Il vecchio e il Terrano Il vecchio camminava spedito lungo la strada che portava dalla città all’altopiano carsico. Dietro di lui il nipote era indaffarato a catturare le farfalle che capitavano a tiro con una capiente, leggera, rete montata su un lungo manico. Erano circa le cinque del pomeriggio, faceva caldo e non soffiava neanche un alito di vento. Le foglie sugli alberi erano immobili mentre le cicale frinivano aggrappate ai rami, sotto il sole cocente. Il cammino era lungo e di tanto in tanto il vecchio si fermava per prendere fiato e per asciugare la fronte dal sudore con un grande fazzoletto colorato. Il bambino spesso si inoltrava nei piccoli sentieri che si dipartivano dalla strada principale e sbucavano nelle radure che la fiancheggiavano alla ricerca di nuove specie di lepidotteri. Dovevano percorrere ancora almeno altri 7 chilometri per giungere a destinazione, nel paese più vicino posto sul ciglione dell’altopiano. Lì ad attenderli c’era un compagno d’armi con cui il nonno aveva condiviso vicissitudini militari e, dopo la guerra, passeggiate estive alla ricerca di un po’ di frescura lungo le numerose strade alberate che correvano fra un abitato e l’altro, a oltre 300 metri di altitudine. Finalmente arrivarono in vista delle prime case e poco dopo si trovarono nella piazza del paese. Il luogo d’incontro dei due vecchi amici era l’osteria vicino alla chiesa dove di solito si sedevano sulle panche che circondavano il grande tiglio secolare i cui fiori in primavera emanavano un profumo intenso e ora era ricco di piccole bacche verdi, riunite a grappolo. L’osteria fino ai primi del ‘900 era stata una stazione di posta, dove si fermavano le diligenze che facevano servizio di trasporto pubblico. Si raccontava che sotto quella pianta antica si erano seduti anche grandi personaggi della cultura mitteleuropea a meditare e forse a trovare ispirazione per le loro opere. Il paese si trovava infatti sulla direttrice che dal Centro Europa arrivava al mare, percorsa nei secoli da milioni di viaggiatori. Naturalmente la sosta in un ambiente come quello descritto prevedeva anche uno spuntino prima della cena. La cosa migliore da gustare era il prosciutto crudo locale, una coscia magra di maiale allevato allo stato brado, salato e stagionato nelle cantine umide ma arieggiate dei contadini, leggermente affumicata con ginepro e alloro. Tagliato rigorosamente a mano a fette non troppo sottili accompagnate da cetrioli sottaceto e qualche oliva kalamata, arrivava in tavola annunciato da un profumo intenso e aromatico. Richiedeva un’attenta masticatura, che peraltro donava al palato una voluttuosa sensazione e in bocca, con i bocconcini di un piccolo panino intrecciato condito con semi di papavero, formava un perfetto connubio. A esaltare e contemporaneamente a temperare questo sapore, così deciso da coinvolgere ogni papilla gustativa, non poteva mancare un buon bicchiere di Terrano, l’unico vino rosso autoctono prodotto sull’altopiano carsico. Quando sulla piccola tavola di legno, invecchiata dalle intemperie e affiancata alla panca su cui erano seduti, la cameriera pose la brocca con il vino, il nipote notò l’intenso colore rosso del liquido che traspariva oltre il vetro. Il nonno si accorse dell’attenzione del bimbo e gli chiese se sapesse il perché questo vino fosse di un colore così rosso acceso. Il bambino ci pensò su per qualche attimo e rispose: forse perché la vite che produce l’uva cresce nella terra rossa del Carso. Il nonno scosse la testa e disse: no bambino mio, il Terrano è di questo colore perché è il sangue dei numerosissimi poveri soldati morti in questa sassosa regione per conquistare un lembo di terra e di altri soldati che invece perirono per impedire la perdita di un territorio che possedevano da più di cinque secoli. Bernardino de Hassek