faceva in modo che l’ammalato venisse condotto in chiesa per essere sottoposto a certe torturanti ed affliggenti pratiche, soprattutto se si trattava di un malato di mente, il cui fine ultimo era la liberazione dal male e dalla sofferenza. Secondo la terapeutica popolare, il malato doveva soffrire molto e provare dolore durante i riti, poiché solo a queste condizioni il Santo invocato avrebbe concesso la grazia (Dini V., op. cit.). Tra i doni più diffusi la testa, che rappresentava varie patologie, sia di natura psichica che fisica, comprese tutte le patologie della faccia, delle labbra, del naso, del collo. Per le guarigioni dalla follia veniva donata la testa, ma anche il cuore, simbolo totalizzante della persona, e quindi, in questo caso, simbolo della mente, della sapienza, della ragione, delle virtù riacquistate (Segala P., op. cit.). Venivano donati occhi d’argento o riproduzioni in cera per tutte le affezioni oculari. Anche gli organi interni venivano ampiamente raffigurati, dal fegato, ai polmoni, allo stomaco. Gli organi genitali maschili e femminili indicavano malattie dell’apparato urinario, impotenza nell’uomo, sterilità nella donna. Gran parte di questi ex voto anatomici sono ormai scomparsi dai santuari, anche perché la stessa pratica è 84 notevolmente diminuita. Nei pochi esemplari conservati ancora oggi nei santuari, sono stati cancellati, per l’usura del tempo e per la cattiva conservazione, i segni indicativi del tipo di patologia rappresentata, per esempio: certe cicatrici in alcune parti anatomiche, il gonfiore delle teste, il rossore degli occhi, delle guance, del collo. Da ciò si può dedurre che la lettura degli ex voto va fatta in modo interpretativo, considerando che abbraccia un contesto multidisciplinare: antropologico, medico, psicologico. Per secoli la Chiesa ha guardato con atteggiamento critico le pratiche votive, preoccupata soprattutto per le implicazioni superstiziose e magiche del fenomeno. La condanna cadeva soprattutto sugli ex-voto anatomici, come le rappresentazioni di uteri, visceri, considerati osceni e poco adatti ad essere esposti in chiesa. Solo con il Concilio Vaticano II la posizione della Chiesa ha avuto una svolta positiva nei confronti della religiosità popolare e, finalmente nel 1974 col Sinodo dei vescovi si afferma che la religione popolare può essere vista come punto di partenza per una realistica evangelizzazione (Dini V., op. cit.). 2. L’epilessia negli ex-voto Attorno all’epilessia, prima che le scoperte scientifiche ne chiarissero l’origine e le cause, c’era un alone di mistero che, data la spettacolarità delle crisi, non faceva altro che incrementare paure e pregiudizi. Le donazioni per la grazia ricevuta che riguardavano l’epilessia erano varie (Manganelli G., 1975). La famiglia dell’epilettico, soprattutto se trattasi di un bambino, quasi sempre non faceva scrivere sulla tabella dell’ex voto la natura della malattia, ma solo la sigla P. G. R. (per grazia ricevuta) e, qualche volta, il nome e l’età del bambino. Le motivazioni erano legate principalmente alle credenze magico-religiose della malattia,oltre che alla vergogna e alla paura che questo tipo di crisi provocava nell’immaginario collettivo. 85 Se ancora oggi, alla luce delle conoscenze mediche, si rimane sconvolti e impauriti di fronte ad un attacco epilettico, possiamo meglio capire come nel passato la ricerca delle spiegazioni e delle cause fosse intrisa di elementi soprannaturali. L’offerta votiva, come segno di omaggio e attestazione di fede in cambio di una grazia ricevuta, ha origini antichissime. Essa costituisce la testimonianza più immediata e genuina della religiosità popolare, attraverso la quale il tempo della “disgrazia” abbattutasi sull’uomo, viene tradotto in tempo di “grazia” (Manganelli G., op. cit.). È significativo sottolineare come vi fosse, nell’antichità, un’enorme confusione fra l’epilessia e la follia. Nell’epoca classica e nel Settecento le descrizioni delle crisi epilettiche sono non prive di elementi superstiziosi e, da allora, fino a tutto l’800, l’epilessia e la follia venivano sottoposte alle stesse pratiche terapeutiche, negli stessi reparti degli ospedali, e la loro storia ebbe per decenni una sorte inscindibile. Solo nella seconda metà dell’800 si sarebbero aperti negli ospedali reparti riservati agli epilettici. Ma nonostante tutto, ciò non toglie che la malattia, restando per lo più incomprensibile, stimolasse l’utilizzo di pratiche alternative per la sua cura. Ed ecco che, soprattutto nel mondo popolare, delle regioni del sud Italia, ci si rivolgeva ai Santi, e non ai medici, per chiedere la risoluzione della malattia (Dini V., 1992). Di fronte alle scosse violente, alle cadute fulminanti, si capisce facilmente come, in epoche passate, si sia potuto intravedere, in questa agitazione incontenibile, lo spettro del demonio. Per questo gli epilettici non venivano considerati dei malati da soccorrere, piuttosto dei maledetti da isolare: l’unico rimedio era rimettersi alla volontà di Dio. Le famiglie si rivolgevano direttamente ad esorcisti e guaritori locali. I Santi protettori degli epilettici cambiavano a seconda delle zone. In tutti i casi di guarigione avvenuta, era doveroso ringraziare il Santo protettore con un qualsiasi tipo di offerta, ex voto, denaro. 86 L’ex-voto, diffuso anche nelle religioni primitive, è la testimonianza di una mentalità fortemente religiosa. Sia esso un oggetto (protesi di arti, trecce, etc.) o una rappresentazione votiva in cui è presente l’immagine divina, interpreta, appunto, questo passaggio e sottintende una pratica devozionale legata al culto di un personaggio sacro, prescelto di volta in volta, nonché al luogo di culto, meta di pellegrinaggi (Segala P., 1979). Gli ex voto oggettuali e le tavolette votive si trovano esposti nei santuari 6 e nei musei etnologici, e sono la testimonianza che nel passato le malattie, le calamità naturali ed ogni tipo di sofferenza, trovavano la speranza di un superamento, solo per intervento divino. Gli ex-voto mantengono un significato storico, di fede e di cultura, ed hanno lo stesso valore “artistico” che in epoca medioevale assumevano i capitelli romanici o certe sculture decorative, la cui esecuzione non sempre era opera di artisti, bensì di artigiani, i quali, interpretando un sentimento collettivo di fede, si facevano portavoce di una situazione sociale che riscattava, attraverso l’opera, le colpe, il male, le paure vissute dall’umanità. Gli ex-voto, offerti individualmente, rappresentavano la testimonianza pubblica di una paura o di un male, sofferto e superato attraverso la forza salvifica della fede. La cura delle malattie per le quali non si avevano Il Santuario, spazio privilegiato destinatario e depositario degli ex-voto, attesta la forza ed il significato dell’ethos popolare. Il Santuario è il luogo sacro, dedicato al culto pubblico, dove sono conservate in modo visibile e con sicurezza le testimonianze votive dell’arte e della pietà, dove si sciolgono i voti e si venera l’immagine della Madonna o del Santo ritenuta miracolosa. Nei confronti di questi luoghi di culto il mondo ecclesiastico ha mostrato un atteggiamento di intolleranza, tanto che la stessa parola “santuario” non figura nel Codice di diritto Canonico fino al 1959, perché i pellegrinaggi ai Santuari così come tutte le altre espressioni della religiosità popolare, erano visti come superstizioni che dai bassi strati del cattolicesimo si introducevano tra le classi elevate. La revisione del Codice di diritto Canonico, indetta da Papa Giovanni XXIII, dedica alla definizione del Santuario ben quattro canoni. Finalmente il Santuario è riconosciuto come luogo sacro, dove i fedeli per un peculiare motivo di pietà (per esempio per un’immagine sacra venerata, per una reliquia insigne conservata, per un miracolo da Dio operato), si recano numerosi in pellegrinaggio. La stessa etimologia della parola “santuario” implica una località sacralizzata dalla presenza del “sanctus”. In seguito, proprio sulla scorta delle leggende di fondazione, saranno le apparizioni o le guarigioni miracolose a rendere “santuari” quei luoghi di culto fino ad allora scarsamente frequentati, o semplici edicole poste ai bordi di strade, o ancora cappelle site su terreni aperti. L’offerta dell’ex-voto appare prevalentemente legata al pellegrinaggio, come se sciogliere un voto implicasse anche un iter penitenziale non solo spirituale ma anche fisico: di cammini, di salite talvolta impervie, di digiuni, di fatiche. Ecco il motivo per cui la maggior parte dei Santuari si trova disposto in luoghi difficilmente raggiungibili con i soliti mezzi di trasporto, e piuttosto isolati e lontani dai centri abitati. 6 87 spiegazioni scientifiche e razionali, era affidata non ai medici ma a guaritori, sacerdoti ed esorcisti (Cocchiara G., 1982). Soprattutto la malattia mentale, la più inspiegabile, appariva terrificante agli occhi del popolo per le sue manifestazioni, ed era sottoposta a pratiche terapeutiche basate su rituali magici e religiosi. L’epilessia rientrava nella categoria delle “follie” in generale. Tutta la storia di questa malattia è caratterizzata da tentativi di differenziarla da altre patologie: malattia mentale in generale, nevrosi isterica, delirio di possessione demoniaca. La progressiva scoperta dell’iconografia religiosa permette di attingere aspetti di arte, di religiosità e di cultura popolare a lungo trascurati. Gli ex-voto dipinti rappresentano un “genere d’arte” che si affianca alla parallela produzione delle opere d’arte, rispetto alla quale il valore estetico è necessariamente diverso, per le intrinseche ragioni che la determinano (Segala P., op. cit.). 3. Tipi di ex-voto La religiosità popolare non si pone in antinomia con l’apparato ecclesiale o con le normative sociali, ma si costruisce un proprio spazio. All’interno di questo spazio trovano luogo pratiche magico-sacrali, diverse da quelle liturgiche ufficiali (Dini V., 1992). L’ex-voto è un universo simbolico molto complesso, carico di segni e significati che vanno al di là dell’apparenza iconica. È espressione della quotidianità, descrizione di miracoli avvenuti, tende a trasmettere un messaggio, un fatto straordinario per la persona che lo ha vissuto, per questo è importante che se ne faccia memoria. Il complesso degli oggetti che chiamiamo ex-voto comprende cose di due generi diversi: da un lato abbiamo prodotti con funzione votiva principale, dall’altro con funzione votiva secondaria. Appartengono al primo genere gli ex-voto dipinti e quelli plasmati in cera o in argento; al secondo tutti quegli oggetti che, inizialmente destinati ad altro uso, per esempio sanitario (stampelle, ingessature ecc..), successivamente, a guarigione avvenuta, sono portati al Santuario. A questo secondo 88 gruppo appartengono anche abiti da sposa, gioielli di vario tipo, ed altro (Toschi P., 1944). Nel mondo classico c’era una netta distinzione tra due categorie di ex-voto: i Greci chiamavano ikesìa il dono fatto per ricevere una grazia, e karisterion o soterìa quello per grazia ricevuta. Nei quadretti votivi si poteva trovare la sigla V.F.G.R. (Votum Fecit Gratiam Recepit) o V.F.G.A. (Votum Fecit Gratiam Accepit), per quelli che comportano il tempo della promessa, mentre gli ex-voto privi di richiesta sono più propriamente voti di ringraziamento, ai quali si può riferire soltanto la seconda parte della sigla (Gratiam Recepit). Anche i romani distinguevano gli ex-voto propiziatori, contraddistinti dalla sigla V. F. L. M. (votum feci libens merito), da quelli per grazia ricevuta, contraddistinti dalla sigla V. F. G. A. (votum feci graziam accepit). Nel tempo il termine ha finito per designare qualsiasi categoria di offerta votiva. L’ex-voto non è una caratteristica peculiare della religione cristiana, bensì si ritrova anche in altre religioni primitive (Toschi P., op. cit.). Le malattie, come le calamità naturali, erano considerate un castigo divino dal quale ci si poteva sottrarre solo con il sacrificio, che era in origine cruento, cioè costituito da un olocausto animale o, presso alcune popolazioni, umano. La raffigurazione votiva delle mani o del cuore divenne una pratica sostitutiva dell’olocausto poiché, sia l’una che l’altro, erano considerati simboli vitali dell’uomo (Segala P., 1979). Piccoli oggetti in terracotta, pietra e bronzo, sotto forma di figura umana o animale, risalenti al VII sec. a.C. sono stati ritrovati in Spagna, in Egitto. In Grecia si trova uno degli esemplari più antichi e sconosciuti, esposto al museo nazionale di Atene, che rappresenta un vecchio barbuto che abbraccia una gamba enorme con una varice. L’offerta votiva si esplica in vari modi: sotto forma di denaro, di un oggetto più o meno prezioso, di una parte del corpo umano riprodotta in cera, argento, oro, o altro materiale, ed anche cappelli, capi di vestiario, attrezzi ortopedici, armi e qualsiasi altro oggetto che abbia avuto relazione con la grazia ricevuta. 89 La rappresentazione della malattia mentale, e dell’epilessia in particolare, nei doni votivi, deve essere interpretata sulla base delle concezioni mediche del contesto culturale siciliano. L’ex voto anatomico, rispetto ad altre forme, è stato forse privilegiato perché è rientrato nell’ambito degli studi di demonologia e di storia della medicina (Toschi P., op. cit.). Il cuore non rientra più tra gli anatomici, poiché non veniva offerto soltanto come organo malato da guarire ma, in quanto sede della vita, dei sentimenti e dell’intelligenza, veniva considerato il simbolo stesso dell’offerente, e donato per varie malattie sia fisiche che psichiche. Il dono più diffuso era la statuetta d’argento, simbolo della bambina o del bambino, sulla quale veniva aggiunto un nastro rosa o celeste per indicare il sesso, in altri casi si aggiungeva qualche altro oggetto, come il succhiotto, un giocattolo, un vestitino. Anche la testa chiusa era simbolo dell’epilessia, sia d’argento che in cera; quest’ultima veniva donata anche per i disturbi psichici (Toschi P., op. cit.). Tra gli ex voto più antichi, la testa chiusa era considerata sede della psiche, simbolo delle guarigioni da possessione demoniaca, dalle malattie mentali e dall’epilessia; la testa aperta o con ferite rappresentava le guarigioni da gravi incidenti e da malattie cerebrali. Tra gli ex-voto figurativi i più interessanti sono certamente quelli che si è soliti chiamare “tavolette votive”, diffuse in tutta Italia. Le tavolette, di interesse artistico oltre che antropologico, sono veri e propri quadri, di materiale vario, che riproducono mediante un disegno pittorico la scena del miracolo, il particolare momento di grave pericolo che si ritiene superato per intervento divino. Le prime tavolette votive risalgono alla seconda metà del ‘400, depurate da ogni motivo ornamentale, mosse dalla sola fede e dal bisogno di ringraziare il Santo per il miracolo concesso (Segala P., op. cit.). Un breve rallentamento nella produzione delle tavolette si ebbe dalla metà del ‘500 ai primi del ‘600; il periodo di massima produzione in Italia è rappresentato dall’800, per affievolirsi nuovamente dopo la prima guerra mondiale. Molto significative sono 90 le tavolette votive che raffigurano il bambino in fasce: si tratta di guarigioni da malattie ad esordio infantile; l’epilessia può esordire alla nascita e può essere causata da traumi dovuti al parto o ad infezioni (Segala P., op. cit.). Un aspetto importante da considerare, riguardo alle tavolette votive, è che, indipendentemente dalle descrizioni delle tabelle, spesso generiche o assenti, vanno interpretate in base a piccoli particolari che emergono dal contenuto figurativo. Per esempio dall’atteggiamento dei personaggi, dall’età di questi, dall’espressione di disperazione dei familiari sulla scena, dalla presenza del sacerdote, è possibile cogliere il tipo di miracolo invocato. La storia dell’ex-voto costituisce la storia dell’umanità: un’umanità sofferente che, visto vano ogni ricorso ai rimedi terreni, si rivolge alla divinità per impetrare grazia e offrire con sincerità di sentimenti un dono (Cocchiara G., 1938). L’ex-voto ha, sempre, almeno nella sua motivazione iniziale, l’instaurazione di un contratto tra l’umano e il divino, il miracolato e il miracolante. Esso in genere ne rappresenta lo scioglimento. Sul far voto e sulla necessità di adempierlo, nel Deuteronomio, 23 i versi 22-24 sono molto chiari: "Quando tu avrai fatto un voto al Signore, Iddio tuo, non tardare a compierlo, perché il Signore, Iddio tuo, te ne chiederebbe certamente conto, e tu saresti reo di peccato. Ma se ti astieni dal far voti non ci sarà peccato per te. Mantieni la parola che avrai pronunziato con le tue labbra, e adempi il voto che liberamente hai fatto al Signore, Iddio tuo, con la tua propria bocca". Pertanto, l'ex voto, in quanto testimonianza di una crisi esistenziale (chi sta bene, chi non ha problemi, chi non deve dirimere una situazione non ricorre al divino, non promette, non fa voti, anzi, per ringraziare il Signore del proprio star bene, elargisce beni, fa donazioni), esplica un intervento, divenendo testimone, svolgendo cioè una funzione testimoniale definibile anzitutto come religiosa, sempre in riferimento al clima, alla situazione del tempo ed anche dalla tradizione (valenza socio-religiosa) (Dini V., op. cit.). 91 Nell’ex voto cristiano non ha molto rilievo l'apporto magico-religioso, mentre si tratta piuttosto di una dimostrazione di affetto, il bisogno cioè di offrire a Dio un dono, un segno; è una preghiera che si è tradotta in immagine. Per renderci maggiormente conto del significato che ha assunto nel tempo, e che assume ancora oggi l’ex voto, si rendono opportune alcune brevi notizie storiche. L'ex voto rientra sempre nel significato religioso e perciò è l'espressione esterna, rituale, sacrificale del sentimento religioso di un individuo, di un popolo. Sacrificando qualcosa e consacrando se stesso, il soggetto compie sempre un atto sacro, un atto di culto: costruire templi ed altari, portare doni votivi, dedicarsi ad una vita di missione, tutto ciò fa parte delle manifestazioni del sentimento di religione nella forma esteriore; ciò si è sempre verificato nel tempo, da quando cioè un certo senso religioso è penetrato nel cuore dell'uomo. Gli ex voto, pertanto, sono sempre esistiti, in tutte le religioni. Si tenga presente che sia presso i Greci che presso i Romani venivano praticati voti pubblici e riguardavano l'intera collettività; i voti privati erano individuali per malattie, parti, viaggi di mare, ecc. Per gli ex voto presenti nel Cristianesimo si tratta di stabilire, attraverso un qualcosa, un rapporto con Dio, con la Vergine, o con i Santi. Già sulla fine del VI secolo sulla croce del Golgota vi erano numerosi ex voto e nella grotta di Betlemme, lo stesso presepio era ornato con oro e argento (Toschi P., op. cit.). Nella tradizione cristiana, già nell'Alto Medioevo, il segno di ex voto si definisce prima sotto forma di ceri e candele di varia grandezza (talora di dimensioni della persona offerente), poi sotto forma di pani o altri cibi, fino ad altre forme, anche di animali ed oggetti di vario tipo. Nella tradizione cattolica della Controriforma, l’ex voto, in un primo momento, appare come un prodotto abbastanza alto, talora di gara a chi potesse farlo più grande, più bello e più costoso. Poi, dalle classi agiate è avvenuto un progressivo trasferimento verso le classi umili, in particolare verso gli ambienti di campagna, con diverse caratterizzazioni, sotto forma della cosiddetta “arte povera”, prodotto di 92 artigianato modesto o di piccola bottega. Non si tratta soltanto di un'espressione delle classi subalterne: l'ex voto appartiene a tutte le classi sociali (Cocchiara G., 1982). Nell'ex voto si concentra, quindi, un vasto mondo; è una vera e propria fonte storica, è testimonianza connotata in primo luogo da una componente religiosa. È senza dubbio uno degli elementi socio-culturali al crocevia dell'incontro stesso tra oggettività e soggettività, tra momento e documento storici. È un oggetto che possiede come particolare attributo quello di comunicare: si esterna, infatti, la funzione prima (staccata in linea di massima, dalla forma dell'oggetto stesso) del comunicare e, subordinatamente, dell' esprimere, facendo trasparire rappresentazioni, azioni sociali, funzioni, messaggi simbolici. I cosiddetti ex voto oggettuali indicano una categoria di ex voto molto vasta e diversificata, che va dagli attrezzi ortopedici (busti, stampelle, ecc.), alle trecce di capelli, ai ricami, agli abiti da sposa ecc. Per esempio la treccia di capelli, in Sicilia, veniva donata dalle donne quando trovavano marito, infatti i capelli lunghi erano simbolo della condizione di “ragazza da marito” (Naselli C., 1932). Tutte queste testimonianze di vita e di pietà popolare, dal ‘500 in poi, venivano create all’interno di botteghe artigianali da pittori, specializzati in scene votive: il devoto narrava al pittore il miracolo ricevuto, e questi glielo rappresentava secondo richiesta. Per i meno abbienti c’era anche la possibilità di usufruire di sfondi già preparati, su cui venivano aggiunti l’apparizione del Santo o della Madonna, oltre alle generalità del votante (Segala P., op. cit.). Intorno ai santuari gravitavano sia botteghe che banchi di vendita che offrivano modelli prefabbricati di varie forme e tipologie; chi voleva fare un dono più prezioso o aveva bisogno di una raffigurazione particolare che si discostasse dal modulo standardizzato, poteva rivolgersi ad argentieri e cesellatori specializzati in questo genere di oggetti (Scavone Trupia J., 1984). 93 Altri ex voto significativi, di un periodo più recente (primi del ‘900), sono: quadretti ricavati a mano o lavorati con l’uncinetto che raffigurano la Madonna col Bambino, scarpette con fiocchi rosa o celesti, bavette, vestitini, fotografie, la riproduzione in cera del Bambino Gesù e tanti altri oggetti che indicano che il miracolato è un bambino. Dietro questi ex voto apparentemente anonimi, spesso si nasconde il dramma di una famiglia con un bambino colpito da crisi epilettiche, che si è affidata alla protezione della Madonna (Manganelli G., op. cit.). In qualche biglietto attaccato a questi ex voto si possono leggere frasi di questo genere: “Per grazia ricevuta alla Madonna di … per aver salvato il mio bambino … da un male che lo coglieva all’improvviso …” oppure: “a devozione a San … per aver liberato il piccolo … dalle forze del maligno”. Queste frasi, lette alla luce delle credenze medico-popolari e religiose, testimoniano che si trattava di epilessia. Emerge che, quando si parlava di “male che coglie di sorpresa” e di possessione da spiriti maligni, si trattava di crisi epilettiche; questo soprattutto valeva per la cosiddetta epilessia benigna (crisi parziali idiopatiche), che esordisce fra i tre e gli otto anni con crisi parziali di tipo semplice, per lo più durante il sonno, e scompare naturalmente durante il periodo puberale. Riguardo agli ex voto pittorici c’è da considerare che non si tratta solo di fotogrammi della realtà, ma di eventi vissuti nella sfera del mito, in quanto agiti da forze che non sono di questo mondo (Segala P., op. cit.). Il pittore di ex voto, quasi sempre anonimo, era un artigiano che apprendeva da giovane di bottega da precisi stilemi, la cui violazione avrebbe costituito un grave pregiudizio al suo futuro di maestro; l’aderenza alle strutture culturali collettive era la misura del suo successo. Sua costante preoccupazione era dilatare il pathos degli eventi raffigurati, sottolineare gli aspetti tragici e mantenere il rispetto della norma, per altro rafforzata dal potere che la Chiesa poteva esercitare al momento dell’accettazione degli ex voto nei santuari. L’ex voto, come ogni fatto culturale, appartiene all’universo della comunicazione, e la sua forza simbolica è tale da rendere marginale la presenza del codice linguistico (Manganelli G., op. cit.). 94 L’assenza delle indicazioni del nome del miracolato e della grazia, non limitano la sua natura come fatto di affermazione di memoria individuale e collettiva nello stesso tempo. 4. Gli ex-voto nella tradizione siciliana In Sicilia l’ex voto si può considerare una delle caratteristiche sopravvivenze lasciate nell’isola dai Greci. Riferisce Cocchiara (1938) che i primi prodotti artistici dell’età del ferro in Sicilia erano dei doni votivi; offrire la propria immagine o parte di questa, significava mettersi sotto la protezione assoluta di una divinità. Tra i Santuari siciliani ricordiamo quello della Madonna del Romitello a Borgetto, della Madonna del Ponte a Partinico, dove si trovano molti ex voto in cera con una maggiore prevalenza di teste. La maggior parte delle tavolette votive dei santuari siciliani, si riferiscono al periodo di massima produzione delle stesse, e cioè dalla fine del ‘700 alla seconda metà dell’800. Al santuario della Madonna di Trapani sono di gran valore artistico le tavolette votive marinare. Altri Santuari siciliani dove si trovano immagini votive sono: il Santuario della Madonna del Balzo a Bisacquino (Palermo), che ne contiene una decina del 1600 e del 1700, la Chiesa di Maria S.S. del Soccorso a Castellammare del Golfo (Trapani), il Santuario di S. Maria di Tindari a Patti (Messina) e il Museo Pitrè di Palermo, che contiene alcuni ex voto esclusivamente siciliani dal 1600 ad oggi (Cocchiara G., 1982). La pittura degli ex voto in Sicilia risente molto degli influssi dell’iconografia greca; il pittore dei miracoli si atteneva a dei canoni che a lui erano trasmessi dalle botteghe artigianali di appartenenza. L’ex voto scandisce una tensione religiosa che possiamo sintetizzare in tre momenti tra loro collegati: l’evento-supplica, l’offerta-rendimento di grazie, la testimonianza-profezia. In quanto racconto di un avvenimento, l’ex voto è espressione di una memoria laica e religiosa, offre informazioni su usi e costumi del 95 popolo, sul modo di lavorare, di praticare la medicina, sulle malattie dell’uomo, della donna e la vulnerabilità magica del bambino. È segno di una supplica, nella quale il singolo stabilisce un rapporto diretto con la Madonna o con il Santo invocato, o richiede la mediazione del sacerdote o del luogo sacro, affinché la grazia gli sia concessa. Il rituale che in passato accompagnava l’offerta del dono, seguiva un cerimoniale interessante: l’ex voto era condotto in forma solenne, magari attaccato ad una torcia alta quanto la persona che, a piedi scalzi, si recava al santuario e, dopo aver fatto le proprie devozioni, consegnava il tutto ai responsabili, così il dono veniva conservato ed esposto a futura memoria. Ancora oggi, ad esempio, ad Altavilla Milicia, l’8 Settembre, festa della Madonna, viene fatta la cosiddetta processione della “condotta dei doni7”. Durante il Medioevo e fino al Seicento la produzione di ex voto si è enormemente attenuata, per riapparire in occasione delle due guerre mondiali. Possiamo tuttavia escludere che tale pratica si sia mai interrotta. Ancora oggi, come in passato, l’ex voto trova la sua naturale collocazione nello spazio sacro del santuario, e mantiene la sua funzione comunicativa di messaggio religioso (Cocchiara G., op. cit.). Per quanto riguarda l'ex voto dipinto (le tavolette dipinte rappresentano la stragrande maggioranza degli ex voto) l'elemento caratterizzante, che costituisce, nello stesso tempo, anche il suo vantaggio comunicativo rispetto agli altri tipi di ex voto, è la possibilità di esprimere la modalità completa della grazia ricevuta: la rappresentazione del caso, spesso eseguito in modo particolareggiato, la visualizzazione dell'intervento divino, l'attestazione della grazia ricevuta (Naselli C., 1932). Rispetto al secolo scorso è notevolmente diminuita la donazione dei dipinti, mentre vengono donate più spesso fotografie,disegni fatti dai bambini, denaro, oggetti preziosi e gioielli (questi ultimi si trovano soprattutto nel santuario di S. Rosalia a Palermo e nel santuario dell’Annunziata a Trapani). 7 Sono atti di pietà non scevri da possibili equivoci, qualcosa di misto tra pietà e superstizione, devozione e fanatismo. 96 A Trapani, in occasione della processione del venerdì santo, prima della Pasqua, i doni votivi più preziosi vengono esposti presso il santuario. Gli ex voto dipinti e non, in quanto testimonianze di sofferenza umana, sono in perfetta linea con questa tendenza, che lega quasi sempre la pietà popolare al Cristo sofferente del venerdì Santo, più che al Cristo glorioso della domenica di Pasqua. Questo è il frutto di una catechesi deficitaria, che ha ritenuto il corpo prigione dell’anima e la sofferenza mezzo di liberazione. Chi ha avuto occasione di partecipare ai pellegrinaggi nella vigilia della festa di Pasqua ha visto: devoti che giungono da ogni parte, ammalati, convalescenti, uomini, donne, bambini, ai quali Maria, o il santo invocato, ha concesso la grazia; ora sono venuti a sciogliere il voto, chi in torcia, chi in “miracoli”, chi in denaro. Gli ex voto più preziosi durante il resto dell’anno vengono custoditi con cura dalla Curia vescovile. La pratica delle tavolette votive si è interrotta anche a causa della chiusura delle botteghe artigianali e delle scuole di pittura in ex voto (Cocchiara G., op. cit.). “Qui si fanno i miracoli” era il cartello con cui venivano indicate le botteghe di pittura di ex voto a Palermo. Oggi non si leggono più insegne di questo tipo, segno che la tipologia di offerte votive è cambiata. Questo ha fatto sì che i dipinti divenissero pregevoli, rari documenti d’arte popolare, ricercati come oggetti di antiquariato dai più colti collezionisti. La maggior parte delle donazioni oggi viene fatta in denaro, sono poche le testimonianze iconografiche delle grazie ricevute. Tra le manifestazioni più recenti ricordiamo che durante l’eruzione dell’Etna nel 1992 il telegiornale ha mostrato delle immagini di una contadina che proteggeva i suoi campi di mandorli attaccandovi dei santini. Il fenomeno dell’ex voto deve essere compreso all’interno della cultura di riferimento e interpretato sulla base delle credenze del periodo storico considerato. 97 CAPITOLO SESTO LA RAPPRESENTAZIONE DELL’EPILESSIA NEGLI EX-VOTO: ANALISI DI UN GRUPPO DI TAVOLETTE VOTIVE 1. Premessa Dall’analisi delle immagini devozionali è possibile ricavare le testimonianze di concezioni eziopatogenetiche e di principi della medicina da tempo superati, che permettono di comprendere alcune connessioni tra medicina popolare e medicina ufficiale. Gli ex-voto dipinti raffigurano eventi vissuti nella sfera dell’immaginario, ed altri che devono essere considerati come fotogrammi della realtà. La forte stilizzazione delle persone e degli oggetti in essi rappresentati, la loro improbabilità rispetto ad individui ed a cose del quotidiano, sono tipiche di tutte le forme connesse all’arte popolare, assunta come chiave di rappresentazione del reale. La tavoletta votiva viene riconosciuta sia come documento di storia quotidiana sia come strumento di comunicazione, utilizzato per trasmettere storie drammatiche, disagi sociali, emarginazione. Come fatto culturale, gli ex-voto dipinti possono essere osservati da diversi punti di vista. Studiati come documenti della cultura figurativa popolare, gli ex-voto dipinti, offrono elementi interessanti per individuare quei processi che intervengono nella formazione della cultura dei ceti popolari tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Nell’ambito delle tavolette votive, così come di tutti gli altri tipi di ex-voto, il Santuario assume un ruolo di fondamentale importanza. 98 Il Santuario, infatti, veniva considerato come un luogo diverso dalla comune chiesa, essendo dotato di attributi particolari, sintetizzabili nella presenza in esso di una potenza superiore dispensatrice di grazie. La presenza del Santuario ricopre un ruolo notevole all’interno dell’appropriazione e del conseguente uso del territorio; esso rappresenta un luogo di culto particolare in cui avviene l’unificazione tra sacralità e religiosità, al quale si accede attraverso un lungo percorso penitenziale, antidoto alla natura diabolica della malattia (Lima A., 1984; Toschi P., 1971). Nei santuari, più che altrove, la spia del forte rapporto storico che li lega alle masse divengono gli ex-voto. Questi minuti e colorati documenti, sempre datati e spesso trascurati, talmente fitti, a volte, da rivestire pareti senza soluzione di continuità, costituiscono l’archivio segreto di intere comunità. Sono forse l’unica storia che il popolo ha potuto scrivere, il disegno e quanto da esso discende, analogamente ai bambini che non padroneggiano la lingua, diviene il solo mezzo di espressione. Tra i numerosi temi rappresentati nelle tavolette votive, la malattia occupa un posto di rilievo. Attraverso il loro esame si è voluto valutare come veniva rappresentata l’epilessia, malattia che, come abbiamo ampiamente discusso, in passato veniva spesso associata a fenomeni di possessione demoniaca. 2. Casistica e metodi La ricerca ha preso in esame 1.250 quadretti votivi di alcuni Santuari del sud d’Italia ed altri ex-voto facenti parte di due collezioni private, risalenti al periodo che va dalla fine del XIX all’inizio del XX secolo. Come si evince dalla tabella 1, il campione oggetto di studio è costituito da 350 tavolette del Santuario della Madonna di Altavilla Milicia (PA), 350 del Santuario dei SS. Martiri Alfio, Cirino, Filadelfio di Trecastagni (CT), 200 del Santuario della Madonna dell’Arco di Napoli, 200 del Santuario della Madonna di Pompei (NA), 100 99 della Chiesa dell’ospedale S. Marta di Catania e 50 appartenenti a due collezioni private. Le immagini sono state classificate secondo i temi rappresentati: malattie, incidenti domestici o sul lavoro, interventi chirurgici, eventi sanguinosi (risse, rapine, fucilazioni), naufragi, parti difficili, possessioni demoniache o attacchi epilettici 8. Tab. 1 – Tavolette votive esaminate Luogo N° tavolette Santuario della Madonna della Milicia - Altavilla Milicia (PA) 350 Santuario dei SS. Martiri Alfio, Cirino, Filadelfio - Trecastagni (CT) 350 Santuario della Madonna dell’Arco - Napoli 200 Santuario della Madonna di Pompei – Pompei (NA) 200 Chiesa dell’ospedale S. Marta - Catania 100 Collezioni private 50 Totale 1.250 Di ogni immagine sono state esaminate le dimensioni, l’ambientazione, la presenza del sacerdote o del medico, la presenza di elementi atti ad individuare l’evento rappresentato e il trattamento, il paesaggio, gli interni della casa, gli arredi e i rapporti tra di essi, i colori utilizzati. Successivamente, dopo aver effettuato una visione d’insieme delle caratteristiche principali del campione esaminato, si è proceduto all’analisi di un gruppo di tavolette votive riconducibili a sintomatologia convulsiva. 8 La scelta di includere nella stessa categoria la possessione demoniaca e gli episodi convulsivi è dettata dal fatto che nel passato le crisi epilettiche venivano spesso ricondotte all’intervento del diavolo. 100 3. Le tavolette votive esaminate Volendo effettuare una prima classificazione delle tavolette votive esaminate, si osserva che 444 (35,5% del totale analizzato) rappresentano una situazione di malattia, in alcuni casi con pericolo per la vita; 393 (31,4%) incidenti domestici o sul lavoro; 160 (12,8%) interventi chirurgici, 122 (9,8%) eventi sanguinosi (risse, rapine, fucilazioni); 59 (4,7%) naufragi; 44 (3,5%) parti difficili; 29 (2,3%) possessioni demoniache o attacchi epilettici (Tab. 2). Tab. 2 – Eventi raffigurati nelle tavolette votive prese in esame Evento raffigurato N. tavolette % Malattia 444 35,5 Incidenti domestici e/o sul lavoro 393 31,4 Intervento chirurgico 160 12,8 Evento sanguinoso 122 9,8 Naufragio 59 4,7 Parto difficile 44 3,5 Epilessia 29 2,3 1.250 100,0 Totale Riguardo le dimensioni, la gran parte delle tavolette ha una forma rettangolare (con la base più lunga dell’altezza) e la misura media è di 35x25 cm. Il materiale prevalentemente utilizzato dai pittori di ex-voto è il legno, nonostante il sorgere di nuove soluzioni quali la tela, il compensato, il cartone, la masonite e la latta. Di norma dipinti su tela o latta, gli ex-voto generalmente consistono di tre elementi: un’illustrazione della malattia o della preghiera, una descrizione narrativa e una rappresentazione del Santo o della divinità che ha corrisposto alla preghiera. 101 Tra le malattie la più rappresentata è la tisi, mentre a livello pittorico gli sbocchi di sangue sono molto marcati e il rosso è molto acceso. C’è sicuramente una valenza simbolica nell’accentuazione del sangue. Proprio in quanto nesso dialettico vitamorte, il sangue introduce ad una dimensione sacra. La ritualità rappresenta la trascrizione, sul piano simbolico, dell’esperienza di vita e di morte. Si pone enfasi agli aspetti drammatici di una malattia, includendo in essa i sintomi della persona sofferente che validano l’importanza dell’elemento divino nel recupero dalla sofferenza. Per quanto riguarda l’ambientazione, le scene sono sempre raffigurate nei luoghi dove verosimilmente sono accaduti gli eventi (per es. ospedale, strada, abitazione ecc.); è in genere un membro della famiglia che invoca l’aiuto divino. Molte rappresentazioni sono ambientate in casa, dove medici e familiari si prendono cura del malato. Le abitazioni sono generalmente decorate in maniera modesta e includono sempre icone religiose. I pazienti sono raffigurati a letto e, talvolta, appaiono calmi e sereni, come se la fede e la devozione li rendesse capaci di trascendere la loro sofferenza e il loro dolore. In tutti gli ex-voto analizzati è evidente l’uso simbolico magico che viene fatto del colore: l’azzurro sta a significare il divino; il bianco la luce; il nero la perdizione eterna. Gli interni della casa sono descritti molto accuratamente, soprattutto quegli elementi che toccano il privato, come la devozione alla Madonna o ad altri Santi: pareti ricoperte di immagini sacre, crocifissi, simulacri sul cassettone. La potenza divina non è vissuta come invadenza della comunità sulla storia, essa sta in alto, in genere rinchiusa in una piccola lunetta, a guardare ciò che accade. La Madonna viene collocata nella parte alta delle tavolette, circondata da un alone luminoso e da nubi; non vi è una linea retta fatta da nuvole o altro simile che divide in due piani la superficie pittorica. In alcuni casi, il Santo è raffigurato non più immobile e distante ma accanto al malato, nell’atto di toccarlo. È evidente, in questo caso, l’assunzione del principio 102 magico che, “per contatto”, rende parimenti sacro il soggetto che riceve il “tocco” divino. Quando è presente la figura di San Francesco D’Assisi, il Santo spesso è rappresentato in ginocchio. In alcuni casi è presente un prete, in altri un membro della famiglia invoca l’aiuto divino per guarire il malato; il sacerdote è descritto mentre compie le proprie funzioni ministeriali (per es. unzione dei malati). Di particolare interesse sono gli strumenti per gli interventi chirurgici: piccoli tavoli con sopra una serie di ferri, che riproducono quelli usati per la crocifissione. L’elemento in basso è la descrizione narrativa della malattia o dell’evento, che include parole di supplica ad un Santo in particolare o ad una divinità, e la descrizione del miracolo. Le tavolette votive oggetto di studio portano la sigla V.F.G.A. (Votum Fecit Gratiam Accepit) o V.F.G.R. (Votum Fecit Gratiam Recepit), nel caso in cui si tratta del tempo della promessa; mentre gli ex-voto privi di richiesta sono più propriamente voti di ringraziamento, ai quali si può riferire soltanto la seconda parte della sigla (G.R.). 4. L’epilessia nelle tavolette votive L’analisi delle 29 tavolette votive raffiguranti attacchi epilettici ha permesso di poter dare un contributo conoscitivo rispetto alla percezione della patologia nel contesto socio-culturale dei secoli scorsi. La quasi totalità delle tavolette votive oggetto di studio è ambientata in stanze in cui il malato è adagiato su un letto. Il soggetto, affetto da attacchi epilettici, è sempre circondato da uno o più familiari (coniuge, genitori, figli, fratelli, ecc.) che pregano o si inginocchiano per chiedere la grazia alla Madonna o ad uno specifico Santo, ovvero nell’atto di ringraziarli (Figg. 1-2). 103 Fig. 1 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici Fonte: Santuario della Madonna della Milicia 104 Fig. 2 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici Fonte: Chiesa dell’Ospedale di Santa Marta 105 Altre presenze riscontrate nelle tavolette votive sono quella del medico e del prete, presenti singolarmente o contemporaneamente. Ciò potrebbe essere indice dell’alternanza del binomio scienza-religione che, nei secoli passati, ha avvolto la malattia in un alone di mistero. Se, infatti, da un lato ci si rivolgeva al medico per cercare una cura contro gli attacchi convulsivi, dall’altro il prete aveva il compito di esorcizzare il malato, evidenziando la stretta connessione che intercorreva tra l’epilessia e la possessione demoniaca. Altra caratteristica evidente in molti quadretti votivi, è la presenza di unguenti e/o pozioni vicino al capezzale del malato, anche in presenza del medico. Si nota, in tal modo, la forte relazione tra la medicina popolare e quella ufficiale, esistente nella cultura dei secoli scorsi. In molti degli ex-voto esaminati, inoltre, si può osservare la presenza del crocifisso e di altri simboli religiosi (acquasantiere, candele, icone, coroncine del rosario, ecc…), che testimoniano la fede del soggetto e dei suoi congiunti. La guarigione dagli episodi convulsivi spesso viene raffigurata anche attraverso sbocchi di sangue nero, che rappresenta la liberazione dalla malattia, attraverso la fuoriuscita del maligno dal corpo (Figg. 3-4). Nelle tavolette 3 e 4 si riscontra, ai piedi del letto del malato, uno o più soggetti che, in ginocchio, invocano l’intercessione di più figure celesti. In particolare nella figura 3, accanto alla Madonna ed ai Santi, vengono rappresentati una serie di personaggi (probabilmente anche essi affetti dalla malattia) che invocano aiuto dinanzi una Chiesa. Sempre nella figura 3, l’ambiente si presenta colmo di immagini sacre alle pareti, oltre ad acquasantiere, tali da far apparire la scena un po’ confusionaria e a voler mettere in evidenza l’elemento religioso piuttosto che la malattia in sé. Altra caratteristica comune a queste due figure è la presenza del medico che, con gli occhi chiusi e la mano sulla fronte (Fig. 3) o inginocchiato (Fig. 4), ostenta un atteggiamento di disperazione e di impotenza dinanzi la malattia, evidenziando l’impotenza della medicina ufficiale dinanzi agli attacchi epilettici. 106 Fig. 3 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici Fonte: collezione privata 107 Fig. 4 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici Fonte: Santuario della Madonna di Pompei 108 In tutte le tavolette votive esaminate appare l’immagine della Madonna o del Santo protettore, a volte compresenti. Essi sono raffigurati usualmente nella parte superiore del dipinto (al centro o agli angoli), facendo ben risaltare la loro natura ultraterrena che domina la scena, in segno di devozione. Spesso le figure divine sono rappresentate all’interno di nuvole bianche, come a voler significare l’abbaglio della luce divina. In altri casi la raffigurazione dell’epilessia viene interpretata come una possessione diabolica. La stretta connessione tra epilessia e possessione demoniaca è alquanto evidente nelle figure 5 e 6, in cui viene messo in atto l’esorcismo per scacciare il demonio. Le pratiche esorcistiche, infatti, mirano a far vomitare “il maligno”, attraverso complessi rituali che rendono assai incerti i confini tra religione e magia. Nella tavoletta n. 5 un’ indemoniata viene esorcizzata da tre padri domenicani. Uno di essi pronuncia la formula di rito quasi sulla bocca della donna, mentre un altro le tiene avvolta la stola intorno al collo ed incita, con la mano, il demone ad uscire. Il risultato è una fuga disordinata di spiriti maligni che, sotto forma di pipistrelli, lasciano il corpo dell’ossessa, mentre l’arcangelo Gabriele sopraggiunge con la spada sguainata. Due congiunte sostengono la donna durante questa pratica esorcistica. Appare interessante, infine, notare come questa tavoletta non sia ambientata all’interno di una stanza, bensì in un luogo aperto. Inoltre, per quanto riguarda l’uso simbolico del colore, in questa tavoletta il nero, dominante, lascia intendere l’intensa presenza del maligno. Nella tavoletta n. 6 si osserva, invece, una donna adagiata su un letto, circondata da una corte di congiunte che pregano e da due sacerdoti che la esorcizzano. L’ossessa, tenuta per forza davanti la Santa Immagine, è cinta da quattro uomini ed è ritratta nell’atto di vomitare tre serpenti. La simmetria nella disposizione delle donne e la gestualità dei presenti, fa intendere come sia in atto una preghiera all’unisono rivolta alla Madonna, che compare, al centro della scena, insieme a Suo figlio. 109 Fig. 5 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici Fonte: Santuario della Madonna dell’Arco 110 Fig. 6 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici Fonte: Santuario della Madonna dell’Arco 111 Queste ultime due figure sono ben delimitate all’interno di una nuvola bianca che, sovrapponendosi perfettamente allo sfondo azzurro della parete, richiama il divino. La percezione dell’epilessia, quale possessione demoniaca, trova ulteriore conferma nella figura 7, che mostra un soggetto, in preda ad attacchi convulsivi, mentre viene letteralmente “strangolato” dal demonio. La patologia prende “volto” nella persona di Satana che coglie di sorpresa il soggetto, adagiato sul suo letto, sotto lo sguardo protettore della Madonna con bambino ed il Santo, nell’angolo superiore destro della scena. L’ambientazione, in questo caso, è povera di altri oggetti sullo sfondo (non vi sono suppellettili né arredi fastosi né icone alle pareti) rivelando, in tal modo, il desiderio del richiedente di comunicare l’essenzialità dell’evento. Anche il numero dei protagonisti, ridotto ad una coppia, comunica in maniera chiara il focus dell’accaduto. Altra tavoletta in cui appare chiara la presenza del demonio, associata ad attacchi epilettici, è la n. 8 in cui il soggetto, disteso sul letto, è circondato da ben tre diavoli. Uno di essi tenta di strappare il lenzuolo del malato, come se volesse attirarlo a sé; un altro tiene tra le mani un’immagine della Madonna (che il malato cerca di trattenere), mentre il terzo tenta di vanificare l’intervento liberatorio del prete. La presenza del male in questo ex-voto dipinto è rafforzata dalla raffigurazione di un serpente, animale simbolo del demonio. L’alternanza tra bene e male è accentuata anche dal contrasto tra la tenda, di colore nero, e la luce proveniente dal fondo della scena, raffigurante il Santo che veglia sull’accaduto. Dall’analisi della tavoletta, infine, si può osservare la dinamicità della scena, attraverso: i movimenti dei tre demoni, il malato che cerca invano di liberarsene, l’angelo che, con le ali spiegate, vola accanto al malato. 112 Fig. 7 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici Fonte: Santuario della Madonna della Milicia 113 Fig. 8 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici Fonte: Santuario dei SS. Martiri Alfio, Cirino, Filadelfio 114 Interessante, inoltre, appare la rappresentazione dell’epilessia nella figura 9. Questa tavoletta, a differenza delle precedenti, mostra la sconfitta del demonio da parte degli angeli. In particolare, nella scena sono dipinti due angeli, di cui uno al fianco del soggetto affetto da attacchi epilettici e l’altro, con la spada sguainata, atto ad annientare il demonio. Quest’ultimo, infatti, vinto, viene relegato in un angolo in atteggiamento di sottomissione. La scena è arricchita dalla presenza dei familiari, del prete e del medico che stanno vicino al soggetto, il quale stringe tra le mani un crocifisso. La presenza del medico, alla destra del malato, con le mani giunte, mostra un atteggiamento di impotenza, di chi si rimette all’intervento divino. Ciò denota come, nella tradizione popolare, la guarigione dall’epilessia venisse associata all’intervento soprannaturale (santi, Madonna) piuttosto che alla medicina ufficiale. Un caso particolare è la tavoletta n.10, raffigurante “S. Calogero che guarisce un epilettico”. In questo caso il Santo non è più raffigurato in alto, immobile e distante dal malato, racchiuso in una piccola lunetta, ma si trova accanto a lui nell’atto di toccarlo. Risulta evidente, così, l’assunzione del principio magico che, “per contatto”, rende parimenti sacro il soggetto che riceve il “tocco” divino. Quest’ultima tavoletta, a differenza delle altre, è realizzata in ceramica. La scena, rappresentata nella sua essenzialità (non solo per il numero dei protagonisti ma anche per il fatto che questi vengono dipinti in maniera quasi elementare), mostra in primo piano, tra i due protagonisti, le iniziali “SC” riferite proprio a S. Calogero. Il Santo viene raffigurato accanto ad una cerva che, secondo la legenda, lo nutriva con il suo latte, dato che durante la vecchiaia non poteva più chinarsi per raccogliere le erbe. 115 Fig. 9 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici Fonte: Santuario della Madonna di Pompei 116 Fig. 10 – Tavoletta votiva riconducibile ad attacchi epilettici Fonte: Collezione privata 117 CONCLUSIONI L’onnipresente conflitto tra uomo e natura e tra uomo e storia trova, presso tutti i popoli, una duplice modalità di risoluzione: l’individuo di fronte al male, spesso incomprensibile, può combattere gli eventi negativi servendosi della ragione, e modificarli, assegnandoli al dominio del controllo umano, oppure considerarli come dovuti all’azione di forze malefiche, relegandoli nell’immaginario in forma di figure, con caratteristiche variabili a seconda del contesto culturale dell’epoca. L’epilessia, in quanto espressione di un tale conflitto ed in quanto manifestazione patologica che più delle altre è ammantata di mistero e di incomprensibilità, è stata considerata da entrambe le prospettive, per cui, da un contesto prevalentemente centrato su una spiegazione ed interpretazione magico-religiosa si è passati ad una sua analisi fondata esclusivamente sulla razionalità. Così l’immaginazione popolare, basandosi su miti e leggende di atavica memoria, ha guidato l’osservazione empirica di manifestazioni epilettiche e fenomeni ad essa connessi, dando origine a teorie etiopatogenetiche e terapeutiche quanto meno bizzarre. Del resto il pensiero neuropsichiatrico non è certo riuscito ad eliminare l’influenza degli stereotipi culturali, anzi ha addirittura conferito loro una dignità scientifica. Il paradigma magico-religioso e quello scientifico sembrano essere in netta contrapposizione ma una loro analisi consente di evidenziare la presenza di elementi comuni in grado di mostrare l’azione della dimensione emozionale e di spiegare il perché dei molti atteggiamenti pregiudiziali che stigmatizzano l’epilettico. Magia e religione possono essere considerate due poli opposti di un’unica dimensione che si caratterizza per: il controllo del soprannaturale ad opera dell’uomo, la credenza del potere di tali forze, l’utilizzo di formule verbali e riti, l’uso di sostanze ritenute dotate di poteri, la fiducia nell’intervento di aiuto da parte di forze extraumane, il ricorso alla preghiera per invocare tale aiuto, i riti simbolici e i sacrifici offerti ad esseri spirituali. 118 Che si tratti di interventi divini o diabolici l’individuo ha comunque la necessità di far rientrare un fenomeno a lui incomprensibile in un universo comprensibile. La possibilità di comprensione si connette infatti ad una maggiore possibilità di controllo dello stesso fenomeno. Gli apparati simbolici della magia e della religione consentono di operare un controllo della natura secondo una correlazione di causa-effetto che si serve di un pensiero più affettivo che cognitivo. L’efficacia di queste pratiche magico-religiose non può certo essere negata: osservando le modalità di funzionamento dell’universo magico si pongono in evidenza l’azione ed il valore dei simboli, le molteplicità di combinazioni che essi consentono grazie alla loro duttilità. Il simbolo, essendo un elemento unificatore svolge anche una funzione terapeutica producendo un sentimento di partecipazione ad una forza sovra individuale che rassicura l’uomo. Il “danno reale”, quale può essere considerata una manifestazione epilettica, viene trasferito dentro gli apparati simbolici, offrendo, così, una possibilità di lettura, comprensione, soluzione del problema. Oggi la società sembra operare più che mai un controllo razionale esclusivamente cognitivo-pratico sulla natura; non c’è più posto, almeno apparentemente, per spiegazioni magico-religiose, per un universo alternativo in cui tentare un diverso approccio alla comprensione dell’esistenza e delle sue perturbazioni. La conoscenza scientifica tende ad una progressiva eliminazione di ciò che resta di simbolico nel linguaggio, ritenendo valida solo la misura esatta. Credenze magiche e concezioni pseudoscientifiche restano operanti nel contesto attuale e, cosa ancor più grave, ad un livello per lo più inconsapevole, andando a fondersi con l’intolleranza della nostra società che, essendo altamente competitiva ad avendo un orientamento narcisistico, esclude spesso il soggetto epilettico e non consente di elaborare spazi per una sua pensabilità. La spiegazione razionale ha potuto affermarsi solo grazie ad un’operazione che potremmo definire “neutralizzazione affettiva”; essa ha comportato il mettere da parte tutto ciò che non era comprensibile nell’universo del dato osservabile, tutto ciò 119 che era quindi relativo alla sfera emozionale ed irrazionale. Sono state così abbandonate spiegazioni e terapie che si basavano sulla considerazione di questi elementi. Ma qual è la funzione del rito e come esso agisce nel contesto attuale? Da un certo punto di vista il rito può essere considerato come la struttura d’insieme di quegli schemi che fungono da paradigma in un dato contesto storico e culturale, in quanto definiscono il modo in cui alcune attività relative alla società dovranno essere realizzate, sia dal punto di vista dell’immaginazione che da quello simbolico del sentimento. In questo senso esso ha una funzione fondamentale nell’economia della cultura pratica, poiché consente la realizzazione di una comunicazione affettiva senza far necessariamente ricorso al simbolismo verbale. Per queste sue caratteristiche il rito – che in alcune sue forme è stato istituzionalizzato – è sempre presente in tutte le culture di ogni tempo nelle sue forme di culto (rito sacro) e cerimonia (rito profano). Se, in generale, il rito consente un’espressione della dinamica emotiva attraverso la prescrizione di modalità convenzionali e simboliche, più specificatamente il ritualismo risponde in parte al bisogno di mantenimento dell’equilibrio sociale e costituisce così anche un meccanismo di difesa e prevenzione nei confronti della natura e del caso. Al di fuori dell’ambiente medico aspetti ritualistici possono ancora essere riscontrati nelle modalità di relazione di genitori, fratelli, insegnanti, compagni ed ambiente sociale in genere nei riguardi dell’epilettico. Essi comportano limitazioni, proibizioni, attenzioni, misure precauzionali che, molto spesso, vanno al di là degli atteggiamenti che possono essere considerati logici relazionandosi con un soggetto affetto da epilessia. I messaggi mediati da questi atteggiamenti e comportamenti hanno un’influenza ancor più deleteria su pazienti in età evolutiva, in cui si deve ancora compiere o consolidare il processo di strutturazione della personalità. Il rito può essere mezzo attraverso il quale si trasmettono una serie di credenze e valori, spesso non servendosi della comunicazione verbale diretta. Ma il rito non è 120 altro che la messa in scena di un mito ed il mito è la struttura delle credenze di un gruppo. L’alone di negatività, l’insieme dei pregiudizi, l’immagine di devianza e pericolosità costituiscono il patrimonio culturale sulla base del quale è stato elaborato il mito dell’epilettico. Attorno all’epilessia, prima che le scoperte scientifiche ne chiarissero l’origine e le cause, c’era un alone di mistero che, data la spettacolarità delle crisi, non faceva altro che incrementare paure e pregiudizi. Per molti secoli, infatti, l’epilessia è stata considerata segno di una maledizione e spesso associata e confusa con una forma di possessione demoniaca. L’unico rimedio per la famiglia dell’epilettico era, quindi, rimettersi alla volontà divina, attraverso l’invocazione di un Santo protettore e/o l’offerta dell’ex-voto in segno di richiesta della grazia o di riconoscenza per l’avvenuta guarigione. L’ex-voto è il racconto di una quotidianità di vita, carico di una tensione religiosa, atto a creare nuova religiosità. Racconta un evento, la guarigione da una grave malattia che interessa la sfera dell’individuo e abbraccia, nello stesso tempo, fatti collettivi e interventi misteriosi di tipo religioso. Si può affermare che, in quanto prodotto culturale, si collega alla storia del popolo: i singoli fatti accaduti sono vissuti come episodi di vita personale, che acquisteranno valore simbolico per tutti. È il segno di come si concepiva la malattia e la sofferenza. In particolare ciò è evidente nelle tavolette votive, in cui il pittore non fa dei sopralluoghi, ma traduce l’evento e la sua ambientazione in un codice figurativo in relazione alla condizione sociale del committente. La forza comunicativa dell’immagine è tale che le indicazioni scritte sono ridotte al minimo. Nei quadretti votivi si poteva trovare la sigla V.F.G.R. (Votum Fecit Gratiam Recepit) o V.F.G.A. (Votum Fecit Gratiam Accepit), per quelli che comportano il tempo della promessa, mentre gli ex-voto privi di richiesta sono più propriamente voti di ringraziamento, ai quali si può riferire soltanto la seconda parte della sigla (Gratiam Recepit). 121 La presenza della Madonna è una caratteristica costante e precisa degli ex-voto. Essa fa pensare ad un canone cui le varie botteghe dei pittori facevano riferimento. Il canone non è semplicemente di natura estetica, ma specificatamente rinvia a precisi contenuti religioso-teologici, propri dei moduli figurativi che le varie botteghe si tramandavano. Tra tutte le tipologie di ex-voto, le tavolette votive rappresentano probabilmente lo strumento più efficace per poter meglio comprendere la percezione della patologia epilettica nel corso dei secoli. Gli ex-voto dipinti fungono da testimonianza sia del livello di conoscenze mediche e anatomofisiologiche del tempo sulla malattia, che della tradizione popolare (credenze e superstizioni). Dalle tavolette votive è possibile fare un confronto tra le manifestazioni sintomatiche e comportamentali della crisi epilettica e quelle di possessione. In molti ex-voto dipinti, infatti, il soggetto epilettico veniva rappresentato come posseduto da spiriti maligni o in lotta con il demonio. Ciò evidenzia come, nei secoli scorsi, l’attacco epilettico fosse sinonimo di possessione demoniaca e, piuttosto che rivolgersi ad un medico, la famiglia del malato cercava l’aiuto di un esorcista o direttamente dell’intercessione della Madonna e/o di un Santo protettore. La tavoletta votiva, quindi, viene riconosciuta sia come documento di storia quotidiana che come strumento di comunicazione, utilizzato per trasmettere storie drammatiche, disagi sociali, emarginazione (Bucaro G., 1983; Lombardi Satriani LM., 1983; Caggiano P., 1990). L’obiettivo del pittore è quello di rimarcare l’eccezionalità dell’evento vissuto dal miracolato (Clemente P., 1987; Sironi V.A., 1989). Gli ex-voto dipinti devono essere considerati dei fotogrammi della realtà. Il recupero e lo studio di tali memorie non solo consentirebbe a ciascuno di appropriarsi di un vastissimo patrimonio artistico e, quindi, culturale, ma sarebbe anche un valido contributo all’approfondimento dei rapporti tra uomo e luogo, tra comunità e ambiente (Cerasoli G., 1996). 122 BIBLIOGRAFIA 1) AA.VV. Manuale di neurofarmaco-terapia. Il Pensiero Scientifico, Roma, 1992. 2) Aicardi J. Le epilessie dell’infanzia e dell’adolescenza. Edizione italiana (a cura di) GB. Cavazzuti, MC Graw-Hill, Milano, 1989. 3) Albergamo F., Fenomenologia della superstizione, in “Uomo e cultura”, n.1-2, Palermo, 1968. 4) Amitrano Savarese A.M., Roccella M., Lo Balbo B., D’Iapico N.: The child with convulsive seizures in the painted ex-voto. Boll Lega It Epil, 112/114, 2001. 5) Amitrano Savarese AM., Roccella M., Lo Balbo B., The figure of child with convulsive crisis in Sicilian painted ex-voto. Epilepsia, 41, Suppl. 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