2
Nozioni preliminari
Nel capitolo precedente abbiamo osservato che la parola parola è ambigua, in quanto nel nostro
parlare quotidiano la usiamo per riferirci a oggetti di tipi diversi, tra i quali possiamo distinguere,
con appositi termini tecnici, lessemi, forme flesse e/o forme contestuali, e occorrenze.
Nel seguito di questo libro continueremo, soprattutto nei primi capitoli, a usare qualche volta la
parola parola, quando non sia indispensabile fare riferimento alle distinzioni sopra introdotte, o
come iperonimo delle nozioni di lessema e forma.
Tutti noi usiamo le parole continuamente, e abbiamo delle idee su come esse siano fatte e su che
rapporti abbiano con altre parole. Alcune delle cose che sappiamo sulle parole sono parte della
nostra competenza di parlanti nativi di una lingua: ad esempio, sappiamo che il lessema MATITA
vuol dire “strumento per scrivere e disegnare costituito da un bastoncino nero o colorato racchiuso
in un cannello di legno”, e che la forma matita fa rima con partita, finita, ittita, ecc., e può essere
preceduta dagli articoli la e una ma non da il e un, e molte altre cose ancora.
Altre delle idee che abbiamo su come sono fatte le parole non ci vengono dalla nostra competenza
di parlanti, ma da quello che abbiamo studiato a scuola. A partire dalle elementari, e in alcuni casi
fino alla fine delle superiori, ci è stato presentato un insieme di termini con cui nominare le
caratteristiche e le parti delle parole dell’italiano e delle altre lingue che abbiamo studiato.
Questa terminologia non è neutra: è invece il frutto di una serie di tradizioni di studio, spesso
distinte tra loro e incrociate in epoca moderna, a volte dando luogo ad incoerenze.
Non è tra gli obiettivi di questo volume ripercorrere la storia di tutti i termini tecnici utilizzati per le
nozioni che rientrano nel campo di studio della morfologia. Qui di seguito richiameremo però
alcuni dei termini e dei concetti più comunemente utilizzati nell’insegnamento pre-universitario (e
qualche volta anche in corsi universitari di materie diverse dalla linguistica) e nelle opere descrittive
non specialistiche, quali vocabolari, grammatiche e manuali per lo studio delle lingue straniere.
Molti dei concetti e dei termini introdotti in questo capitolo saranno ripresi e meglio definiti (ed
eventualmente messi in discussione) nei capitoli successivi, ma richiamarli all’inizio è
indispensabile per avere un vocabolario minimo comune utilizzabile per fare riferimento ai
fenomeni in discussione.
2.1
L’analisi grammaticale
Molto di quello che sappiamo delle parole dipende dal fatto che a scuola siamo stati addestrati a
fare un’operazione che nella terminologia tradizionale dell’insegnamento si chiama analisi
grammaticale.
L’analisi grammaticale si occupa di analizzare le occorrenze delle forme dei lessemi, non
direttamente i lessemi. Ad esempio, l’analisi grammaticale minima di una parola come casa è
“sostantivo1 femminile singolare”; un’analisi più ricca può definire casa come “nome comune di
cosa, concreto, femminile, singolare”.
Si osservi che alcune delle informazioni che vengono date nell’analisi grammaticale di
un’occorrenza si riferiscono all’intero lessema che l’occorrenza rappresenta, mentre altre si
riferiscono solo alla specifica forma che l’occorrenza rappresenta: le proprietà “nome comune di
cosa, concreto, femminile” rimangono vere anche se analizziamo un’occorrenza della forma case
del lessema CASA, mentre la proprietà “singolare” è vera per la forma casa, ma se analizziamo case
l’analisi grammaticale dovrà essere “nome comune di cosa, concreto, femminile, plurale”.
Vediamo ora un altro esempio. Se facciamo l’analisi grammaticale della forma belle, diremo che si
tratta di un “aggettivo qualificativo, femminile, plurale”. Anche qui, una parte di questa
informazione è vera per tutte le forme del lessema BELLO: tutte le forme di questo lessema sono
1
Nella terminologia tradizionale, i termini sostantivo e nome sono usati abbastanza intercambiabilmente. Nella
tradizione lessicografica italiana prevale l’uso di sostantivo, mentre nella linguistica moderna prevale l’uso di nome, per
evitare le connotazioni filosofiche del termine sostantivo. Nel seguito di questo libro utilizzeremo il termine nome.
infatti aggettivi qualificativi. Ma, diversamente da quanto accade per il nome, un lessema italiano di
categoria aggettivo non mantiene sempre lo stesso genere, ma ha forme flesse per i due generi, oltre
che per i due numeri: il lessema italiano BELLO ha quindi le quattro forme flesse bello, bella, belli,
belle, rispettivamente maschile singolare, femminile singolare, maschile plurale e femminile
plurale.
Questo esempio mostra che le caratteristiche delle parole prese in considerazione dall’analisi
grammaticale possono avere uno status diverso in lessemi di categorie diverse: mentre nei nomi il
genere è una proprietà del lessema, il cui valore rimane invariato in tutte le sue forme flesse (non
esiste “il maschile di CASA”!), negli aggettivi un certo valore di genere non è una proprietà del
lessema ma solo delle singole forme flesse: gli aggettivi hanno forme flesse dei due generi.
Analizziamo ora una forma verbale, ad esempio mangiano. Si tratta della “terza persona plurale del
presente indicativo attivo del verbo transitivo MANGIARE”. Qui troviamo, al solito, informazioni che
riguardano l’intero lessema MANGIARE (il fatto che si tratta di un verbo transitivo) e informazioni
sulla specifica forma mangiano (il fatto che si tratta della terza persona plurale del presente
indicativo attivo). Il numero di informazioni contenute nell’analisi grammaticale di questa forma è
molto superiore a quello delle informazioni riguardanti forme di nomi o di aggettivi. Inoltre, la
natura delle informazioni presentate per questa forma verbale è in parte diversa da quella delle
informazioni date per nomi e aggettivi: sia nell’analisi della forma verbale che in quella delle forme
di nomi e aggettivi abbiamo trovato l’informazione “plurale”, ma solo per i nomi e gli aggettivi
abbiamo trovato un’informazione come “femminile”, solo per l’aggettivo abbiamo trovato
un’informazione come “di grado positivo”, e solo per il verbo abbiamo trovato informazioni come
“terza persona”, “presente”, “indicativo”, “attivo”.
L’analisi di questi pochi esempi ci è servita per richiamare alla mente una serie di conoscenze che
abbiamo sulle parole.
Una prima cosa che sappiamo è che i lessemi appartengono a categorie diverse, come per esempio
nomi, verbi, aggettivi. Queste categorie sono tradizionalmente chiamate parti del discorso2; nella
terminologia della linguistica moderna, le parti del discorso sono spesso denominate classi di
parole (denominazione che porta con sé la ormai a noi ben nota ambiguità del vocabolo parola),
oppure categorie lessicali, o anche, con termini che presentano alcuni svantaggi, categorie
sintattiche o categorie grammaticali3. Nel seguito di questo libro useremo intercambiabilmente il
termine tradizionale parti del discorso e quello moderno categorie lessicali, mentre eviteremo di
usare, per riferirci a categorie come “nome”, “verbo”, ecc., gli altri termini appena elencati.
Le diverse parti del discorso, cioè le diverse categorie lessicali, se non comprendono solo lessemi
invariabili (come ad esempio gli avverbi) presentano un numero e un tipo di forme flesse diverso
per ogni categoria. Le forme flesse dei lessemi di una certa categoria portano informazioni di vario
tipo: ad esempio, le forme flesse degli aggettivi italiani portano informazioni sul genere, sul numero
e sul grado della forma, quelle dei verbi su persona, numero, tempo/ aspetto, modo e voce o diatesi.
La terminologia dell’insegnamento grammaticale tradizionale non comprende un iperonimo sotto il
quale siano raggruppate categorie come persona, numero, modo, ecc.; nella terminologia della
linguistica moderna, queste categorie sono denominate categorie grammaticali o categorie
Si osservi che l’espressione « parte del discorso » è piuttosto infelice. Essa traduce l’espressione latina pars orationis,
a sua volta traduzione del greco μέρη του λόγου; sia l’espressione greca che quella latina potrebbero tradursi meglio
come “parte della frase”. Tuttavia l’espressione parte del discorso è ormai affermata nell’uso italiano, e continueremo
quindi ad utilizzarla.
3
Nei principali manuali di linguistica in lingua italiana oggi correnti, le parti del discorso sono chiamate “classi di
parole” o “parti del discorso” o “categorie lessicali” o “classi lessicali” da Berruto (1997, p. 62), “parti del discorso” o
“categorie lessicali” da Graffi, Scalise (2002, p. 178), “parti del discorso” da De Mauro (2003, p. 44), “classi di parole”
e “parti del discorso” da Simone (1990, pp. 282-286), e “categorie grammaticali” nella Grammatica italiana di Serianni
(1988, cap. II.1). Il termine categoria sintattica è usato per lo più nel senso di parte del discorso, ma in Serianni (1988,
cap. II.1) è usato per riferirsi a quelle che in linguistica sono più comunemente denominate relazioni grammaticali o
funzioni sintattiche, cioè soggetto, oggetto, ecc. [funzioni grammaticali]
2
morfosintattiche (cfr. Matthews 1991, p. 39).4 Nel seguito di questo libro useremo
intercambiabilmente questi due termini.
Le categorie grammaticali, o morfosintattiche, presentano in lessemi diversi, e/o in forme flesse
diverse di uno stesso lessema, diversi valori: ad esempio, il lessema CASA presenta il valore
femminile nella categoria del genere, mentre il lessema LIBRO presenta il valore maschile della
stessa categoria. Nel caso del lessema BELLO, che appartiene alla categoria lessicale degli aggettivi,
la forma flessa bello presenta il valore singolare nella categoria grammaticale numero, e il valore
maschile nella categoria grammaticale genere, mentre la forma flessa belle presenta il valore plurale
nella categoria numero, e il valore femminile nella categoria genere. Nella terminologia
dell’insegnamento grammaticale tradizionale non esiste un termine specifico per indicare quelli che
qui abbiamo chiamato valori delle categorie grammaticali; nella terminologia della linguistica
moderna, questi elementi vengono chiamati valori o proprietà morfosintattiche (cfr. Matthews 1991,
p. 40) o anche tratti morfosintattici.5 Il termine morfosintattico è usato in riferimento al fatto che i
tratti in questione sono contenuti in entità di ordine morfologico, le parole (intese sia come lessemi
che come forme flesse), ma hanno rilevanza per l’interpretazione di entità di ordine sintattico, quali
i sintagmi e le frasi (ad esempio, un tratto di numero è proprietà di un intero sintagma nominale,
non solo del nome che ne è testa NON ANCORA DEFINITO; un tratto di tempo è proprietà di
un’intera frase, non solo del suo verbo).
Osserviamo infine che l’analisi grammaticale tradizionale non prevede una trattazione particolare
del problema posto dalle forme contestuali dei lessemi (cfr. cap. 1.3). Bello è una forma flessa di
BELLO, ma anche una sua forma contestuale, che è in distribuzione complementare con le forme bel
e bell’ (un bel / *bello / *bell’ ragazzo, un bell’ / *bello / *bel amico, un amico bello / *bell’ / *bel),
forme che presentano gli stessi valori di bello nelle categorie di genere e numero; l’analisi
grammaticale tradizionale non fa menzione di questo aspetto della forma bello, limitandosi alla
specificazione dei valori presentati da questa forma nell’ambito delle categorie grammaticali
proprie della categoria lessicale aggettivo in italiano.
Riassumendo, i lessemi appartengono a categorie lessicali (o parti del discorso); i lessemi
appartenenti ad alcune categorie lessicali (quelle che non comprendono solo lessemi invariabili)
esprimono determinate categorie grammaticali (o categorie morfosintattiche); ogni categoria
grammaticale presenta in ciascuna forma flessa di un lessema un determinato valore o tratto
morfosintattico.
2.2
Le classi di flessione: coniugazioni e declinazioni
Ci sono anche altre informazioni che abbiamo sulle parole, perché siamo parlanti nativi di una
lingua o perché la abbiamo studiata. Ad esempio, tutti noi parlanti nativi dell’italiano sappiamo
utilizzare correttamente le forme flesse dei lessemi CASA, ARMA e PILOTA, costruendo espressioni
come quelle in (1):
(1)
a.
una casa, due case, tre case…
Dunque il termine “categoria grammaticale” da alcuni autori (come Serianni, 1988) è usato per indicare una parte del
discorso (per esempio, nome), da altri per indicare un ordine di significati grammaticali espressi dai lessemi
appartenenti a una determinata parte del discorso o dalle loro forme flesse (per esempio, il numero). Quelle che qui
chiameremo categorie grammaticali (cioè genere, numero, tempo, ecc.) sono chiamate “categorie grammaticali” da
Berruto (1997, p. 61) e Simone (1990, cap. 9), “categorie flessionali” da Graffi, Scalise (2002, p. 178), “categorie
previste dalla grammatica di una lingua” da De Mauro (2003, p. 43).
4
5
Una diversa proposta terminologica, finora salvo errore non adottata in opere in lingua italiana, è contenuta in
Haspelmath, 2002, pp. 60-61, che chiama inflectional dimensions ciò che qui abbiamo chiamato categorie
grammaticali, e inflectional categories ciò che qui chiameremo valori o tratti o proprietà morfosintattiche.
Spesso inoltre non si distingue terminologicamente tra una categoria grammaticale o morfosintattica e i suoi possibili
valori o tratti o proprietà, e si trovano formulazioni quali “la categoria del numero” e “la categoria del singolare”, o
anche “il tratto di numero” e “il tratto di singolare”, anche in uno stesso autore. In questo libro cercheremo di osservare
invece sempre una distinzione terminologica tra i due livelli.
b.
c.
un’arma, due armi, tre armi…
un pilota, due piloti, tre piloti…
Sappiamo che il plurale di CASA è case, quello di ARMA è armi, e quello di PILOTA è piloti. A
pensarci bene, non si tratta di conoscenze banali: noi sappiamo che due nomi femminili che al
singolare finiscono in -a, come CASA e ARMA, formano il plurale in modo diverso, uno sostituendo
la -a finale con -e e l’altro sostituendola con -i; e sappiamo anche che il nome PILOTA, che al
singolare finisce anch’esso con -a, ma è maschile, forma il plurale sostituendo la -a con -i, come
ARMA che è femminile, ma non come CASA, che è femminile quanto ARMA e finisce con -a quanto
ARMA e PILOTA.
Tutte queste cose le sappiamo in quanto parlanti nativi dell’italiano. Se interrogati su perché questi
nomi si comportano così, probabilmente non sapremmo che cosa aggiungere: sappiamo che è così
perché ce lo dice la nostra competenza di parlanti nativi, ma probabilmente non sappiamo
inquadrare il fenomeno facendo ricorso a concetti teorici di un livello superiore.
Come parlanti dell’italiano, sappiamo anche che se vogliamo dire che i fatti descritti dalle frasi (2a
– 4a) hanno avuto luogo ripetutamente nel passato possiamo usare le frasi (2b – 4b):
(2)
(3)
(4)
a.
a.
a.
Lo chiamo spesso
Lo temo molto
Dormo poco
b.
b.
c.
Lo chiamavo spesso
Lo temevo molto
Dormivo poco
Sappiamo che alle tre forme di prima persona singolare del presente indicativo chiamo, temo e
dormo corrispondono le tre forme dell’imperfetto chiamavo, temevo e dormivo, e non, per esempio,
*chiamevo, *temivo e * dormavo. Se interrogati sul perché è così, potremmo rispondere che è così
perché chiamo è una forma del verbo CHIAMARE, e il verbo CHIAMARE è un verbo della prima
coniugazione, e tutti i verbi della prima coniugazione hanno una prima persona singolare
dell’imperfetto che finisce in -avo, e non in -evo (come i verbi della seconda coniugazione) o in -ivo
(come i verbi della terza coniugazione). Questo tipo di spiegazione riusciamo a darla perché a
scuola ci è stato detto esplicitamente che i verbi dell’italiano si raggruppano in diverse classi di
flessione, dette coniugazioni: i verbi che appartengono a una stessa coniugazione formano le
proprie forme flesse nello stesso modo, e in un modo che può essere diverso da quello adottato in
un’altra coniugazione.
A questo punto potremmo ripensare ai casi italiani visti in (1), e chiederci se i diversi modi di
formare il plurale dei diversi nomi visti in (1) non si possano spiegare come dovuti al fatto che
questi nomi appartengono a diverse classi di flessione. La risposta è sì: anche i nomi italiani, come i
verbi, possono essere raggruppati in classi di flessione in base al modo in cui formano le proprie
forme flesse. CASA appartiene alla stessa classe di flessione di ARPA, VITA, ROSA, e migliaia di altri
nomi che hanno il singolare in -a e il plurale in -e; ARMA e PILOTA appartengono alla stessa classe di
POETA, PAPA, CLIMA, e alcune centinaia di altri nomi che hanno il singolare in -a e il plurale in -i. I
nomi italiani sono raggruppabili in diverse classi di flessione, ma nella nostra tradizione di
insegnamento grammaticale non si è fatto molto uso di questa possibilità, e non si è affermato
quindi un sistema di denominazione o numerazione delle classi da tutti condiviso, con classi ben
definite e addirittura numerate, come le tre coniugazioni del verbo (o le cinque declinazioni del
nome in latino).6 Probabilmente ciò è accaduto perché il numero di forme flesse dei nomi italiani è
molto basso (si hanno solo due forme, il singolare e il plurale). La possibilità di raggruppare lessemi
di una stessa categoria lessicale in classi di flessione è invece stata adottata nella tradizione
grammaticale italiana PERCHE GIA LATINA ECC.? per quanto riguarda i verbi: tutti noi abbiamo
imparato fin dalle elementari la classificazione tradizionale dei verbi italiani in tre coniugazioni, che
Per approfondimenti sulle classi di flessione del nome italiano si rimanda a D’Achille, Thornton, 2003, che
propongono le seguenti classi: 1 sg. –o / pl. –i (es. libro/libri), 2 sg. –a / pl. –e (es. casa/case), 3 sg. –e / pl. –i (es.
fiore/fiori), 4 sg. –a / pl. –i (es. poeta/poeti), 5 sg. –o / pl. –a (es. uovo/uova), 6 invariabile (es. re, gru, città, specie,
crisi, foto…).
6
vengono indicate, facendo riferimeno alla terminazione della forma di citazione dei lessemi verbali
italiani (l’infinito): la prima coniugazione comprende i verbi in -are, la seconda i verbi in -ere, la
terza i verbi in -ire.
Riassumendo, in questo paragrafo abbiamo riflettuto sul fatto che parte della nostra conoscenza
delle parole comprende l’informazione che i lessemi che appartengono a una certa parte del
discorso (i nomi, i verbi, ecc.) possono essere raggruppati in classi di flessione, che comprendono
tutti i lessemi che formano le proprie forme flesse nello stesso modo. Le diverse tradizioni
grammaticali possono dare riconoscimento esplicito all’esistenza di queste classi (come si è fatto
per le declinazioni del nome in latino, e per le coniugazioni del verbo sia in italiano che in latino),
oppure no (come nel caso delle classi di flessione del nome in italiano).
2.3
Rapporti tra forme flesse: i paradigmi
Un tema che finora non abbiamo affrontato esplicitamente è quali siano i rapporti tra le diverse
forme flesse di uno stesso lessema, che innegabilmente presentano parziali identità nel significante
e nel significato.
Nella trattazione sulle forme flesse fin qui svolta, abbiamo usato formule del tipo “belli è la forma
flessa maschile plurale di BELLO”, “belle è la forma flessa femminile plurale di BELLO”, ecc. Questo
modo di concepire i rapporti tra queste forme è quello proprio della tradizione grammaticale grecolatina, ed è stato denominato modello a “parola e paradigma” (in inglese, “word and paradigm”)7.
Dopo quello che abbiamo detto sull’ambiguità del termine parola, ci renderemo conto che sarebbe
più corretto denominare il modello “lessema e paradigma”: tuttavia, poiché la formula “parola e
paradigma” (e soprattutto il suo equivalente inglese) è in uso da decenni, potremo continuare ad
usarla, a patto di tenere ben presente che in essa parola va intesa nel senso di lessema. Il
paradigma di un lessema è l’insieme delle sue forme flesse.8 In un modello a parole e paradigma,
le forme flesse di un lessema appartenente a una certa categoria lessicale sono concepite come
realizzazioni di determinati valori delle categorie grammaticali proprie dei lessemi di quella
categoria lessicale. La realizzazione di questi valori è concepita come proprietà dell’intera forma
flessa, e non di sue singole sottoparti. È l’intera forma bello a essere maschile e singolare, non sue
singole componenti.
Tutti i lessemi appartenenti a una stessa categoria lessicale hanno paradigmi strutturati nello stesso
modo. Nelle figure 1 e 2 presentiamo la struttura dei paradigmi dei nomi e degli aggettivi in
italiano.
Numero
singolare
7
plurale
Cfr. Robins (1959), Matthews, 1991, cap. 8.
La parola paradigma (dal greco παράδειγμα) significa originariamente “modello”. Questo lessema è entrato a far parte
dei termini tecnici della linguistica tramite l’uso che se ne è fatto nella tradizione dell’insegnamento delle lingue
classiche. Nell’insegnamento scolastico tradizionale di una lingua come il latino, agli alunni veniva presentato e fatto
memorizzare l’insieme delle forme di un lessema-modello, ad esempio il nome ROSA: rosa, rosae, rosae, rosam, rosa,
rosā, rosae, rosārum, rosīs, rosās, rosae, rosīs. Sulla base di questo modello, gli alunni potevano dedurre le forme di
altri lessemi appartenenti alla stessa classe di flessione, conoscendone solo nominativo e genitivo singolare, cioè le due
forme di un nome riportate nei vocabolari. Quantomeno nella tradizione scolastica italiana, la parola paradigma ha
subito anche uno slittamento di significato, ed è a volte utilizzata per riferirsi non all’insieme di tutte le forme di un
lessema, ma al ristretto sottoinsieme di forme di un lessema latino sulla base delle quali (conoscendo anche l’intero
paradigma di un lessema-modello appartenente alla stessa classe di flessione) è possibile dedurre tutte le altre forme del
lessema in questione. Testimoniano questo slittamento semantico usi nei quali ci si riferisce a sequenze quali amō,
amās, amāvi, amātum, amāre, o ferō, fers, tuli, lātum, ferre denominandole rispettivamente “paradigma di AMO” e
“paradigma di FERO”, benché queste sequenze non rappresentino l’intero insieme delle forme di questi lessemi.
8
Figura 1
La struttura del paradigma di un nome in italiano
Numero
singolare
plurale
maschile
Genere
femminile
Figura 2
La struttura del paradigma di un aggettivo in italiano
Le diverse forme flesse di un lessema possono essere rappresentate in modo da occupare ciascuna
una cella di un paradigma: ad esempio, per il lessema CASA la forma casa occupa la cella del
singolare, e la forma case la cella del plurale. Se un lessema che appartiene a una parte del discorso
variabile presenta anche forme contestuali, più forme contestuali possono occupare una stessa cella
del paradigma: ad esempio, il paradigma di BELLO si presenta come in Figura 3:
Numero
singolare
plurale
bello
belli
bel
begli
bell’
bei
bella
belle
bell’
Figura 3
Il paradigma del lessema BELLO in italiano
Tutti noi abbiamo però ben presente che è possibile assumere un punto di vista diverso sui rapporti
tra le diverse forme flesse di un lessema. Secondo questo nuovo punto di vista, che è confluito con
il precedente nel corpus di conoscenze che costituiscono l’oggetto dell’insegnamento grammaticale
scolastico tradizionale, sono certe specifiche sottoparti delle forme flesse a portare certi valori delle
proprietà morfosintattiche che la forma realizza. Sicuramente ci sono familiari formulazioni quali la
seguente: “in bello, bell- è la radice e -o la desinenza del maschile singolare”.
Questo tipo di formulazione esprime un punto di vista completamente diverso da quello del modello
a parole e paradigmi, il punto di vista secondo cui le forme flesse sono scomponibili in diversi
elementi, ciascuno portatore di una parte del significato globale dell’intera forma. Il modello che
assume questo punto di vista sulla costituzione delle forme flesse è stato chiamato modello a
“entità e disposizioni” (in inglese, “items and arrangement”).
Nei capitoli che seguono terremo sempre presenti questi due tipi di modelli, e ne illustreremo via
via le caratteristiche.