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Parola
Tradizionalmente, la morfologia è definita come la disciplina che studia la struttura interna delle
parole. La sua esistenza è quindi fondata sull’esistenza delle parole. È allora necessario definire
che cos’è una parola. Sulla definizione di “parola” si sono versati fiumi di inchiostro. Molti
linguisti si sono dedicati all’analisi di questa nozione, mettendo in luce diversi elementi che
senz’altro devono essere presi in considerazione quando si cerca di dare una definizione di questa
entità. Di fatto non si è giunti a una definizione assoluta, universalmente valida e accettata, ma si
sono evidenziati diversi elementi che contribuiscono alla definibilità di questa nozione. Un
elemento importante è il fatto che i parlanti delle lingue di solito hanno una nozione intuitiva di
parola, che permette loro di compiere operazioni come scandire un enunciato parola per parola,
contare le parole che compongono un enunciato, fare elenchi di parole con una data caratteristica.
Ma la parola parola è in realtà usata dai parlanti con valori diversi in contesti diversi. Per
impostare uno studio scientifico della nozione di parola è necessario rendersi conto di questi
diversi valori che la parola parola ha nel nostro uso comune, preteorico, e poi imparare ad
utilizzare dei termini tecnici per nominare in modo diverso ciascuno dei diversi valori identificati.1
1.1. Occorrenze
Partiamo da un semplice esercizio. Esaminiamo la frase (1):
(1)
Gli amici dei miei amici sono miei amici.
Quante parole ci sono in questa frase?
Una prima risposta può essere “8”. La risposta “8” non è né esatta né errata: è una delle risposte
possibili, che ci permette di identificare un primo senso della parola parola nel nostro uso comune.
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In questa sede non trattiamo dei diversi criteri che sono stati proposti per determinare se una certa sequenza costituisce
una parola o un’entità linguistica di livello inferiore o superiore alla parola. Ad esempio, il criterio dell’essere
enunciabile in isolamento, preceduto e seguito da pause, e del poter costituire un enunciato, permette di distinguere una
parola, come questo, da una sua sottoparte, come -o. (Sottoparti di una parola sono enunciabili in isolamento solo quando
si producono enunciati con funzione metalinguistica). Ma ovviamente sono enunciabili in isolamento anche sintagmi,
come questo ragazzo. Per distinguere tra una parola e un sintagma si ricorre allora al criterio della non interrompibilità:
in un sintagma posso di norma inserire del materiale (altre parole) tra due elementi, in una parola no: poiché posso dire
questo bravo ragazzo, questo povero ragazzo, interrompendo la sequenza questo ragazzo, tale sequenza non è una
parola. Non posso invece interrompere la sequenza questo inserendo in essa altro materiale (*que-ragazzo-sto, *questragazz-o, ecc.), e ciò dimostra che questo è in italiano una parola. Lo stesso vale per parole come pescecane: benché, a
differenza di questo, la parola pescecane sia in qualche senso formata da due parole, essa costituisce comunque una
parola unica, in quanto non è interrompibile: * pesce-feroce-cane / pescecane feroce. Per una trattazione introduttiva sui
criteri che permettono di discriminare fra parole e sequenze che non sono parole, cfr. Donati (2002, cap. 1), Simone
(1990, cap. 5.6); più approfondita la trattazione in Lyons (1975, cap. 5.4).
Chi ha dato questa risposta ha contato gli elementi che si presentano, nella rappresentazione
ortografica della frase, come una sequenza continua di lettere isolata da due spazi bianchi, o da uno
spazio bianco e un altro separatore. Sono separatori, oltre allo spazio bianco, i segni di
interpunzione e l’apostrofo. Nella frase (1) l’ultima parola è preceduta da uno spazio bianco, ma è
seguita da un punto (<.>), non da un altro spazio bianco: nel contare le parole della frase,
l’abbiamo comunque contata come una parola; lo stesso avremmo fatto con la parola amico se
l’avessimo trovata nella sequenza l’amico. Per riferirci alla parola intesa come elemento compreso
tra due separatori in un testo scritto possiamo usare il termine tecnico parola grafica.
Ma la nozione di parola grafica non esaurisce i valori che la parola parola può avere nell’uso
comune. Alcuni lettori, alla domanda posta poco fa, avranno risposto “5”. Anche questa risposta
non è in assoluto né giusta né sbagliata, ma permette di cogliere un altro senso della parola parola.
Chi ha risposto “5” ha osservato che alcune parole grafiche si ripetono nella frase più di una volta:
amici si ripete tre volte, e miei due volte. In termini tecnici, possiamo dire che amici ricorre o
occorre tre volte, e miei ricorre o occorre due volte nella frase (1). Nella frase (1) abbiamo quindi
otto occorrenze di cinque diverse parole grafiche.
1.2. Lessemi
Possiamo ora fare un secondo esercizio: cerchiamo su un vocabolario della lingua italiana le parole
che compongono la frase (1). Ci accorgeremo subito che per compiere questa operazione non
possiamo semplicemente cercare sul vocabolario, al loro posto in ordine alfabetico, le diverse
parole grafiche che abbiamo identificato: non ne troveremmo nemmeno una. Abbiamo imparato a
scuola che per cercare una parola sul vocabolario dobbiamo sempre prima compiere
un’operazione: ricondurre la parola che abbiamo davanti alla sua forma di citazione. In pratica,
nel nostro caso, dobbiamo ricondurre gli a IL, amici ad AMICO, miei a MIO, sono a ESSERE (di dei
tratteremo fra breve). Questa operazione si basa sul riconoscimento del fatto che tra amici e amico
(così come tra gli e il, sono e essere, ecc.) c’è una relazione particolare: si tratta, detto in termini
non tecnici, di due forme della stessa parola. In termini tecnici, diciamo che amici e amico sono
due forme flesse di uno stesso lessema, AMICO.
Il concetto di lessema ci permette di cogliere un altro dei sensi in cui nel parlare comune usiamo la
parola parola. Un lessema è un elemento dotato di un significato lessicale (ad esempio, AMICO
significa “persona con cui si ha un legame di affetto, di amicizia”), che appartiene a una certa
classe di parole (per esempio, IL è un articolo, ESSERE è un verbo, ecc.; cfr. cap. 2.1), ed è
rappresentabile da una o più forme (ad esempio, IL è rappresentabile da il, lo, gli, ecc.; ESSERE è
rappresentabile da sono, sei, era, saremmo, ecc.). Il lessema è un’unità di un livello più astratto di
quello al quale appartengono le sue diverse forme: il significato del lessema AMICO è indipendente
dal fatto che in certi enunciati esso sia usato nella forma flessa singolare amico e in altri nella
forma flessa plurale amici. È importante inoltre distinguere sempre tra il lessema AMICO, che è
un’entità astratta, e la forma flessa maschile singolare amico, che è un’entità meno astratta.
Nei vocabolari le informazioni su un determinato lessema sono riportate in una voce (tecnicamente
un lemma) che è ordinata alfabeticamente in base a una sola forma del lessema, detta forma di
citazione. Le tradizioni grammaticali e lessicografiche di diverse lingue possono differire nella
scelta delle forme flesse da usare come forme di citazione: per esempio, in italiano si usa il
singolare dei nomi, il maschile singolare degli aggettivi, l’infinito dei verbi; in latino e greco, per i
verbi si usa la prima persona singolare del presente indicativo; in arabo, per i verbi si usa la terza
persona singolare del perfetto maschile.
Ricapitoliamo quanto abbiamo appreso finora: nella frase (1) si presentano cinque diverse parole
grafiche: gli, amici, dei, miei, sono. La parola grafica amici ha tre occorrenze, e la parola grafica
miei ha due occorrenze. Queste parole grafiche rappresentano forme flesse di diversi lessemi, sui
quali un vocabolario fornisce informazioni in entrate ordinate alfabeticamente in base a una delle
forme del lessema, scelta come forma di citazione. Per convenzione, i lessemi si indicano
scrivendo in maiuscoletto la loro forma di citazione, come abbiamo già fatto nel paragrafo
precedente. Possiamo quindi dire anche che nella frase (1) abbiamo tre occorrenze della forma
flessa amici del lessema AMICO, un’occorrenza della forma flessa sono del lessema ESSERE, ecc.
inserire discorso su LESSICO
1.3.
Forme flesse e “forme contestuali”
Nello svolgere l’esercizio proposto all’inizio del par. 1.2 qualcuno si sarà chiesto: di quale lessema
è forma la parola dei? Questa parola grafica rappresenta un caso nuovo, che non abbiamo ancora
trattato. Come parlanti dell’italiano, sappiamo che dei è una entità (detta tradizionalmente
preposizione articolata) che nasce dall’unione della preposizione di con l’articolo i. Si tratta quindi
di una parola grafica che unisce in sé forme di due diversi lessemi: DI e IL. Dunque non sempre c’è
una corrispondenza 1:1 tra parole grafiche e forme, né tra parole grafiche e lessemi: a volte una
parola grafica riunisce in sé più di una forma, e rimanda quindi a più di un lessema.
Dei rappresenta un caso nuovo anche per un altro motivo. Non solo dei incorpora in un’unica
parola grafica forme di due lessemi diversi, DI e IL, ma ci presenta anche un nuovo tipo di forma di
un lessema, la forma de- del lessema DI, che però non è corretto chiamare forma flessa (mentre è
corretto chiamare i forma flessa di IL, amici forma flessa di AMICO, ecc.).
Le forme flesse di uno stesso lessema esprimono il significato lessicale del lessema in
combinazione con uno o più significati grammaticali: ad esempio, in italiano un nome deve
esprimere un significato grammaticale di numero; i valori della categoria di numero nella
grammatica dell’italiano sono due, singolare e plurale; ogni nome usato in un enunciato italiano
sarà necessariamente o singolare o plurale: il lessema AMICO si presenterà necessariamente nella
forma flessa singolare amico o nella forma flessa plurale amici, non potrà non presentarsi in una di
queste due forme. La variazione di forma che si ha tra amico e amici è quindi collegata a una
variazione di significato grammaticale: in generale, le forme flesse di uno stesso lessema
differiscono per i loro significati grammaticali, mentre conservano un comune significato lessicale.
Ci sono però anche casi in cui una differenza tra due forme di uno stesso lessema non è
riconducibile a una differenza di significato grammaticale: ad esempio, l’articolo determinativo
maschile italiano IL ha tre forme di maschile singolare, il, lo e l’, e due forme di maschile plurale, i
e gli, e l’articolo indeterminativo inglese ha due forme di singolare, a e an. La differenza tra queste
forme non sta nel loro significato grammaticale: il, lo e l’ sono tutti e tre articoli determinativi
maschili singolari, sia i che gli sono articoli determinativi maschili plurali, e sia a che an sono
articoli indeterminativi singolari. La distribuzione di queste forme dunque non è governata dal
significato grammaticale delle parole cui l’articolo si riferisce, ma dalla struttura fonologica della
parola che segue. In italiano, si usa l’ al maschile singolare e gli al maschile plurale davanti a
parole che cominciano per vocale; lo al singolare e gli al plurale davanti a parole che cominciano
per /j/, per /s/ seguita da consonante (detta “s impura” nella terminologia tradizionale), per una
delle consonanti /  ts dz /2, e per /ks/ (graficamente <x>) e altri nessi consonantici presenti
solo in parole dotte o di origine straniera, quali /pn/, /kt/3; con parole che cominciano per /w/ si usa
gli al plurale e l’ al singolare con parole del lessico italiano tradizionale (l’uomo, l’uovo…) ma si
usano i al plurale e il al singolare con parole che sono state recentemente prese a prestito (il
walkman, il whisky); nei casi restanti si usa il al singolare e i al plurale. In inglese, si usa a davanti
a parole che cominciano per consonante, e an davanti a parole che cominciano per vocale. La
preposizione DI appare nella forma de- quando costituisce il primo membro di una preposizione
articolata (come nel nostro esempio dei, e in del, della, degli, ecc.).
Non esiste un termine italiano comunemente utilizzato per denominare queste diverse forme di uno
stesso lessema, che non differiscono per i significati grammaticali che esprimono, ma solo per il
contesto fonologico o sintattico in cui si usano (e quindi non sono forme flesse, in quanto non sono
portatrici di significati grammaticali diversi l’una dall’altra).4 In inglese si usa il termine shape5,
che è distinto dal termine form usato per denominare le forme flesse; qui useremo all’occorrenza
la formula “forma contestuale di un lessema”: diremo quindi che de- è la forma contestuale del
lessema italiano DI usata nelle preposizioni articolate, a è la forma contestuale dell’articolo
indeterminativo inglese usata davanti a parole che cominciano per consonante, ecc.
È bene sottolineare che uno stesso lessema può avere sia forme flesse sia forme contestuali; i due
tipi di forme non sono mutuamente esclusivi, si hanno lessemi che hanno solo un tipo di forme e
lessemi che li hanno entrambi. Ad esempio, la preposizione DI ha le tre forme contestuali di, de- e
d’, che non differiscono per significato grammaticale e non rappresentano quindi diverse forme
flesse; il lessema MIO ha le quattro forme flesse mio, mia, miei, mie, che hanno diversi significati
grammaticali (rispettivamente, maschile singolare, femminile singolare, maschile plurale e
femminile plurale), ma nessuna di queste forme flesse ha diverse forme contestuali; il lessema IL,
infine, ha diverse forme flesse che esprimono diversi significati grammaticali, e tre su quattro
E anche davanti all’unica parola italiana che comincia con //, gliommero.
Si usa gli anche davanti alla parola dèi “divinità”: in questo caso la scelta di gli invece di i non è governata dalla
struttura fonologica della parola che segue, che sincronicamente richiederebbe i (cfr. i debiti / *gli debiti), ma è un
residuo di un precedente stato dell’italiano, in cui il lessema si presentava nelle forme iddio / iddei, davanti alle quali si
usavano regolarmente gli articoli l’ e gli (l’iddio, gl’iddei; cfr. Serianni, 1988, cap. IV.13 ).
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In realtà, scarsa attenzione è riservata a questo tipo di forme nelle trattazioni di introduzione alla linguistica scritte in
italiano; salvo errore, solo De Mauro (2003, p. 42) rileva l’esistenza di queste forme, per le quali non propone un
termine particolare, chiamandole appunto semplicemente “forme”. De Mauro (2003) usa “forme” e non “forme flesse”
anche per denominare quelle che qui abbiamo denominato “forme flesse”; quindi nella sua terminologia la differenza
tra forme flesse di uno stesso lessema, portatrici di significati grammaticali diversi l’una dall’altra, e forme
“contestuali” di un lessema, non portatrici di significati grammaticali diversi l’una dall’altra, resta inespressa.
5
Seguendo una proposta terminologica di Arnold Zwicky: cfr. Zwicky (1992), Stump (2001, p. 13).
2
3
combinazioni di significati grammaticali (il maschile singolare, il femminile singolare e il maschile
plurale) si possono presentare in più forme contestuali: il maschile singolare si può presentare
come il, lo o l’, il femminile singolare come la o l’, il maschile plurale come i o gli o gl’.
1.4
Omonimia
Il rapporto tra parole grafiche e forme flesse non è biunivoco non solo perché una parola grafica
può racchiudere in sé forme di più di un lessema, ma anche per un altro motivo: a volte una stessa
parola grafica può rappresentare forme flesse diverse di lessemi diversi, o forme flesse diverse di
uno stesso lessema. Ad esempio, gli può rappresentare sia una delle forme contestuali della forma
flessa plurale maschile dell’articolo IL (così è nella frase (1)), sia una forma flessa singolare del
pronome EGLI, come nella frase (2):
(2) Paolo mi ha chiesto se ci vado, ma non gli ho ancora risposto.
Diciamo quindi che le due forme flesse gli «plurale di IL» e gli «dativo singolare di EGLI» sono
forme omonime, perché si scrivono e si pronunciano nello stesso modo (sono cioè omografe ed
omofone) ma rappresentano forme di due lessemi diversi. Secondo un’altra distinzione
terminologica che si rivela spesso utile, possiamo dire che gli è una parola grafica che rappresenta
due diverse parole grammaticali, riconducibili a due diverse forme flesse di due diversi lessemi.
Anche una forma come parli rappresenta diverse parole grammaticali: può costituire sia la seconda
persona singolare del presente indicativo del verbo PARLARE, sia la prima, la seconda o la terza
persona singolare del presente congiuntivo dello stesso verbo. In questo caso, ad essere omonime
(omografe e omofone) non sono forme di lessemi diversi, ma quattro forme dello stesso lessema,
PARLARE.
Due forme possono anche essere omografe ma non omofone, o viceversa. Ad esempio, in italiano
sono omografe ma non omofone le forme ancora // “singolare del sostativo
ANCORA”
e
ancora // “avverbio che indica continuità o ripetizione nel tempo” e le forme subito
// “immediatamente” e subito // “participio passato del verbo SUBIRE”: le forme
delle due coppie si scrivono nello stesso modo, perché l’ortografia italiana nota l’accento solo se
esso cade sull’ultima sillaba di una parola (quindi non sono omografe forme come papa e papà),
ma sono fonologicamente diverse in quanto la prima parola di ciascuna coppia ha l’accento sulla
terzultima sillaba, e la seconda lo ha sulla penultima.6 In inglese, sono omofone ma non omografe
le forme sea “mare” e see “vedere”, fonologicamente entrambe // ma ortograficamente
distinte.
1.5
6
Lessemi invariabili
Quando si ritiene necessario disambiguare anche nello scritto di quale forma si
tratti, si usano a volte grafie come àncora, subíto.
Esistono anche lessemi che non hanno forme flesse. Come esempi potremmo citare, in italiano, il
nome tesi, l’aggettivo blu, la preposizione su, gli avverbi in -mente (stranamente, dolcemente,
facilmente, ecc.), e molti altri. Questi esempi mettono insieme però lessemi di due tipi: da una
parte, lessemi come tesi e blu, atipici rispetto al resto dei nomi e degli aggettivi italiani, che si
presentano normalmente in diverse forme flesse (due per i nomi, come per esempio libro / libri, e
quattro o due per gli aggettivi, come per esempio rosso / rossa / rossi / rosse o felice / felici);
dall’altra, lessemi come su e stranamente, rappresentanti tipici delle preposizioni e degli avverbi
italiani, che non hanno mai diverse forme flesse (e solo in qualche caso, come quello della
preposizione di già esaminato, hanno forme contestuali).
Se le forme di lessemi come blu o tesi possono ancora essere chiamate forme flesse, in quanto dal
contesto in cui occorrono si può determinare se costituiscano, ad esempio, occorrenze del singolare
o del plurale (cfr. ho letto una tesi / ho letto tre tesi), di fronte a lessemi come su o stranamente si
pone una questione terminologica: come chiamare le forme di questi lessemi? Non possiamo
chiamarle forme flesse, perché esse non esprimono, nemmeno in modo nascosto ma ricostruibile
dal contesto, particolari significati grammaticali obbligatoriamente espressi in italiano da
preposizioni o avverbi; non possiamo neppure chiamarle forme contestuali, perché questi lessemi
non si presentano in forme diverse in contesti diversi. La soluzione più semplice è di chiamarle
semplicemente forme. Potremo dire allora che in italiano (come in moltissime altre lingue) ci sono
lessemi che si presentano sempre in una stessa forma, e lessemi che si possono presentare in
diverse forme, determinate dal contesto fonologico o sintattico (forme contestuali) o portatrici di
diversi significati grammaticali che i lessemi di una certa classe esprimono obbligatoriamente in
italiano (forme flesse).
Nella terminologia grammaticale tradizionale, si dice che i lessemi che non hanno forme flesse
(anche se possono eventualmente avere forme contestuali) appartengono a parti del discorso
invariabili. Vengono a volte detti invariabili anche lessemi come TESI o BLU, che appartengono a
parti del discorso non invariabili, ma che hanno forme flesse omonime (nel lessema TESI, la forma
flessa singolare è uguale a quella plurale, entrambe tesi).