gfp.219 - la Contraddizione, 73, Roma 1999 STATISOVRASTATI riferimenti in margine a un convegno su marxismo e istituzioni __________________________________________________ Si è tenuto a Roma, sabato 26 giugno 1999, presso la Casa delle culture, il convegno “Statisovrastati Marxismo e istituzioni”, organizzato dalla Rete dei comunisti. Hanno partecipato, in forma discorsiva di discussione seminariale e confronto, Vincenzo Accattatis, Guglielmo Carchedi, Mauro Casadio, Andrea Catone, Luigi Cortesi, Salvatore d’Albergo, Carla Filosa, Roberto Fineschi, Stefano Garroni, Alessandro Mazzone, Gianfranco Pala; sono intervenuti Umberto Calamita e Guglielmo Musso; ha coordinato Sergio Cararo. [Roberto Galtieri, Domenico Losurdo, Malcolm Sylvers e Maria Turchetto hanno aderito ma non sono poi potuti intervenire]. Dedichiamo la riflessione a Gianfranco Ciabatti, che fin dal no.0 della rivista (e anche prima) si impegnò per affrontare a fondo questo tema. Col presente resoconto redazionale (che non coinvolge la responsabilità diretta degli intervenuti), si vogliono solo dare alcuni riferimenti generali e preliminari delle tematiche affrontate. Questo resoconto non pretende completezza e sarà perciò sicuramente insufficiente. Ma serve per rinviare successivamente i lettori al volume [per le edizioni La Città del Sole di Napoli] che in autunno raccoglierà gli interventi scritti dei partecipanti (non propriamente gli “atti” del convegno, di difficile utilizzabilità immediata, dato il ricordato carattere discorsivo dell’incontro). La discussione prende le mosse dalla preliminare individuazione di cinque punti, tra loro strettamente interconnessi: i. l’approfondimento della contraddizione tra stato e società civile - e dunque anche della reciproca rispondenza (pure formale, dal suffragio universale al maggioritario); ii. la trasformazione del rapporto tra classi e stato - lo stato di classe, col governo “comitato d’affari” della borghesia, di contro allo stato universale, con le sue mistificazioni di “stato sociale” e di “democrazia”; iii. lo spostamento delle decisioni al livello sovrastatuale e sovranazionale (Fmi, Nato, Ue, ecc.) - in contraddizione con la sovranità nazionale, e dunque sempre più con perdita di democrazia; iv. l’accentuazione del carattere coercitivo delle istituzioni - epperò nelle sembianze formalmente consensuali e falsamente garantiste del neocorporativismo; v. la contraddizione della disgregazione statuale col ricorso a violenza e guerra - di fronte all’esigenza imperialistica di “stabilità” nel contrasto crescente tra mercato mondiale e stati nazionali, a esso resi conformi e funzionali. Codeste tematiche rimandano, per un dibattito marxista che pretenda di essere scientificamente tale, ai fondamenti della teoria dello stato. Il rapporto tra classi e stato impone una concezione dello stato come organizzazione di classe e del dominio di classe, laddove la forma organizzata del potere e della violenza (controllo e repressione militare e giudiziaria) pone i rapporti di proprietà come fondamento del potere, del diritto, delle istituzioni e dello stato stesso. Lo stato capitalistico si rappresenta dunque storicamente come coercizione di classe, dittatura della borghesia, in contrapposizione all’idea dello stato universale, di tutti i cittadini, mettendo in evidenza l’antiteticità tra il concetto di classe e la figura di cittadino. La funzione dello stato borghese si distacca, perciò, dalla sua figura universale per la necessità di mediazione interna alle componenti della classe dominante, e non tra le classi. In codesta funzione, la corrispondenza storica delle forme dello stato nazionale alle forme del capitale è tale da non annullare, bensì trasformare, la forma di stato nazionale, attraverso il suo adeguamento alla fase sovranazionale del capitalismo imperialistico. Precisamente in tale adeguamento si pone la duplicità di forma degli stati nazionali, dominante in continuo accentramento e dominato in via di disgregazione; a siffatto processo rispondono perciò, specificamente, le forme sovrastatuali delle istituzioni sovranazionali. Sulla base di questi fondamenti teorici, le forme della democrazia storicamente determinate mostrano quale sia, di fatto, l’equivalenza del problema della democrazia e di quello dello stato (per dirla con Lenin), attraverso le diverse interpretazioni storiche e teoriche di democrazia; del resto, è evidente anche la contraddizione in termini di “democrazia borghese”, capace con un’aggettivazione che limita il potere a una classe minoritaria di annullarne la generalità popolare. Il potere della borghesia capitalistica e le sue corrispondenti forme statuali e sovrastatuali adatta l’immagine della propria dittatura di classe all’assetto delle istituzioni formalmente democratiche. Sicché la questione democratica si mostra nelle forme della rappresentanza politica, e la “repubblica democratica” (secondo l’insegnamento di Marx e Engels) segue il contraddittorio percorso storico del suffragio universale, fino alla sua vanificazione: il sistema parlamentare &%PAGINA& ed elettorale, sotto i colpi della centralizzazione monopolistica finanziaria del dominio imperialistico, scivola dal voto di censo al maggioritario e svuota i parlamenti, col sostegno del “cretinismo parlamentare” dell’asinistra. Il problema delle istituzioni, pertanto, lungi dal poter essere espunto dalla riflessione e dalla lotta relativa alla riproduzione e trasformazione dei rapporti sociali - rapporti sociali di produzione, in primo luogo - ne è parte integrante a tutti gli effetti sostanziali e di contenuto. La tendenziale supremazia dell’esecutivo sul legislativo e il giudiziario, e la pratica della repressione democratica nello stato di diritto, al pari dei referendum come forma di cattura plebiscitaria, passiva e qualunquista, reazionaria di massa - una “nuova plebe” costituita in antitesi al riconoscimento di classe - sono la precisa raffigurazione del ruolo moderno delle istituzioni della borghesia capitalistica. Di qui, è possibile individuare quali siano le diverse forme della rappresentanza di classe: da un lato, il governo e tutto l’apparato racchiuso nel formalismo parlamentare si configurano agevolmente come organizzazione istituzionale diretta delle diverse frazioni della classe dominante nel potere statuale; dall’altro, il partito, nelle sue mutevoli determinazioni storiche, non serve in quanto tale alle classi proprietarie ma può porsi unicamente come forma di opposizione organizzata delle classi lavoratrici, non già come opzione ma come loro espressione soggettiva in quanto riflesso oggettivamente necessario dei rapporti di proprietà e potere [non per caso la revocabilità è principio di base peculiare della rappresentanza proletaria]. La specificità storica delle funzioni economiche dello stato borghese, nelle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico, è quindi la tematica che sorge nell’epoca moderna per la difesa di classe violenta fino alla forma armata - della proprietà privata delle condizioni oggettive della produzione, configurando in tal modo i nuovi compiti statuali. Il superamento dalla mera esazione fiscale ed erogazione di spesa istituzionale (beni pubblici, militare, giustizia) segue l’adeguamento crescente alle forme di funzione del capitale. Sicché, mentre vi è il mantenimento diretto da parte del capitale delle prevalenti funzioni produttive e mercantili, lo stato nazionale, prima, e le istituzioni sovrastatuali, poi, sono chiamati in causa in relazione alla forma di funzione nella metamorfosi del capitale monetario. L’identificazione della peculiarità monetaria, quindi, assegna allo stato e alle istituzioni come ruolo economico principale quello adeguato al compimento di tale ciclo di metamorfosi. L’assunzione storica delle funzioni di controllo della moneta (banca centrale e debito pubblico) sono il segno impresso dal denaro capitale, e la gestione “pubblica” della moneta ne è la figura di controllo capitalistico, del denaro in quanto capitale nella circolazione del plusvalore. L’amplificazione della funzione monetaria dello stato nello sviluppo monopolistico finanziario transnazionale del capitale conduce all’estensione di tale funzione agli organismi sovrastatuali, a carattere prevalentemente monetario (Fmi, Bm, Bri, Bce-Maastricht). In questo senso, le funzioni monetarie statuali e sovrastatuali sono - e altro non possono essere - le intrinseche e necessarie conseguenze della mediazione interborghese: mai possono divenirne cause prime, e perciò esse ne costituiscono la parvenza fenomenica “che abbaglia l’occhio”, e che confonde. Nel generale processo di trasformazione del rapporto funzionale tra capitale, stato e istituzioni, il neocorporativismo può essere inteso come tendenza universale nella fase dell’imperialismo transnazionale in tutto il mercato mondiale - in una forma consensualmente coatta del potere di classe che l’ideologia geopolitica e sociologica della “globalizzazione” prova a nascondere. Infatti, le differenti articolazioni e forme di esistenza del sistema neocorporativo del cosiddetto “nuovo ordine mondiale” si estrinsecano attraverso la diversa posizione gerarchica degli stati, dominanti e dominati, secondo i rapporti di classe che mediante essi si impongono appunto su scala mondiale. Il neocorporativismo ha ormai portata mondiale - e non come semplice propaganda - bensì con la sua capacità di imporre la coesistenza e la cooperazione nella stabilità imperialistica del “nuovo ordine”, con la guerra e con la pace, con la guerra fredda e con la pace armata. Il fondamento di tutto ciò sta nella crisi irrisolta del capitalismo monopolistico finanziario, che cerca di recuperare, insieme all’appropriazione di plusvalore, il controllo sulla scienza e il comando politico. Il processo di accumulazione su scala mondiale, al quale guarda il neocorporativismo sovranazionale, deve oggi attraversare ancòra un lungo processo di distruzione e ricostruzione del capitale. Le guerre servono anche, se non soprattutto, a questo; e, abbassando le generali condizioni di vita delle popolazioni coinvolte, distruggono anche la parte variabile del capitale in eccesso, attraverso la riduzione del salario sociale - in misure e forme diverse - sia nei paesi deboli disgregati e sconfitti sia in quelli imperialisti dominanti (l’esperienza pilota del fascismo sul taglio dei salari è esemplare). Con la crisi di lavoro lo “stato sociale” non serve più per il capitale all’interno degli stati nazionali, e l’oppressione delle masse è il segno che le classi lavoratrici sono sconfitte ovunque. Nel neocorporativismo mondiale si può riconoscere oggi il fascismo senza “camicia nera”, senza personaggi da operetta, ma piuttosto celato dietro le forme “umanitarie” di un mercato tanto della pace quanto della guerra. Ma l’unificazione del mercato mondiale è una necessità economica e politica del neocorporativismo transnazionale - non è un’opzione ideologica - per tentare di risolvere la crisi di accumulazione. Entro tale processo diminuisce vieppiù la riconoscibilità nazionale, attraverso la funzionalità universale della flessibilità nel comando sul lavoro, della concertazione dettata dall’organizzazione di classe proprietaria, e la Contraddizione no. 73 &%pag della conseguente stabilità economica, sociale e politica: il tutto è servito in tavola con sparizione del nemico e insieme a esso della conflittualità. Il comando internazionale di classe passa negli organismi sovrastatuali ed è delegato agli stati nazionali (o magari a loro organismi specifici, come la banca centrale più che il governo - la Fed più che Clinton) per carpire il consenso coatto sulla politica economica e sulla gerarchia interstatuale, anche sul piano militare condiviso dall’“approvazione” delle masse. La complessiva strutturazione del sistema neocorporativo, pertanto, passa dalle sue forme materiali (rapporti di produzione), a quelle istituzionali (di tipo statuale) e ideologiche. In tal senso, è importante seguire la dinamica del processo di corrispondenza storica delle forme del capitale e del potere - ossia del loro omomorfismo. Dalle precedenti figure dello stato liberale, rispondente alle esigenze dello sviluppo del capitale concorrenziale (dopo la fase della cosiddetta “accumulazione originaria”, durante la quale anche le istituzioni dello stato erano solo formalmente sussunte da quelle assolutiste del passato prossimo), il capitale monopolistico finanziario ha messo in movimento un lungo processo di trasformazioni istituzionali per giungere a una nuova fase di sottomissione reale dello stato, ormai inadeguato come “stato di diritto” nelle vesti liberaldemocratiche cucitegli addosso dal liberoscambismo nella fase precedente di sottomissione reale dell’epoca della prima rivoluzione industriale. Nel riassetto delle istituzioni statuali, la forma stato contemporanea opera come riflesso del capitale monopolistico finanziario transnazionale che l’informa di sé, con la medesima simultaneità di accentramento forte (operatività decisionistica dell’esecutivo) accompagnato da un decentramento diffuso, “modello” mutuato dall’organizzazione della holding (avocazione assolutistica del processo decisionale strategico presso l’impresa madre; parvenza del decentramento “partecipativo” a unità produttive di dimensioni ridotte, con dislocazione, esternalizzazione, “filiera”, “impresa-rete” ecc.). Siffatto omomorfismo tra capitale e istituzioni, tra microstrutture aziendali e macrostrutture statuali e sovrastatuali (corrispondenza “formalmente formale” - minoranze che comandano grazie a sistemi maggioritari, decentramenti operativi federati sotto il controllo centralizzato delle strutture decisionali e del “presidente” dell’organismo di potere, ecc.), si estende sistematicamente: significativo è l’esempio di qualsiasi “banca centrale”, formalmente separata dal governo nazionale, la quale, attraverso il “governo della moneta”, è l’anello di congiunzione superiore degli apparati di governo (centrale e locali) con gli omologhi organismi sovrastatuali, a loro volta espressione politica del grande capitale finanziario transnazionale. La metamorfosi degli stati nazionali segna questo nuovo passaggio - dalla fase di sottomissione formale della vecchia configurazione istituzionale (quella liberista concorrenziale) alla fase monopolistica finanziaria transnazionale di sottomissione reale di stati e nazioni alla gerarchia del nuovo ordine mondiale - in una forma duplice: l’una dominante coesa, l’altra dominata e disgregata; due modelli di stato, attraverso la disgregazione delle vecchie formazioni nazionali nelle zone oggetto delle reciproche contese interimperialistiche tra gli stati forti per il loro espansionismo (rete bellica di scontri per il dissolvimento istituzionale, politico e sociale delle regioni mondiali colpite, con la mistificazione di autonomie subnazionali e regionali, territoriali ed etniche o religiose). L’odierna fase - dove il “anche diritto del più forte è un diritto, e il diritto del più forte continua a vivere sotto altra forma anche nel loro stato di diritto” (per dirla con Marx), come diritto delle classi dei grandi proprietari - impone oggettivamente, come si precisa nel prosieguo del dibattito, la costruzione di binomi quali centralizzazione produttiva ed esecutivo presidenzialistico, controllo di minoranza dei “pacchetti di sindacato azionario” e sistema maggioritario, decentramento produttivo e federalismo amministrativo, joint venture, opa e amministrazioni controllate (“protettorati” imperialistici) di sottostati disgregati, ecc. Sicché gli elementi del neocorporativismo possano mostrarsi oggi apertamente nelle forme statuali, non più come arbitrio dispotico (che rimane di riserva, all’occorrenza), bensì come “democrazia autoritaria”, falsamente partecipata ma realmente tirannica; così, siffatto dominio neocorporativo, nelle ricordate forme del consenso coatto, appare condiviso e partecipato anche nella repressione mirata e selettiva. Per questa via, nel rapporto tra società civile e stato, che all’inizio si è detto appunto essere contraddittorio, alla divaricazione reale il neocorporativismo sovrappone codesta corrispondenza estraniata, appunto quale contraddizione in processo [la storia dello “stato sociale”, nel processo di adeguamento della società al capitale e di mistificazione di forme mutuate di “socialismo” dal capitale, può essere proficuamente letta in questa prospettiva]. I 150 anni trascorsi dal Manifesto del partito comunista (e quella è stata l’occasione originaria per il presente dibattito) offrono il materiale storico reale per convalidare l’attualità dei concetti là formulati, e allo stesso tempo per indagare, sulla base da essi rappresentata, le nuove caratteristiche (politiche sociali economiche) assunte dallo stato e dalle istituzioni sovrastatuali nella fase dell’imperialismo transnazionale. I riferimenti qui proposti considerano il dibattito sullo stato - capace di superare le “specializzazioni” disciplinari - come premessa necessaria per un approfondimento, sia scientifico che politico, della comprensione dei processi nazionali e internazionali, che non sono necessariamente corrispondenti, costretti come sono a operare in condizioni determinate. &%PAGINA& Per fondare categorialmente la teoria dello stato - nel puro concetto stesso di “stato”, come espressione della volontà interindividuale, laddove gli individui diventano soggetti - si può trovare nella teoria hegeliana, che Marx ha ereditato, la soluzione del problema di Rousseau: ma già in Hegel è possibile rintracciare le classi. Lo stato moderno si presenta concettualmente come corpo collettivo, soggetto alla volontà universale. Senonché, con Marx, diviene esplicito, nello stato e nella società civile, il rapporto tra le classi - come modo di esistenza delle forze produttive e come egemonia, in senso proprio - che, nella dittatura della borghesia in quanto egemonia di classe nelle cui forme si riproducono i rapporti sociali capitalistici, vanifica ogni dimensione universalistica, etica e ideale, del concetto di stato. Muovendo dalla definizione marxista di stato nel modo di produzione capitalistico - lo stato borghese come stato del capitale, senza altre specificazioni quali democratico, sociale, libero, costituzionale, ecc., inutili orpelli incapaci di modificarne il predicato di “borghese” - la supponente sua socialità universalistica si capovolge nel carattere di classe dello stato borghese separato e sovrimposto alla società civile. Sicché l’estensione dei “servizi sociali” a tutti i “cittadini” è parte dell’equivoco del supposto universalismo dello stato (sociale). Nella fase dell’imperialismo transnazionale si sovrappone un’altra metafora di “universalismo”, data dal carattere sovrastatuale delle istituzioni sovranazionali di classe gestite da quell’aggregato spurio costituito dalla grande borghesia monopolistica finanziaria; tanto spurio e astorico che essa è costretta a un’autorappresentazione, ma in nome dell’universalità dell’umanità, contro tutti gli “altri da sé”: il vero nemico mondiale della borghesia imperialistica rimane sempre il proletariato di tutti i paesi, con le popolazioni di cui esso è parte. Agli stati forti e ai loro organismi sovrastatuali non occorre più invocare la “patria”: per un capitale la cui patria è il mondo intero, basta il richiamo alla solidarietà intorno ai diritti umanitari, occultando la contraddizione posta nell’antagonismo sociale e nella lotta di classe. Sul rapporto tra stato e società civile, diverse sono state le interpretazioni del marxismo; se, da un lato, la storia dei movimenti comunisti offre importanti indicazioni, dall’altro, le basi teoriche delle opere di Marx e Engels meritano un più preciso e attento riferimento, in quanto i messaggi non possono passare traducendo analisi scientifiche in parole d’ordine. In Italia, a es., la lettura datane da Gramsci, su entrambi i piani, conduce allo snodo teorico del confronto con Bordiga; per altri versi, ad altro livello, è significativo il passaggio da Lenin a Stalin. I molti equivoci della tradizione gramsciana - fino a quella che, nel gramscismo togliattiano, secondo alcune letture critiche è una “strozzatura” del marxismo - hanno condotto al riassorbimento del partito comunista nello stato. In questo senso, il percorso del comunismo italiano entro le istituzioni può essere di insegnamento, prima di cercare affrettatamente nuove scappatoie, se utilizzato come “modello di laboratorio” per spiegarne la decadenza - fino alla morte del Pci: ma, contro ogni provincialismo, va detto che alla proposta comunista non è affatto mancato un radicamento storico. Cionondimeno, in Italia quel poco di democrazia (e la sua stessa parvenza) che c’è è stata conquistata dal movimento operaio con le lotte di quattro generazioni: lotte che hanno seguìto il ciclo di accumulazione, ottenendo concessioni parziali sulla spesa sociale, con bruschi tagli e strette autoritarie in concomitanza con le fasi di crisi. L’esperienza del comunismo italiano, da Bordiga e Gramsci al togliattismo, presenta problemi di storia che sono fondamentali e seri: e non tanto come riflessione sull’azione politica, quanto come questione teorica, ossia come ulteriore indagine concettuale [se si vuol dar credito alla convinzione di Marx che il proletariato fosse l’erede della filosofia classica tedesca]. In una fase “non rivoluzionaria” come l’attuale, le scelte politiche e culturali rimandano perciò alla rappresentanza di classe, fino alla questione dell’internazionalismo proletario. Ma nello spostamento di peso dall’elemento strutturale a quello sovrastrutturale, si può equivocare sul processo di presa di potere che, secondo Marx, ha motivazioni oggettive economiche e solide basi materiali, non potendosi cioè ridurre a mera egemonia politica e ideologica. Il rapporto tra struttura e sovrastruttura, infatti, è anzitutto categoriale e va seguìto nel suo processo di costruzione, come Marx fa nel Capitale in quanto teoria della società, e della riproduzione pratica di questa nelle classi e nello stato: da lì occorre partire. Prevale, tuttavia, nell’effettualità storica la falsa coscienza comune del superstizioso idealismo e formalismo dello stato (Marx), che pretende di indicare lo stato stesso come super partes: da qui proprio il neocorporativismo è diventato patrimonio ideologico dell’asinistra, fino a presentarsi, per mascherare l’autoritarismo col consenso coatto, come trasfigurazione mutuata dal socialismo [è sia il caso poliedrico dello “stato sociale”, sia soprattutto quello del fascismo, parto degenere del socialismo massimalista, ma anche forse delle forme paternalistiche, retoriche e assitenzialiste, del realsocialismo burocratizzato]. Se lo “stato ideale” di Rousseau non c’è, rimane solo la coercizione di classe del presente, al più mascherata col consenso plebiscitario che - proprio col “corporativismo” - conferisce una falsa immagine di sé come “corpo collettivo”. In realtà c’è lo smembramento dello stesso stato di diritto, in una soffusa invisibilità del processo in atto, mediante la disgregazione della coscienza di classe e l’azzeramento della mediazione della soggettività (per sé), lasciando operare solo la mera oggettività della classe (in sé) incapace di darsi un’organizzazione. Sicché, col neocorporativismo - con l’imbrigliamento della volontà e il dominio la Contraddizione no. 73 &%pag ideologico - l’azzeramento dell’antagonismo provoca la fine del conflitto di classe nell’azione soggettiva del proletariato, ma non nella realtà. Le forme storiche dell’imperialismo contemporaneo connesse all’irrisolta crisi da sovraproduzione (di merci e di capitali, inclusi gli uomini come forza-lavoro ridotti a “neoplebe”) si mostrano come tirannide che è la “verità” di una “democrazia” che non esiste, né in Italia né altrove nel mondo in cui predomina il modo di produzione capitalistico - esercitata da una borghesia transnazionale (che non è classe egemone, come furono le borghesie storiche) in una forma che fa leva sullo squilibrio tra processo mondiale di integrazione reale e svuotamento della politica, fino nelle diaspore del localismo etnicistico, senza lasciare spazio inutile alle illusioni. Nel processo che va dal plebiscito ai referendum, ci si chiede in quale “democrazia” viviamo: una falsa democrazia che riscopre il bonapartismo delle lobbies, perfino nella corruzione della mitica Svizzera. L’equivoco della democrazia diretta è sbandierato dal populismo che, attraverso azioni come quelle di Pannella & Bonino, punta all’affermazione del leader carismatico - uno scivoloso “unto del signore” come vorrebbe essere Berlusconi che, in stile fascistico, dice: “col cuore sono sociale” - per il controllo del potere, e grazie a esso dei mezzi di comunicazione e dell’ideologia. Infatti, il problema sta nel contrasto tra rappresentazione della realtà e realtà stessa, sicché il compito teorico politico comunista è nell’essere all’altezza di saper cogliere quel contrasto, dato che in ultima analisi non sono i mezzi di comunicazione che dànno il potere, ma questo che permette l’uso di quelli (il monopolio tv è esercitato in violazione della sentenza formale della corte costituzionale). Ma, approfondendo l’analisi, si capisce che al di là delle vesti da buffone indossate dal ducetto di turno, ben prima del fascismo il liberalismo (e quello italiano è incluso) si è sempre mostrato autoritario, mutuando sia il bonapartismo francese sia il bismarckismo tedesco. Infatti, andando da prima a dopo il fascismo, occorre sottolineare come il codice tuttora vigente in Italia sia di quel periodo, dunque anagraficamente ben più vecchio della costituzione, che pure è additata come politicamente obsoleta. Sicché i due poli del liberismo si mostrano chiaramente come stato poliziotto più stato liberale, entrambi però rivolti contro la critica marxista della proprietà, critica contro la quale soltanto è realmente indirizzato il cosiddetto “pensiero unico”: cosicché tale oppressione statale permanga anche nelle forme assistenziali e “sociali”. Di fronte a ciò sta la miseria del tatticismo sulle forme istituzionali e di governo - il decisionismo tradotto in premeriato, cancellierato, presidenzialismo, ecc.; il parlamentarismo raggirato col neo-parlamentarismo (come il marxismo col neo-marxismo ...) - che approda, con Schmitt e Tronti, alla pretesa “autonomia del politico”. La prospettiva giuridica non è un cascame della teoria marxista, se quest’ultima la si vuole considerare nella sua totalità rispetto all’evoluzione dello stato moderno. Viceversa, una “marxologia” ripiegata su se stessa, e divisa da esperienze chiuse e divaricate, non sa separare nell’interpretazione la teoria marxista dello stato dalla concezione borghese dello stato liberale e dello stato di diritto, da cui in definitiva è completamente catturata. Più in generale, diventa sempre meno di moda “studiare” e sempre più, al contrario, seguire l’ideologia dell’avversario permeata di irrazionalismo e popolata da “soggetti desideranti” che accettano le mistificazioni. Sicché, pure la corrispondente teoria del partito (lasciata nelle mani di intellettuali e accademici) si rabbassa a un esercizio meramente autoreferenziale dei gruppi dirigenti, che al massimo diventano liberali di seconda mano. Certo, la critica di Gramsci è stata prevalentemente rivolta contro la cultura borghese, quale rovesciamento della realtà, anche di quella formale e istituzionale (come nel caso della teoria fascista della “costituzione materiale” concepita per legittimare la sistematica violazione della carta vigente). La borghesia, infatti, ha scritto quei pezzi di “carta” proprio per garantirsi e per sancire il suo potere, e li rispetta solo finché non gli si trasformino in altrettanti vincoli: al che può accadere, come oggi in Italia, che vengano nominalmente difesi singoli punti della carta costituzionale, epperò nella completa accettazione della sua generale modifica, in nome di una realtà che l’ha resa obsoleta. Ma una critica culturale, propriamente detta - come appunto quella gramsciana - non è affatto solo ideologica, come molti “comunisti” intendono. Allora se, rispetto a Marx, si entra nel merito della critica gramsciana della cultura borghese, la stessa ideologia appare come il modo in cui gli agenti della produzione esprimono la loro consapevolezza - o i limiti di essa - in merito alla discrepanza che deriva dal rapporto tra forze produttive e rapporti di produzione (da intendere, ovviamente, non in senso dogmatico). Purtuttavia, la valenza strutturale della lettera di Marx è spesso sminuita in molto marxismo politico. Cionondimeno, la cultura borghese - e quella del diritto ne fa pienamente parte, come quella dell’economia, della storia, ecc. - serve per capire, e criticare, la struttura del potere (forse non per caso la magistratura si è rivelata essere l’unico spazio di democrazia politica nelle istituzioni). Codesta cultura serve per capire, a es., il passaggio dal liberalismo al fascismo e al nazismo, oppure il suo apparente percorso inverso fino al neocorporativismo. La diffusione di tale intelligenza critica può far comprendere al movimento operaio anche contro la falsa sinistra - significato e limiti della democrazia. Solo così, a es. in Europa, si capisce il significato della supremazia del Consiglio sul parlamento (che non fa leggi), o il senso del governo di &%PAGINA& burocrati e giudici della Corte (che fa prevalere la costituzione liberista europea su quella sociale italiana, annullandola), o ancora la portata dell’“indipendenza” della Bce (i cui dirigenti operano per conto del capitale finanziario), o infine perché il segretario della Nato aggressiva (Solana, ex “pacifista socialista”) sia nominato ministro della difesa europea (Pesc). Soltanto se svolta su tali basi materiali e culturali, l’opposizione al potere borghese non rimane puramente ideologica; giacché è proprio l’ideologia borghese che ha sue carenze strutturali intrinseche (nel concetto di “persona”), le quali riflettono il compimento della missione storica del capitale che se, da un lato, non essendo “uno”, è incapace di autogoverno a causa della sua insopprimibile molteplicità, dall’altro, non può esso stesso produrre nuovi soggetti come espressione univoca e non contraddittoria del proprio modo di produzione. Questo è il significato più rilevante della “provvisorietà”, per così dire, dello stato nazionale nel suo còmpito di mediare gli interessi particolari tra la molteplicità dei centri di decisione capitalistici (la loro immanente concorrenzialità) attraverso la giurisdizione su un mercato nazionale: ciascuno stato di contro a ciascun altro, mobilitando tutte le forze “interne” economiche, politiche e militari. Senonché, appena il capitale aspira a forme sovrastatuali del “governo mondiale” si aggira nella “cattiva infinità” di un processo di approssimazione empirica a esso (com’è stato per il superimperialismo revisionistico), e per ciò stesso irraggiungibile. Perciò, laddove la dimensione nazionale e le forme di aggressione illimitata sono occultate nella sovrastatualità dell’alternanza dialettica tra pace e guerra, la delegittimazione del diritto internazionale serve per affermare il diritto dell’arbitrio e della forza, come nuova forma dell’imperialismo transnazionale: la Nato ne è oggi la rappresentazione più cospicua. L’impotenza delle masse si misura constatando come, al cospetto di codesto processo involutivo, si riscontrino sempre più appena “opinioni” contrarie, prive di capacità di controllo. Si assiste a una esibizione di “faciloneria”, assai pericolosa politicamente, quando si passa dalla concezione di uno stato che è tutto a quello di uno stato che non c’è più. Del resto, se si ritenesse che non ci sia decadimento dello stato nazionale, il ricorso alla guerra richiederebbe allora un’altra spiegazione: posto che la mondializzazione è sempre stata inscritta nel mercato capitalistico - di fronte alle mode ambigue della “geopolitica” e della “geoeconomia”, caratterizzanti la cosiddetta “globalizzazione”, ideologicamente costruita per offuscare la categoria di imperialismo - è opportuno considerare lo stato nella sua funzione di mediazione tra dimensione nazionale e internazionale. Senonché su tale funzione incombe il peso enorme del rischio di guerra totale con ordigni nucleari. L’organizzazione della forza dell’imperialismo europeo attua una propria strada, e cerca di trovarla soprattutto nell’incorporazione militare della Ueo nella Ue. Dal patto originario del 1948 tra Gran Bretagna, Francia e Benelux per costituire il pilastro europeo difensivo della Nato (ossia degli Usa), contro la “minaccia” sovietica, qualsiasi crescita d’importanza della Ueo avrebbe significato un indebolimento della Nato. Cosicché, dissolta l’Urss, gli Usa hanno stretto i tempi per subordinare l’Europa, “nel suo stesso interesse” e per assolvere a còmpiti “umanitari”, allestendo la trappola di un “imperialismo dal volto umano”, che evita così di essere attaccato se non mostra alla “plebe” la sua chiara aggressività. La recente aggressione Nato ha questo significato profondo, al di là delle tragiche manifestazioni esteriori, in quanto processo oggettivo che si riflette sui soggetti reali. E la Nato è la maschera indossata dal governo Usa, per coprire lo “scandalo biblico” dei bombardamenti con la strumentalizzazione dei “diritti dell’uomo”. Ma l’Onu, con i suoi silenzi, non è meglio della Nato. Quindi, da un lato, ciò ha determinato un processo di integrazione e omogenizzazione istituzionale con effetti di ampia diffusione, dall’altro, ha sempre più acceso in tale processo gli interessi dei singoli stati, in forme che si cumulano vicendevolmente. Il sommarsi di quei due aspetti ha indotto una crescente integrazione del mercato europeo, la quale ha le sue radici in un passato (ormai anche abbastanza remoto), sia per evitare il ripetersi del vecchio protezionismo sia per contenere allora il “pericolo comunista” e bloccare allo steso tempo il revanchismo espansionista tedesco. Senonché codesto disegno non poteva che riprodurre su scala allargata le medesime contraddizioni, determinando i caratteri dell’espansionismo europeo in chiave fortemente protezionistica continentale. Entro le reciproche limitazioni tra Germania e Francia (fin dall’inizio della “guerra fredda”), il polo imperialistico europeo - nella sua forma storicamente nuova composta da stati diversi, rappresentati direttamente da grand commis provenienti dall’oligarchia del capitale finanziario - si è posto in funzione anti-Usa, per concorrere alla suddivisione dei vantaggi dell’intero sistema imperialistico, in una sorta di joint venture o di opa ostile. In questo senso non basta e non serve al proletariato mondiale un ruolo antiamericano, nella contrapposizione tra imperialismo a base Usa e imperialismo a base europea, se si smarrisce il senso di classe dell’imperialismo tutto. Gli organismi sovrastatuali, pertanto, servono per mediare tra gli interessi reciprocamente conflittuali dei capitalisti transnazionali e tra questi e i perduranti interessi localistici “nazionali”, incorporati e rappresentati nei rispettivi stati nel processo di sottomissione reale. La conflittualità intercapitalistica, attraverso la crisi, nella guerra economica e commerciale, trova la sua traduzione militare (a opera degli stati forti, entro le mutate forme sovrastatuali) nelle nuove tipologie di la Contraddizione no. 73 &%pag guerra armata di “debole intensità” e “alta tecnologia”, diffusa e permanente, sotto il dominio della “condizione atomica”. Il disegno disgregatore ha le sue premesse nel piano Kissinger 74 rinnovate nella “guida di difesa strategica” Wolfowitz-Cheney 93, ed è entrato nel pieno della sua attuazione con la crisi “finanziaria” Messico 94, la crisi “etnica” Bosnia 95, la “bolla speculativa” Estasia 97, il collasso Russia 98, fino alla deflagrazione Balcani 99. Si tratta di un’unica linea di sviluppo della controffensiva imperialistica a guida Usa, con la joint venture europea ogni volta che è stato possibile (livello minimo di partecipazione: Gran Bretagna). La disgregazione degli stati deboli, a opera di quelli forti, ha avuto una sua peculiare attuazione nell’Europa del dopo ‘89, dove tanti nuovi più piccoli stati - tre volte tanti - sono scaturiti da quelle che furono Urss, Cecoslovacchia, Jugoslavia. Ma la fine del “realsocialismo” non è certo stata la causa della cosiddetta mondializzazione [alla francese; o globalizzazione all’inglese, secondo la prevalente accentuazione culturale, prima che linguistica], bensì il suo prodotto. La formazione di un mercato mondiale unificato imponeva la fine del Comecon, giacché il capitale, per sua natura, si pone come capitale globale, tendente a rompere ogni barriera statale. Da questo punto vista (quale che fosse la reale “natura sociale” dell’Urss, come si diceva una volta) il realsocialismo poteva comunque rappresentare una forma di controllo tale da ostacolare il movimento transnazionale del capitale. Dopo la I guerra mondiale, con il fascismo e con la crisi del 1929, il capitalismo monopolistico di stato (così com’era concepito in Occidente) poneva lo stato come forma di sostegno per il capitale stesso, pienamente espressosi con la fase dell’accumulazione del secondo dopoguerra. Ma con la nuova fase di crisi, apertasi prima degli anni ‘70, quella medesima funzione dello stato, considerato inefficiente per il suo assistenzialismo, sembra essa stessa entrare in crisi dando il via al processo di privatizzazioni, in quanto queste rispondono alle esigenze di espansione del capitalismo imperialistico transnazionale. I grandi conglomerati, gruppi e holding, possono solo travalicare i limiti statali - e questo era già chiaro a Marx nella sua epoca. Lo stato si è sempre strutturato come strumento del capitale - concettualmente apartitico e anazionale - in una continua trasformazione che segue l’evoluzione del ciclo di accumulazione del modo di produzione capitalistico; al punto che la maggiore sua efficienza richiesta dal capitale fa sì che, pure con le privatizzazioni, aumenti l’intervento statale complessivo, e soprattutto nella forma militare a scapito di quella sociale, per proseguire ad alimentare lo scontro interimperialistico. Dunque, lo stato nazionale non è l’ideale dello stato etico della nazione, ma soltanto l’apparato statale organizzato su un dato territorio. [Nel secolo scorso l’“economia nazionale” - e così si chiamava in tedesco l’economia politica - era semplicemente il luogo di operazione del capitale]. Perciò, la funzione degli stati nazionali fu quella di creare mercati nazionali più vasti, anche se tardivi come per Germania e Italia. Siccome il capitale transnazionale non ha più il bisogno unilaterale e limitato di un mercato nazionale, la tendenza contemporanea è alla rottura degli stati nazionali per la formazione di stati regionali (o di macroregioni transfrontaliere), compatti ma integrati in più vaste “comunità di mercati” (come le chiama Omahe). Da qui deriva quel duplice processo che vede, da un lato, ipotesi di separatismo negli stati capitalistici avanzati (Paesi baschi, Quebec, Padania, ecc.) e, dall’altro, frantumazione indotta degli stati subalterni dominati (Russia, Jugoslavia, ecc.) per avere “sottostati” deboli da opprimere e da controllare direttamente e agevolmente. Ma in entrambi i casi, dati i profondi mutamenti della fase di sviluppo del modo di produzione capitalistico, la richiesta di separazione o autonomia entro uno stato centrale assume un significato assai diverso che in passato, forse anche opposto. Se la “federazione” proviene dall’esterno o dall’alto degli interessi del capitale transnazionale, per rompere il centralismo dello stato unitario, allora si tratta di disgregazione, piuttosto che di autodeterminazione. Il giudizio comunista su tale questione, oggi, non può prescindere dalla fase storica e dalle forme del processo che il federalismo assume. Il federalismo stesso si è trasformato: dagli elementi di progressività che, pur entro la salvaguardia dell’unità dello stato centrale, presentava nell’800, in quei casi in cui forme di autodeterminazione erano avanzate da “popoli con una storia”, si è giunti al controllo imperialistico dispotico che del federalismo conserva solo la forma vuota di un decentramento delegato. Nella trasformazione delle contraddizioni del rapporto tra stato e società civile, il ruolo del sociale, per adeguare le capacità di lotta, segue la subalternità crescente delle istituzioni nazionali alle strutture sovrastatuali nelle forme del neocorporativismo. Quando Engels parlava di “superstizione dello stato” intendeva mettere in guardia contro l’illusione di autonomia universalistica dello stato stesso; e proprio codesta illusoria superstizione è così in grado di disgregare la coscienza di classe, sostituendola prima con la finzione formalistica dello stato di tutti e poi introducendo dall’alto elementi di dissoluzione dell’autentica solidarietà orizzontale di classe e di popolo, fino alle mistificazioni etniche e religiose. Del resto, tale è la pervasività del capitale finanziario che esso, non potendo assolutamente fare a meno dello stato, fa sì che i poteri occulti e mafiosi che promanano dal suo corpo si presentino in forme “istituzionali”. &%PAGINA& Il nemico di classe ha vinto strategicamente tre volte su scala mondiale: con la fine del protosocialismo sovietico, ha avviato il ricordato processo di disgregazione internazionale, configurando quella lunga strategia di guerra che è appena cominciata. Di questa vittoria serve individuare la nozione globale della catena che ci lega, andando al di là della descrizione di aspetti parziali della “fenomenologia del potere”. La giusta denuncia di indignazione va bene, ma solo essa altro non è che un sostituto romantico della politica. Per comprendere le ragioni di quella vittoria, che è la nostra sconfitta, occorre riprendere lo studio dei concetti che spieghino nei dettagli il funzionamento del modo di produzione capitalistico contemporaneo. 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