Alan W. Watts, La via dello zen Traduzione di Lucio Marco Antonicelli da Capitolo primo La filosofia del Tao Il buddismo zen è una pratica e una visione della vita che non appartengono a nessuna categoria formale del moderno pensiero occidentale. Non è religione o filosofia; non è una psicologia o un tipo di scienza. È un esempio di ciò che è noto in India e in Cina come una “via di liberazione”, ed è analogo sotto questo riguardo al taoismo, al vedanta e allo yoga. Come sarà presto evidente, una via di liberazione non può avere nessuna definizione positiva. Dev’essere suggerita dicendo ciò che essa non è, un po’ come uno scultore rivela una figura rimuovendo le schegge da un blocco. Storicamente, lo zen può considerarsi come il compimento di lunghe tradizioni di cultura indiane e cinesi, sebbene sia in realtà molto più cinese che indiano e, dal dodicesimo secolo, si sia profondamente radicato (e molto costruttivamente) nella cultura del Giappone. Come fruizione di queste grandi culture, e come esempio unico e particolarmente istruttivo di via di liberazione, lo zen è uno dei più preziosi doni dell’Asia al mondo. Le origini dello zen sono sia taoiste sia buddiste e, poiché il suo profumo è così tipicamente cinese, è forse meglio iniziare indagando sui suoi antecedenti cinesi, e illustrando al tempo stesso mediante l’esempio del taoismo ciò che s’intende per via di liberazione. Gran parte della difficoltà e delle mistificazioni che lo zen presenta allo studioso occidentale è il risultato della sua scarsa familiarità con i modi di pensiero cinesi; modi che differiscono sostanzialmente dai nostri e che sono, proprio per questa ragione, di particolare valore per noi nella ricerca di una prospettiva critica delle nostre idee. Il problema non è qui semplicemente di padroneggiare idee diverse, che differiscono dalle nostre come, diciamo, le teorie di Kant differiscono da quelle di Descartes, o quelle dei calvinisti da quelle dei cattolici. Il problema è di tenere in dovuto conto le differenze nelle premesse fondamentali del pensiero e nei veri e propri metodi del pensare; differenze così facilmente trascurate, che le nostre interpretazioni della filosofia cinese tendono a essere una proiezione, nella terminologia cinese, di idee tipicamente occidentali. Questo è l’inevitabile svantaggio di chi studia la filosofia asiatica coi metodi puramente letterari della cultura occidentale, poiché le parole possono essere comunicative soltanto fra coloro che dividono esperienze analoghe. Ciò non significa che una lingua così ricca e articolata come l’inglese sia semplicemente inetta a esprimere idee cinesi. Al contrario, essa è in condizione di esprimere assai più di quanto abbiano creduto possibile taluni studiosi cinesi e giapponesi dello zen e del taoismo, la cui dimestichezza con l’inglese lascia alquanto a desiderare. La difficoltà risiede non tanto nel linguaggio quanto nei modelli di pensiero, che sono finora sembrati inseparabili dal modo accademico e scientifico di affrontare un argomento. L’inadeguatezza di questi modelli per argomenti come il taoismo e lo zen è largamente responsabile dell’impressione che lo “spirito orientale” sia misterioso, irrazionale e imperscrutabile. Inoltre, non bisogna credere che questi soggetti siano così tipicamente cinesi e giapponesi da mancare di qualsiasi punto di contatto con la nostra cultura. Mentre è vero che nessuna delle suddivisioni formali della scienza e del pensiero occidentali corrisponde a una via di liberazione, il mirabile studio di R.H. Blyth sullo Zen in English Literature ha mostrato molto chiaramente che le intuizioni essenziali dello zen sono universali. La ragione per cui a prima vista il taoismo e lo zen rappresentano un tale enigma per la mente occidentale sta nel fatto che noi abbiamo una visione ristretta del sapere umano. Per noi quasi tutto il sapere consiste in ciò che un taoista chiamerebbe conoscenza convenzionale, poiché noi non sentiamo di sapere veramente qualcosa se non possiamo rappresentarcela con parole, o con qualche sistema di segni convenzionali come le notazioni della matematica e della musica. Tale conoscenza è detta convenzionale perché è un fatto di convenzione sociale né più né meno che i codici del linguaggio. Proprio come la gente che parla il medesimo linguaggio ha taciti accordi riguardo le parole da usare per indicare determinate cose, così i membri di ogni società e di ogni cultura sono tenuti uniti da vincoli di comunicazione che poggiano su ogni specie di accordo riguardo la classificazione e la valutazione di azioni e di cose. Così, il compito dell’educazione consiste nel rendere i fanciulli adatti a vivere in una società, persuadendoli a imparare e ad accettare i suoi codici, ossia le norme e le convenzioni dei rapporti mediante le quali la società si mantiene unita. V’è dapprima la lingua parlata. Al bambino si insegna ad accettare “albero” e non “brum-brum” come segno convenuto per quella cosa (indicando la cosa). Non abbiamo alcuna difficoltà a comprendere che la parola “albero” è una questione di convenzione. Meno ovvio è invece il fatto che la convenzione governa anche la definizione della cosa alla quale la parola è assegnata. Difatti al bambino non si deve soltanto insegnare con quali parole indicare le cose, ma anche il modo in cui la sua cultura ha tacitamente convenuto di distinguere le cose, di segnarne i confini, nei limiti della nostra quotidiana esperienza. Così, la convenzione scientifica decide se un’anguilla debba essere un pesce o un serpente; e una convenzione grammaticale determina quali esperienze debbano essere definite oggetti e quali eventi o azioni. Quanto sia arbitraria tale convenzione lo si può vedere dalla domanda: “Che cosa avviene del mio pugno (nome-oggetto) quando apro la mano?”. L’oggetto svanisce come per miracolo, poiché un’azione era mascherata da un nome generalmente assegnato a una cosa. In inglese le differenze fra cose e azioni sono distinte in modo netto, seppure non sempre logico, ma un gran numero di parole cinesi ha funzione sia di nome che di verbo, così che una persona che pensi in cinese non incontra serie difficoltà a rendersi conto che gli oggetti sono anche eventi, che il nostro mondo è una raccolta di processi piuttosto che di entità. Oltre al linguaggio, il bambino deve accettare molte forme di codici, poiché le esigenze del vivere associato richiedono convenzioni come i codici di legge e di etica; di etichetta e di arte; di pesi, misure e numeri; e – soprattutto – di “ruolo”. V’è difficoltà a comunicare fra di noi, se non possiamo identificarci in termini di ruolo: padre, insegnante, lavoratore, artista, “bravo ragazzo”, gentiluomo, sportivo, e così via. Nella misura in cui ci identifichiamo con tali stereotipi e con le regole a essi collegate di condotta sociale, noi sentiamo di essere qualcuno, e i nostri compagni hanno meno difficoltà ad accoglierci (ossia, a identificarci e a sentire che siamo “sotto controllo”). L’incontro di due estranei a un ricevimento è sempre un po’ imbarazzante quando l’ospite non ne abbia specificato i “ruoli” nel presentarli, poiché nessuno dei due sa quali regole di conversazione e di condotta osservare. Ancora una volta, è facile rendersi conto del carattere convenzionale dei ruoli o condizioni. Un uomo che sia padre, infatti, può essere anche medico e artista, allo stesso modo che impiegato e fratello. Ed è ovvio che pure la somma totale di questi ruoli-etichette sarà lontana dal fornire una descrizione adeguata della personalità dell’uomo, anche se può collocarlo nell’ambito di una certa classificazione generale. Ma le convenzioni che dominano l’identità umana sono più sottili e molto meno ovvie di queste. Noi impariamo perfettamente, seppure molto meno esplicitamente, a identificare noi stessi con una veduta del pari convenzionale della nostra personalità: l’“io”, o la “persona”, convenzionale è composto in misura prevalente di una storia che consiste di memorie selezionate, a partire dal momento della nascita. Secondo la convenzione, io non sono semplicemente ciò che sto facendo ora: sono anche ciò che ho fatto; e la mia versione convenzionale del mio passato è fatta in maniera da sembrare quasi più il reale “me stesso” di ciò ch’io sono in questo momento. Quel che io sono – infatti – appare così fuggevole e intangibile, mentre quel che io sono stato è fisso e definitivo. È la solida base per le previsioni di quel che sarò in futuro, e ne consegue che sono più strettamente identificato con ciò che non esiste più che con ciò che è realmente! È di grande importanza riconoscere che le memorie e gli eventi passati, che costituiscono l’identità storica di un uomo, altro non sono che una selezione. Dalla concreta infinità di eventi e di esperienze, taluni sono stati scelti – cioè astratti – come significativi, e questa significanza è stata naturalmente determinata da modelli convenzionali. Infatti, la conoscenza convenzionale denuncia nel suo carattere stesso di essere un sistema di astrazioni; consistente di segni e di simboli nei quali cose ed eventi sono ridotti ai loro contorni generali, come il carattere cinese jen sta per “uomo”, essendo l’estrema semplificazione e generalizzazione della forma umana. Lo stesso dicasi di parole non ideografiche: le parole “uomo”, “pesce”, “stella”, “fiore”, “corsa”, “crescita” denotano tutte classi di oggetti e di eventi che si possono riconoscere come membri della loro classe da semplicissimi attributi, astratti dalla intera complessità delle cose medesime. L’astrazione è in tal modo quasi una necessità per comunicare, giacché ci rende capaci di rappresentare le nostre esperienze con semplici e rapide “prese” mentali. Quando noi diciamo di poter pensare solo una cosa alla volta è come se dicessimo che l’Oceano Pacifico non può essere inghiottito tutto d’un fiato. Dev’essere preso in una tazza e mandato giù a sorsate. Le astrazioni e i segni convenzionali sono come la tazza: riducono le esperienze a unità abbastanza semplici da poter essere comprese una alla volta. In maniera analoga, le curve si misurano riducendole a una sequenza di minuscole linee diritte, o pensandole in termini di quadrati che esse attraversano quando vengono tracciate su di un grafico. Altri esempi dello stesso processo sono le fotografie dei giornali e le trasmissioni televisive. Nelle prime, una scena naturale è riprodotta in una serie di puntini chiari e scuri disposti su uno schermo o “retino” così da dare l’impressione di una fotografia in bianco e nero, se guardata senza lente di ingrandimento. Per quanto possa rassomigliare alla scena originale, la fotografia riprodotta non è che una ricostruzione della scena in termini di piccoli segni; un po’ come le nostre parole convenzionali e i nostri convenzionali pensieri sono ricostruzioni di esperienze in termini di segni astratti. In modo ancora più simile al processo del pensiero, la telecamera trasmette una scena naturale attraverso una serie lineare di impulsi che possono passare lungo un filo. Così, la comunicazione mediante segni convenzionali di questo genere ci dà una traduzione astratta, “una cosa per volta”, di un universo in cui le cose accadono “tutte in una volta”; di un universo la cui realtà concreta sfugge sempre, in questi termini astratti, a una perfetta descrizione. Con questi mezzi, la descrizione perfetta di una particella di polvere richiederebbe un tempo infinito, dato che si dovrebbe tener conto di ogni punto del suo volume. […]