Idealismo

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Idealismo
Nel linguaggio comune è idealista colui che persegue valori ideali (etici, religiosi, politici, etc.), ed è disposto a
sacrificare la propria vita per essi.
In filosofia si parla di idealismo a proposito di quelle visioni del mondo che privilegiano la dimensione ideale su
quella materiale e che affermano il carattere spirituale della realtà. Nell’ambito filosofico si usa la parola idealismo
per alludere:1) alle varie forme di idealismo gnoseologico ( = che riguarda la conoscenza); 2) all’idealismo assoluto.
Idealismo gnoseologico: dottrine per le quali il mondo non è altro che una mia rappresentazione (come dirà
Schopenhauer).
Idealismo assoluto: corrente filosofica post-kantiana, che si originò in Germania nel periodo romantico, i cui maggiori
esponenti sono Fichte, Schelling e Hegel. Questo idealismo fu detto trascendentale (per collegarlo all’Io penso
kantiano, seppur con significative differenze), soggettivo (per contrapporlo alla filosofia di Spinoza, che aveva ridotto
la realtà ad un principio unico, la Sostanza, identificata però con la natura, quindi con l’oggetto e non con il soggetto
come volevano gli idealisti), assoluto (l’Io o lo Spirito è il principio unico di tutto e fuori di esso non c’è nulla).
Dal Kant a Fichte
Per Kant l’io è finito, in quanto non crea la realtà, ma si limita ad ordinarla attraverso le forme a priori (che sono Spazio
e Tempo per la sensibilità, Categorie per l’intelletto). Kant aveva ammesso la presenza di una cosa in sé (una X
incognita) ovvero di un dato di fronte all’io (la conoscenza è spiegata in termini di recettività, ossia come l’incontro tra
questo dato e la mente).
Per Fichte invece abolisce l’idea che possa esistere una “cosa in sé”, ovvero una realtà estranea ed esterna all’Io. L’Io
quindi, a differenza di Kant, diviene entità creatrice (fonte di tutto ciò che esiste) ed infinita (priva di limiti esterni).
Da ciò deriva la tesi tipica dell’idealismo che “tutto è spirito”.
Problemi aperti:
1) Fichte usa il termine Spirito come sinonimo di Io, Assoluto, Infinito. L’Io di Fichte crea la realtà dunque non è
l’io empirico e finito (dei singoli uomini), ma un principio infinito (dio). Qual è il rapporto tra questo Io
infinito e gli io finiti? Si può dire in qualche modo che anche l’io finito è libertà creatrice, per esempio in
quanto attività conoscitiva e morale (incontra continuamente il limite, ma continuamente lo supera)?
2) Lo Spirito è fonte creatrice di tutto ciò che esiste. In che modo ciò avviene? Come può lo Spirito ( = Io
infinito) creare la materia ( = natura)? La risposta di Fichte risiede nella dialettica del principio: non
essendoci mai un positivo senza un negativo, lo Spirito (tesi) ha bisogno della Natura (antitesi) per realizzarsi
pienamente. Lo Spirito è causa della Natura (e non viceversa), perché quest’ultima esiste solo per l’io e in
funzione dell’io (la Natura è un momento dialettico della vita dello Spirito).
3) Con l’idealismo ci troviamo di fronte ad una forma di panteismo spiritualistico (tutto è Dio, nel senso che
tutto è Spirito), che si distingue sia da un panteismo naturalistico (tutto è Dio, nel senso che tutto è Natura), sia
dal trascendentismo di tipo ebraico e cristiano (Dio ò una Persona esistente fuori dell’Universo).
4) L’idealismo può essere inteso infine come una forma di monismo dialettico (esiste un’unica sostanza: lo
Spirito, inteso come realtà positiva che realizza se stesso attraverso il suo negativo, ovvero la Natura).
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Fichte (1762-1814)
Opera fondamentale: Fondamenti di tutta la dottrina della scienza (1794-1797)
L’infinità dell’Io
Per Kant l’io penso è il principio supremo di tutta la conoscenza, ma suppone la presenza di un dato già esistente,
quindi l’attività (conoscitiva) dell’io è limitata, nel senso che deve partire da un materiale sensibile esterno all’io (non
creato dall’io stesso).
Per Fichte invece l’Io è infinito: non è solo principio formale, ma anche materiale, cioè non solo pensa la realtà, ma la
crea anche.
La deduzione per Kant è trascendentale: giustifica la validità delle condizioni soggettive della conoscenza (mostra
come tutta la realtà è conosciuta a partire dalle forme a priori).
La deduzione per Fichte è assoluta o metafisica: fa derivare dall’Io sia il soggetto che l’oggetto, cioè l’Io crea
attraverso una intuizione intellettuale (conoscere e allo stesso tempo creare) sia il soggetto che l’oggetto.
La Dottrina della scienza e i suoi principi
Fichte vuole costruire un sistema grazie al quale la filosofia divenga sapere assoluto e perfetto. Chiama questo
sistema Dottrina della scienza, e la intende come una scienza della scienza, sapere che mette in luce il principio su cui
si fonda la validità di ogni scienza. Tale principio è l’Io o Autocoscienza, dal quale Fichte vuole far derivare ogni
cosa (sia i soggetti empirici e finiti, sia gli oggetti) attraverso una dialettica costituita da tre principi (momenti).
1) l’Io pone se stesso.
Questa porre se stesso da parte dell’Io infinito è all’origine di ogni rapporto di identità, anche quello della
logica (per cui A=A) e dunque è il fondamento di ogni conoscenza. Il porre è un agire, quindi l’Io è principio
agente e la sua specifica azione è quella di porre se stesso (esse sequitur operari: “in principio era l’azione”:
l’essere dell’Io è il frutto della sua azione), cioè creare se stesso (è causa sui = causa di sé). Fichte introduce
la nozione di Tathandlung: l’Io è, nello stesso tempo, attività agente (Tat) e prodotto (handlung) della sua
stessa azione. L’Io quindi è libera attività auto-creatrice ed infinita.
2) L’Io pone il non-io.
L’Io non solo pone se stesso, ma oppone anche a sé qualcosa che, in quanto gli è opposto, è un non-io
(oggetto, natura, mondo). Tale non-io è tuttavia posto dall’io e nell’io. Questo secondo principio non è a
rigore deducibile dal primo “poiché la forma dell’opporre [forma dell’opporre: opporre a sé qualcosa di
diverso da sé, un non-io] è così poco compresa nella forma del porre [forma del porre: l’Io pone se stesso] che
le è anzi piuttosto opposta [l’Io, essendo assoluto e infinito, a rigore, non può porre null’altro oltre se stesso,
dunque come può porre il non-io?]… Ciò non toglie che questo fatto deve accadere, affinché una coscienza
reale sia possibile [comunque perché ci sia un mondo (di soggetti finiti e di oggetti finiti) questa opposizione
deve, in qualche maniera (?), avvenire].
3) L’Io oppone nell’Io all’io divisibile ( = limitato) un non-io divisibile ( = limitato).
L’Io avendo posto il non-io si trova ad essere limitato da esso, esattamente come quest’ultimo risulta limitato
dall’io [L’Io infinito avendo posto il non-io si “trasforma” in io finito, si dà nella forma di io finito]. Questo
principio esprime la situazione concreta del mondo: una molteplicità di io finiti che hanno di fronte a sé una
molteplicità di oggetti finiti.
Chiarificazioni
1. Questi 3 principi stabiliscono: a) l’esistenza di un Io infinito, attività assolutamente libera e creatrice; b)
l’esistenza di un io finito (limitato dal non-io), cioè di un soggetto empirico (l’uomo come intelligenza e
ragione); c) la realtà di un non-io, cioè di un oggetto (mondo, natura) che si oppone all’io finito, ma è
ricompresso nell’Io infinito dal quale è pure posto.
2. I 3 principi sono il nerbo della deduzione idealistica del mondo: spiegazione di tutta la realtà alla luce dell’Io
(metafisica del soggetto o spirito).
3. I 3 principi non vanno interpretati in modo cronologico, bensì logico: non c’è prima l’Io poi il non-io ed infine
la reciproca limitazione, ma tutto accade simultaneamente: esiste un Io che per poter essere tale deve
presupporre di fronte a sé il non-io, trovandosi in tal modo ad esistere concretamente sotto forma di io finito.
4. L’Io di Fichte risulta quindi finito e infinito allo stesso tempo: finito perché limitato dal non-io, infinito perché
il non-io (la natura) esiste solo dentro l’Io (come suo polo dialettico, indispensabile per la sua attività).
5. l’Io infinito, più che la sostanza degli io finiti, è la loro meta ideale. Gli io finiti sono l’Io infinito proprio in
quanto tendono ad esso. L’infinito per l’uomo anziché essere una essenza già data è un dover-essere, una
missione. L’uomo è uno sforzo infinito verso la libertà, lotta inesauribile contro il limite e quindi contro la
natura esterne (le cose) ed interna (gli istinti irrazionali, l’egoismo).
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6.
Questo compito (di avvicinarsi all’infinto alla meta ideale) è una missione mai chiusa, altrimenti l’io stesso, la
cui essenza è sforzo, cesserebbe di esistere. Al posto del concetto statico di perfezione, subentra un concetto
dinamico, che pone la perfezione nello sforzo indefinito di auto-perfezionamente.
La dottrina della conoscenza
Dall’azione reciproca dell’io e del non-io nasce sia la conoscenza (rappresentazione) sia l’azione morale.
Fichte si proclama realista e idealista al tempo stesso (real-idealismo): realista perché alla base della conoscenza
ammette un’azione del non-io sull’io, idealista perché ritiene che il non-io sia a sua volta un prodotto dell’io.
Fichte chiama immaginazione produttiva l’atto attraverso cui l’Io pone, crea, il non-io (è un’immaginazione che crea
il materiale stesso, gli oggetti).
Il non-io pur essendo prodotto dall’Io non è una parvenza ingannatrice, ma una realtà di fronte a cui si trova ogni io
empirico (soggetto umano). La ri-appropriazione umana del non-io avviene attraverso una serie di gradi conoscitivi
(progressiva interiorizzazione dell’oggetto che alla fine si rivela prodotto dell’Io).
La dottrina morale e il primato della ragion pratica
La conoscenza presuppone l’esistenza di un io (finito) che ha dinanzi a sé un non-io (finito), ma l’io finito e il non-io
finito sono posti entrambi dall’Io infinito. Ma perché l’Io infinito pone il non-io finito? Secondo Fichte la ragione è
di natura pratica: l’Io pone il non-io e “diventa” io finito solo per poter agire. Agire significa imporre al non-io la
legge dell’Io, ossia foggiare noi stessi e il mondo alla luce di liberi progetti razionali. Il carattere morale dell’agire
consiste nel fatto che esso assume forma di dovere (agire ha senso in quanto orientato ad un dover essere). Per
realizzare se stesso l’Io che è costituzionalmente libertà deve agire moralmente (l’Io infinito deve “farsi” io finito e riappropriarsi del non-io). Non c’è attività morale senza sforzo e non c’è sforzo senza ostacolo da vincere. Tale
ostacolo è la materia, l’impulso sensibile, il non-io. La posizione del non-io (e dell’io finito) è quindi la condizione
indispensabile affinché l’Io si realizzi come attività morale (tramite un processo di autoliberazione dai propri ostacoli).
La missione del dotto
La missione del dotto consiste nel farsi liberi e rendere liberi gli altri in vista della completa unificazione del genere
umano: ecco il senso dello streben (sforzo) sociale dell’Io: “l’uomo ha la missione di vivere in società, deve vivere in
società … altrimenti contraddice se stesso”. Gli intellettuali non devono essere individui isolati e chiusi nella torre della
loro scienza. Il dotto deve farsi maestro ed educatore del genere umano. Il fine supremo di ogni uomo, come della
società tutta è il perfezionamento morale di tutto l’uomo.
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Schelling (1775-1854)
L’assoluto come indifferenza di Spirito e Natura
La filosofia di Kant è una filosofia del finito, quella di Fichte è una filosofia dell’infinto e apre l’epoca del
Romanticismo. Schelling vede questo nuovo indirizzo, ma pensa che una pura soggettività (l’Io Infinito di Fichte)
non potrebbe spiegare la nascita del mondo naturale, così come un principio puramente oggettivo (la Sostanza di
Spinoza) non potrebbe spiegare l’origine dell’intelligenza e del’io.
Il principio supremo deve essere quindi un Assoluto che sia insieme soggetto e oggetto (ragione e natura), cioè che sia
l’identità o l’indifferenza di entrambi.
Se l’Assoluto è identità di soggetto e oggetto, la filosofia, che è scienza dell’Assoluto, si divide in due direzioni:
1) filosofia della natura (mostra come la natura si risolva nello spirito) e 2) filosofia trascendentale (mostra come lo
spirito si risolva nella natura).
La filosofia della natura
Opera: idee per una filosofia della natura, 1797
Il compito della filosofia della natura è quello di porre come primo l’obiettivo (l’oggetto) e ricavare da esso il
subiettivo (il soggetto), ovvero mostrare come la Natura si risolva nello Spirito, cioè come la Natura sia in sé
Spirito.
La Natura è pensata in termini di organicismo (ogni parte ha senso solo in relazione al tutto) e finalismo
immanentistico (nell’universo esiste una finalità oggettiva e reale che non deriva da un intervento esterno, di tipo
divino, ma che risulta immanente, cioè interna alla natura stessa).
La Natura è Spirito visibile (e per contro, lo Spirito è Natura invisibile). La Natura in sé non solo esprime, ma realizza
(rende visibili e concrete) le leggi dello Spirito. Ecco perché tra Spirito (leggi che regolano il mondo) e Natura (i
fenomeni, le cose che accadono) c’è accordo.
Opera: Intorno all’anima del mondo, 1798
Il mondo è un organismo che organizza se stesso, in cui vi è uno Spirito o entità spirituale inconscia che funge da
forza strutturante e vivificatrice dei fenomeni (i filosofi chiamano questa forza strutturante “anima del mondo”).
Opera: Esposizione del mio sistema filosofico, 1801
“I morti e inconsci prodotti della natura [altro non sono che] conati falliti della natura per riflettere se medesima”
“La natura raggiunge il suo fine, di divenire obietto (oggetto) a se medesima (cioè consapevole di se stessa), con la più
alta riflessione: quella dell’uomo e della ragione”. La Natura è la “preistoria” dello Spirito, è Spirito inconscio (non
consapevole di sé), ma in cammino verso la coscienza: la Natura raggiunge la consapevolezza di sé (ovvero
consapevolezza di essere in sé Spirito) solo con l’uomo e la sua ragione. La ragione umana è il momento in cui la
Natura raggiunge il suo vertice (con la ragione umana, la Natura diventa consapevole di essere Spirito).
“Come la pianta si chiude nel fiore, così tuta la terra si chiude nel cervello dell’uomo, che è il sommo fiore di tutta la
metamorfosi organica”.
L’idealismo trascendentale
Opera: Sistema dell’idealismo trascendentale, 1800
Il compito della filosofia trascendentale è quello di partire dal subiettivo (soggetto) e farne derivare l’obiettivo
(l’oggetto), cioè far vedere come le leggi dell’intelligenza si trasformino in leggi della natura (far vedere come le
leggi dell’intelligenza siano le leggi della natura).
Il principio primo della filosofia trascendentale è l’Autocoscienza, cioè l’Io puro al quale compete l’intuizione
intellettuale (conosce e allo stesso tempo crea se stessa e i propri oggetti). L’Autocoscienza pura è libertà
autocreatrice, il producente coincide con il prodotto (cfr. Fichte).
Nell’Autocoscienza ci sono due attività:
1) Reale: l’Io nel suo libero ed infinito porsi incontra il limite (l’oggetto, che la stessa Autocoscienza ha
creato) e risulta quindi limitabile.
2) Ideale: l’Io nel suo infinito intuirsi ed autoprodursi procede oltre ogni limite dato e risulta quindi
illimitabile.
Queste due attività si implicano a vicenda: l’Io può configurarsi come ideale (illimitabile) solo in quanto è reale
(limitabile). [Schelling sembra dire che la Natura sia creata dall’Io proprio per permettere all’Io di superare
continuamente i limiti (limiti per l’Io sono gli oggetti della natura). Il superamento del limite avviene quando l’Io
diventa consapevole che quell’oggetto altro non è che l’Io stesso, cioè che la Natura altro non è che Spirito]
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Hegel. Moderno navigatore dell’infinito
La vita
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (Stoccarda 1770 – Berlino 1831) è stato uno dei massimi
filosofi di tutti i tempi. Compiuti gli studi classici a Stoccarda, si iscrisse all'Università di Tubinga,
dove strinse amicizia con il filosofo Friedrich Schelling. Terminati gli studi di filosofia, Hegel
lavorò come precettore privato. Nel 1801 si trasferì a Jena, dove terminò uno dei suoi capolavori, la
Fenomenologia dello spirito (1807). Nel 1817 pubblicò un'esposizione completa e sistematica
della sua filosofia, l'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817). Nel 1818 gli
venne offerta la cattedra di filosofia che era stata di Johann Fichte all'Università di Berlino, dove
rimase fino alla morte, avvenuta nel 1831 a causa di una epidemia di colera.
I capisaldi del sistema
Per comprendere al meglio il pensiero di Hegel, è necessario chiarire innanzitutto le tesi del suo
idealismo che sono:
a) la risoluzione del finito nell’infinito
Con questa tesi Hegel intende dire che la realtà non è un insieme di sostanze autonome, ma un
organismo unitario di cui tutto ciò che esiste è parte o manifestazione. Tale organismo, non
avendo nulla al di fuori di sé e rappresentando la ragion d’essere di ogni realtà, coincide con
l’Assoluto e con l’Infinito, mentre i vari enti del mondo (gli enti finiti) sono manifestazioni di
esso. Di conseguenza, il finito, come tale, non esiste, perché ciò che noi chiamiamo finito è
nient’altro che un’espressione parziale dell’Infinito (una sua manifestazione). Infatti, come la
parte non può esistere se non in connessione con il Tutto, in rapporto al quale soltanto ha vita e
senso, così il finito esiste unicamente nell’infinito e in virtù dell’infinito. Detto altrimenti: il
finito, in quanto è reale, non è tale, ma è lo stesso infinito.
L’hegelismo si configura quindi come una forma di monismo panteistico: esiste un’unica realtà
divina (monismo) di cui il mondo visibile costituisce la realizzazione o la manifestazione (nella
concezione cristiana invece Dio è trascendente, c’è una distinzione ontologica fra il Creatore e il
mondo creato).
Tuttavia il panteismo di Hegel si differenzia da quello di Spinoza, per il quale l’Assoluto è una
Sostanza statica che coincide con la Natura, per l’idealista Hegel invece l’Asssoluto si identifica
con un Soggetto spirituale in divenire, di cui tutto ciò che esiste è un “momento” o una
“tappa” di realizzazione. Infatti, dire che la realtà non è “Sostanza”, ma “Soggetto”, significa dire,
secondo Hegel, che essa non è qualcosa di immutabile e di già dato, ma un processo di auto
produzione che soltanto alla fine, cioè con l’uomo (= lo Spirito), giunge a rivelarsi per quello
che è veramente: “Il vero - scrive Hegel nella Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito - è
l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell’Assoluto
devesi dire che esso è essenzialmente Risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità ...”
b) Ragione e realtà
Il Soggetto spirituale infinito che sta alla base della realtà viene denominato da Hegel con il termine
di Idea o di Ragione, intendendo con queste espressioni l’identità di pensiero ed essere, o meglio,
di ragione e realtà. Da ciò il noto aforisma, contenuto nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del
diritto, in cui si riassume il senso stesso dell’hegelismo: «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è
reale è razionale».
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Con la prima parte della formula, Hegel intende dire che la razionalità non è pura idealità,
astrazione, schema, dover essere, ma la forma stessa di ciò che esiste, poiché la ragione
“governa” il mondo e lo costituisce. Con la seconda parte della formula, Hegel intende affermare
che la realtà non è una materia caotica, ma il dispiegarsi di una struttura razionale (l’Idea o la
Ragione) che si manifesta in modo inconsapevole nella natura e in modo consapevole
nell’uomo. Per cui, con il suo aforisma, Hegel non esprime la semplice possibilità che la realtà sia
penetrata o intesa dalla ragione, ma la necessaria, totale e sostanziale identità di realtà e ragione.
Tale identità implica anche l’identità fra essere e dover essere, in quanto ciò che è risulta anche
ciò che razionalmente deve essere. Il mondo (con tutti i suoi fenomeni e accadimenti) non è altro
che razionalità dispiegata, ovvero ragione reale e realtà razionale che si manifesta attraverso
una serie di momenti necessari che non possono essere diversi da come sono. Infatti, da
qualsiasi punto di vista guardiamo il mondo, troviamo ovunque, secondo Hegel, una rete di
connessioni necessarie e di “passaggi obbligati” che costituiscono l’articolazione vivente
dell’unica Idea o Ragione. In altri termini, Hegel, secondo uno schema tipico della filosofia
romantica, ritiene che la realtà costituisca una totalità processuale necessaria, formata da una serie
ascendente di “gradi” o “momenti”, che rappresentano, ognuno, il risultato di quelli precedenti
ed il presupposto di quelli seguenti.
c) La funzione della filosofia
Coerentemente con il suo orizzonte teorico, fondato sulle categorie di totalità e di necessità, Hegel
ritiene che il compito della filosofia consista nel prendere atto della realtà e nel comprendere le
strutture razionali che la costituiscono: “Comprendere ciò che è, è il compito della filosofia,
poiché ciò che è, è la ragione”. A dire come dev’essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo
tardi; giacché sopraggiunge quando la realtà ha compiuto il suo processo di formazione. Essa,
afferma Hegel con un paragone famoso, è come la nottola di Minerva che inizia il suo volo sul far
del crepuscolo, cioè quando la realtà è già bell’e fatta. La filosofia deve dunque “mantenersi in pace
con la realtà” e rinunciare alla pretesa assurda di determinarla e guidarla. Deve soltanto
portare nella forma del pensiero, cioè elaborare in concetti, il contenuto reale che l’esperienza
le offre, dimostrandone, con la riflessione, l’intrinseca razionalità.
Questi chiarimenti delineano il tratto essenziale della filosofia e della personalità di Hegel.
L’autentico compito che Hegel ha inteso attribuire alla filosofia (e ha cercato di realizzare con la
sua filosofia) è la giustificazione razionale della realtà, della presenzialità, del fatto. Questo
compito egli l’ha affrontato con maggiore energia proprio là dove esso sembra più rischioso: cioè
nei confronti della realtà politica, dello Stato (infatti può sembrare ovvio che il mondo naturale sia
razionale, in quanto regolato da leggi necessarie, mentre è più difficile riconoscere che qualsiasi
costruzione storica dell’uomo sia l’espressione di una necessità razionale, e che quindi debba essere
accettata così com’è).
Idea, Natura e Spirito. Le parti della filosofia
Hegel ritiene che il farsi dinamico dell’Assoluto passi attraverso i tre momenti 1) dell’Idea “in sé
e per sé” (tesi), 2) dell’Idea “fuori di sé” (antitesi) e 3) dell’Idea che “ritorna in sé” (sintesi).
L’Idea “in sé e per sé” o Idea “pura” è l’Idea considerata in se stessa, a prescindere dalla sua
concreta realizzazione nel mondo. Essa coincide con il programma o all’ossatura logico
razionale della realtà. L’Idea “fuori di sé” o Idea “nel suo esser altro” è la Natura, cioè
l’estrinsecazione o l’alienazione dell’Idea nelle realtà spazio temporali del mondo. L’Idea che
“ritorna in sé” è lo Spirito, cioè l’Idea che dopo essersi fatta natura torna “presso di sé”
nell’uomo. Ovviamente, questa triade non è da intendersi in senso cronologico, come se prima ci
fosse l’Idea in sé e per sé, poi la Natura e infine lo Spirito, ma in senso ideale. Infatti ciò che
concretamente esiste nella realtà è lo Spirito (la sintesi), il quale ha come sua coeterna condizione la
Natura (l’antitesi) e come suo coeterno presupposto il programma logico rappresentato dall’Idea
pura (la tesi).
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A questi tre momenti strutturali dell'Assoluto Hegel fa corrispondere le tre sezioni in cui si divide
il sapere filosofico: 1) la logica, che è “la scienza dell’Idea in sé e per sé”, a prescindere dalla sua
concreta realizzazione nella natura e nello spirito; 2) la filosofia della natura, che è “la scienza
dell’Idea nel suo alienarsi da sé”; 3) la filosofia dello spirito, che è la scienza dell’Idea, che dal
suo alienamento ritorna in sé attraverso l’uomo.
La Dialettica
Come si è visto, l'Assoluto, per Hegel, è divenire. La legge che regola tale divenire è la
dialettica, che rappresenta, al tempo stesso, la legge (ontologica) di sviluppo della realtà e la
legge (logica) di comprensione della realtà.
Hegel distingue tre momenti o aspetti del pensiero: a) l'astratto o intellettuale; b) “il dialettico
o negativo razionale”; c) “lo speculativo o positivo-razionale”.
Il momento astratto o intellettuale consiste nel concepire l’esistente sotto forma di una
molteplicità di determinazioni statiche e separate le une dalle altre. In altri termini, il momento
intellettuale (che è il grado più basso della ragione) è quello per cui il pensiero si ferma alle
determinazioni rigide della realtà, limitandosi a considerarle nelle loro differenze reciproche e
secondo il principio di identità e di non contraddizione (secondo cui ogni cosa è se stessa ed è
assolutamente diversa dalle altre). Il momento dialettico o negativo razionale consiste nel
mostrare come le determinazioni siano unilaterali ed esigano di essere messe in movimento,
ovvero di essere relazionate con altre determinazioni. Infatti, poiché ogni affermazione
sottintende una negazione, in quanto per specificare ciò che una cosa è bisogna implicitamente
chiarire ciò che essa non è, risulta indispensabile procedere oltre il principio di identità e mettere in
rapporto le varie determinazioni con le determinazioni opposte (ad es. il concetto di “uno”, non
appena venga smosso dalla sua astratta rigidezza, richiama quello di “molti” e manifesta uno stretto
legame con esso. E così dicasi di ogni altro concetto: il particolare richiama l’universale, l’uguale il
disuguale, il bene il male ecc.). Il terzo momento, quello speculativo o positivo razionale, consiste
invece nel cogliere l’unità delle determinazioni opposte, ossia nel rendersi conto che tali
determinazioni sono aspetti unilaterali di una realtà più alta che li ricomprende o sintetizza
entrambi.
Globalmente e sinteticamente considerata, la dialettica consiste quindi: 1) nell’affermazione o
posizione di un concetto “astratto e limitato”, che funge da tesi; 2) nella negazione di questo
concetto come alcunché di limitato o di finito e nel passaggio ad un concetto opposto, che
funge da antitesi; 3) nella unificazione della precedente affermazione e negazione in una sintesi
positiva comprensiva di entrambe. Sintesi che si configura come una riaffermazione potenziata
dell’affermazione iniziale (tesi), ottenuta tramite la negazione della negazione intermedia (antitesi).
Riaffermazione che Hegel focalizza con il termine tecnico di Aufhebung il quale esprime l’idea di
un “superamento” che è, al tempo stesso, un togliere (l’opposizione fra tesi ed antitesi) ed un
conservare (la verità della tesi, dell’antitesi e della loro lotta).
La critica delle filosofie precedenti
La critica agli illuministi
Appare immediata la contrapposizione sussistente fra Hegel e gli Illuministi: mentre il primo crede
nell'identità fra ragione e realtà, i secondi assumono la ragione come giudice della realtà. E
mentre per Hegel la ragione è una costante della Storia, per gli illuministi la ragione è presente
solo in determinate epoche storiche, e contrappongono le età illuminate alle epoche buie. Infatti,
mentre gli Illuministi affermano che la Ragione deve mostrare come la realtà dovrebbe essere,
nella filosofia hegeliana la Ragione è sempre presente, e la Storia, avendo un impianto
processuale, è necessariamente come dovrebbe essere.
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La critica a Kant
Hegel, come già pre-romantici e romantici, critica Kant per il suo dualismo, ovvero per la
contrapposizione fra fenomeno e noumeno, attraverso la quale Kant non raggiunge mai
l'infinito. In secondo luogo, Hegel critica l'intento di Kant di volere realizzare una filosofia del
finito, vale a dire la sua missione di riscontrare soltanto l'esistenza delle colonne d'Ercole della
conoscenza umana, dunque della Ragione. Ma se Kant si propone di criticare la Ragione ancor
prima di conoscerla, egli non farà altro che tentare di imparare a nuotare, prima ancora di buttarsi
in acqua. Con effetti, secondo Hegel, non troppo convincenti.
La critica a Fichte
Si è detto che la filosofia di Fichte è paragonabile a una semiretta, di cui si conosce il punto di
inizio, ma di cui non è possibile intravedere la fine. Hegel accusa Fichte in due punti: Fichte, pur
tentando, non risolve affatto il dualismo, poiché assume l'oggetto come semplice ostacolo,
comunque separato dall'Io. Inoltre in Fichte l'Infinito è visto semplicemente come un ideale da
raggiungere, una meta che però non si realizza mai. Pertanto Fichte non risolve appieno il
dualismo kantiano, poiché non riesce ancora a intravedere la coincidenza fra finito e infinito che è
la reale sostanza dell'Idealismo. Hegel definisce l'Assoluto fichtiano come "un colpo di pistola".
La critica a Schelling
La filosofia di Schelling, invece, viene vista come un punto che non tende da nessuna parte,
un'unità statica, immutabile e indifferenziata. Per Hegel, è impossibile che da una siffatta unità
sia possibile spiegare la molteplicità delle cose. Questo concetto dell'Assoluto è paragonabile ad
una notte in cui tutte le vacche sono nere.
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La Fenomenologia dello Spirito
Hegel sviluppa il tema della risoluzione del finito nell'infinito nella Fenomenologia dello Spirito
(fenomenologia = Scienza di ciò che appare).
Il principio della risoluzione del finito nell’infinito è illustrato da Hegel in due forme:
a) La prima forma è la via che la coscienza umana (finito) ha dovuto percorrere per
giungere all’Infinito o, detto in altri termini, la via che lo stesso principio infinito ha
dovuto percorrere, attraverso la coscienza umana, per giungere a se stesso 
Fenomenologia dello spirito
b) La seconda forma è l’illustrazione del principio in tutte le sue determinazioni fondamentali
 Enciclopedia delle scienze filosofiche.
Le vicende dello spirito narrate nella Fenomenologia sono le vicende del principio Infinito nel suo
progressivo svilupparsi attraverso una serie di figure ( = entità ideali-e-storiche che esprimono delle
tappe ideali dello Spirito esemplificate nel corso della storia: la fenomenologia è allo stesso tempo
cammino della coscienza umana e storia complessiva culturale dell’umanità).
La fenomenologia è la storia romanzata della coscienza, che, attraverso erramenti, contrasti,
scissioni e quindi infelicità e dolore, esce dalla sua individualità per farsi universalità (si
riconosce come ragione che è realtà e realtà che è ragione).
In pratica è come se esistessero due “viaggi” (percorsi), il primo è quello dello Spirito Assoluto, il
secondo è quello della Coscienza individuale.
Lo Spirito Assoluto ha già percorso tutto il “viaggio” (dialettica dello spirito: parte da sé – esce
da sé – ritorna in sé).
Ma la Coscienza individuale deve ripercorrere tutte le tappe dello Spirito Assoluto, e solo
dopo molti travagli, viene ad identificarsi con esso.
Da ciò prende l'avvio una delle più famose figure della Fenomenologia dello Spirito, vale a dire
quella della Coscienza infelice cioè quella coscienza che non sa di essere tutta la realtà (non sa di
essere essa stessa spirito), e che pertanto viene dilaniata da opposizioni interne che riesce a
superare solo comprendendo di essere il tutto. La prima parte della Fenomenologia si divide in
tre momenti (secondo quella struttura triadica tipica del pensiero hegeliano): coscienza,
autocoscienza, ragione.
1. La coscienza
1. Certezza sensibile  “questo”. Il punto di partenza della coscienza è la certezza sensibile
(o sensazione). La coscienza conoscenza gli oggetti in modo diretto e immediato: se ho un
oggetto di fronte a me, qui ed ora, si produce automaticamente la sensazione. Ma in questo
stadio ciò che produce tale sensazione può essere indicato solo con il termine generico
“questo”. (Ho la certezza che ci sia qualcosa di fronte a me, ma è un generico “questo”). La
certezza sensibile ingenuamente sembra la conoscenza più ricca e sicura, in realtà è la più
povera perché il termine “questo” con cui indichiamo tutto è un termine generico e non ci
fornisce nessuna specifica conoscenza.
2. Percezione  “cosa”, “oggetto”. Lo stadio successivo è quello della percezione. Non ho
più solo la certezza di un generico questo di fronte a me, ma percepisco una “cosa” vista
come insieme di qualità. Ma anche in questo caso ci si trova di fronte ad una contraddizione,
dal momento che la cosa percepita appare nel contempo come una e molteplice. Da una
parte, infatti, essa è una molteplicità di qualità (il sale è bianco, sapido, ha un certo peso,
ecc.); dall'altra, parte tali qualità si raccolgono nell'unità della cosa (il sale). Si perviene così
alla consapevolezza che l'unità non è intrinseca alla cosa, ma è la coscienza che ' si fa carico
' di essa, collegando e unificando le diverse proprietà della cosa.
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3. Intelletto  “fenomeno”. Il terzo momento della coscienza è l' intelletto, al quale l'oggetto
appare come fenomeno, cioè come manifestazione di forze che agiscono secondo una legge.
Questa legge, però, non fa parte dell’oggetto, ma dipende dal soggetto. Il che vuol dire che
l'oggetto viene ricondotto alla coscienza e risolto in essa. In altre parole, la coscienza si
rende conto che ciò che essa opponeva a sé come oggetto non è qualcosa di diverso da se
stessa. In questo modo essa diviene consapevole di sé (non essendo più solamente un
oggetto contrapposto a un oggetto), diventa cioè un' "autocoscienza".
2. Autocoscienza
In questa sezione dell’opera si trovano le più celebri figure della fenomenologia dello spirito. Il
centro dell’attenzione si sposta dall’oggetto al soggetto
2.1 Signoria e servitù
L'autocoscienza per Hegel è tale solo se esistono altre autocoscienze che la riconoscono in
quanto tale. Il riconoscimento deve passare attraverso la lotta, la sfida. Il conflitto spinge alcuni
individui a sfidare la morte per potersi affermare, mentre altri hanno paura e finiscono per
subordinarsi ai primi. Si instaura così un rapporto di signoria e servitù. Tuttavia presto si verifica
una inversione dei ruoli: il padrone ha raggiunto il suo scopo, e non ha più bisogno di affermarsi.
Lo schiavo, invece, riesce lentamente ad autoaffermarsi attraverso il proprio lavoro. Infatti il
padrone non riesce più a fare a meno del servo, che costruisce gli oggetti di cui ha bisogno. Il
padrone diviene servo del servo, e il servo diviene padrone del padrone.
I tre momenti della progressiva acquisizione di indipendenza da parte del servo sono "paura della
morte, servizio, lavoro".
Paura della morte. Lo schiavo è tale perché ha tremato dinanzi alla morte. Ma proprio in virtù di
tale paura che non è paura di questo o quello, ma della perdita assoluta della propria essenza, lo
schiavo ha potuto sperimentare il proprio essere come distinto o indipendente dal mondo delle
certezze naturali che prima gli apparivano fisse, mentre ora la realtà si fluidifica per mezzo
dell’angoscia della morte.
Servizio. Nel servizio la coscienza si autodisciplina e impara a vincere gli impulsi naturali.
Lavoro. Nel lavoro il servo, trattenendo il proprio appetito e non usufruendo dell’oggetto, imprime
nelle cose una forma, nella quale si riflette l’autonomia del servo dalle cose stesse. Il lavoro è
formativo, perché il servo, nella sua produzione, rispecchia la propria essenza, mentre il padrone si
limita ad utilizzare-consumare gli oggetti prodotti dal servo. Il servo imprime nelle cose una forma
che dura nel tempo. E, poiché le cose non sono di sua proprietà, il servo riesce a dominare i propri
desideri: dunque attraverso il lavoro, l'autocoscienza acquisisce dignità.
2.2 stoicismo e scetticismo
Il raggiungimento dell’indipendenza dell’io nei confronti delle cose trova la sua manifestazione
filosofica nello stoicismo: visione del mondo che celebra l’autosufficienza e la libertà del saggio nei
confronti di ciò che lo circonda.
Ma nello stoicismo il saggio raggiunge soltanto una astratta libertà interiore, giacché i
condizionamenti permangono e la realtà esterna non è affatto negata.
Chi pretende di mettere completamente tra parentesi quel mondo esterno è lo scetticismo: visione
del mondo che sospende l’assenso su tutto ciò che è comunemente ritenuto per vero e reale. Ma lo
scetticismo dà luogo ad una situazione contraddittoria: da un lato lo scettico dichiara che tutto è
vano e non-vero, dall’altro pretende di dire qualcosa di vero (lo scettico dice che è vero che tutto
non è vero!).
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Questa autocontraddizione si esplicita nella figura della coscienza infelice.
2.3 la coscienza infelice
La scissione diventa esplicita in quella spaccatura che l'uomo avverte fra se stesso e Dio. Questa
scissione appare evidente nell'ebraismo, dove il Dio è visto come un essere totalmente
trascendente, padrone della vita e della morte, ovvero un rapporto di signoria-servitù fra Dio e
l'uomo. In un secondo momento, cioè con il cristianesimo medioevale, il Dio viene a toccare
l'uomo, incarnandosi. Tuttavia, nulla viene risolto: Cristo, da un lato, sottolineando la propria
resurrezione, ritorna ad allontanarsi dall'uomo. Dall'altro lato, la lontananza con Cristo viene
avvertita anche in senso temporale, vale a dire che Cristo è vissuto secoli prima di molte altre
persone,che dunque non hanno potuto godere del miracolo dell'incarnazione di Dio. Pertanto, anche
in questo secondo momento, la scissione è tutt'altro che risolta, e la coscienza, sentendosi ancora
separata dall'Assoluto, permane nell'infelicità.
Dopo aver toccato il punto più basso con la mortificazione di sé a favore di Dio (ascetismo e
umiliazione della carne), il singolo trapassa nel suo punto più alto con il Rinascimento, quando la
coscienza diventa consapevole della propria forza ed inizia il cammino per raggiungere l'Assoluto
ed infine si rende conto di essere lei stessa Dio, ovvero l’Universale o Soggetto assoluto. Questa
consapevolezza è autocoscienza perché il mondo che la coscienza crede altro-da-sè è in realtà il Sé,
è un'unica realtà con l'io che lo pensa, come già mostrava Kant.
3. Ragione
Come Soggetto assoluto l’autocoscienza è diventata Ragione ed ha assunto in sé ogni realtà: la
Ragione ha la certezza di essere ogni realtà. Questa certezza tuttavia per divenire verità deve
giustificarsi
In primo luogo, la ragione osservativa si rivolge al mondo della natura (naturalismo rinascimentale
ed empirismo). Qui la coscienza crede di cercare l’essenza delle cose, in realtà non cerca che se
stessa. L’osservazione della natura, partendo dalla semplice descrizione, si approfondisce con la
ricerca della legge. Ma in questo modo la ragione osservativa sperimenta la propria crisi,
riconoscendosi di nuovo come qualcosa di distinto dal mondo.
Si passa quindi alla ragione attiva. La ragione si accorge che non può limitarsi a conoscere la
natura, ma deve operare su di essa: l’unità di io e mondo non è qualcosa di dato, ma deve venir
realizzato. Tale progetto finché assume la forma di uno sforzo individuale, dioè di un’iniziativa
della singola coscienza è destinato a fallire, come dimostrano le tre sotto figure della ragione attiva:
 Il piacere e la necessità: l’individuo faustianamente deluso dalla scienza e della ricerca
naturalistica si getta nella vita e va alla ricerca del proprio godimento. Ma nella ricerca del
piacere l’autocoscienza incontra la necessità del destino che incurante delle sue personali
esigenze di felicità lo travolge inesorabilmente.
 La legge del cuore (e il delirio della presunzione). L’autocoscienza cerca allora di opporsi al
corso ostile del mondo appellandosi alla legge del cuore (filone del sentimentalismo che va
da Rousseau ai romantici). L’individuo dopo aver cercato di eliminare i responsabili dei
mali del mondo (preti fanatici, despoti corrotti) entra in conflitto con altri presunti portatori
del vero progetto di miglioramento della realtà (la legge del cuore di altri individui).
 La virtù (e il corso del mondo). Si tratta di un agire in grado di procedere oltre
l’immediatezza del sentimento e delle inclinazioni soggettive. Ma il contrasto tra la virtù
(speranza di cambiare il mondo) e la concreta realtà non può concludersi che con la sconfitta
del cavaliere della virtù e dei suoi donchisciotteschi propositi di moralizzazione
dell’esistente (cfr. Robespierre).
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La terza sotto figura della ragione è l’individualità in sé e per sé reale: è l'individuo che non si
oppone al mondo ma lo riconosce e lo assimila. È l'uomo che opera nel mondo, ma l'individualità
del suo fare è destinata a essere superata dall'opera di altre individualità.
Con tutte queste figure Hegel intende farci capire che se ci si pone dal punto di vista dell’individuo
si è inevitabilmente condannati a non raggiungere mai l’universalità. Tale universalità si raggiunge
soltanto nella fase della eticità (spirito inteso come sostanza etica), intendendo con ciò la ragione
che si è concretizzata nelle istituzioni storico-politiche di un popolo e soprattutto dello Stato
(“l’intelligente ed essenziali far del bene è l’intelligente, universale operare dello Stato al cui
paragone l’operare del singolo come singolo diviene qualcosa di così meschino che non val quasi la
pena di parlarne”): soltanto nell’eticità l’individuo trova concretezza e realtà. La ragione reale non è
quella dell’individuo ma dello spirito che in questa fase è lo Stato. Lo Stato è sub-stantia: sostrato
che regge e rende possibile ogni atto della vita individuale. “Noi siamo sempre dentro la sostanza
etica”. L’individuo è fondato dallo Stato e non viceversa.
Con la sintesi di ragione osservativa e attiva, la ragione diviene spirito.
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La filosofia dello spirito
Lo spirito si compone di tre momenti: spirito soggettivo, spiritio oggettivo, spirito assoluto.
1. Spirito soggettivo
È il momento di transizione in cui lo Spirito emerge dalla Natura
2. Spirito oggettivo
Se lo spirito soggettivo è lo spirito individuale, la sua antitesi non può essere che lo spirito
collettivo, vale a dire lo spirito oggettivo. Esso si manifesta nelle istituzioni storiche in cui l'uomo
vive. Anche lo spirito oggettivo si struttura in tre momenti.
2.1 Diritto
Il diritto è l'insieme delle norme che regolano la vita esteriore di ogni individuo. Le persone
vengono considerate come privati cittadini, le cui volontà vengono sì limitate dalla legge, ma
anche garantite. La libertà si realizza attraverso la proprietà, cioè con il possesso di qualcosa. Ma
perché sia possibile la proprietà è necessaria una condizione fondamentale, vale a dire il
riconoscimento e il rispetto fra gli uomini, cosa che avviene attraverso il contratto. L'antitesi del
diritto è il delitto, laddove la libertà viene minacciata e limitata da un'altra entità, mentre la sintesi
di questi due momenti è la pena, in cui il diritto viene di nuovo sancito, mentre il delitto viene
punito. Tuttavia la pena, se non viene interiorizzata dal condannato, non è più formativa in modo
efficace. Perché avvenga l'interiorizzazione della pena è necessario interessarsi di un'altra sfera
dialettica, quella della moralità.
2.2 Moralità
La moralità è la sfera della volontà soggettiva. Si propone di realizzare il bene, ma non è detto che
esso si realizzi effettivamente. Questa sfera è infatti dilaniata dalla contraddizione fra essere e
dover essere, in quanto sussiste una spaccatura fra soggettività, che deve realizzare il bene, e il
bene che deve essere effettivamente realizzato. Per superare questa contraddizione è necessario
passare in un nuovo momento, che è quello della eticità.
2.3 Eticità
L'eticità è quella sfera in cui il bene non è più intenzionale, bensì realizzato. E questa
realizzazione avviene nelle istituzioni storiche in cui siamo chiamati a vivere, le quali sono:
* famiglia;
* società civile;
* stato.
L'eticità si presenta come sintesi di diritto e moralità: infatti se il diritto è esteriorità e la moralità è
interiorità, l'eticità riassume in sé entrambi questi valori, in quanto il soggetto non segue più dei
valori interiori, bensì dei valori interiorizzati. L'eticità, dunque, concilia il diritto e la moralità,
supera la spaccatura tra l'interiorità propria della morale e l'esteriorità del diritto, in quanto il bene
non è più un ideale, un dover essere, ma trova un contenuto concreto nei compiti etici che
attendono ciascun individuo e che sono determinati dal proprio ruolo familiare, sociale e
politico. D'altra parte il singolo non avverte il dovere (la legge) come un qualcosa di estraneo,
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un obbligo imposto dall'esterno, bensì come partecipazione intima e consapevole di quella
condizione in cui ciascuno è posto.
2.3.1 Famiglia
La famiglia è caratterizzata da legami non solo biologici, ma anche da sentimenti di fiducia, cioè da
un'unità spirituale. Si articola anch'essa in tre momenti:
* matrimonio: la costituzione della famiglia, momento fondato sul consenso libero delle persone;
* patrimonio: i beni materiali appartenenti alla famiglia, che devono assicurare alla stessa
stabilità e ai figli nutrimento ed educazione;
* educazione dei figli: il momento più importante della famiglia, secondo Hegel, poiché con
questa educazione i figli rinascono una seconda volta. Con l'educazione i figli si alienano dalla
famiglia, per diventare individui a sé stanti. Hegel, quindi, critica quelle società, in particolare
quella romana, dove i figli erano visti come oggetti posseduti dal pater familias.
2.3.2 Società civile
Con l'educazione e l'allontanamento progressivo, le famiglie originarie si sciolgono. I figli
abbandonano la famiglia per andare a formarne delle nuove. Queste nuove famiglie non sono più
legate da un legame spirituale, e per questo motivo giungono ad un momento in cui sussiste una
perenne conflittualità. La società civile è il sistema dei bisogni e la cura degli interessi, come
Hegel la definisce. La funzione è dunque simile a quella della famiglia, ma questa volta l'intervento
avviene a livello giuridico, in cui bisogni e interessi vengono difesi dagli apparati stali, quali la
polizia, la giustizia e le corporazioni. Nella società civile l'uomo diviene un uomo, poiché può
soddisfare i propri bisogni, attraverso il lavoro, e vede i propri diritti e diveri riconosciuti attraverso
la legge.
Uno dei compiti fondamentali della società civile è l'educazione dei giovani, che ha il fine di
creare una famiglia universale di tutti gli individui. Un altro compito è dato dal controllo degli
egoismi privati, in cui la società deve intervenire su coloro che concentrano nelle mani troppa
ricchezza a scapito degli altri. Al fine di tutelare tutti gli individui, la società deve promuovere la
formazione di organizzazioni sindacali e di corporazioni professionali.
Hegel suddivide la società civile in tre classi:
* agricoltori, coloro, cioè, che dispongono del patrimonio naturale che viene loro fornito dalla
terra in cui lavorano;
* lavoratori dell'industria e del commercio, cioè chi elabora il prodotto naturale per trasformarlo,
vivendo quindi soltanto del proprio lavoro;
* funzionari pubblici, che curano gli apparati statali e sono pertanto di fondamentale importanza
ed esentati da ogni altro tipo di lavoro.
Da ciò scaturisce la necessità di un diritto pubblico, vale a dire un diritto valido per tutti e noto a
tutti, diritto che deve essere fatto rispettare dalla giustizia e dalla polizia. In questo senso, grande
importanza hanno le corporazioni, le quali sono abilitate alla costituzione di una propria polizia,
sul modello delle corporazioni medioevali, al fine di proteggere i propri iscritti. Per questo motivo
la corporazione si risolve come una seconda famiglia, che si prende cura dei propri iscritti in base al
loro lavoro.
2.3.3 Stato
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Lo Stato rappresenta la sintesi di famiglia e società civile, ed il momento più alto dell'eticità.
Hegel la intende come una famiglia in grande, in cui i legami fra le persone sono affini a quelli
affettivi, familiari. È un tipo di stato, denominato Stato etico, che è affine ai regimi totalitari che
stavano per piombare nella storia.
Hegel definisce lo Stato la realtà dell'idea etica, in quanto in esso si realizza l'intera eticità. Lo
stato viene visto da Hegel come la prima manifestazione dell'assoluto. Lo stato nasce non da un
contratto stipulato fra gli individui, bensì fondato sull'idea di Bene universale. Pertanto, non sono
gli individui a formare lo Stato, bensì è lo Stato a formare gli individui. È infatti impossibile,
per Hegel, pensare uno stato di modello liberale, che altrimenti finirebbe per perdere ogni sua
funzione nel semplice compito di tutelare gli interessi delle parti, ma anche di stampo democratico,
in quanto la sovranità non può appartenere al popolo, perché il popolo senza lo Stato altro non è che
una massa informe. D'altra parte lo Stato è un'idea che non può esistere senza una materia reale, che
è il popolo. Lo Stato è tutt'uno con il popolo. Per questo Hegel rigetta sia il contrattualismo, che il
giusnaturalismo, in quanto in Hegel è inaccettabile che esista un diritto prima e oltre lo Stato.
Tuttavia, lo Stato hegeliano non è da vedersi come dispotico, in quanto esiste pur sempre un sistema
di leggi che chiunque deve rispettare, secondo una tradizione che parte da Thomas Hobbes e finisce
a Rousseau.
Per Hegel <<Lo Stato è un Dio reale>> che realizza l'identità fra demo-crazia e teo-crazia, fra
governo-di-dio e governo-del-popolo che è considerato una teofania, una manifestazione
dell'Assoluto.
Lo Stato si costituisce autonomamente e nel modo migliore sviluppando una triadica divisione dei
poteri: il potere legislativo, suddiviso in due Camere, l'una conservatrice, l'altra progressista, il
potere esecutivo, che comprende giustizia e polizia, e il potere sovrano, che si identifica con il re,
che è contemporaneamente individualità (in quanto il re è unico) e universalità (in quanto il re
rappresenta l'intero Stato e quindi l'intero popolo). Il re, tuttavia, non ha un potere assoluto e per
quanto possa operare liberamente dovrà sempre attenersi alla situazione legislativa vigente, che
viene approvata ed emanata dagli altri due poteri.
Essendo lo Stato la più alta manifestazione dell'eticità, ed essendo lo Stato formato da un solo
popolo, per Hegel appare impossibile e inaccettabile che possa esistere qualcosa che sia superiore
allo stato, nemmeno un organismo di coordinamento sovranazionale. Pertanto il diritto
internazionale non viene affatto contemplato da Hegel, che vede solo nei trattati fra gli Stati il
solo momento di comunicazione fra di loro. Trattati che gli stati possono, nella loro piena sovranità,
sottoscrivere ed infrangere. Conseguenza di ciò, è che la guerra viene vista come un atto
necessario per stabilire i rapporti di forza, e stabilire le misure dei diritti dell'uno sull'altro.
Pertanto, la guerra, essendo sempre espressione di razionalità di una manifestazione
dell'Assoluto, aveva una sua giustificazione etica.
La filosofia della storia
La storia, prima di Hegel, veniva sempre vista come un susseguirsi caotico di eventi, suddivisibili in
primis in epoche dominate dalla ragione ed in epoche oscure: tale era la concezione propria
dell'illuminismo, che aveva giudicato, per esempio, l'età di Pericle un'era illuminata e il Medioevo
un'epoca buia, senza però considerare mai i rapporti che potevano sussistere fra due evi, anche se
distanti fra loro. Hegel, invece, rigetta l'idea della casualità a favore della causalità. Se l'Assoluto è
ragione, allora essa dominerà anche la Storia: ma dire che la storia è razionale, significa che essa
non è un succedersi casuale di eventi, bensì è basata su un rapporto di causa-effetto, in base al
quale la distinzione fra essere e dover essere svanisce. La storia, in pratica è già come dovrebbe
essere, e non potrebbe essere altrimenti.
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La storia è un succedersi di popoli, divisi in coloro che dominano il mondo e coloro che vengono
dominati, allo stesso modo che fra gli individui, suddivisi in dominatori e dominati (in base al
rapporto schiavo-padrone di cui sopra). E come gli individui, anche i popoli nascono, crescono e
muoiono, per lasciare spazio a nuovi individui e nuovi popoli che continueranno a perseguire
quell'obiettivo che è l'autocoscienza dello Spirito.
Il fine della storia è la libertà dello spirito, che per Hegel si manifesta nello Stato. I mezzi per
conseguire questo fine sono gli individui e le loro passioni: queste passione spingono ogni
individuo ad imprimere al mondo, alla realtà e alla storia, questa o quella direzione, in modo sempre
necessario e in progressione. I grandi uomini della storia sono la più alta manifestazione di questa
idea: con una sorta di astuzia, la Ragione spinge i grandi eroi della storia (come Giulio Cesare o
Napoleone) a seguire e realizzare le proprie passioni e ambizioni. Ma se prima o poi essi sono
destinati a perire o a soccombere, non è così per la Storia universale, che invece continua il suo
progresso grazie alla caduta di questi grandi uomini. Dunque, per Hegel, gli uomini non agiscono,
ma sono agiti da una più grande forza.
I tre momenti in cui si realizza la storia universale sono tre:
* storia orientale: in cui a essere libero è uno solo, il re, mentre gli altri dipendono dal suo
arbitrio;
* storia greco-romana: in cui sono alcuni ad essere liberi;
* storia cristiano-germanica: in cui, attraverso la Riforma protestante e la rivoluzione francese,
tutti gli uomini diventano liberi. Hegel vede infatti nello Stato prussiano, e nella sua abolizione dei
privilegi nobiliari, la migliore manifestazione dello Stato. Infatti solo l'uguaglianza fra tutti i
cittadini fa si che il singolo individuo possa sentirsi parte del tutto.
3. Spirito assoluto
Lo spirito assoluto rappresenta il momento in cui l'idea giunge alla coscienza di sé stessa, della
propria infinità e assolutezza, ovvero del fatto che tutto è Spirito, e che il finito non esiste.
Anche lo spirito assoluto si struttura in tre momenti, che se non sono diversi in quanto a
contenuto (ovvero tutti e tre i momenti sono manifestazioni dell'Assoluto a sé stesso), lo sono
in base alla forma, ovvero alla strada scelta per raggiungere l'autocoscienza.
3.1 Arte
Con l'arte si ha il primo gradino su cui lo Spirito si manifesta a sé stesso. È il gradino più basso,
perche l'autocoscienza si realizza in modo intuitivo, attraverso le forme dell'arte (la musica, le
parole, le figure...). Hegel suddivide l'arte in tre momenti:
* simbolica: ovvero quando contenuto e forma convivono in modo squilibrato, vale a dire, il
messaggio spirituale non viene espresso in forme adeguate alla sua altezza, ovverosia attraverso il
simbolo;
* classica: contenuto e forma sono in stretto equilibrio, che raggiunge il suo apice nella
rappresentazione della figura umana, vista come la più armonica.
* romantica: in cui si rompe nuovamente l'equilibrio tra contenuto e forma, in quanto nessuna
forma può più esprimere la compiutezza dell'Assoluto, che cerca altre strade per esprimersi al
meglio.
3.2 Religione
La religione è il secondo momento dello spirito assoluto, momento in cui è la Divinità ad essere al
centro. La religione si basa sulla fede, ovvero sulla coscienza immediata dell'Assoluto, basata sul
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sentimento. La religione, cioè, è in grado di affermare l'esistenza di Dio, senza però avere strade
per giustificare questa affermazione.
Hegel nota nella storia dell'umanità quattro tipi di religione:
* religione naturale, come l'induismo, dominate da stregoneria e feticismo, in cui Dio è potenza
assoluta dei fenomeni;
* religione di libertà, come quella persiana, in cui Dio è uno spirito libero, ma ancora troppo
legato alla natura;
* religione dell'indivdualità assoluta, come il giudaismo, in cui Dio è in sembianze spirituali o
antropomorfe;
* religione assoluta, come il cristianesimo, visto come la più alta manifestazione religiosa
dell'assoluto, in quanto in Cristo, l'uomo-Dio, si rivela l'identità del tutto, e nella Trinità si rivela la
triplice partizione di Idea, Natura, Spirito.
Anche il cristianesimo presenta però dei limiti, perché tutte le religioni si basano tutte sulla
rappresentazione e non sulla comprensione del concetto, come invece accade con l'ultimo stadio
dello spirito assoluto, ovvero, la filosofia.
3.3 Filosofia
La Filosofia è l'ultimo momento dello spirito assoluto. Anche essa è frutto di un processo storico
che vede ogni filosofia negare la precedente. Questo processo che va dalla filosofia greca a quelle
di Fichte e Schelling si conclude con l'idealismo: la filosofia giunge finalmente a compimento
con Hegel. Le filosofie precedenti non devono quindi essere viste negativamente ma piuttosto come
un insieme di tappe necessarie che man mano negano quelle precedenti e vengono negate da quelle
successive in un processo che termina con l'ultima filosofia: quella di Hegel. La filosofia giunge
sempre troppo tardi perché arriva quando la realtà si è già compiuta ("E' come la nottola di Minerva
che si alza in volo sul far della sera"). Così come nella Religione, anche nella Filosofia è presente
lo stesso contenuto, il rapporto tra finito ed infinito. Nella Religione questo rapporto è già
dettato, e deve essere solo appreso per fede, mentre nella Filosofia la comprensione di questo
rapporto è data tramite ragionamenti procedurali, fino a un diventare assoluto. La Filosofia
riesce quindi ad esprimere il Pensiero in modo adeguato, essendo puro concetto, così come il
Pensiero stesso.
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