Anno A - Don Bosco Torino

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Anno A
15ª DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
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Is 55,10-11 - La pioggia fa germogliare la terra.
Dal Salmo 64 - Rit.: Visita la terra, Signore, e benedici i suoi germogli.
Rm 8,18-23 - La creazione attende la rivelazione dei figli di Dio.
Canto al Vangelo - Alleluia, alleluia. Il seme è la parola di Dio e il seminatore è
Cristo: chiunque trova lui, ha la vita eterna. Alleluia.
 Mt 13,1-23 - Il seminatore uscì a seminare.
Una parola che opera
Può destare sorpresa un’affermazione di s. Agostino a proposito della parabola del seme
che viene proposta oggi alla nostra considerazione. Dopo aver spiegato questa parabola
e quella che viene dopo, del buon grano e della zizzania, il predicatore non esita a
dichiarare: «So che pochi hanno capito quel che ho detto, ma io parlo per tutti». Egli sa
che qualcuno ha capito, ma penso che parli a questo modo per destare l’attenzione dei
suoi uditori, che non era sempre così desta come egli avrebbe desiderato. Certo, anche in
queste pagine del Vangelo non mancano le difficoltà; e come potremmo pretendere di
capire sempre con facilità la parola di Dio, se pensiamo chi è colui che parla e chi è l’uomo
a cui egli parla? «O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra...
Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?» (Sal 8,2.5).
Tuttavia è molto, è grande dono di Dio ciò che possiamo apprendere, con l’aiuto che
imploriamo da lui, dalla sua rivelazione, anche nelle letture di oggi.
La parola di Dio è operante e feconda
Lo insegnano, nel modo più esplicito, con due immagini diverse ma di significato analogo,
la pagina di Isaia (di cui il salmo responsoriale è quasi un commento) e quella di Matteo.
Sappiamo quanto è importante, anche nei nostri paesi, malgrado i progressi della tecnologia per sopperire alle deficienze degli agenti naturali, l’acqua che viene dal cielo, in
forma di rugiada, di pioggia, di neve, per assicurare la fertilità dei campi, da cui dipende
il sostentamento degli uomini e degli animali. Tanto più nella Palestina, ai tempi di Gesù.
Che cosa sarebbe dell’uomo senza la parola di Dio? Come potrebbe appagare la sete, anche se inconfessata, che ha di lui, quando, preso in «una lotta drammatica fra il bene e il
male, fra la luce e le tenebre, si sente incapace di superare efficacemente da se medesimo
gli assalti del male» (Gaudium et Spes, 13)? Quando, insoddisfatto di tutte le cose che
stanno intorno a lui, alle quali si riconosce superiore, non può rassegnarsi «a considerarsi... soltanto una particella della natura o un elemento anonimo della città umana... nella
sua interiorità trascendente l’universo», e «a questa profonda interiorità egli torna,
quando si volge al cuore, là dove lo aspetta Dio», e «sotto lo sguardo di Dio decide il suo
destino» (Gaudium et Spes, 14)? E in questo stato di attesa, che Paolo paragona alle
doglie del parto, la parola di Dio gli infonde speranza e forza per camminare sulla via che
gli ha aperto, mostrando agli erranti la luce della verità (colletta).
«Il seme è la parola di Dio»
Così ha inizio la spiegazione della parabola nel Vangelo di Luca (8,11). In Matteo e in
Marco non troviamo questa espressione ma il senso è identico. La parola, allora, suonò
sulla bocca di Gesù. Poi la proclameranno, per la missione ricevuta da lui, gli apostoli, ma
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sarà sempre parola di Dio. Paolo non potrebbe essere più esplicito: «Ringraziamo Dio
continuamente, perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete
accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera
in voi che credete» (1 Ts 2,13). E quando scongiura il discepolo Timoteo: «Annunzia la
parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera,
esorta con ogni magnanimità e dottrina» (2 Tm 4,2), intende forse una parola umana?
«La pioggia e la neve scendono dal cielo»: non sono opera d’uomo (Isaia non conosceva
la pioggia artificiale). Così «il seme è la parola di Dio», che, «affidata da Cristo Signore e
dallo Spirito Santo agli apostoli, viene trasmessa integralmente dalla sacra tradizione ai
loro successori, affinché questi, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione
fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano» (Dei Verbum, 9). A questo è
chiamata la Chiesa sotto la guida del magistero, secondo una norma precisa indicata
subito dopo dal Concilio: «il quale magistero però non è al di sopra della parola di Dio, ma
la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e
con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente la ascolta, santamente la custodisce e
fedelmente la espone, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone
da credere come rivelato da Dio» (Dei Verbum, 10). È un chiaro monito agli annunziatori
della parola: i vescovi, «araldi della fede... dottori autentici, cioè rivestiti dell’autorità di
Cristo, che predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare nella pratica
della vita» (Lumen gentium, 25); i sacerdoti, «consacrati per predicare il Vangelo»
(Lumen gentium, 28); i diaconi, incaricati di «istruire ed esortare il popolo» (Lumen
gentium, 29); a tutto «il popolo santo di Dio» che «partecipa alla funzione profetica di
Cristo» (Lumen gentium, 12). Tutti impegnati a comunicare il messaggio con assoluta fedeltà, siamo ugualmente impegnati ad accettarlo come parola di Dio, ad imitazione dei
fedeli di Tessalonica.
Perché la parola porti frutto
Nella parabola di Isaia l’efficacia della parola di Dio è proclamata senza accennare ad
alcuna condizione. Anche nella parabola di Gesù è chiara l’affermazione che questa parola
è feconda. Il fatto che una parte va perduta perché caduta su terreno non idoneo non scoraggia il seminatore, il quale sa che comunque la sua fatica sarà ricompensata. Dio non si
stanca di seminare, con la parola che ha affidato alla Chiesa, con l’opera dello Spirito
Santo, che, mandato dal Padre nel nome di Gesù, ci ricorda quello che egli ci ha detto (cf
Gv 14,26). Ma se è certo che la parola di Dio non ritorna a lui senza effetti, senza aver
operato ciò che Dio desidera e compiuto ciò per cui l’ha mandata, è altrettanto certo che,
perché questo avvenga, l’uomo, a cui è destinata, la deve accogliere con una risposta
libera, animata da buona volontà. L’uomo non può essere assimilato in tutto alla terra,
irrigata dalla pioggia e dalla neve per una legge naturale che fa il suo corso senza
l’intervento della volontà.
Secondo s. Giovanni Crisostomo, riferendosi alla «gloria futura che dovrà essere
rivelata», Paolo fa capire che essa è già presente ora, ma nascosta, come spiega più
chiaramente quando dice: «La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3).
Applicando questa considerazione alla parabola del seme, possiamo dire che, nell’attesa
di entrare pienamente, con tutta la creazione, «liberata dalla schiavitù della corruzione,
nella libertà della gloria dei figli di Dio», l’uomo gode già, in questa vigilia di attesa che è
la vita presente, della libertà che, sorretta dalla grazia di Dio, lo rende capace di
accogliere e far fruttificare il seme che Dio getta nel suo cuore.
Perciò i Padri, riflettendo sulla spiegazione della parabola che si legge in Matteo, ci vedono le disposizioni del cuore richieste a chi ascolta la parola: attenzione e fede, fortezza
nelle tribolazioni e persecuzioni, distacco dalle preoccupazioni della vita presente e dall’attrattiva ingannevole delle ricchezze. Per s. Massimo di Torino, per esempio, le «spine
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del cuore» sono «le preoccupazioni mondane che quando crescono nel cuore dell’uomo vi
soffocano il comandamento del Salvatore. Chi è sollecito per le cose del mondo come
potrà essere sollecito per Cristo?». Per il Crisostomo, «l’inganno della ricchezza» si può
intendere in due sensi: che con gli affanni che procura impedisce di veder chiaro, e con i
piaceri che offre indebolisce la volontà. S. Gregorio Magno non manca di un certo humour
quando si domanda: «Se fossi io a voler intendere le ricchezze sotto l’immagine delle spine, chi mai mi crederebbe? Basta dire che le spine pungono, mentre le ricchezze danno un
gran piacere. Eppure sono spine: con le preoccupazioni che procurano lacerano lo spirito
e, quando inducono al peccato infliggono, in certo modo, una ferita che sanguina».
Possiamo riferire sia alla «tribolazione o persecuzione a causa della parola», sia alle
«sofferenze del momento presente» di cui parla s. Paolo, la semplice osservazione del
Crisostomo: «Queste sofferenze, quali che siano, terminano con la vita presente, mentre
i beni futuri dureranno per i secoli senza fine».
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