Prefazione "L'energia dei combustibili fossili è davvero l'unica che può soddisfare i bisogni della nostra vita moderna e della nostra civiltà? No, il problema fondamentale è riuscire a fissare l'energia solare attraverso opportuni processi chimici [...] Se la nostra civiltà nera e nervosa, basata sul carbone, sarà seguita da una civiltà più tranquilla, basata sull'utilizzo dell'energia solare, non ne verrà certo un danno al progresso e alla felicità umana." Giacomo Ciamician, "The Photochemistry of thè Future", Vili Congresso Internazionale di Chimica Applicata New York, settembre 1912 (Science 1912, 36, 385) Giacomo Ciamician, professore di Chimica all'Università di Bologna dal 1889 al 1922, è stato un ricercatore di grande talento: le sue scoperte hanno spaziato in numerosi campi della chimica e nel 1914 sfiorò la conquista del Premio Nobel. Ciamician è a tutt'oggi considerato il padre della fotochimica, la scienza che studia i processi chimici indotti dalla luce. Chi, come noi, studia e lavora in questo settore della ricerca scientifica subisce ancora il fascino delle sue intuizioni. Le frasi riportate all'inizio di questa pagina, pronunciate nel 1912 in una famosissima conferenza tenuta negli Stati Uniti, colpiscono profondamente per la lucidità profetica con cui Ciamician intuì, oltre 90 anni fa, la necessità impellente, per l'umanità, di cambiare la fonte di approvvigionamento di energia. L'era dei combustibili fossili, che tanto ha migliorato la vita di una parte (piccola) dell'umanità, non può continuare all'infinito. La "nervosità", l'inquietudine della nostra civiltà che già Ciamician notava è oggi accresciuta di fronte a problemi che appaiono ormai troppo complessi per essere governati: la crescente disuguaglianza nella distribuzione del benessere, l'aumento della popolazione, l'impoverimento delle risorse naturali, l'inquinamento della biosfera. È fuor di dubbio che al cuore di questi problemi, che devono essere affrontati con serietà ed equilibrio, vi sia la questione della produzione, del controllo e dell'utilizzo delle risorse energetiche. In questi anni ci è capitato, per lavoro o per passione, di parlare del complesso problema dell'energia con tanti studenti e con tanta gente comune. Abbiamo notato, spesso al di là di ogni attesa, un grande interesse ed un desiderio sincero di capire di più. Abbiamo pensato, quindi, di raccogliere i dati fondamentali del problema energia, senza alcuna pretesa di essere esaustivi in una materia cosi vasta e complessa, e di presentarli assieme alle idee e ai pensieri che sostengono e nutrono il nostro lavoro di ricercatori e la nostra attenzione per le persone. I messaggi che emergono da questo libro potranno a volte apparire poco gradevoli. Non è facile ammettere, ed esserne convinti per primi, che in un mondo caratterizzato dalla disuguaglianza noi, cittadini dei Paesi sviluppati, viviamo in una condizione di grande privilegio. Può disturbare riconoscere che il modello di sviluppo della nostra società e le nostre comode abitudini comportano lo spreco di energia e di altre risorse non rinnovabili e l'inquinamento dell'ambiente. Ci viene spontaneo cambiare canale quando la televisione mostra per l'ennesima volta il crollo delle Torri Gemelle o le città irachene distrutte dai bombardamenti, col petrolio che sta, nascosto, sullo sfondo della scena. Ci preoccupa l'aumento continuo del prezzo del petrolio e forse, ancor più, il propagarsi di malattie asmatiche ed allergiche fra i nostri bambini e le oscure minacce del surriscaldamento del Pianeta. Come si possono risolvere questi problemi? E una grande sfida quella che ci attende: dobbiamo affrontarla al più presto, prima che siano catene di eventi fisici ingovernabili e/o dinamiche politiche e sociali basate sulla violenza a portare l'umanità verso un futuro tragico. È proprio un'analisi seria e consapevole di questi problemi che ci può permettere di dare, come società e come singoli, un contributo per far si che il mondo diventi più vivibile per tutti i suoi abitanti. Siamo in tanti su questo piccolo pianeta che ha solo una risorsa inesauribile: l'energia che ci giunge dal Sole. Al momento, non conosciamo altri luoghi dell'Universo in cui sia possibile vivere. Non possiamo quindi pensare che, in un mondo finito, i nostri consumi possano crescere all'infinito, a meno di non essere "o un pazzo o un economista", come ebbe a dire Kenneth Boulding negli anni Ottanta. La seconda parte della precedente affermazione può sembrare oltraggiosa, ma è certo che la conoscenza del II Principio della Termodinamica potrebbe far ravvedere i sostenitori del grande bluff della crescita infinita e che un corso di termodinamica ben fatto sarebbe di grande beneficio per gli studenti di Economia, particolarmente per quelli che un giorno aspirassero a diventare Ministri. Questo libro può essere letto a due livelli. Il lettore "curioso", interessato al problema energia in senso generale, può ignorare le citazioni bi-Miografiche e trovare molte informazioni esposte in maniera divulgativa, assieme a vari spunti di riflessione che spesso spaziano anche in altri campi. Il lettore "esperto", l'insegnante e lo studente potranno approfondire i problemi attingendo ad una vasta bibliografia. Pensiamo, infatti, che il grande tema dell'energia, con tutti i suoi riflessi nella vita sociale e nella politica internazionale, dovrebbe essere al centro di vivaci discussioni nelle scuole di ogni ordine e grado. Saremmo poi particolarmente lieti se qualche esponente della classe politica, alle prese con decisioni delicate e gravose riguardo l'energia e l'ambiente, trovasse utile il nostro lavoro. Abbiamo infatti constatato che, spesso, i politici hanno una preparazione molto superficiale su questo tema e, di conseguenza, sono facilmente influenzati da sedicenti "esperti" e "consulenti", termini con i quali a volte si ammantano persone che hanno ben altri interessi. Speriamo anche che questo volumetto possa essere utile per i responsabili dei mezzi di comunicazione di massa, che dovrebbero trattare con più attenzione e più rigore il delicato problema dell'energia. Eviterebbero, ad esempio, di far credere ai lettori (e a quei politici che si informano solo sfogliando la "mazzetta" dei giornali) che il rilancio dell'energia nucleare sia una strada facilmente percorribile, il carbone sia "pulito", il metano non inquini, l'era dell'idrogeno sia dietro l'angolo e il motore ad acqua sia pronto ad andare in moto. Oggi come non mai nel mondo dei mass media e in quello della politica c'è bisogno di persone scientificamente preparate e coraggiose. Nicola Armaroli, Vincenzo Balzani Bologna, novembre 2004 Acronimi - EPT: Energy Payback Time (tempo di ammortamento energetico) - EROEI: Energy Return on Energy Invested (energia netta) - EU: European Union (Unione Europea) - IGCC: Integrated Gasifier/Combined Cycle (impianti a ciclo combinato per la produzione di elettricità che utilizzano combustibili liquidi o solidi gasificati) - OPEC: Organization of Petroleum Exporting Countries (organizzazione cui aderiscono alcuni dei maggiori produttori mondiali di petrolio) - PD: Power Density (densità di potenza di una data forma di energia) - SUV: Sport Utility Vehicle (automezzo sportivo pesante) Abbreviazioni - cvh: cavallo vapore ora - EU-15: Europa a 15 Stati membri (fino al 1 maggio 2004) - EU-25: Europa a 25 Stati membri (dal 1 maggio 2004) - kcal: chilocaloria - kgoe : kg of oil equivalent (kg di petrolio equivalente) - kWh: chilowattora - J: joule - ppm: parti per milione - tep: tonnellata equivalente di petrolio Capitolo i Introduzione È meglio aspettarsi il prevedibile che essere sorpresi dall'inatteso. Andre Isaac 1.1 L'astronave Terra La Terra è una specie di astronave che viaggia nell'infinità dell'universo. A quanto ci è dato conoscere, è l'unico luogo dell'universo in cui la vita si e sviluppata e può continuare a persistere, anche in forme molto complesse. Sull'astronave Terra si trovano attualmente più di 6 miliardi di persone. Come vedremo meglio in seguito, queste persone non viaggiano in "scompartimenti" della stessa "classe": tutt'altro! L'astronave Terra non è isolata; se lo fosse, la situazione dell'umanità sarebbe insostenibile in quanto le risorse contenute nella stiva si esaurirebbero rapidamente. Per fortuna la Terra riceve dal Sole, sotto forma di luce, la risorsa più importante: l'energia. Forse non è un caso che il libro della Genesi dica che la Terra era informe e deserta e Dio si affrettò a creare la luce: "In principio Dio creò il ciclo e la Terra. La Terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: "Sia la luce". E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona" (Genesi 1, 1-4). L'energia che ci viene dal Sole, la luce, è una risorsa che non ha sostituti: è la linfa vitale dell'umanità ed è anche usata, direttamente od indirettamente, nella produzione di tutti i beni e servizi di cui l'umanità gode. 1.2 La popolazione La popolazione della Terra è attualmente di circa 6,2 miliardi di persone, che presumibilmente diventeranno circa 8 miliardi nel giro di 20 anni (Tabella 1). La variazione nel numero degli abitanti della Terra, a mano a mano che passa il tempo, è determinato da due fattori, natalità e mortalità, che sono a loro volta controllati da numerosi altri fattori, spesso contrastanti, di natura economica, sanitaria, politica, militare, religiosa, culturale, ecc., che sono mutevoli nel tempo e che si influenzano a vicenda (Cohen J. E. 1998). Spingersi nelle previsioni al di là di qualche decina di anni è molto rischioso. Quello che è certo è che non ci possono essere, in tempi brevi, bruschi cambiamenti, perché quello demografico è un campo in cui c'è molta inerzia. Lo sviluppo della popolazione è come la corsa di un pesante autocarro: difficile da frenare quando è in velocità, difficile da accelerare quando va piano. Il problema di un troppo rapido aumento della popolazione, e quindi dei mezzi per controllarlo, è stato ed è ancora oggetto di dibattiti e di controversie, anche molto forti. La discussione si è a poco a poco spostata dal problema della scarsità della produzione agricola a quello della scarsità di altre risorse (ad esempio, energia ed acqua) e a quello dell'inquinamento e della degradazione del pianeta causato da un uso violento da parte dell'uomo (Cohen J. E. 1998). Fino a qualche decennio fa la popolazione della Terra cresceva con un ritmo molto alto, che oggi è in sostanziale rallentamento (Lutz et al. 2001). Le ragioni sono molteplici. Tra esse vanno menzionate la crescente diffusione della pianificazione familiare e la forte incidenza, specie nei Paesi poveri, di malattie letali che colpiscono soprattutto le persone in età fertile, come la sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS). Si stima che la crescita sarà sempre più lenta e che, fra circa 100 anni, la popolazione mondiale si stabilizzerà attorno ai 12 miliardi, il doppio di quello attuale. Come si vede dalla Tabella 1, la nazione più popolata è la Cina, seguita dall'India. Nonostante il drastico calo del tasso di natalità, imposto per legge, la popolazione cinese sta crescendo ancora, per inerzia, con un ritmo molto sostenuto: più di 1 milione di persone al mese, circa 25 persone al minuto. L'India, dove il tasso di fertilità è più alto, cresce più velocemente della Cina; verso il 2050 Cina e India avranno ciascuna circa un miliardo e mezzo di persone e, insieme, costituiranno un terzo della popolazione mondiale. Anche in Africa la popolazione è in aumento, ma con grandi differenze fra nazione e nazione. Nei Paesi sviluppati il tasso di natalità è molto basso e in alcuni di essi, come Russia, Giappone, Germania, Italia e Spagna, ci sarà una consistente diminuzione della popolazione nei prossimi anni. In questi stessi Paesi, a causa della contrazione delle nascite e dell'allungamento della vita media, si assiste anche a un forte invecchiamento della popolazione, solo in parte compensato dall'immigrazione (Doyle 2002; Economist 2004a). Attualmente su scala mondiale c'è un aumento di circa 80 milioni di persone ogni anno ed il 97% dei nuovi nati appartiene alle regioni meno sviluppate. Bisogna quindi aggiungere 80 milioni di posti a tavola ogni anno. Questo sarebbe niente se non ci fosse il problema che più di un miliardo di persone già nate non sono a tavola (Figura 1): sono sotto la tavola, ad aspettare le nostre briciole. Questa, evidentemente, non è una situazione di pace. Noi, cittadini dei Paesi sviluppati, siamo tutti a tavola e ogni volta che quelli sotto la tavola tentano di arrampicarsi (si pensi allo sbarco degli immigrati o agli esodi biblici dalle regioni martoriate dalle guerre e dalle carestie) li respingiamo o li ignoriamo (Doyle 2002). Quando poi quelli che stanno sotto la tavola, presi dalla disperazione, diventano terroristi (ad esempio, i palestinesi che vivono da decenni in campi profughi nel disinteresse di tutto il mondo) la nostra reazione è la rappresaglia o, addirittura, la guerra. A peggiorare la situazione contribuisce lo sviluppo di reti terroristiche internazionali estremamente ricche e potenti, pronte a strumentalizzare queste sacche di disperazione e a proclamarsi paladine dei diseredati. Le disuguaglianze fra Paesi sviluppati e Paesi poveri appaiono chiaramente anche dai dati della Tabella 1 e di quelle che seguiranno. La necessità di colmare le gravissime disuguaglianze esistenti è non solo un imperativo morale, ma anche una necessità se si vuole che il mondo viva in pace. 1.3 Le risorse energetiche La luce del Sole è il "combustibile" che fa funzionare la più grande fabbrica della Terra: la fabbrica del cibo, cioè l'agricoltura. Il modo in cui funziona questa fabbrica si può schematicamente descrivere nel modo seguente (Figura 2): nelle piante, mediante un processo chiamato fotosintesi, la luce del Sole trasforma sostanze a basso contenuto energetico (acqua, H2O, e biossido di carbonio, CO2, un sostanza gassosa chiamata anche anidride carbonica) in sostanze ad alto contenuto energetico (ossigeno, O2, e prodotti vegetali, "cibo"). Mangiando cibo e respirando ossigeno gli esseri viventi ottengono l'energia loro necessaria, ritrasformando il cibo e l'ossigeno in acqua e biossido di carbonio. È un ciclo chiuso, che potrà durare finché arriverà sulla Terra la luce solare, cioè per almeno altri cinque miliardi di anni. A partire dagli ultimi 150 anni l'umanità (o meglio, una parte di essa) sta utilizzando con grande voracità il prezioso tesoro di energia che ha trovato nelle viscere della Terra: i combustibili fossili. La formazione dei combustibili fossili (carbone, petrolio e gas naturale) è avvenuta nel sottosuolo, in assenza di ossigeno, in seguito alla trasformazione di organismi vegetali ed animali mediante processi chimici molto complessi avvenuti nel corso di centinaia di milioni di anni (Dukes 2003). Quando i combustibili fossili, prelevati dal sottosuolo, vengono fatti combinare con l'ossigeno, si ottiene energia per far funzionare le macchine e ottenere lavoro (Figura 3). La composizione chimica dei combustibili fossili è molto variabile, ma gli atomi che li costituiscono sono solo di due tipi: carbonio, C, e idrogeno, H. A causa della loro origine, i combustibili fossili sono di fatto energia solare fossile, immagazzinata sotto forma di legami chimici C-C e C-H. Quando i combustibili fossili, prelevati dal sottosuolo, in seguito ad un innesco (ad esempio, una scintilla o una fiamma) reagiscono (bruciano) con l'ossigeno che si trova nell'aria, i legami chimici C-C e C-H si rompono e se ne formano altri, C-O e H-O. Queste trasformazioni chimiche portano alla formazione di acqua e biossido di carbonio, nonché alla liberazione di grandi quantità di energia. A causa della loro relativa abbondanza e facilità di reperimento, i combustibili fossili sono oggi utilizzati in grandi quantità per far fronte, in modo diretto o indiretto, a tutti i bisogni (e sprechi) della nostra civiltà delle macchine (Tabella 2). Essi costituiscono una preziosa risorsa energetica, ma si tratta di una risorsa non rinnovabile. In altre parole, possono ESSERE utilizzate una sola volta. 1.4 L'ambiente L'uso su larga scala dei combustibili fossili sta causando danni all'uomo e all'ambiente. La combustione di carbone, petrolio e gas naturale, infatti, oltre a sostanze inquinanti alle quali si accennerà in seguito, genera CO. Questo gas è già presente nell'atmosfera ed è indispensabile per la crescita delle piante e la mitigazione naturale del clima. Tuttavia l'aumento della sua concentrazione è molto dannoso poiché ha l'effetto di diminuire la dispersione del calore irraggiato dal globo terrestre, con conseguente aumento della temperatura ("effetto serra", da cui anche il nome di "gas serra", spesso usato per indicare il biossido di carbonio e al-ui gas che provocano lo stesso fenomeno) (Hansen J. 2004). Un quintale di carbone, di benzina e di gas naturale bruciando con l'ossigeno producono, rispettivamente 3,66, 3,08 e 2,74 quintali di CO2. Poiché le quantità di combustibili fossili attualmente usate sono enormi (Tabella 2), enormi sono anche le quantità di CO2 immesse nell'atmosfera (Tabella .5). Oggi nella comunità scientifica più accreditata (Kerr 2004a) c'è un diffuso consenso riguardo al fatto che l'aumento di temperatura causato da questo apporto di gas serra in atmosfera potrà avere serie conseguenze, come lo scioglimento di una parte dei ghiacci polari (Miller L. e Douglas 2004; Schiermeier 2004b), con aumento del livello dei mari e la conseguente inondazione di città costiere, nonché variazioni climatiche consistenti, più o meno marcate a seconda delle regioni del globo. Per quanto riguarda l'inquinamento dell'aria ed i suoi effetti sulla salute si veda il cap.2. 1.5 Un intreccio di problemi Quelli relativi alla popolazione, all'energia e all'ambiente sono problemi fortemente intrecciati. Sull'astronave Terra il numero di "passeggeri" sta aumentando e quelli che già vi si trovano sono collocati in "classi" molto, troppo diverse. Tutti i passeggeri vogliono avere più energia: molti, per un bisogno effettivo, collegato alla necessità di sviluppo delle loro nazioni povere e tecnologicamente arretrate; altri, invece, nei Paesi più ricchi e più progrediti, per sostenere e, se possibile, aumentare ancora lo spreco di energia al quale sono stati abituati fin dalla nascita. Nel contempo, però, è necessario diminuire il consumo dei combustibili fossili sia perché sono una risorsa limitata e non rinnovabile, sia perché il loro uso causa pesanti danni all'ambiente. Come si possono risolvere questi problemi? Come si può, allo stesso tempo, colmare le disuguaglianze che minacciano la pace, soddisfare le esigenze di chi è abituato al lusso ed anche allo spreco, far fronte alla limitata disponibilità di combustibili fossili ed evitare i danni causati alla biosfera dal loro uso? Ci attende una grande sfida: dobbiamo al più presto affrontarla, prima che siano eventi fisici ingovernabili e/o dinamiche politiche e sociali basate sulla violenza a portare l'umanità verso un futuro tragico. 1.6 Uno sguardo al passato Breve storia dell'energia e dei trasponi L'umanità ha ottenuto per circa 5000 anni la quasi totalità delle sue risorse energetiche primarie da biomasse, in particolare dal legname. Il continente europeo è stato oggetto per secoli di un lento ma progressivo disboscamento: il legname era la materia prima per costruire abitazioni, navi, manufatti e per soddisfare i bisogni energetici basilari (cottura di-i cibi, riscaldamento). Questo uso intensivo delle risorse forestali divenni-ad un certo punto insostenibile, e ci fu carenza di legna (Smil 2000b). A cominciare dall'Inghilterra, tra il XVI ed il XVII secolo, si iniziò a sfruttare un combustibile che era meno facile da reperire (occorreva scavare), ma molto più abbondante: il carbone. Esso era già noto, ma fino a quel mo mento non era stato largamente sfruttato perché le abbondanti risorse di legname, molto più "comode" da reperire, lo rendevano poco attraenti-. Il carbone però è un combustibile molto più potente della legna, a parità di peso, e con esso era possibile ottenere una quantità molto più elevata di lavoro utile. La domanda di carbone cresceva di continuo e questo obbligò ad estrazioni sempre più in profondità; agli inizi dell'Ottocento erano già state realizzate miniere a 300 metri di profondità. Inutile ricordare che le condizioni di vita dei minatori, spesso donne e bambini, erano in molti casi insopportabili ed il costo umano di questa attività estrattiva fu enorme. È da allora che l'umanità ha cominciato a fare esperienza dei danni e non solo dei benefici portati dai combustibili fossili. Con una crescente disponibilità di carbone, cominciò anche ad aumentare la disponibilità di metalli lavorati, ricavati da processi di fusione in forni ad alta temperatura 1. Dall'inizio dell'Ottocento, cominciarono a comparire le prime lampade per l'illuminazione delle città, alimentate dal cosiddetto "gas di città", pure ottenuto dal carbone. La più impor-! tante innovazione resa possibile dall'abbondante disponibilità di carbone fu la caldaia a vapore, brevettata in Inghilterra da James Watt nel 1769. Essa convettiva l'energia chimica del carbone in energia termica e poi In energia meccanica. La forza muscolare umana ed animale e l'energia dei mulini a vento o ad acqua, dopo millenni, potevano essere comodamente sostituite da potenti macchine: era l'inizio della rivoluzione Industriale. La macchina a vapore di Watt, rudimentale ed inefficiente, i progressivamente perfezionata: alla fine dell'Ottocento le caldaie a va-ore erano trenta volte più potenti e dieci volte più efficienti dei modelli |il inizio secolo. Lo sviluppo di queste macchine, alimentate a carbone, Siede un'enorme spinta ai trasporti (Smil 2000b). Prima vennero installate su battelli fluviali, ma già nel 1833 ebbe luogo la prima traversata dell'Atlantico su nave a vapore, lungo la rotta Quebec-Londra. Di pari isso cominciarono a svilupparsi i trasporti su rotaia: la prima ferrovia pubblica iniziò ad operare in Inghilterra, tra Liverpool e Manchester, nel B30; il 3 ottobre 1839 Ferdinando II di Borbone inaugurò la Napoli-Ortici, prima ferrovia della nostra penisola. Nel 1904 entrò in attività \ Transiberiana, che ancora oggi è la ferrovia più lunga del mondo; essa allega Mosca all'estremo oriente siberiano lungo un percorso di oltre 9000 km. Nonostante questi progressi enormi, la caldaia a vapore non divenne il motore "primo" dominante nella civiltà delle macchine perché, a metà dell'Ottocento, cominciò a diffondersi l'uso di un formidabile concorrente del carbone, un combustibile molto più flessibile, facile da trasportare, meno inquinante e più potente: il petrolio. A differenza della "civiltà della legna", che finì per carenza di materia prima, la "civiltà del carbone" non finì per mancanza di carbone, ma perché si rese disponibile un'alternativa più valida, peraltro molto meno abbondante del carbone stesso. I primi ad estrarre petrolio dalle viscere della Terra, da tempi immemorabili, furono probabilmente i cinesi. Tuttavia l'estrazione industriale del cosiddetto "oro nero" ebbe inizio negli Stati Uniti nel 1859 (Oil Creek, Pennsylvania). Nella seconda metà dell'Ottocento l'estrazione petrolifera si sviluppò in altre zone degli Stati Uniti (Texas, California), in Romania, sul Mar Caspio e in Indonesia. Nel primo decennio del Novecento cominciarono le trivellazioni in Messico, Iran, Venezuela, mentre il primo pozzo petrolifero in Arabia Saudita iniziò la produzione solo nel 1938. Nel secondo dopoguerra cominciò a svilupparsi in modo consistente la ricerca di giacimenti di un altro combustibile, il gas naturale, le cui proprietà, prime fra tutte un minore impatto ambientale, lo rendevano un valido sostituto di carbone e petrolio in molte applicazioni. Oggi in Italia il consumo di gas naturale (generalmente indicato col nome di "metano") ha superato quello dei derivati del petrolio nella produzione di energia elettrica e calore per usi civili ed industriali (ENEA 2003). La disponibilità di petrolio diede impulso allo sviluppo dei motori a combustione interna (Smil 2000b). Con questa tecnologia non era necessario produrre vapore da usare come generatore di forza meccanica, come nel caso del carbone; il combustibile liquido o gassoso può, infatti, bruciare direttamente nella camera di combustione, senza l'intervento del vapore come "intermediario": i motori a combustione interna sono quindi intrinsecamente più efficienti. I brevetti in questo campo furono molteplici: motore a 4 tempi (Otto, 1876), motore a cilindro verticale (Daimler, 1885), motore diesel (Diesel, 1892). Nel 1885 Karl Ben/, costruì in Germania il primo autoveicolo a 4 ruote, dando inizio alla produzione artigianale di rudimentali automobili. Alla fine del secolo, cominciarono a sorgere le prime piccole industrie automobilistiche; la FIAT nacque nel 1899. Tuttavia la produzione industriale di automobili su larga scala ebbe inizio negli Stati Uniti per iniziativa di un giovane imprenditore del Michigan, Henry Ford. Egli mise sul mercato la prima autovettura di serie a prezzi contenuti, la Ford T. Da quel momento l'industria automobilistica ha iniziato uno sviluppo che, pur tra alti e bassi, continua tutt'oggi. La mattina del 17 dicembre 1903, sulle coste del North Carolina, si alzava timidamente in volo per la prima volta una macchina inventata dall'uomo, percorrendo un tratto di alcune decine di metri. Orville e Wilbur Wright, due geniali meccanici dell'Ohio, erano riusciti a coronare un sogno che per millenni aveva affascinato scienziati ed artisti: la possibilità di volare. Lo sviluppo dell'aviazione costituisce uno dei progressi tecnologici più rilevanti del secolo scorso e la premessa per l'inizio dell'esplorazione spaziale. Nel primo trentennio del Ventesimo secolo si moltipllcarono i prototipi di aerei e la storia dell'aviazione di quegli anni è piena di imprese memorabili e clamorosi fallimenti. Il primo volo di linea regolare, Parigi-Londra, ebbe inizio nel 1919. Solo dopo la seconda guerra mondiale, con lo sviluppo degli aerei a reazione e l'alleggerimento progressivo dei materiali costruttivi, si è affermata in modo definitivo i l'aviazione civile. Il primo jet è stato il Boeing 707, entrato in servizio 1958, cui hanno fatto seguito numerosi altri aerei di capienza sempre maggiore; queste macchine hanno sostanzialmente cancellato il trasporto Intercontinentale di persone via mare. Nel 2006 dovrebbe entrare in servizio il nuovo Airbus A-380, capace di trasportare sino a 555 passeggeri. Vttualmente è possibile raggiungere in aereo qualsiasi luogo della Terra meno di 24 ore, i treni possono viaggiare a 300 km/h, mentre l'auto-nobile è un mezzo di trasporto privato accessibile alla quasi totalità delle persone che vivono nei Paesi ricchi. Si stima che, per sostenere questo viluppo, nel corso del Ventesimo secolo siano stati estratti 250 miliardi tonnellate di carbone, 125 miliardi di tonnellate di petrolio e più di 5.000 miliardi di metri cubi di gas (Smil 2003). [ftnergia elettrica 17 ottobre del 1831 lo scienziato scozzese Michael Faraday dimostrò i era possibile trasformare l'energia meccanica in energia elettrica, e viceversa (induzione elettromagnetica). La storia narra (ma probabilmente il tratta di un episodio apocrifo) che al Primo Ministro britannico che gli Chiedeva a cosa servisse questa scoperta Faraday rispose: "Non lo so, ma ho la sensazione che un giorno lo Stato ci metterà sopra una tassa". La possibilità di generare forza meccanica dalla combustione di carbone, petrolio e gas, unita alla scoperta di Faraday, resero possibile la produzione su vasta scala dell'energia elettrica, che fu favorita anche dallo sviluppo di un nuovo motore "primo", la turbina a vapore (Smil 2000b). La prima centrale elettrica entrò in funzione a Londra il 12 gennaio del 1882 e lo sviluppo dell'elettricità si deve in buon parte al genio, all'inventiva ed alla capacità imprenditoriale di un manipolo di scienziati tra cui vanno ricordati Thomas Alva Edison (amico di Henry Ford), Nikola Tesla e George Westinghouse. Il processo di elettrificazione cambierà la faccia delle città e la vita di miliardi di persone. La nostra vita di cittadini dei Paesi più ricchi può essere così comoda e piacevole anche e soprattutto grazie a questa forma di energia disponibile ormai ovunque. La nostra dipendenza dall'elettricità ha raggiunto attualmente livelli così alti (talvolta patologici) che senza di essa non possiamo praticamente svolgere più alcuna attività in casa o sul luogo di lavoro. L'energia e l'agricoltura I combustibili fossili e l'elettricità sono la linfa vitale per l'agricoltura meccanizzata moderna (Heinberg 2004; Smil 2000b). Essi vengono usati per fabbricare ed azionare macchine agricole, per irrigare i terreni coltivati, per produrre ed utilizzare fertilizzanti e pesticidi, per conservare i raccolti, per lavorarli, per trasportarli al consumatore finale. All'inizio del Novecento ogni agricoltore americano produceva cibo sufficiente per nutrire altre sette persone; oggi lo stesso agricoltore può sfamarne un centinaio. Nel corso del XX secolo l'estensione della terre coltivate è aumentata di circa il 30%, a fronte di un aumento dei raccolti del 600%; questo è stato possibile grazie ad un aumento dell'8000% degli input energetici impiegati in agricoltura (Smil 2000b). Questa impetuosa crescita del settore è avvenuta di pari passo con un'impressionante diminuzione degli addetti. Nel 1860 gli agricoltori rappresentavano il 60% della forza lavoro degli Stati Uniti. Oggi il numero degli addetti all'agricoltura è così irrilevante che il mestiere di "agricoltore" non era più indicato nei moduli per il censimento dell'anno 2000. Nonostante questo, gli Stati Uniti restano la prima potenza agricola mondiale. L'energia e l'informazione La produzione e la distribuzione di un'enorme mole di informazioni è una delle caratteristiche distintive della società contemporanea. Quella che oggi si definisce la "Società dell'Informazione" è maturata in un crescendo di invenzioni che hanno caratterizzato gli ultimi 130 anni: il telefono, la radio, il cinema, la televisione, i transistor, i computer, i satelliti per telecomunicazioni, internet e la posta elettronica (Smil 2000b). Oggi è possibile inviare informazioni da un capo all'altro del globo in tempo reale digitando sulla tastiera del nostro personal computer. Anche questa azione, apparentemente molto semplice, risulta possibile grazie ad un grande input di energia, in buona parte fornito dai combustibili fossili. Non si tratta naturalmente solo dell'energia consumata dal nostro calcolatore, ma anche di quella necessaria per mantenere continuamente attiva la gigantesca e complessa rete telematica internazionale e permettere uno scambio rapido ed affidabile dei pacchetti di informazioni in qualsiasi momento (Allen 2001). I ricercatori italiani hanno anche sperimentato, in tempi recenti, quanto sia vulnerabile la "Rete Globale". A seguito dell'attentato terroristico dell'11 settembre 2001, il collegamento che connette gli Stati Uniti con le università ed i centri di ricerca italiani è rimasto interrotto per circa una settimana poiché un nodo cruciale della rete passava nelle vicinanze del World Trade Center a New York. L'energia e la guerra La nostra breve ed incompleta carrellata riassuntiva è in grado di dare solo un'idea limitata di come la vita dell'umanità sia cambiata nel corso degli i ultimi 150 anni, grazie allo sfruttamento dei combustibili fossili. Va sottolineato, inoltre, che ognuno dei progressi sopra elencati è interconnesso ' agli altri e questa catena, che ha portato ad una diffusione sempre più ampia di ricchezza e benessere materiale in alcune nazioni del mondo, crea a sua volta nuovi bisogni che vanno ad aumentare la domanda energetica. Si pensi ad esempio al turismo che, quasi inesistente fino a 50 anni fa, è oggi una delle maggiori industrie al mondo. Non possiamo però concludere questa sezione senza ricordare che la disponibilità diffusa di energia a basso costo è anche servita per aumnentare in maniera impressionante il potenziale distruttivo degli arsenali mondiali, portando l'umanità sul baratro dell'autoannientamento (Smil Ì2000b). Le armi utilizzate a metà del XIX secolo non erano particolarmen-te più potenti di quelle disponibili un secolo prima. Tra il 1860 ed il 1900 furono però messi a punto nuovi e più potenti esplosivi (dinamite, clclonite) rispetto alla tradizionale polvere da sparo. Il contemporaneo sviluppo della metallurgia, indotto dalla disponibilità di carbone, forni, acciai di qualità sempre migliore. La gittata dei cannoni passò da 2 a 30 km tra il 1860 ed il 1900. Nei primi anni del Ventesimo secolo furono varate le prime navi da guerra ed i primi sottomarini. Gli aerei militari fecero la loro comparsa sui campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale, ove per la prima volta vennero utilizzate su larga scala anche armi chimiche (cloro, iprite, fosgene) che causarono la morte di centinaia di migliaia di soldati, specie sul fronte franco-tedesco. Nel periodo tra le due guerre mondiali vennero sviluppati rapidamente carri armati, aerei caccia, bombardieri, portaerei. Il 6 ed il 9 agosto 1945 vennero rase al suolo Hiroshima e Nagasaki con i primi (e finora ultimi) ordigni nucleari usati per scopi bellici. Al termine del conflitto, con il mondo diviso in due blocchi, prese vigore una sfrenata corsa agli armamenti, che portò allo sviluppo di nuove tecnologie di distruzione quali bombardieri a lunga gittata, sottomarini e portaerei a propulsione nucleare, missili intercontinentali: tutte macchine da guerra dotabili di armamenti nucleari con potere distruttivo centinaia di volte più elevato di quelli impiegati a Hiroshima e Nagasaki. Si stima che dal 1940 in poi circa il 10% dell'energia prodotta nel mondo sia stato impiegato per lo sviluppo e la costruzione di armamenti (Smil 2000b). La potenza di fuoco dispiegata è cresciuta progressivamente ed il costo umano è andato aumentando ancora più rapidamente. Nel 1914 l'aeronautica britannica contava già su 154 aeroplani, durante il secondo conflitto mondiale gli Stati Uniti fabbricarono più di 250.000 aerei da guerra. Il più massiccio attacco di carri armati della Prima Guerra Mondiale impiegò 600 mezzi, mentre nell'assalto finale dei sovietici contro Berlino vennero utilizzati 8.000 carri armati, 11.000 aerei, 50.000 cannoni e lanciamissili (Smil 2000b). Nel 1944 gli Alleati furono in grado di mettere in campo una potenza di fuoco tre volte superiore a quella delle potenze dell'Asse (disperatamente a corto di risorse energetiche per alimentare la macchina bellica) rovesciando così le sorti del conflitto. Per stroncare il regime nazista essi scaricarono complessivamente sulla Germania circa un milione di tonnellate di bombe (Friedrich 2004). I costi economici del dispiegamento di questa potenza furono altissimi: nel 1944 gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica usarono per le spese militari, rispettivamente, il 54% ed il 75% del loro prodotto interno lordo. I costi umani della potenza distruttiva delle armi da guerra sono aumentati in progressione: la battaglia più cruenta del primo conflitto mondiale (Somme, 1916), causò 1.050.000 vittime, l'assedio di Stalingrado costò la vita a 2.100.000 persone. I bombardamenti alleati sulla Germania causarono 600.000 morti, i due ordigni nucleari sganciati sul Giappone sterminarono in pochi istanti più di 100.000 civili inermi. I caduti nella Seconda Guerra Mondiale ammontano a circa 55.000.000, il 70 % dei quali civili (Smil 2000b). La carneficina non è terminata con la resa incondizionata di Germania e Giappone nel 1945. In questi ultimi 60 anni c'è stato un continuo stillicidio di grandi e piccoli conflitti che ha causato altri milioni di morti (800.000 solo in Ruanda nel 1994) (BBC 2004; Bellesi e Moiola 2004). Per dare un'idea delle risorse impiegate oggi nello sviluppo di armi e guerra (eufemisticamente definite "spesa per la difesa"), si pensi che per il quinquennio 2004-2008 il budget della maggiore potenza militare mondiale, gli Stati Uniti, ammonta a 2,1 trilioni di dollari2. Una cifra che si fatica persino ad inquadrare: circa 4 milioni di miliardi delle vecchie lire, ovvero 650 mila lire per ogni abitante della Terra. 1.7 L'energia e le sue leggi L'energia è il vero potere che governa il mondo; più della politica, dell'economia, della finanza, dell'industria e della guerra. Senza energia non si può vivere. L'energia è il fattore chiave per lo sviluppo economico e sociale dell'umanità. Già alla fine dell'Ottocento, quando il petrolio non erà ancora stato sfruttato, il grande fisico Ludwig Boltzmann scriveva che la gara per la vita è principalmente una competizione per l'energia disponibile. L'importanza dell'energia è anche dimostrata dal fatto che trascesa e la caduta delle civiltà possono essere correlate all'abbondanza o alla scarsità di risorse energetiche (Tainter 1988). La disperata ricerca di nuove fonti petrolifere ha spinto Giappone e Germania, nella Seconda guerra Mondiale, ad avventure militari che le hanno indebolite su altri fronti, portandole alla disfatta (battaglie del Pacifico, invasione dell'Unione Sovietica per la conquista del bacino del Mar Caspio) (Smil 2000b). Passando poi alle vicende attuali, è francamente difficile pensare che alcune delle guerre recenti, e segnatamente quelle che ci toccano più da vicino "(Iraq I e II, Afghanistan, Cecenia, Serbia), non siano legate alla necessità di un controllo "ravvicinato" dei pozzi di petrolio e gas del Golfo Persico e del Caspio e dei relativi oleodotti e gasdotti che ne permettono lo smistamento. Tale necessità si è fatta più incalzante nell'ultimo decennio a causa dei profondi travagli interni che percorrono l'Arabia Saudita, maggiore produttore mondiale di petrolio e fedele alleato degli Stati Uniti. L'energia è un qualcosa che tutti conoscono, ma che non è semplice da definire. Questo succede anche per altri concetti che sono di patrimonio comune. Ad esempio, del concetto di tempo Sant'Agostino diceva: "Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo domanda non lo so più" (S. Agostino, Confessioni, XI, 14). L'energia di un corpo o di un sistema può essere definita come la sua attitudine a compiere un lavoro. Come ben sappiamo dalla vita di tutti i giorni, l'energia può assumere diverse forme (Colombo 1996). Sono infatti energia il petrolio, l'elettricità, la luce solare, un pezzo di legno, un sasso che cade, l'acqua di un bacino idroelettrico, il vento, ecc. Le forme principali in cui l'energia si può manifestare e le trasformazioni di una forma di energia in un'altra possono essere descritte schematicamente nel modo seguente. Energia chimica: è l'energia che viene sviluppata da una reazione chimica (tipico esempio: il gas che brucia nel fornello); generalmente l'energia chimica si sviluppa sotto forma di calore (energia termica) e attraverso il calore può essere convertita in energia meccanica (motore a scoppio); può anche essere convertita direttamente in energia elettrica per mezzo di vari dispositivi quali batterie e celle a combustibile. Energia meccanica: è quella sviluppata da un corpo in movimento (energia cinetica: ad esempio, una ruota che gira) o quella che un corpo può sviluppare in base alla posizione in cui si trova (energia potenziale: ad esempio, l'acqua bloccata dalla diga di un bacino idroelettrico); l'energia meccanica si può convertire facilmente in energia elettrica (turbine, alternatori) e termica (attrito). Energia elettrica: è l'energia collegata alla presenza di cariche elettriche, che possono essere in movimento (la corrente che passa lungo un filo) o ferme (campo elettrostatico). L'energia elettrica sotto forma di corrente elettrica è molto versatile. Può essere facilmente trasportata e distribuita in modo "pulito" (rete elettrica) e può essere convertita in energia chimica (ad esempio, elettrolisi dell'acqua con formazione di idrogeno), meccanica (motori elettrici), termica (stufe elettriche), luminosa (lampade al neon). L'energia elettrica non si può accumulare come tale, ma solo dopo trasformazione, ad esempio in energia chimica (accumulatori). Energia nucleare: è l'energia liberata nelle reazioni nucleari (fissione o fusione nucleare) nelle quali piccolissime quantità di materia vengono trasformate in enormi quantità di energia; l'energia nucleare si sviluppa sotto forma di energia termica che, attraverso la trasformazione in energia meccanica, viene generalmente convertita in energia elettrica. Energia radiante (es. luminosa): è l'energia emessa da corpi che si trovano in particolari condizioni; tipici esempi sono l'energia che ci viene dal Sole (in parte sotto forma di luce visibile) e la luce emessa da una lampada. L'energia radiante può essere trasformata in energia chimica (ad esempio, nel processo di fotosintesi che avviene nelle piante), elettrica (processo fotovoltaico) e termica (assorbimento delle radiazioni da parte dei corpi irradiati). Energia termica: è quella dei corpi caldi ed è misurata dalla quantità di calore che il corpo può cedere. Una forma primaria dell'energia termica è l'energia geotermica disponibile nel sottosuolo. L'energia termica può essere ottenuta direttamente bruciando combustibili o dall'energia nucleare. Essa è la forma finale delle varie trasformazioni e degradazioni dell'energia. Riguardo \e fonti di energia, è molto importante la distinzione fra fonti primarie e fonti secondarie. Le. fonti primarie includono sia le materie prime energetiche (carbone, petrolio, gas naturale, legno, materiale radioattivo, ecc.), sia quei fenomeni naturali che possono essere sfruttati per ottenere energia utilizzabile dall'uomo (luce solare, vento, maree, energia idraulica, geotermica, ecc.). Un'importante distinzione che si deve fare è quella fra fonti primarie rinnovabili che traggono origine da fenomeni naturali che avvengono con continuità (tipico esempio: l'energia che ci viene dal Sole) e. fonti primarie non rinnovabili che si sono originate da fenomeni naturali avvenuti in epoche remote e che non sono ripetibili nella nostra scala dei tempi (tipico esempio: il petrolio). Le fonti secondarie sono forme di energia generalmente di comodo uso, ottenute dalla trasformazione delle fonti primarie; sono quindi fonti secondarie (a volte dette anche vettori energetici) l'energia elettrica, l'idrogeno, ecc. Come tutte le grandezze della fisica, l'energia può essere misurata. L'unità di misura ufficiale è il joule (J). ma nella pratica si usano anche altre unità di misura: fra queste, la chilocaloria, kcal (1 kcal=4,18x!03 J), il chilowattora, kWh (1 kWh=3,6xl06 J) e il cavallo vapore ora, cvh (1 cvh = 4,18x106 J). Per stilare bilanci energetici a livello mondiale e per rendere confrontabili in termini di equivalenza energetica le diverse fonti si utilizzano anche altre unità di misura. Fra queste, le più usate sono: il tep (abbreviazione per tonnellata equivalente di petrolio), che rappresenta praticamente l'energia termica sviluppata dalla combustione completa di una tonnellata di petrolio; 1 tep equivale a 10 milioni di kcal (4,18xl0 10 J). Molto usato anche il barile, che corrisponde all'energia sviluppata dalla combustione di 159 litri (circa 140 kg) di petrolio; 1 tep equivale a circa 7,5 barili di petrolio. L'energia obbedisce a regole ben precise, dedotte dall'esperienza (Atkins 1988, 1990; Degli Espinosa e Tiezzi 1987). L'energia si può convertire da una forma ad un'altra, ma non può essere né creata né distrutta (I principio della Termodinamica). Inoltre, esiste una gerarchia fra le varie forme di energia: mentre è possibile convenire completamente le altre forme di energia (ad esempio, l'energia meccanica o elettrica) in energia termica (calore), non è possibile l'opposto, per cui l'energia, pur non potendo essere distrutta, ogni qual volta viene trasformata in calore si degrada (II Principio della Termodinamica). La percentuale dell'energia termica convertibile in lavoro è tanto più alta quanto maggiore è la differenza di temperatura fra la sorgente di calore ed il mezzo in cui si opera. Per questo motivo le macchine termiche, come le centrali termoelettriche o i motori di automobile, operano alle temperature più alte possibili, compatibilmente con la resistenza dei materiali. Il II Principio della Termodinamica è legato anche al concetto di entropia, una quantità che misura il grado di disordine di un sistema; esso afferma che la quantità totale di entropia in natura è sempre in aumento. Esempi di entropia crescente sono il raffreddarsi di un corpo caldo con dispersione del calore nell'ambiente e lo zucchero che si scioglie nell'acqua. In conseguenza del I e del II Principio della Termodinamica non è possibile costruire una "macchina" capace di compiere un moto perpetuo perché l'energia non si può creare e neppure riciclare completamente. Questi concetti sono fondamentali per una corretta interpretazione dei problemi collegati all'uso dell'energia. Una cosa molto importante da considerare è che ogni volta che si trasforma l'energia da una sua forma ad un'altra ci sono perdite dovute alla parziale trasformazione in calore a bassa temperatura. Ad esempio, l'efficienza di conversione da energia elettrica ad energia luminosa, che nella prima lampada ad incandescenza fabbricata da Edison era solo del 0,2%, è oggi attorno al 5% nelle lampade ad incandescenza. Utilizzando al posto di queste ultime moderne lampade a fluorescenza, si consuma l'80% in meno di energia elettrica a parità di luce prodotta. L'efficienza di conversione dell'energia solare in energia chimica nel processo fotosintetico naturale varia dall'1 al 5% e l'efficienza di conversione dell'energia solare in energia elettrica nelle celle fotovoltaiche è di circa il 10%. L'efficienza dei motori elettrici può raggiungere il 90%. L'efficienza di conversione da energia chimica in energia elettrica in una turbina a gas a ciclo semplice è del 35%. Notevoli perdite di energia si hanno anche nel trasporto. Ad esempio si stima che nella rete elettrica americana 10% dell'energia vada perduta in questa fase (Smil 2003). 1.8 Gli "schiavi energetici" È molto utile e comodo poter disporre di energia. L energia elettrica, che entra nelle nostre case in modo continuo, preciso, pulito e silenzioso, ci permette di accendere le luci e di far funzionare il frigorifero, la lavatrice, il televisore, la radio, il telefono, il condizionatore, il computer e decine di altri dispositivi che rendono la nostra vita meno faticosa, più facile e più piacevole. Anche se quasi non ce rendiamo conto, è proprio grazie all'energia elettrica che non dobbiamo uscire tutti i giorni a comprare cibo, possiamo lavare gli indumenti senza fatica, vedere quello che accade in tutto il mondo, ascoltare musica da un impianto stereo, scrivere senza usare carta e penna e fare con facilità tante altre cose entrate nelle nostre abitudini quotidiane. Il gas, che entra anch'esso nelle nostre case in modo continuo, pulito e silenzioso, alimenta i nostri fornelli e le nostre caldaie rendendo facile e piacevole la cottura dei cibi e molto efficiente il riscaldamento degli ambienti. La benzina, che possiamo immagazzinare nel serbatoio della nostra auto, ci permette di viaggiare soli o in compagnia, con grande flessibilità e libertà. Per meglio capire la situazione di privilegio in cui ci colloca la disponibilità di energia a basso prezzo è interessante paragonare l'energia consumata dai dispositivi e dalla macchine che usiamo tutti i giorni con quella che può essere messa in campo da un essere umano (Lienhard 1999). L'energia muscolare umana, non dimentichiamolo, è stata impiegata per millenni come principale forma di generazione di lavoro. I milioni dei cosiddetti afroamericani che vivono oggi nelle Americhe sono la conseguenza della deportazione di "forza motrice umana" dall'Africa operata dai coloni europei a partire dagli inizi del XVII secolo. Questa risorsa energetica a bassissimo costo ebbe un ruolo molto importante nello sviluppo del Nuovo Continente, specie nell'agricoltura e nell'estrazione dei minerali. La storia quindi ci insegna che la ricerca disperata di fonti energetiche ha spesso portato l'umanità a compiere azioni aberranti. Un uomo in buona salute può generare una potenza di circa 800 W per un tempo breve, ad esempio salendo di corsa una rampa di scale, ma in una attività continuativa non riesce a sviluppare una potenza superiore a circa 50 W. Per tenere acceso un televisore, che richiede una potenza di circa 80 W, sarebbe quindi necessario il lavoro continuativo di 1 persona e mezzo. Per far funzionare una lavatrice di classe A (cioè delle più efficienti, che consuma circa 0,8 kWh per un lavaggio a 60°) ci vorrebbe il lavoro di una quindicina persone per un ora. Il motore di un automobile di media cilindrata, che eroga una potenza di circa 80 kW, viaggiando a velocità di crociera, compie un lavoro pari a quello di 1600 persone. Anche la produzione di cibo richiede molta energia (Appenzeller 2004a; Smil 2003). Per far crescere una mucca (5 quintali) è necessario utilizzare 3.500 litri di petrolio se si considera tutto l'investimento energetico messo in opera in una fattoria, dai fertilizzanti alle macchine, il che significa che per produrre 1 kg di carne di vitello (che da a chi lo mangia circa 1000 kcal, cioè circa 1,2 kWh, di energia) occorrono 7 litri di petrolio. Quindi, tenuto conto che un litro di petrolio corrisponde a circa 1 kWh, mangiando 1 kg di carne è come che se mangiassimo 7 kWh di energia, ovvero l'equivalente di circa 20 giornate lavorative di 8 ore di una persona. Per altri prodotti dell'agricoltura il rapporto fra energia contenuta e energia consumata per produrli è ancor più sfavorevole. Ci possiamo permettere questo deficit energetico solo perché il prezzo dell'energia oggi è basso. In base a questi calcoli si può stimare che in media ogni cittadino americano, per l'energia che consuma, è come se avesse a disposizione 24 ore su 24 un centinaio di "schiavi energetici". Per un cittadino italiano, che in media usa un terzo dell'energia usata da un americano, il numero degli schiavi energetici" perennemente a disposizione è di circa 30, un lusso che non si poteva permettere neppure un principe del Rinascimento. Di questi 30 nostri schiavi 12 hanno il compito di far funzionare la lavatrice, la TV, lo stereo, l'aspirapolvere e la lampada abbronzante. Ai prezzi attuali dell'energia elettrica (circa 6 centesimi di euro al kWh ), la massacrante giornata lavorativa (10 ore) di questi 12 "schiavi elettrici" costa 0,86 euro, pari ad un salario giornaliero, per ogni schiavo, di 0,07 euro, desolatamente più basso di qualsiasi minimo sindacale. Riflettiamo su queste cifre prima di lamentarci dei prezzi "troppo alti" dell'energia. Tutto questo, piuttosto, ci può dare una misura di quanta energia consumiamo noi cittadini dei Paesi sviluppati e ci fa capire che, a causa del suo bassissimo costo, l'energia viene usata anche quando non ce ne sarebbe bisogno: viene, cioè, sprecata. Capitolo 2 L'energia oggi Mio padre cavalcava un cammello. Io guido un'auto. Mio figlio pilota un aereo a reazione. Suo figlio cavalcherà un cammello. Detto saudita 2.1 Consumi La quantità di energia consumata su scala mondiale ogni anno (dati per l'anno 2000) ammonta a circa 370 esajoule (1 esajoule corrisponde a 10 18 joule), equivalente a 170 milioni di barili (27 miliardi di litri) di petrolio al giorno. Le sei principali fonti di energia sono: petrolio, 44%; gas naturale, 26%; carbone, 25%; energia nucleare, 2,4%; fonti rinnovabili, 2,7% (principalmente energia idroelettrica, 2,5%) (Chow et al. 2003)'. Quindi circa il 95% dell'energia proviene attualmente dai combustibili fossili. Il problema di conciliare la crescente richiesta di energia del mondo moderno con la necessità di preservare l'integrità della biosfera è aggravato dall'attuale disuguaglianza nell'uso delle risorse, in particolare di quelle energetiche, fra le varie popolazioni del mondo (Tabella 4). Gli Stati Uniti, ad esempio, consumano circa il 25% di tutta l'energia, anche se la loro popolazione è meno del 5% di quella mondiale: ogni americano, in media, consuma energia come due europei, una decina di cinesi, una quindicina di indiani o una trentina di africani2. La disparità nei consumi energetici fra Paesi ricchi e Paesi poveri giunge fino ad un rapporto 60 ad 1 se si considerano il 10% delle nazioni più ricche e il 10% delle più povere (Hall et al. 2003). Nella presente fase storica, il petrolio è il combustibile più importante. Una delle tante ragioni di questo successo risiede nel fatto che il suo stato fisico "intermedio", ovvero liquido, lo rende particolarmente adatto al trasporto, sia via mare che tramite oleodotti. Il carbone può essere trasportato via nave su lunghe distanze, ma può essere convogliato in tubazioni solo su tratti relativamente brevi. Il gas naturale viene comunemente trasportato tramite gasdotti, ma il trasferimento via mare in speciali navi "metaniere" a -160 °C è un processo che richiede molta energia e implica una gestione costosa e complessa (Doyle 2004). Un rapido esame delle Tabelle 2, 4, 5, 6 e 7 ci mostra che le nazioni che consumano le maggiori quantità di energia sono quelle più sviluppate, come gli Stati Uniti, e che nei tempi recenti gli stati più popolati, come Cina ed India hanno notevolmente accresciuto i loro consumi. Nei prossimi anni il consumo di combustibili fossili è destinato ad aumentare ulteriormente, non solo per le crescenti necessità energetiche dei Paesi in via di sviluppo, ma anche per la voracità mai sazia dei Paesi sviluppati. Si pensi ad esempio che ogni cittadino americano consuma in media in una settimana una quantità di petrolio superiore al suo peso corporeo (Heinberg 2004). La domanda "Who Will Fuel China?" (Chi fornirà il carburante alla Cina?) che già da anni aleggiava negli ambienti economici e politici, è ormai un incubo che incomincia a prender corpo nei forti aumenti nel prezzo del petrolio di questi ultimi tempi (Drennen e Erickson 1998). La Cina aumenta le sue importazioni petrolifere del 30% all'anno e, pur avendo solo 16 automobili ogni mille abitanti, contro le 776 ogni mille abitanti degli Stati Uniti, ha già superato il Giappone diventando il secondo Paese nella lista dei maggiori consumatori mondiali di petrolio (Appenzeller 2004a). Si prevede che il numero delle auto in Cina crescerà notevolmente nei prossimi anni e che il consumo giornaliero di petrolio, attualmente pari a 5,6 milioni di barili, circa la metà dei quali importati, salirà nel 2025 a 12,9 milioni di barili (EIA 2004a). Enormi quantità di energia saranno anche necessarie per alimentare le industrie cinesi (Tremblay 2004), che già nel 2003 hanno utilizzato metà del cemento, un terzo dell'acciaio, un quarto del rame e un quinto dell'alluminio prodotti al mondo, con costi ambientali enormi (Becker 2004). Un discorso molto simile si potrà fare a breve termine anche per l'India. 2.2 Riserve di combustibili fossili Come esamineremo in dettaglio più avanti, le stime sulle riserve di combustibili fossili sono molto diverse, anche perché ci si può riferire a riserve dimostrate e utilizzabili con facilità, oppure a riserve difficili da utilizzare o, addirittura, a riserve solo presunte (Chow et al. 2003; Hall et al. 2003). Questa aleatorietà nelle stime delle effettive disponibilità energetiche fossili ha già prodotto un caso clamoroso: nel corso del 2004 la Royal-Dutch Shell, una delle più grandi compagnie petrolifere del mondo, ha dovuto ridurre le proprie riserve dichiarate di petrolio del 20%, creando un'autentica bufera nel settore. C'è chi ritiene che presto altri colossi petroliferi saranno costretti ad abbassare le stime delle loro riserve, al momento alquanto ottimistiche (Economist 2004b). Facendo riferimento alle riserve dimostrate e utilizzabili senza eccessive difficoltà, si stima che il consumo annuo (con riferimento ai dati dell'anno 2000) corrisponda allo 0,5% delle riserve di carbone, al1'1,6% delle riserve di gas naturale e al 3% delle riserve di petrolio. Sembra quindi che, agli attuali ritmi di consumo, non ci sia un grave pericolo di scarsità di combustibili fossili per i prossimi 20-40 anni. Anche nel caso più ottimista, però, il problema riguarda non solo le generazioni future, ma anche persone che già vivono sulla Terra. Alcuni aspetti importanti riguardo la limitata disponibilità dei combustibili fossili è discussa nella prossima sezione. Si deve anche ricordare che i combustibili fossili non sono solo energia, ma sono anche la materia prima di tutta l'industria chimica che, partendo particolarmente dal petrolio e dal gas naturale, produce un gran numero e una grande quantità di materiali e di sostanze utili: le materie plastiche, i farmaci, i coloranti, i pesticidi, i fertilizzanti, ecc. Ad esempio i concimi azotati sintetici, che si ottengono utilizzando come materia prima il gas naturale, rappresentano circa la metà dei nutrienti impiegati annualmente in agricoltura e si stima che almeno 1/3 della fornitura proteica complessiva di tutto il mondo derivi in ultima analisi dal processo di sintesi dell'ammoniaca di Haber-Bosch (Smil 2000b). Quindi, il gas non serve solo per la cottura della nostra fettina di carne, ma anche, attraverso la catena alimentare, a "fabbricare" quella stessa fettina. In futuro, quindi, si porrà anche il problema se continuare a bruciare il petrolio e il gas per ottenere energia, oppure conservarli come materie prime per l'industria chimica. 2.3 La produzione di petrolio e il concetto di "picco" II dibattito sulle effettive riserve di combustibili fossili ancora disponibili nel sottosuolo terrestre è molto acceso. Geologi ed economisti, sia di estrazione industriale che accademica, si confrontano su questo tema da decenni. La letteratura scientifica si occupa in modo diffuso dell'argomento ma, fortunatamente, esso comincia anche ad uscire fuori dai ristretti circoli degli addetti ai lavori (Appenzeller 2004a). Un concetto chiave per districarsi in questa materia è quello di "picco di produzione". Al fine di analizzare il problema e di prendere le misure necessarie per risolvere la crisi causata dalla scarsa disponibilità del petrolio non ha rilevanza sapere chi sarà il fortunato utilizzatore dell'ultimo barile che verrà estratto. È molto importante, invece, cercare di prevedere il momento in cui la domanda di petrolio (in continua crescita) supererà l'offerta disponibile. In altre parole, è importante cercare di prevedere quando la nostra civiltà delle macchine richiederà più petrolio di quanto riusciremo ad estrarne dalle viscere della Terra, ovvero quando la Terra raggiungerà il suo picco di produzione. In quel momento ci sarà ancora una grande quantità di petrolio nel sottosuolo, ma questo sarà sempre più caro, sempre meno agevole da estrarre e di qualità sempre peggiore. Quel giorno non morirà l'era del petrolio, ma sarà finita per sempre l'era del petrolio a buon mercato 3. La storia sull'andamento dei consumi energetici e sulle riserve disponibili di petrolio è piena di previsioni sbagliate, anche in modo clamoroso (Smil 2000a, 2003). Ad esempio nel 1939 il Dipartimento per gli Interni degli Stati Uniti predisse che il petrolio americano sarebbe durato altri 13 anni e poi, nel 1951, fece di nuovo la stessa previsione. Si trattava chiaramente di affermazioni infondate. Esiste però anche un esempio, molto famoso, di previsione azzeccata. Nel 1956 il geologo Marion King Hubbert della Shell Oil previde che il picco di produzione di petrolio negli Stati Uniti (Alaska esclusa), allora di gran lunga i primi produttori mondiali, si sarebbe verificato tra il 1968 ed il 1971 (Hubbert 1962). Questa previsione fu presa con estremo scetticismo in molti ambienti, se non addirittura con ironia. Puntualmente però gli Stati Uniti raggiunsero il picco di produzione di petrolio nel 1970: da quel momento il declino è stato inesorabile. Al contrario, la previsione di Hubbert che il picco mondiale sarebbe stato raggiunto tra il 1990 ed il 2000, si è rivelata errata (anche se non di molto, come sostengono alcuni). Attualmente i geologi della scuola di Hubbert ritengono che il picco della produzione mondiale di petrolio sarà raggiunto tra il 2006 ed il 2010, un termine alquanto prossimo (Appenzeller 2004a; Campbell e Laherrere 1998; Deffeyes 2001; Goodstein 2004; Heinberg 2004). Questo gruppo di studiosi "pessimisti" rilevano che: (i) negli ultimi 30 anni non si sono scoperti nuovi giacimenti "giganti" come invece accadde nell'immediato dopoguerra; (ii) le stime delle riserve disponibili sono appositamente gonfiate da alcuni governi di Paesi produttori per tenere alta la propria quota produttiva OPEC e mantenere il prestigio economico sulla scena internazionale; (iii) la produttività di molti vecchi pozzi giganti, che hanno sostenuto l'offerta di petrolio in questi decenni, è in diminuzione; (iv) le tecniche finora utilizzate per "spremere" da un pozzo più del 50% del suo contenuto, che vanno dall'uso di batteri alla intenzionale provocazione di incendi sotterranei, non hanno per ora molto successo (Giles 2004). D'altro canto "gli ottimisti" rilevano che (i) le riserve non sono calate in maniera sostanziale negli ultimi anni; (ii) i miglioramenti delle tecniche estrattive permettono un sempre maggiore sfruttamento dei giacimenti esistenti; (iii) esistono ancora immense riserve, specie nel sottosuolo marino, che un giorno saremo in grado di sfruttare; (iv) negli ultimi decenni le scoperte di nuovi giacimenti sono calate perché sono diminuiti gli investimenti nel settore e non perché non ci sia altro petrolio da scoprire (Appenzeller 2004a; Maugeri 2004). Dalla parte degli ottimisti vi stanno autorevoli agenzie governative americane. Sulla accesa discussione in corso tra le due "fazioni" resta l'incognita del prezzo del petrolio. Se esso continuerà a salire è ragionevole attendersi una riduzione dei consumi da parte dei Paesi sviluppati ricorrendo ad una maggiore efficienza energetica; allo stesso tempo, potrebbe prendere vigore la ricerca e l'estrazione di petrolio in zone attualmente considerate non remunerative. Tali effetti indotti dalla crescita dei prezzi, già manifestatisi in seguito alla crisi petrolifera dei primi anni Settanta, potrebbero spostare in avanti la data del picco. C'è, però, da considerare che la crescente fame di energia da parte di miliardi di persone che abitano Paesi in via di sviluppo potrebbe rendere del tutto inlnfluenti questi guadagni nelle riserve, avvicinando la data del picco. È evidente quindi che la materia è alquanto complessa e controversa (Claudi 2004). Basti pensare che ci sono giudizi contrastanti rispetto alla quantità e alla qualità del greggio contenuto nel più grande giacimento scoperto negli ultimi anni, quello di Kashgan in Kazakhstan. C'è chi ritiene una risorsa enorme (Maugeri 2004) e chi, invece, lo ritiene deludente rispetto alle aspettative iniziali (Appenzeller 2004a; Hall et al. 2003; Heinberg 2004). Senza entrare nel merito di una discussione cosi complessa, è necessario sottolineare due fatti: (i) tutti gli analisti concordano che, indipendentemente dalla data in cui si raggiungerà il picco di produzione, le ultime riserve relativamente a buon mercato e di buona qualità saranno localizzate nella cosiddetta "Elisse Strategica del Petrolio", una regione che racchiude un ristretto gruppo di nazioni situate tra il Golfo Persico ed il bacino del Mar Caspio, il cui futuro politico e sociale è a dir poco incerto; (ii) la discrepanza tra ottimisti e pessimisti sulla data del picco è, al massimo, di un trentennio. Le agenzie governative americane come la US Geological Survey, ottimiste, pongono la data del picco non oltre i1 2040. I neonati di oggi, a quel tempo, avranno solo 35 anni: è quindi fuor di dubbio che questo problema non riguarda le generazioni di un futuro non ben definito, ma l'umanità che già oggi popola la Terra (Appenzeller 2004a). 2.4 II prezzo del petrolio II consumo di combustibili fossili ha raggiunto livelli enormi (Tabelle 2, 4, 5, 6, 7) e si può prevedere che, in mancanza di fatti nuovi, la domanda di questa comoda e potente fonte energetica, in particolare quella di petrolio, salirà ancora nei prossimi anni. Secondo le leggi del mercato, aumentando la domanda aumenterà il prezzo, che per il petrolio ha superato i 50 dollari al barile nell'autunno del 2004. Oltre che per l'aumento della domanda, il prezzo del petrolio è destinato ad aumentare a causa di numerosi altri fattori. I primi investimenti in trivellazioni petrolifere produssero rendimenti favolosi perché non era necessario scavare pozzi profondi ed il petrolio sgorgava abbondante; ma col passare del tempo i giacimenti più facili da sfruttare sono diventati sempre meno numerosi e la ricerca e lo sfruttamento di nuovi giacimenti richiede costi sempre crescenti. Allo stesso tempo, la qualità dei combustibili che sono rimasti nei pozzi non ancora esauriti tende a peggiorare. Un altro fattore negativo è la concentrazione dei giacimenti in pochi Paesi, molti dei quali politicamente instabili. Infine, le recenti guerre e il terrorismo internazionale, in parte generato e nutrito dalle disuguaglianze e dalla non equa distribuzione delle risorse del pianeta (Ehrlich e Ehrlich 2004), causano ulteriori dubbi sulla possibilità di disporre con certezza e continuità di risorse petrolifere, per cui ogni Paese tende, per quanto può, ad accumulare riserve. In una recente intervista, un autorevole esperto di petrolio iraniano ha dichiarato che fra non molto tempo rimpiangeremo i "bei tempi del petrolio a 50 dollari al barile"4. Nella stessa intervista si fa anche menzione del fatto che alcune grandi banche internazionali investono nel petrolio, creandone proprie riserve private. I politici sembrano ignorare, sottovalutare o addirittura rimuovere il problema di ulteriori futuri aumenti del prezzo del petrolio in quanto pensano che sia controproducente, per la loro rielezione, dare messaggi preoccupanti ai cittadini e spiegare sino in fondo le cause di questa tendenza. Va aggiunto infine che il prezzo del petrolio, e dell'energia in generale, riflette pochissimo l'effettivo costo di produzione. Il settore energetico gode ovunque, da sempre, di sovvenzioni pubbliche e risente in maniera rilevante di eventi politici ed economici che poco hanno a che valere con i costi di esplorazione ed estrazione. A questo si aggiunga la spesi» colossale che molti Stati, specie i più ricchi, sostengono per mantenere sempre attivo il flusso di petrolio, gas e carbone: dispiegamenti militari, finanziamenti a stati amici "moderati", ecc. L'apparato militare dispiegalo nel Golfo Persico, nell'Oceano Indiano e nel Mediterraneo a guardia del corridoio energetico mediorientale ha un costo astronomico (Smil 200.1), Quando questa macchina militare passa all'azione i costi si moltipllcano: si stima che la spesa complessiva per la prima guerra del Golfo abbia sito rato i 200 miliardi di dollari. Queste brevi considerazioni servono solo il dare un'idea del fatto che, probabilmente, nessuno al mondo sa stimare con precisione il vero prezzo di un barile di petrolio, di un metro cubo di gas o di una tonnellata di carbone. 2.5 Petrolio "non convenzionale" Accanto alle fonti di petrolio convenzionale, esistono vaste riserve di petrolio cosiddetto "non convenzionale", quali gli oli pesanti e le sabbie bituminose, che in linea di principio potrebbero essere sfruttate. Il Canada possiede enormi riserve di petrolio imbrigliato nelle sabbie bituminose dell'Alberta settentrionale; se venissero conteggiate, questo Paese diverrebbe secondo solo all'Arabia Saudita in termini di riserve. Il costo ambientale dello sfruttamento delle risorse fossili non convenzionali è però estremamente pesante: per estrarre un barile di petrolio occorre trai i are due tonnellate di sabbia che vanno lavate e "prosciugate"; il petrolio risultante, poi, non è di qualità paragonabile a quello mediorientale. Queste lavorazioni richiedono alte temperature, ottenute tramite la combustione di grandi quantità di gas naturale. Il bilancio energetico netto secondo alcuni studiosi è scoraggiante: occorre una quantità di energia pari 2 barili di petrolio per recuperarne 3 dalle sabbie bituminose (Heinberg 2004). Bisogna poi considerare che le acque oleose prodotte come rifiuti della lavorazione vengono raccolte in enormi stagni artificiali, con conseguenze pesantissime di degrado ambientale a carico delle popola/ioni locali. Anche il Venezuela possiede vaste riserve di oli pesanti e produce il cosiddetto Orimulsion, un'emulsione di acqua ed olio pesante, che vieni importato anche in Italia per alimentare alcune centrali termoelettriche nonostante venga talvolta pubblicizzato come una sorta di combusti-"pulito", la realtà è ben diversa. Gli inquinanti atmosferici prodotti la combustione dell'Orimulsion sono del tutto simili, sia in termini qualitativi che quantitativi, a quelli dell'olio combustibile convenzionale iller C. A. e Srivastava 2000). Di conseguenza, ammesso che sia energicamente vantaggioso ricorrere in modo massiccio alle fonti petrolifere in convenzionali, rimane il problema della sostenibilità ambientale del Ioro uso. 2.6 Gas naturale Le alternative fossili al petrolio sono i "cugini", gas naturale e carbone selle 6 e 7). Da un punto di vista puramente economico, essi costituiscno degli autentici ripieghi rispetto al petrolio che, oltre ad essere più lllmente trasportabile, presenta costi di estrazione molto più bassi, anche in termini energetici (Smil 2003). Il petrolio ha inoltre una densità di energia (Tabella 8) molto più alta del gas: a temperatura e pressione ambiente il contenuto energetico di un metro cubo di petrolio (34 GJ, pari Urea 10.000 kWh) è 1000 volte più alto di quello di un metro cubo di i (Tabella 8). Questo svantaggio ha sostanzialmente bloccato l'utilizzo su vasta scala del gas per autotrazione. Le stime delle riserve suggeriscono che il picco di produzione per il gas dovrebbe avvenire dopo quello petrolio, ma anche su queste stime regna molta incertezza (Heinberg 34). Il forte incremento percentuale dei consumi mondiali di gas, che 1980 al 2002 (+ 42%) è stato largamente superiore a quello del pe-jlio (+ 24%) (EIA 2002), è oggi causa di tensioni. Il gas, infatti, è una materia prima "classica" per l'industria chimica e solo in tempi relativamente recenti è diventato anche una fonte energetica utilizzata in modo massiccio per la produzione di elettricità. Questo è avvenuto per motivi ambientali e, ancor più, per ragioni economiche dal momento che le centrali a gas di ultima generazione (a ciclo combinato) hanno costi e tempi di costruzione estremamente competitivi rispetto alle altre tecnologie termoelettriche e presentano al contempo un minore impatto ambientale che facilita la concessione di autorizzazioni. Il boom delle centrali a gas ha provocato in USA un aumento della domanda e del prezzo del gas che N mia volta ha scatenato una "guerra" tra l'industria chimica e le imprese energetiche, additate come responsabili degli aumenti (Johnson 2003a, 2003c; Reisch 2003). Negli ultimi 15 anni, negli Stati Uniti si è assistito ad una frenetica corsa alla costruzione di nuove centrali termoelettriche a gas con la presentazione di un numero spropositato di progetti. Molti di questi progetti sono però stati sospesi o abbandonati perché le centrali elettriche cosiddette "turbogas" sono colossali consumatrici di combustibile e non era garantito che vi sarebbe stato gas a sufficienza per fare funzionare tutti gli impianti previsti (Heinberg 2004). Del resto voci autorevoli, compreso quella del governatore della Federai Reserve avevano già lanciato l'allarme per la sicurezza degli approvvigionamenti di gas agli Stati Uniti (Greenspan 2003). Questa fame di gas genera ripercussioni a catena. Gli Stati Uniti, che da anni non aumentano la loro produzione (EIA 2002; Heinberg 2004) sono geograficamente distanti dai grandi produttori mondiali (Russia, Africa Settentrionale, Medio Oriente) e sono obbligati a rivolgersi a nuovi produttori del continente americano. La questione della politica energetica e delle forniture di gas agli Stati Uniti ha fatto scoppiare di recente tumulti popolari in Bolivia con numerosi morti, cosa di cui in Italia non si è praticamente parlato. L'Europa comunque, dal punto di vista degli approvvigionamenti di gas, si trova in una condizione molto più favorevole rispetto agli USA. Essa è praticamente circondata dai principali bacini mondiali di produzione (Russia, Medio Oriente, Nord Africa, Mare del Nord), cui è collegata da una fitta rete di gasdotti, l'ultimo dei quali tra Libia e Italia è stato inaugurato nell'ottobre 2004. Questa è una delle ragioni per cui l'industria del carbone in Europa conosce da decenni un impressionante declino (Smil 2003). Nel 2020, in base agli attuali andamenti, il gas dovrebbe fornire il 35% del fabbisogno europeo di energia primaria. Il gas naturale è un combustibile che aiuterà la transizione energetica con impatti ambientali più contenuti del petrolio, ma è escluso che possa rimpiazzare completamente "l'oro nero" o che possa essere usato per tempi molto lunghi. Inoltre, la transizione al gas naturale sarà costosa, poiché l'infrastruttura di distribuzione è molto meno sviluppata di quella del petrolio (Doyle 2004). Studi degli anni Settanta e Ottanta prevedevano che nel 2000 il gas avrebbe fornito il 50% dell'energia primaria totale, mentre ora siamo appena al 25% (Smil 2003). Infine non va trascurato che il gas naturale, costituito principalmente da metano, è uno strumento a doppio taglio in termini di immissione di gas serra in atmosfera. Da una lato è una buona opzione per il processo di "decarbonizzazione" poiché in fase di combustione produce meno biossido di carbonio rispetto a carbone e petrolio. Dall'altro lato però il metano (principale componente del gas naturale) è esso stesso un gas serra 21 volte più potente del biossido di carbonio e l'uso massiccio di gas naturale comporta perdite consistenti in atmosfera nella fase di trasporto, che può protrarsi anche per migliaia di chilometri. Una stima affidabile delle immissioni di metano in atmosfera non è facile (Tabella 3). Si valuta tentativamente che il trasporto e la combustione incompleta del gas naturale siano responsabili di circa il 10% delle immissioni di metano in atmosfera di natura antropogenica. Il restante contributo deriverebbe dagli allevamenti di bestiame e dalle coltivazioni di riso (Smil 2003; Stern e Kauffman 1998). La perdita fisiologica delle condotte di gas dovrebbe aggirarsi attorno all'1,5%, tuttavia in alcune regioni del mondo, con reti obsolete e in cattivo stato di manutenzione, le perdite possono sfiorare il 10%. È il caso dei gasdotti russi che convogliano il gas dai giganteschi giacimenti siberiani verso l'Europa occidentale, Italia compresa. Si stima che nei primi anni novanta i gasdotti siberiani abbiano perso dai 47 ai 67 miliardi di metri cubi di gas lungo le condotte (Smil 2003); sono quantità enormi se si pensa che il limite superiore si avvicina agli attuali consumi totali italiani (circa 70 miliardi di m3/anno). Per centrali a gas a ciclo combinato, si può stimare che il 75% del potenziale di riscaldamento globale nel loro intero ciclo di vita viene prodotto dalla combustione, mentre il restante 25% è legato alla produzione e la distribuzione del combustibile per l'impianto, con metà di questa quota attribuibile alle perdite di metano (Spath e Mann 2000). Non risulta che queste stime vengano effettuate in Italia per valutare l'impatto di nuovi impianti di produzione di energia. In epoca di crescenti preoccupazioni per i cambiamenti climatici, forse sarebbe necessario colmare in fretta questa lacuna. Va registrato, infine, che esistono anche immense riserve di gas naturale non convenzionale, in particolare i cosiddetti gas idrati (clatrati) (Sloan 2003; Smil 2003). Si tratta di materiali solidi costituiti da acqua (ghiaccio) in cui sono imbrigliate piccole molecole gassose (metano, etano, ecc.). Tali materiali si trovano principalmente nel fondo dei mari e degli oceani, ove le condizioni di temperatura e pressione permettono la loro conservazione in forma solida. Si stima che le riserve di gas idrati siano letteralmente sterminate: l'energia intrappolata in questo modo nel fondo del mare e nel permafrost continentale ammonterebbe al doppio delle iniziali riserve di tutti i combustibili fossili messi insieme (Sloan 2003; Smil 2003). Ovvero l'l% del gas naturale contenuto nei gas idrati corrisponderebbe alla totalità delle attuali riserve accertate di gas convenzionale. Tuttavia, per una lunga serie di ragioni tecniche, la possibilità di sfruttare queste riserve energetiche si presenta al momento alquanto problematica e certamente lontana nel tempo (Kerr 2004b). Inoltre, solo una piccolissima parte di gas idrati potrà essere recuperata a costi economici ed energetici accettabili, dal momento che queste risorse sono sparse su aree vastissime, al contrario di quanto accade nel caso dei giacimenti convenzionali (Kerr 2004b). Occorre infine rilevare che il metano intrappolato nei gas idrati costituisce, come sottolineato da alcuni, una "pistola puntata alla terapia del clima terrestre". Se solo una piccola parte di queste riserve dovesse liberarsi in atmosfera a seguito di cataclismi di qualche natura, l'aumento della temperatura terrestre potrebbe essere disastroso. È plausibile, come ipotizzato da alcuni paleoclimatologi, che eventi di questo tipo siano stati la causa dei repentini cambiamenti climatici che si sono verificati in passato (Dickens 2004; Schiermeier 2003). 2.7 Carbone In vista di una diminuzione della disponibilità di petrolio e gas per i prossimi decenni, l'attenzione generale sta tornando sul carbone, le cui riserve stimate sono molto maggiori di quelle di petrolio e gas. In particolare, il carbone abbonda nei due Paesi più energivori del mondo, Stati Uniti e Cina, che quindi hanno un forte interesse al suo rilancio. Le stime sulle riserve di carbone negli Stati Uniti indicano che sarebbe sufficiente per 250 anni al ritmo degli attuali consumi (EIA 2002), anche se è probabile che il carbone di buona qualità recuperabile a costi economici ed energetici convenienti sia sensibilmente inferiore (Heinberg 2004). La buona notizia delle cospicue riserve di carbone si accoppia, tuttavia, con due cattive notizie: il carbone è il combustibile fossile più inquinante e genera una maggior quantità di gas serra per unità di energia prodotta. Inoltre, bisogna tenere presente che: 1) I combustibili fossili contengono sempre quantità più o meno rilevanti di sostanze di ogni tipo, quali composti solforati, metalli, idrocarburi pesanti, composti aromatici, ecc. La presenza di questi composti è l'origine dei problemi di inquinamento atmosferico connessi all'uso dei combustibili fossili che, in un "mondo ideale", produrrebbero solo acqua e gas serra (CO2), ma nessun inquinante. 2) Nei processi di combustione reali non si utilizza ossigeno puro ma aria, una miscela composta al 78% di azoto; di conseguenza si producono ossidi di azoto (NO x) che sono gas inquinanti e, a loro volta, precursori di altri inquinanti quali ozono e particolato atmosferico. La composizione del carbone è estremamente variabile: negli Stati Uniti la qualità del carbone estratto sulle Montagne Rocciose è decisamente migliore di quella degli Appalachi. Il petrolio del Golfo Persico, oltre che molto abbondante, è anche di eccellente qualità, ovvero contiene una quantità relativamente bassa di "sostanze indesiderate" rispetto al petrolio che si estrae in molte altre regioni del mondo; questo rappresenta un grande vantaggio economico quando esso viene raffinato. Per fare un altro esempio, il gas naturale algerino ha una percentuale media di metano (83%) inferiore a quella del gas russo (98%) (ENI 1997). È bene quindi tener presente che un dato combustibile fossile non è sempre uguale, ma la sua composizione chimica varia, dipendentemente dal giacimento di provenienza. La sostituzione di un fornitore energetico con un altro, quindi, non è un fatto di poco conto in quanto può comportare una notevole differenza nella qualità del prodotto e nel costo ambientale ed economico richiesto per renderlo fruibile. 2.8 Carbone "pulito" Negli ultimi tempi si sente sempre più spesso parlare di "carbone pulito" ("clean coal"), un termine che potrebbe evocare ottimismi, in realtà ingiustificati; è utile quindi fare un po' di chiarezza a questo riguardo. Il concetto di "carbone pulito" è stato introdotto negli Stati Uniti già da parecchi anni. Nell'ultimo ventennio il governo federale americano ha investito cinque miliardi di dollari per incentivare la ricerca e sviluppo nel campo del "carbone pulito", in parte per migliorare i sistemi di controllo dell'inquinamento e in parte per sviluppare nuove tecnologie (impianti con combustione a letto fluido di varia tipologia e centrali supercritiche) (Smil 2003). I risultati, tuttavia, non sono particolarmente incoraggianti (Johnson 2004a). Gli USA producono oggi il 52% del loro fabbisogno elettrico mediante carbone, usando impianti che hanno un'età media di 40 anni e che continuano ad operare così come sono sia perché sono ormai ampiamente ammortizzati, sia perché vi sono scarsi incentivi ad adottare migliori tecnologie di abbattimento degli inquinanti in impianti vecchi. L'impatto sanitario di questi impianti a carbone è descritto da un'amplissima letteratura scientifica (Hogue 2004; Levy e Spengler 2002; Levyetal. 2002). Una tecnologia a carbone innovativa rispetto a quella tradizionale, che implicherebbe un miglioramento di resa degli impianti con una notevole riduzione dell'inquinamento, è la cosiddetta IGCC (Integrated Gasifier/ Combined Cycle) Technology (Johnson 2004a). In termini semplici, si tratta di impianti a ciclo combinato in cui si impiega un combustibile gassoso ottenuto dal carbone, con rimozione a monte di buona parte della componente "sporca" del carbone in fase solida; in pratica funzionano in modo simile alle centrali a gas, con la differenza che usano il carbone come fonte primaria. Anche se questa tecnologia è in fase sperimentale da anni, in USA non esistono ancora impianti IGCC a carbone che vendono energia sul mercato (Johnson 2004a). Ad oggi, infatti, questa tecnologia non è competitiva da un punto di vista economico con le altre tecnologie termoelettriche e, da un punto di vista ambientale, non è migliore di quella a gas. L'amministrazione Bush ha lanciato di recente un ambizioso programma per il "carbone pulito" ad emissione zero (FutureGen) (DOE 2004b). L'obiettivo è la realizzazione, entro 10 anni, di un impianto pilota per la produzione di idrogeno ed elettricità, con confinamento sotterraneo del biossido di carbonio prodotto (quest'ultimo difficile problema (Service 2004b) sarà trattato in dettaglio più avanti). Anche se questo progetto avrà successo, la sua diffusione su vasta scala richiederà tempi molto lunghi. Lo slogan "carbone pulito" è quindi attraente, ma per ora sostanzialmente privo di contenuti scientifici concreti. 2.9 Danni causati dall'uso dei combustibili fossili Le scelte in campo energetico di una nazione hanno forti ripercussioni sulla sua politica economica, estera e militare, nonché conseguenze sull'ambiente e quindi sulla salute dell'uomo (Holdren e Smith 2000). L'effetto sull'ambiente non è affatto confinato nei luoghi in cui il deterioramento viene prodotto, ma si diffonde su scala planetaria (Akimoto 2003; Haag 2004; Lelieveld et al. 2004) togliendo così ogni significato al concetto NIMBY (Not In My Back Yard, "non nel mio giardino") spesso sostenuto e difeso da individui, comunità e nazioni che sperano di cavarsela evitando di danneggiare il loro ristretto territorio. Si sta affermando pian piano la consapevolezza che l'ambiente è un bene planetario e che quindi la sua salvaguardia richiede interventi su scala sia locale che globale, con provvedimenti immediati e anche a lungo termine (Hasselmann et al. 2003). L'uso dei combustibili fossili riversa nell'atmosfera, oltre ad enormi quantità di CO 2 (Tabella 3), anche molte altre sostanze, come metano, ossidi di azoto, monossido di carbonio, composti organici volatili, ossidi di zolfo, particolato atmosferico e metalli pesanti, tutte dannose per l'uomo e/o per l'ambiente (Smil 2003). Al giorno d'oggi la limitazione nell'uso dei combustibili fossili è quindi necessaria, oltre che per la loro progressiva scarsità, anche a causa dei danni da essi provocati. Le nazioni sviluppate, sotto l'influenza del progresso tecnologico e dell'opinione pubblica, tendono a ridurre le emissioni di sostanze nocive; alcune di esse vorrebbero anche imporre i loro standard ecologici ai Paesi in via di sviluppo (Smith 2002). Questi Paesi, però, non possono permettersi i costi necessari per controllare e limitare l'inquinamento, pena la totale uscita dal mercato dei loro prodotti. Pertanto l'inquinamento del pianeta è destinato ad aumentare, non solo per il contributo crescente da parte dei Paesi in via di sviluppo, ma anche perché, come vedremo più avanti, gli stessi Paesi sviluppati a volte rifiutano di aderire a norme anti inquinamento per non sfavorire il loro sistema produttivo. Spesso le lobby industriali dei Paesi ricchi affermano che i progressi fatti negli ultimi decenni nella lotta all'inquinamento, favoriti da una più severa legislazione ambientale, sono già un risultato largamente sufficiente. Dal loro punto di vista una maggiore severità, pur tecnicamente possibile, sarebbe insostenibile. Per un'efficace lotta all'inquinamento sono necessari vari tipi di interventi, concertati su scala internazionale, quali l'educazione delle popolazioni, una corretta informazione sui danni alla salute e all'ambiente, la messa a punto di indicatori attendibili e universalmente riconosciuti delle sostanze dannose e la raccolta sistematica di dati significativi su lunghi intervalli di tempo. Sarebbe molto utile anche una corretta politica dei sussidi: ad esempio, i governi dovrebbero disincentivare il trasporto su strada e favorire lo sviluppo delle tecnologie per l'utilizzazione di energia solare od eolica, nonché sostenere ogni iniziativa volta al risparmio energetico, come la coibentazione delle abitazioni. La storia degli ultimi decenni ci ha mostrato che danni gravi all'uomo e all'ambiente possono essere provocati da fenomeni "inattesi" e da processi di scarso peso quantitativo. Un esempio classico è quello del buco dell'ozono causato dai clorofluorocarburi, composti chimici di uso abbastanza limitato, ma capaci di creare un enorme danno ambientale (Aucamp 2003; Molina 1995; Solomon 2004). Questo suggerisce da un lato di usare la massima cautela nell'introdurre materiali di scarto e di rifiuto nelle acque, nell'aria, o nel suolo e, dall'altro, la necessità di un diffuso e continuo monitoraggio della situazione e di un'analisi scientifica accurata dei dati raccolti. I danni che l'uso dei combustibili fossili causa alla salute dell'uomo o all'ambiente vengono chiamati "esternalità" e il loro costo economico generalmente non è preso in considerazione dai produttori e consumatori di energia. Recentemente, però, alcune agenzie nazionali od internazionali hanno iniziato a valutare l'entità di questi danni in termini economici (EC 2003a), anche se il problema è estremamente complesso e richiede, in parte, assunzioni sulle quali non c'è un consenso generale (Rabl e Spadaro 2000). Inoltre, non va dimenticato che danni alla salute e all'ambiente oltre che dalla combustione sono causati anche da ogni altro stadio del complesso processo che porta alla disponibilità dei combustibili (esplorazione, trivellazione, estrazione, trasporto, raffinamento, distribuzione) (Epstein e Selber 2002). 2.10 Danni alla salute Per quanto riguarda la salute dell'uomo, un progetto della Comunità Europea sviluppato nell'arco di 10 anni ha condotto accurate analisi sull'azione di vari agenti inquinanti e ha poi valutato in termini monetari i danni da essi provocati (EC 2003a; Rabl e Spadaro 2000). Ad esempio, il danno causato da un decesso per malattia cronica è stato valutato in 83.000 euro e quello da un decesso per cause acute in 155.000 euro. Questi danni sono in buona parte a carico dei servizi sanitari nazionali, ovvero dell'intera collettività. Gli agenti inquinanti presi in considerazione sono particolato atmosferico (polveri), ossidi di azoto (NO x), ossidi di zolfo (SOx), monossido di carbonio (CO), ozono (C" 3), alcuni composti organici volatili ed elementi chimici come arsenico, cadmio, cromo e nichel. Attualmente l'attenzione della ricerca scientifica è molto concentrata sul particolato atmosferico (CAPE 2003; EPA 2004b; Pope et al. 2002). L'effetto dannoso sulla salute di questo inquinante, caratterizzato da una composizione chimica variabile e prodotto da numerose fonti antropogeniche e naturali, dipende dalle dimensioni delle particelle inalate (Armaroli e Po 2003b): più sono piccole, più penetrano lungo le vie respiratorie, più sono potenzialmente dannose (Pope et al. 2002; Wichmann e Peters 2000). Quelle con diametro superiore a 10 micrometri destano meno preoccupazione poiché sono bloccate nelle alte vie respiratorie, mentre quelle di diametro compreso fra 10 e 2,5 uni (PM ]0) penetrano nei bronchi e bronchioli e quelle di diametro inferiore (PM 2 5) penetrano sin negli alveoli, al cui livello non esistono sufficienti barriere protettive e gli inquinanti possono passare direttamente nel sangue (Nemmar et al. 2002). Una crescente attenzione è prestata alle particelle "ultrafini" (PM 0,1) (Brown et al. 2000; Wichmann e Peters 2000), la cui concentrazione risulta in aumento nei Paesi industrializzati (Ebelt et al. 2001). Molti autorevoli studi epidemiologici hanno evidenziato robuste associazioni tra effetti avversi sulla salute ed inquinamento da polveri (Brook R. D. et al. 2002; Nemmar et al. 2002; Pope et al. 2002). Le legislazioni europea ed americana stanno adeguandosi alle conoscenze acquisite in questo campo, e i limiti di concentrazione ammessi per questi inquinanti (specie PM 25 e PMQ1) diverranno sempre più restrittivi (CAPE 2003; EPA 2004a;Hogue 2004). Forti evidenze che correlano l'esposizione a particolato atmosferico ed effetti avversi alla salute riguardano non solo l'apparato respiratorio (Brunekreef e Holgate 2002) ma, risultato in qualche modo sorprendente, anche quello cardiocircolatorio (Peters et al. 2004; Pope et al. 2002; Stone P. H. 2004). A questo proposito vi è stato un recente ed autorevole pronunciamento da parte della associazione dei cardiologi americani (Brook R. D. et al. 2004). Effetti mutageni sono stati riscontrati a carico dei ratti e questo fa sorgere la possibilità che possano presentarsi anche a carico dell'uomo (Samet et al. 2004; Somers et al. 2004). Ulteriori studi in questo campo sono certamente necessari, ma oggi è francamente difficile sostenere che il particolato atmosferico non sia un agente inquinante da tenere rigorosamente sotto controllo (OMS 2003b). Gli ossidi di azoto e zolfo, oltre ad essere dannosi come tali alla salute (OMS 2003b), in seguito ad interazioni con altri composti chimici presenti in atmosfera possono essere trasformati in polveri fini ed ultrafini (particolato secondario) (Armaroli e Po 2003b). L'ozono è un'altro inquinante secondario, prodotto in atmosfera a partire da inquinanti primari per azione della luce; la sua presenza nell'aria è estremamente dannosa per gli animali e le piante (OMS 2003b). I metalli pesanti possono avere effetti cancerogeni, mutageni e teratogeni. Il biossido di carbonio (CO2) non causa danni diretti alla salute anche se, contribuendo ai cambiamenti climatici, può favorirli per via indiretta. Ad esempio all'aumentare della temperatura aumenta la rapidità di diffusione di parassiti e virus il cui ciclo di sviluppo coinvolge insetti a sangue freddo (Epstein e Selber 2002). Per avere un'idea dell'entità di questi problemi, si consideri che 1 kg di polveri sottili è stimato causare un danno "esterno" indiretto (non conteggiato in nessuna tariffa energetica, ma pagato dalla collettività) di circa 15 euro (Rabl e Spadaro 2000). La nuova centrale "pulita" a carbone di Civitavecchia dovrebbe emettere circa 1.000 tonnellate all'anno di polveri (MiniAmbiente 2004). Ammettendo che siano tutte di tipo PM10, il danno esterno stimabile è quindi pari a 15,4 milioni di euro. Questo stesso impianto (preso come esempio, ma se ne potrebbero fare tanti altri) dovrebbe produrre 13.000 tonnellate complessive di NOx ed SO2 (MiniAmbiente 2004). Considerando una conversione minima (20%) di questi gas in particolato, le polveri secondarie che si formano da NOx ed SO2 saranno presumibilmente ben superiori alle 1.000 tonnellate previste per il contributo primario (de Leeuw 2002). Di conseguenza i costi esterni per un impianto di questo tipo, per il solo particolato atmosferico (primario + secondario), sarebbero ben più alti di quanto indicato prima. Naturalmente si tratta di stime medie che possono dare solo un'idea dei costi esterni della produzione energetica: per ogni impianto andrebbero fatti studi specifici per tener conto, ad esempio, della popolazione effettivamente interessata alla ricaduta degli inquinanti. Studi di questo tipo si fanno in molte parti del mondo (Thanh e Lefevre 2000). Considerando l'impianto di produzione elettrica meno inquinante, ovvero una centrale a gas a ciclo combinato, si può stimare quanto segue. Per un impianto da 800 MW che funzioni 7.500 ore/anno e produca 6 milioni di MWh di energia, considerando la produzione di 1.600 ton/ anno di NOx e 60 ton/anno di PM25 (stima conservativa) (Armaroli e Po 2003a, 2003b) si può stimare un costo esterno complessivo dei due inquinanti pari a circa 12 milioni di euro all'anno (EC 2003b). Questo numero può essere paragonato al contributo compensativo che il proprietario della centrale deve versare alle Amminisrazioni locali interessate, pari a 0,2 euro per MWh5 ovvero 1,2 milioni di euro all'anno. Tale contributo, peraltro, non è finalizzato a rimborsare esternalità sanitarie ma viene erogato "per il mancato uso alternativo del territorio e per l'impatto logistico dei cantieri". In ogni caso si tratta di un vero affare per l'impresa energetica, che paga solo un decimo del danno arrecato alla collettività. Questo obolo, che gli amministratori locali ritengono un grande affare, non andrà comunque a beneficiare la comunità in senso lato ma solo pochi cittadini che, a fronte di accresciuti rischi sanitari, verranno ripagati con un centro anziani, una strada asfaltata o un festival della canzone. Un approccio molto più serio ai cosiddetti meccanismi compensativi è possibile: negli Stati Uniti, specie in California, esiste una legislazione molto più avanzata in materia (Armaroli e Po 2003a). Studi come quelli che abbiamo menzionato stimano che mediamente, posto a 100 il carico dei costi socio-ambientali degli impianti di produzione elettrica a carbone, 50 e 30 sono, rispettivamente, i costi per gli impianti ad olio combustibile e gas naturale (Rabl e Spadaro 2000). Naturalmente si potrebbero fare considerazioni analoghe ai danni alla collettività che ciascuno di noi crea con i personali consumi e sprechi energetici (uso dell'auto privata, riscaldamento domestico, ecc.). Altri danni alla salute derivano dai prodotti petroliferi prima della loro combustione, ad esempio a causa delle inalazioni di benzina e dei suoi additivi durante la distribuzione (Epstein e Selber 2002). E bene infine ricordare che l'inquinamento atmosferico colpisce duramente nelle megalopoli congestionate dei Paesi poveri, ove si rifugiano milioni di persone in cerca di un'improbabile fortuna (Zwingle 2002). Non meno preoccupante è la situazione nelle zone rurali più remote ove, in ambienti non sufficientemente ventilati, si utilizzano biomasse e forni rudimentali per la cottura dei cibi che producono elevate concentrazioni di polveri fini e sostanze cancerogene. Si stima che nei Paesi poveri muoiano ogni anno dai 2 ai 4 milioni di bambini a causa dell'inquinamento dell'aria tra le mura domestiche (Smil 2003). Questo problema è oggetto di crescente attenzione anche nei Paesi più sviluppati, ma per motivi diversi. Da noi l'inquinamento è causato principalmente da sostanze che si liberano nell'aria dai materiali più svariati, non sempre strettamente necessari, di cui le nostre case sono ormai piene. 2.11 Danni all'ambiente. Cambiamenti climatici e piogge acide Per quanto riguarda l'ambiente, i problemi collegati all'uso dei combustibili fossili sono vari e complessi. Ad esempio, nei soli processi di estrazione dai 40.000 pozzi che ci sono nel mondo, ogni anno vengono versati nell'ambiente da 2,8 a 6,8 miliardi di litri di petrolio grezzo. Nel 1999 ci sono stati 257 incidenti nel trasporto dai pozzi alle raffinerie, alcuni dei quali hanno coinvolto petroliere lunghe fino a 300 metri in grado di trasportare 900 milioni di litri; le perdite in mare sono state pari a 120 milioni di litri di petrolio (Epstein e Selber 2002; Graham-Rowe 2004). Altri danni considerevoli si hanno a causa delle guerre. Durante la guerra del Golfo del 1991 furono fatti saltare 730 pozzi petroliferi, molti dei quali bruciarono per diversi mesi, con una perdita di circa 240 mIliardi di litri di petrolio grezzo, pari al 2% circa delle riserve del Kuwait; la produzione di inquinanti atmosferici da parte di quelle combustioni incontrollate di petrolio fu gigantesca (Epstein e Selber 2002). Sempre durante la stessa guerra, 1,7 miliardi di litri di petrolio grezzo finirono nel golfo Arabico. Danni ambientali rilevanti sono già stati prodotti anche dalla guerra attualmente in corso in Iraq. Altri problemi riguardano gli oleodotti, dove il petrolio viene pompato ad alte pressioni. Molti degli oleodotti oggi in uso hanno più di 15 anni, intervallo di tempo dopo il quale non possono considerarsi completamente sicuri. Particolarmente pericolosa è poi la situazione in Alaska dove il riscaldamento del globo (l'uso stesso del petrolio ne è una concausa) sta sciogliendo lo strato di terreno gelato (permafrost) in cui passa l'oleodotto (Stokstad 2004), Un'altra parte non trascurabile del petrolio e dei suoi derivati viene perso durante la raffinazione. Forti danni all'ambiente vengono causati anche dai gas serra e dalle piogge acide. Cambiamenti climatici Circa il 25% della radiazione solare che colpisce la Terra viene riflesso nello spazio dall'atmosfera e un'uguale percentuale è assorbita dall'atmosfera stessa. Il rimanente 50% dell'energia giunge sulla superficie terrestre; di questa, l'85% è assorbita, riscaldando la Terra, e il 15% viene riflessa (ad esempio, dalle calotte polari). Certi gas presenti nell'atmosfera, in particolare il vapor d'acqua e il biossido di carbonio, assorbono parte dell'energia riflessa, si riscaldano e rimandano radiazioni infrarosse (cioè calore) verso la Terra. In pratica, svolgono una funzione analoga a quella di una serra: permettono alla luce solare di entrare, ma impediscono che il calore che ne risulta esca nello spazio circostante. Se non ci fossero i gas serra "naturali", la temperatura della superficie del globo sarebbe di circa 30°C più bassa rispetto a quella di cui godiamo attualmente. Quindi i gas serra hanno un effetto molto positivo sul clima, Però, l'aumento continuo della loro concentrazione dovuto alle attività umane, come già menzionato, causa un aumento della temperatura cori conseguenze che potrebbero avere effetti molto pesanti (Hansen J. 20()4j Kerr 2004a; Weart 2003). Ad esempio, secondo previsioni del Comitato Intergovernativo sulle Variazioni Climatiche dell'ONU (IPCC) entro il 2100 ci sarà un aumento del livello del mare compreso fra 10 e 90 cui (Houghton et al. 2001). Ad aggravare la situazione c'è il fatto che sono proprio i Paesi poveri ad essere i più vulnerabili di fronte ai cambiamenti climatici (OMS 2003a, 2004); questo appare chiaro, ad esempio, dal numero delle vittime e dalle entità dei danni che uno stesso uragano causa ad Haiti o negli Stati Uniti. Nell'anno 2000, a livello mondiale la combustione di riserve fossili e di legno ha causato l'immissione in atmosfera di 25 miliardi di tonnellate di CO 2 (Service 2004b); "pesando" solo il carbonio (C) si tratta di (>.(> miliardi di tonnellate di materia, la metà della quale viene riciclata dalle piante terrestri e dagli oceani (Appenzeller 2004b). Di conseguenza, agli attuali ritmi produttivi, l'uomo trasferisce ogni anno dal sottosuolo all'atmosfera circa 3 miliardi di tonnellate di carbonio. Parrebbe un numero piccolo se si considera che, ogni anno, lo scambio naturale di carbonio l'atmosfera e gli organismi viventi ("ciclo del carbonio"} ammonta a 100 miliardi di tonnellate. Tuttavia l'accumulo indotto dalle attività umane, che va avanti da decenni e aumenterà fortemente, rischia di interferire in maniera rilevante in questo delicato processo, che la natura i generato nel corso di milioni di anni (Mack et al. 2004). Nonostante ci sia chi si sforza di sostenere che l'accumulo del carbonio in atmosfera un fatto positivo (la CO2 sarebbe un ottimo "fertilizzante") (Cascioli LGaspari 2004), la realtà è ben diversa e molto più complessa (Dorè et , 2003; Kump 2002; LaDeau e Clark 2001; Oren et al. 2001; Palmer e anen 2002; Quay 2002). È stato recentemente valutato che l'Europa continentale, con le sue risorse agroforestali, ricicla solo il 10% del biossido di carbonio che immette in atmosfera bruciando combustibili fossili (Janssens et al. 2003). Potremmo dunque dire che il Vecchio Continente non ha l'indipendenza energetica, ma neppure quella ambienta-prima è fonte di ricorrente preoccupazione negli ambienti politici economici, molto meno la seconda. Probabilmente si da per scontato regioni del mondo provvederanno a controbilanciare la nostra azione nel ciclo del carbonio. Attualmente la maggior parte del biossido di carbonio è prodotto negli Stati Uniti, Europa, Giappone e Cina (Tabelle 3 e 4). Un cittadino americano produce in un anno 19,9 tonnellate di CO2, quasi il doppio , quantità prodotta da un cittadino italiano, che a sua volta ne produce tredici volte di più di un cittadino indiano. La quantità di biossido immessa nell'atmosfera dall'Italia è 200 volte maggiore di quella immessa dall'Etiopia, un Paese paragonabile all'Italia come numero di abitanti. In seguito all'uso dei combustibili fossili, dall'inizio della rivoluzione industriale ad oggi la concentrazione di CO2 nell'atmosfera tentata da 275 a 370 parti per milione (ppm) e si prevede che, se non saranno presi provvedimenti opportuni, potrà superare 550 ppm alla fine di questo secolo (Service 2004b). C'è diffuso consenso scientifico sul fatto che questo raddoppio della concentrazione di CO 2 causerà un aumento medio della temperatura terrestre di 3,0 ± 0,5 °C (Kerr 2004 accompagnato da una maggiore frequenza di eventi meteorologici estremi quali ondate di calore e precipitazioni intense (Meehl e Tebaldi 2004; Mnicr e Ralsanen 2002; Schar et al. 2004). Tali cambiamenti andranno poi a sovrapporsi alle oscillazioni naturali del clima terrestre, con effetti difficili da prevedere. Le conseguenze dell'aumento della concentrazione di CO 2 nell'atmosfera, che qualcuno ha definito un pericoloso "esperimento fuori controllo", potrebbero essere disastrose, anche a seguito dei meccanismi automatici di retro-azione (feedback) innescati dalla Terra come reazione al cambiamento "artificiale" indotto dalle attività umane. Ad esempio, lo scioglimento dei ghiacci polari e della Groenlandia potrebbe sconvolgere il delicato meccanismo di circolazione delle correnti oceaniche che trasportano acque calde, fredde e sali (thermohaline circulation, THC) (Fukasawa et al. 2004; Hansen B. et al. 2004). Un effetto possibile di questo fenomeno potrebbe essere una sostanziale modifica della Corrente del Golfo, che renderebbe il clima nordeuropeo molto più rigido (Schiermeier 2004c). Questo possibile effetto "bizzarro" del riscaldamento globale può dare un'idea della complessità dei problemi che abbiamo davanti6. In ogni caso, già oggi, in varie regioni del globo quali il "Grande Nord", l'Africa equatoriale, l'Oceano Atlantico e molte altre gli effetti del surriscaldamento terrestre si manifestano in maniera marcata (Appenzeller e Dimick 2004; Click 2004; Hansen B. et al. 2004; Kerr 2004c; Morell 2004; Verschuren 2003; Whitfield 2003). I primi dati scientifici sull'aumento della concentrazione di CO 2 nell'atmosfera risalgono al 1957, ma solo 31 anni più tardi il problema fu affrontato a livello delle Nazioni Unite con la creazione di un apposito organismo (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCC). Nel 1992 tale organismo presentò al Convegno di Rio de Janeiro un protocollo che prevedeva azioni specifiche per ridurre l'emissione di gas serra. Il protocollo fu poi modificato ed approvato a Kyoto nel 1997 (UNFCC 2004). Con esso le nazioni aderenti si impegnavano a diminuire, entro il periodo 2008-2012, l'emissione di gas serra di una percentuale compresa fra il 5 e il 10% rispetto alle emissioni del 1990. La percentuale di diminuzione e il termine della scadenza per ogni singolo Paese era legato al suo potenziale economico. Nel Novembre 2000 a L'Aja ci fu un convegno con lo scopo di dare inizio agli atti contemplati dal protocollo. L'accordo però è rimasto bloccato per lungo tempo a causa della mancata ratifica da parte di Stati Uniti, Australia e Russia. La ragione addotta dal governo degli Stati Uniti per non ratificare l'accordo è tanto semplice quanto egoistica: il protocollo di Kyoto non è compatibile con gli interessi economici degli Stati Uniti (Chiantaretto 2001). Questa giustificazione non è affatto soddisfacente per gli scienziati americani e persino per gli amministratori locali: in circa la metà degli Stati degli USA, infatti, sono state prese iniziative "dal basso" per limitare l'uso dei combustibili fossili e l'emissione di gas serra (Appell 2003; Nature 2004a; Watson 2003). Addirittura, una quarantina di compagnie multinazionali hanno volontariamente aderito ad iniziative di questo genere, dimostrando che le tecnologie necessarie per raggiungere gli obiettivi proposti dal Protocollo di Kyoto esistono e, in certi casi, è addirittura conveniente adottarle anche dal punto di vista strettamente economico (De Leo et al. 2001). La recente ratifica (30 settembre 2004) del Protocollo da parte della Russia permette ora all'accordo di entrare in vigore (era infatti necessaria l'adesione di Stati che rendono conto di almeno il 55% delle emissioni) e può essere gravida di conseguenze, isolando l'attuale politica americana e avvicinando la Russia alla Unione Europea. Purtroppo il Protocollo di Kyoto, anche nel caso in cui venga realmente applicato, non avrà grande impatto sia per la mancata adesione degli USA, che sono i maggiori produttori di CO 2 (Tabelle 3 e 4) e, ancor più, per le piccole diminuzioni previste rispetto ai continui aumenti delle immissioni, cui contribuiscono in maniera sostanziale anche gli incendi appiccati dall'uomo su vasti territori dell'America Latina e dell'Asia per fare spazio alle coltivazioni (Aldhous 2004; Nature 2004e). Le piogge acide L'acqua ha pH=7, cioè non è né acida né basica. La pioggia esente dagli effetti delle attività umane è leggermente acida (pH=5,6) a causa del biossido di carbonio dell'atmosfera in essa disciolto, che da origine ad acido carbonico, un acido molto debole. A partire dalla fine degli anni Sessanta, si notò che in certe regioni del globo, particolarmente in zone sottovento ad aree altamente industrializzate, le precipitazioni atmosferiche e le nebbie avevano un pH decisamente più basso di 5,6 (Smil 2003). Ad esempio, nella costa nord orientale degli USA si riscontravano piogge con pH=4,3. Si è capito da lungo tempo che questo fenomeno è da mettere in relazione con la presenza in atmosfera di acidi forti, quali acido solforico e acido nitrico. L'acido nitrico (HNO ) si genera per via diretta o indiretta per reazione dell'acqua (pioggia, nebbie) con gli ossidi di azoto (NO), a loro volta formati dalla reazione fra azoto ed ossigeno atmosferici nei motori a scoppio delle macchine e negli impianti termoelettrici. Le marmitte catalitiche delle automobili trasformano NOx in azoto ed ossigeno e quindi limitano l'immissione di NOx in atmosfera. È possibile dotare di catalizzatori anche le centrali termoelettriche, ma in Italia questa pratica non è ancora sufficientemente diffusa (Armaroli e Po 2003b, 2003a). Questi accorgimenti tecnologici, accoppiati a motori di nuova concezione, hanno permesso di abbattere le emissioni degli autoveicoli in maniera impressionante. Un auto dell'anno 2000, rispetto ad un modello di fine anni Sessanta, presenta una riduzione nelle emissioni di idrocarburi incombusti, monossido di carbonio e NO del 97, 96, e 90%, rispettivamente (Smil 2003). È evidente che senza questi progressi oggi non potremmo permetterci di far circolare tanti automezzi, pena la assoluta irrespirabilità dell'aria. L'acido solforico si genera a partire dallo zolfo, contenuto come impurezza in tutti i combustibili fossili. Reagendo con l'ossigeno dell'aria, lo zolfo da origine a biossido di zolfo (SO2) e successivamente a triossido di zolfo (SO3) che infine si combina con l'acqua originando acido solforico. Questo acido è particolarmente dannoso in quanto sottrae ai terreni ioni Ca2+, indispensabili per la crescita degli alberi, formando solfato di calcio insolubile. I meccanismi di deposizione acida appena descritti, dal momento che coinvolgono piogge e nebbie, vengono detti "umidi". Esistono anche meccanismi "secchi" in cui gli inquinanti precursori degli acidi (SO2, NO, NO2 ) si depositano come tali, dando origine a processi chimici (Smil 2003). Più in generale, le ricadute acide causano profonde modifiche nelle proprietà chimiche del suolo e delle acque dolci, che possono causare danni più o meno gravi. In alcuni casi si può arrivare sino alla deforestazione di intere aree e alla scomparsa della vita nei laghi. Le piogge acide sono anche dannose per l'integrità di monumenti ed edifici, particolarmente per quelli costruiti con materiale ad alto contenuto di carbonato di calcio (marmo, travertino, ecc.). Negli ultimi venti anni il problema delle piogge acide è stato fortemente ridotto nei Paesi occidentali e in Giappone sia per l'introduzione dei sistemi di abbattimento catalitici sia per una serie di altri accorgimenti tecnologici che hanno permesso di ridurre sensibilmente le emissioni di biossido di zolfo delle centrali termoelettriche (specie quelle a carbone) e degli impianti industriali (Smil 2003). Questo però non deve indurci a considerare superato il problema: le precipitazioni acide sono in aumento nei Paesi in via di sviluppo ed in Cina (Streets et al. 1999). Va poi ricordato che l'abbattimento di composti solforati e polveri nei processi di combustione del carbone comporta la produzione di enormi quantità di rifiuti solidi (es. solfato di calcio) che debbono comunque essere smaltiti. Ogni anno milioni di tonnellate di questi materiali debbono trovare una non sempre facile collocazione a riposo (Smil 2003). Una fonte di preoccupazione più recente è l'aumentata acidità degli oceani legata all'aumento della concentrazione di biossido di carbonio in atmosfera (Feely et al. 2004; Schiermeier 2004a): esso, infatti, non è solo un gas serra, ma anche il precursore dell'acido carbonico. Questo fenomeno potrebbe dimezzare il tasso col quale creature marine come coralli e plancton costruiscono i loro scheletri calcarei, con effetti a catena sugli altri organismi viventi che popolano gli oceani (Feely et al. 2004). 2.12 Energie alternative ai combustibili fossili Come si può vedere dalla Tabella 2, le fonti di energia più usate in alternativa ai combustibili fossili sono l'energia nucleare, l'energia idroelettrica, le fonti rinnovabili tradizionali come il legno e i materiali di scarto e, in misura ancora trascurabile, le energie rinnovabili cosiddette "moderne" (eolica, solare, geotermica). La tecnologia idroelettrica è relativamente semplice e permette di produrre energia a prezzi molto contenuti (Figura 5). Oggi l'energia idroelettrica gioca un ruolo importante in molti Paesi (Tabella 2). Per quanto numerose siano le dighe costruite un po' in tutte le nazioni (circa 50.000 grandi dighe, più un numero enorme di piccole dighe), il contributo fornito dall'energia idroelettrica costituisce circa il 3% del consumo mondiale totale e non si prevede che possa aumentare in modo consistente. Oggi i bacini con una caduta di oltre 30 metri occupano, a livello mondiale, un'area vasta 2 volte l'Italia e quasi tutti i siti adatti alla costruzione di grandi dighe sono stati ormai utilizzati. Dopo un autentico boom registrato negli anni Sessanta e Settanta ci sono stati forti ripensamenti, perché l'impatto e i problemi creati con questi impianti sono risultati maggiori di quanto allora preventivato. La costruzione di dighe non è senza conseguenze per la popolazione e per il territorio: esodi forzati di popolazioni dalle vaste zone che devono essere allagate e loro ricollocamento altrove, sbancamento di enormi quantità di materiale, cambiamenti nel microclima della regione, pericoli per le popolazioni a valle della diga (ricordiamo il Vajont), impoverimento delle biodiversità, stravolgimento della fauna fluviale, diffusione di malattie (es. malaria) da parte di parassiti che prosperano nelle riserve di acqua, drastica riduzione della velocità media di scorrimento dei fiumi con aumento dell'inquinamento, sedimentazione di materiali nel fondo dei bacini con progressiva diminuzione della potenza elettrica erogabile ed elevati costi di manutenzione, diminuzione della fertilità dei terreni a valle. E bizzarro poi il fatto che nelle zone tropicali, i grandi bacini idroelettrici possono trasformarsi in notevoli produttori di gas serra (biossido di carbonio, metano) a causa della decomposizione di materiale organico nelle acque calde e stagnanti. A fronte di tutti questi problemi bisogna però evidenziare che, a livello globale, la diffusione dell'energia idroelettrica ha contribuito in maniera rilevante ad evitare immissioni in atmosfera di inquinanti e gas serra. Se l'energia attualmente ottenuta da cadute di acqua fosse prodotta da centrali termoelettriche, avremmo ogni anno un incremento delle immissioni di carbonio e zolfo in atmosfera del 15 e 35% circa, rispettivamente (Smil 2003). I bacini idroelettrici forniscono in alcuni Paesi fino al 90% dell'energia necessaria e sono di vitale importanza. Essi poi sono il modo ideale per immagazzinare energia da utilizzare nei momenti di punta nei consumi. In molti Paesi, tra cui l'Italia, avviene comunemente che i bacini vengano "caricati" di notte utilizzando energia termoelettrica, così da disporre di una riserva per il giorno successivo che può entrare in funzione in pochi secondi, al momento del bisogno. Va poi sottolineato che i bacini idroelettrici spesso non servono solo a produrre elettricità, ma anche a fornire acqua potabile e per irrigazione e, più in generale, a controllare i regimi delle acque, evitando disastrose alluvioni. Il bilancio globale tra benefici e danni dell'energia idroelettrica è naturalmente complesso. Al momento comunque la costruzione di nuovi impianti è in una fase di sviluppo consistente solo in Asia. In Occidente è sostanzialmente bloccata per i grandi impianti, mentre buone prospettive si presentano per le centrali di piccola o piccolissima taglia (<10 MW) (DOE 2004a). Oggi, negli Stati Uniti, vi è una percentuale di dismissione degli impianti superiore a quella di costruzione, anche a seguito di esperienze piuttosto negative. Il fiume Colorado, il cui regime è stato fortemente sfruttato per scopi energetici, in pratica non arriva più al mare, perdendosi nel deserto che prima attraversava (Dalton 2003; Powell 2002). Fra numerosi effetti negativi "minori" si può ricordare che i salmoni che popolavano le acque del bacino del fiume Columbia sono stati decimati dalla difficoltà di risalire la corrente e depositare le uova, in corsi d'acqua continuamente interrotti (Kareiva et al. 2000; Montaigne 2001). La Cina, che ha un forte bisogno di energia, ha costruito un numero enorme di dighe e attualmente ne ha in costruzione una, nelle gole dello Yangtze, che diventerà la diga più grande del mondo: sarà alta ben 175 metri e il riempimento dell'enorme bacino, che dovrebbe essere completato per il 2009, richiede la demolizione di 23 città e lo spostamento di 1.300.000 persone (Lamb 1997). La potenza elettrica sarà di 18.200 MW, ovvero paragonabile alla potenza complessiva installata in Austria. Le fonti rinnovabili tradizionali, come il legno, giocano un ruolo importante nei Paesi meno sviluppati (ad esempio: India, Brasile, Nigeria, Etiopia, Tanzania, vedi Tabella 2), ma anche in alcuni Paesi ricchi. La Svezia, ad esempio, ricava circa il 15% del proprio fabbisogno primario dal legname. Non su tutta la Terra, peraltro, la biomassa è da considerare una fonte rinnovabile. Nelle zone povere del mondo il disboscamento o il pascolo indiscriminati portano talvolta a processi di impoverimento del terreno e di erosione del suolo che rendono sterili in modo repentino terreni un tempo ricchi di vegetazione7. In generale le biomasse hanno una bassissima densità di potenza: occorre coltivare aree molto vaste per avere un ritorno energetico modesto (Tabella 9). Si calcola che per ottenere con legname l'energia prodotta con il carbone nell'anno 2000 sarebbero necessari circa 330 milioni di ettari di boschi in ottima salute, un'area superiore all'attuale superficie boschiva dell'Unione Europea e degli Stati Uniti messi insieme (Smil 2003). In prospettiva, il contributo delle biomasse al fabbisogno energetico mondiale è destinato a ridursi per la bassa efficienza, la scarsa comodità d'uso e la grande quantità di gas serra e inquinanti immessi nell'atmosfera. A volte si sente parlare dell'uso dell'etanolo come fonte energetica, da utilizzare direttamente come combustibile o come materia prima per produrre idrogeno (Deluga et al. 2004). Questo avviene in Brasile, dove l'etanolo viene prodotto con discreta efficienza dalla canna da zucchero. Negli Stati Uniti l'etanolo si produce dal granoturco, ma con un'efficienza molto bassa. Per dare un'idea, si pensi che per far funzionare tutti i veicoli circolanti negli Stati Uniti con etanolo ottenuto dal mais occorrerebbe coltivare granoturco su un'area superiore del 20% di quella oggi destinata a tutta l'agricoltura statunitense (Smil 2003). Attualmente il "programma etanolo USA" ha l'unico effetto di essere un sussidio per gli agricoltori (Richter 2004). Nelle zone alpine italiane, ove la materia prima non manca, esistono progetti interessanti per la produzione di calore e/o energia elettrica dagli scarti di legno puro ("cippato") provenienti dalle segherie e dalle potature. L'Alto Adige è all'avanguardia in questo campo8. Le fonti di energia rinnovabile moderne danno attualmente uno scarso contributo ma, come vedremo in seguito, è proprio su queste fonti che sono basate le maggiori speranze per la soluzione dei problemi legati al sottosviluppo e alla necessità di abbandonare gradualmente l'uso dei combustibili fossili. Una trattazione a parte merita l'energia nucleare, sia per le speranze che aveva suscitato qualche decennio fa, che per le difficoltà che oggi incontra il suo ulteriore sviluppo. 7 Una serie di interessanti articoli sul problema dell'erosione del suolo è stata pubblicata dalla rivista «Science» nel n. 5677 dell'I 1 giugno 2004. 2.13 Energia nucleare Dopo la scoperta dell'energia nucleare, dapprima usata per distruggere le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki e porre fine alla Seconda Guerra Mondiale, poi imbrigliata per la produzione di elettricità ad uso civile a partire dalla fine degli anni Cinquanta, l'umanità si illuse di aver risolto il problema energetico. Molti valenti scienziati affermarono che, nel giro di qualche decennio, l'energia sarebbe diventata un bene gratuito per tutta l'umanità (Smil 2003). Oggi l'energia nucleare contribuisce a soddisfare il fabbisogno energetico di un numero molto ristretto di Paesi (particolarmente, Francia, Stati Uniti, Giappone e Russia, vedi Tabella 2). Il numero di centrali nucleari esistenti è di circa 440, ma quelle in costruzione sono pochissime e molte delle vecchie sono in procinto di chiusura. Il processo in uso, dello stesso tipo di quello che avviene nelle bombe atomiche, si basa sulla fissione nucleare, cioè sulla rottura di nuclei atomici pesanti ed instabili in nuclei più leggeri, con perdita di massa e generazione di grandissime quantità di energia (una perdita di massa di mezzo milligrammo genera una quantità di energia pari a quella che si ottiene bruciando una tonnellata di petrolio) (Colombo 1996). I reattori nucleari più comuni utilizzano come combustibile l'unico nucleo fissile presente in natura, che è l'isotopo 235 dell'uranio, che costituisce solo lo 0,7% di tutto l'uranio che si trova sulla Terra. Prima di essere utilizzato, l'uranio va sottoposto ad un processo che si può effettuare solo in enormi impianti, in cui viene aumentata la percentuale dell'isotopo 235 fino al 3% (uranio arricchito). Quando un nucleo di uranio 235 viene colpito da un neutrone, si spezza in due nuclei di massa più piccola e genera in media due o tre neutroni. Questi nuovi neutroni vanno a colpire altri nuclei di uranio 235 e il processo continua. Si ha in questo modo una reazione a catena che tende, se il suo decorso non è controllato, a diventare sempre più rapida, con lo sviluppo di energia sotto forma di calore. Con una quantità sufficiente di uranio fortemente arricchito nell'isotopo 235 e con una disposizione geometrica diversa da quella usata nelle centrali, la reazione a catena può dar luogo a un'esplosione atomica. Nelle centrali si usa la grande quantità di calore generata dalla reazione nucleare per riscaldare un fluido, generalmente acqua, che diventa vapore e va ad azionare una turbina per la produzione di energia elettrica. Uno dei fattori limitanti per l'utilizzo dell'energia nucleare è la disponibilità di uranio, i cui minerali sono presenti in poche zone della Terra. Per ovviare a questa limitazione si potrebbe in teoria ricorrere ai reattori detti "autofertilizzanti", dove l'uranio 238 (fertile) viene convertito in plutonio 239 (fissile). C'è però un serio inconveniente: il plutonio 239 è molto adatto alla costruzione di bombe e, indipendentemente dalla sua radioattività, è estremamente tossico. Per questo motivo, ma anche per ragioni economiche legate alla complessa tecnologia ed al costo elevato degli impianti, i reattori autofertilizzanti non hanno avuto successo, né si prevede possano averlo nei prossimi decenni. Uno dei maggiori problemi dell'energia nucleare nasce dal fatto che alcuni elementi radioattivi contenuti nelle scorie sono pericolosi per mesi o anni, altri per decine, centinaia, migliaia o addirittura decine di migliaia di anni: ad esempio, il tempo di dimezzamento dell'emissione radioattiva è di 8 giorni per l'isotopo 131 dello iodio e ben 24.000 anni per l'isotopo 239 del plutonio. Pertanto le scorie vanno conservate in luoghi sicuri, a prova di terremoti, inondazioni e furti, per moltissimi anni. Per quante precauzioni si possano prendere, le scorie radioattive costituiscono una fonte di preoccupazione e pongono una domanda che non si può eludere: è giusto lasciare in eredità a chi non è ancora nato, e non ha dato alcun assenso, queste sostanze altamente pericolose? La discussione estenuante che avviene negli Stati Uniti da oltre due decenni in merito al deposito nazionale di scorie radioattive nelle viscere della Yucca Mountain in Nevada può dare un'idea del fatto che i problemi posti dall'uso dell'energia nucleare possono essere più gravosi di quelli che dovrebbe risolvere (Brumfiel 2004; Johnson 2002). Tale impianto, che è già costato 60 miliardi di dollari e costerà ancora molti soldi ai contribuenti americani (880 milioni di dollari per l'anno finanziario 2005), resta a tutt'oggi inutilizzato (Johnson 2002, 2003d). Come noto, il problema delle scorie è presente anche in Italia ove le centrali nucleari sono state spente 17 anni fa. Nel mondo d'oggi un altro fattore di pericolosità deriva dal fatto che gli impianti nucleari sarebbero obiettivi privilegiati di attacchi terroristici 9, mentre il materiale nucleare può essere impiegato per la fabbricazione delle cosiddette "bombe sporche" (ordigni rudimentali che spargono materiale radioattivo), come riconosce il Dipartimento di Stato americano (DoS 2004). Queste preoccupazioni non sono peraltro nuove: giova ricordare che lo stesso Enrico Fermi, padre dell'energia nucleare, previde che essa sarebbe stata difficilmente accettata dall'opinione pubblica anche per questi motivi (Weinberg 1994). Oggi un ulteriore sviluppo dell'energia nucleare è anche fortemente frenato, se non precluso, per ragioni puramente economiche. L'esperienza degli ultimi decenni ha mostrato infatti che l'energia elettrica prodotta dagli impianti nucleari ha un prezzo molto elevato qualora si considerino tutti i costi indiretti pubblici e privati, inclusi quelli che le scorie nucleari faranno ricadere sulle prossime generazioni. Inoltre, la liberalizzazione dei mercati dell'energia è scarsamente compatibile, per motivi strettamente economici, con la costruzione di nuovi impianti nucleari (MIT 2003). Questo è dimostrato dal fatto che oggi non vi è nessuna centrale in costruzione in Paesi dell'Europa occidentale mentre negli Stati Uniti non si progettano nuove centrali nucleari dalla fine degli anni Settanta (Edwards 2004; Smil 2003). Solo in Asia la tecnologia nucleare convenzionale è attualmente in espansione. Di fatto, se uno Stato non garantisce la copertura degli immensi costi "nascosti" legati al ciclo di vita di impianti nucleari, è molto difficile che un'impresa privata s'imbarchi in un'avventura economica di queste proporzioni e di questo livello di rischio. Un ultimo problema è costituito dalla incertezza sulla consistenza effettiva delle riserve di uranio (Hoffert et al. 2002). L'enorme sviluppo dell'energia nucleare che vi fu tra gli anni Cinquanta e Ottanta in alcuni Paesi era legato allo sviluppo dell'energia nucleare per scopi militari e non è per nulla casuale che la Francia, grande produttrice di energia nucleare, sia l'ultimo Paese europeo ad aver effettuato esperimenti nucleari per scopi bellici nel non lontano 1995. C'è infatti una diretta ed indissolubile relazione fra nucleare civile (Nature 2004b) e nucleare militare come dimostra, anche in questo periodo, la questione delle centrali nucleari che l'Iran e la Corea del Nord vogliono attivare per ottenere energia elettrica e che altri Stati temono potrebbero coprire la produzione di ordigni nucleari. Nonostante queste difficoltà, gli impianti nucleari tradizionali o di nuova generazione sono da taluni considerati una valida alternativa all'uso dei tradizionali impianti termoelettrici, al fine di ridurre l'immissione di gas serra nell'atmosfera (Meserve 2004; MIT 2003). Va notato, però, che la filiera nucleare è dipendente dall'uso di combustibili fossili, quindi a sua volta non è totalmente disgiunta dalla produzione di gas serra. Capitolo 3 Uno sguardo all'Italia Le domande non sono mai indiscrete: a volte lo sono le risposte. Oscar Wilde 3.1 Le risorse L'Italia è un Paese tradizionalmente povero di risorse energetiche. All'epoca dell'autarchia, negli anni Trenta, per cercare di affrontare il problema furono mobilitate considerevoli risorse intellettuali ed economiche con risultati sconfortanti, talvolta al limite del ridicolo (Malocchi 2003). Attualmente l'Italia ha un'autosufficienza energetica complessiva molto modesta (15%) ed in lento ma costante declino (AEEG 2003; EC e Eurostat 2004). Il totale dell'energia importata (84,7% del fabbisogno) è suddiviso come segue: petrolio, 54%, gas naturale, 30%, carbone, 8%, energia elettrica, 7%. Le "fonti" privilegiate sono Medio Oriente e Nord Africa per il petrolio, Algeria e Russia per il gas. Per la produzione di energia elettrica abbiamo in Italia 2005 impianti idroelettrici e 975 centrali termoelettriche, di cui 34 geotermiche (GRTN 2003). L'Italia, fra le nazioni industrializzate, è quella con i minori consumi energetici prò-capite (EC e Eurostat 2004). Negli ultimi 10 anni, però, i consumi sono saliti di circa il 15%, contro una media europea di circa il 12% (ENEA 2003). Nel quadro dell'attuale sistema energetico la scelta strategica per il nostro Paese è decidere come modulare una dipendenza incomprimibile, oppure cominciare a modificare la situazione attuale investendo con convinzione ed efficienza nel campo delle energie rinnovabili. Un quadro chiaro della condizione italiana è stato fornito di recente dall'Autorità per l'Energia ed il Gas: "In prospettiva, senza un sensibile aumento delle nuove fonti rinnovabili, capace di compensare il calo della produzione di gas e la sostanziale stabilità della produzione petrolifera e dell'energia idroelettrica, il grado di dipendenza dall'esterno dell'Italia è destinato ad aumentare ulteriormente" (AEEG 2003). C'è poi tutto il problema dei danni alla salute e all'ambiente provocati dall'uso dei combustibili fossili. Come vedremo, dunque, nell'esaminare la situazione italiana sorgono spontanee due domande: chi si incarica di fornire agli italiani un'informazione completa ed aggiornata sui temi dell'energia? Chi fa veramente la politica energetica nel nostro Paese? 3.2 Danni alla salute e all'ambiente In Italia i combustibili fossili coprono circa il 95% del fabbisogno energetico complessivo (EC e Eurostat 2004; ENEA 2003) e l'uso di queste risorse energetiche causa un problema diffuso di qualità dell'aria. Numerosi studi a livello internazionale pongono l'Italia ai vertici delle classifiche dell'inquinamento atmosferico per numerosi inquinanti (es. PM 1Q, PM25, NOx), specie nei grandi centri urbani e in alcune zone, come la Pianura Padana, sfavorite da un punto di vista meteorologico ed orografico (EEA 2003b; Hazenkamp-Von Arx et al. 2004). L'Italia è spesso oggetto di richiami da parte delle autorità di Bruxelles per mancato recepimento delle direttive europee in materia di inquinamento atmosferico e, a volte, ha anche subito condanne dalla Corte Europea di Giustizia per gli stessi motivi (EC 2004a; Gasparinetti 2004). La possibilità che numerose città italiane possano rientrare nei limiti imposti per la concentrazione di PM1Q entro il 2004, evitando il pagamento di multe è a dir poco remota (CUCE 1999). La firma del trattato di Kyoto da parte del nostro Paese è rimasta un mero impegno di principio: l'Italia si sta allontanando sempre più rispetto agli obiettivi pattuiti. Le emissioni di CO 2 al 2012 dovrebbero scendere del 6,5% rispetto ai livelli del 1990, ma con gli andamenti attuali aumenteranno del 10,7% (EEA 2003a). Forse la posizione dell'Italia migliorerà tramite il meccanismo del commercio delle emissioni a livello internazionale1, ma si tratterà comunque di un ripiego. Il breve elenco di fatti e di cifre soprariportati mostra che la situazione italiana è alquanto sconfortante e indica chiaramente che se vi è un Paese in cui i problemi dell'energia e dell'ambiente debbono essere affrontati con urgenza e rigore, questo è proprio l'Italia. La quantità di energia fossile consumata attualmente nelle centrali termoelettriche italiane (combustibili gassosi, liquidi e solidi) è praticamente identica a quella utilizzata nei trasporti, tenendo conto di tutti i mezzi di trasporto via terra, acqua ed aria; essa ammonta a circa 43 milioni di tep per ognuna di queste due voci (EEA 2003c; ENEA 2003). Le proiezioni Eurostat prevedono che la quota di combustibili fossili per il termoelettrico tenderà ad assumere un'incidenza sempre maggiore rispetto a quella dei trasporti (EEA 2003c). Questo fatto è di fondamentale importanza, ma sembra che non sia chiaro a molti in Italia. Infatti, quando si parla di inquinamento atmosferico si tende ad attribuire la colpa unicamente al traffico, ignorando in maniera totale e del tutto ingiustificata, il contributo delle centrali termoelettriche e dei grandi impianti industriali. E probabile che se venissero adeguatamente considerati questi fattori, certi "inspiegabili" picchi di inquinamento in aree urbane densamente popolate, che tanto fanno dannare i sindaci di numerose città, troverebbero una logica spiegazione. È infatti necessario considerare non solo l'inquinamento locale (traffico, riscaldamento, ecc.), ma anche quello proveniente da sorgenti apparentemente lontane che, erroneamente, vengono considerate a distanza di sicurezza. Inoltre non basta valutare gli inquinanti detti "primari", prodotti direttamente da una data sorgente, ma anche i cosiddetti inquinanti secondari. Questi ultimi si generano a partire dagli inquinanti primari e da sostanze chimiche naturali presenti nell'atmosfera e possono ricadere anche a notevoli distanze dalle grandi sorgenti emissive 2 (centri urbani, centrali termoelettriche, poli industriali, ecc.) (Haag 2004; OMS 1999). Gli inquinanti secondari si formano a seguito di una complessa catena di processi chimici che viene innescata dalla luce solare e favorita da un'atmosfera stagnante (Jenkin e Clemitshaw 2000; Stockwell et al. 1997). Il cocktail di inquinanti che si viene a formare è generalmente indicato col termine smog fotochimico. Per via secondaria si formano ad esempio l'ozono ed una larga parte del particolato atmosferico fine ed ultrafine (PM 25, PMQ t) (de Leeuw 2002). Il contributo, spesso ignorato, delle grandi sorgenti di inquinamento localizzate su piccole aree ("puntiformi") è stato messo in evidenza da un cosiddetto "esperimento accidentale" verificatosi di recente (Marufu et al. 2004). Nell'agosto 2003, nel corso del lungo black-out verificatosi nella parte orientale degli Stati Uniti, si sono spente in maniera improvvisa e prolungata numerose centrali termoelettriche: il beneficio alla qualità dell'aria è stato impressionante. La diminuzione di SO2, NOx, particolato atmosferico ed ozono è stata largamente superiore al previsto. Questo risultato inatteso è attribuibile sia ad una sottostima degli inventari di emissione degli inquinanti primari (emessi direttamente ai camini), sia ad una notevole inaccuratezza dei modelli che valutano la formazione di inquinanti secondari a partire da quelli primari (Marufu et al. 2004). Questi risultati dovrebbero fare molto riflettere in Italia ove gli inventari delle emissioni3 sono lacunosi (per alcune grandi centrali termoelettriche ad olio o carbone italiane non risulta inventariato neppure il PM ]0)4 ed il problema della formazione di inquinanti secondari è sostanzialmente ignorato, come rilevato di recente (Armaroli e Po 2003b). La situazione del parco termoelettrico italiano è andata migliorando negli ultimi anni. La sostituzione di vecchi impianti termoelettrici ad olio con centrali a gas a ciclo combinato ("turbogas") di pari potenza ha portato ad un sostanziale beneficio ambientale e ad un aumento della resa di produzione. Questa inconfutabile verità ha, poi, condotto molti a ritenere che le centrali a turbogas non siano inquinanti, il che non ha alcun fondamento scientifico (Armaroli e Po 2003a, 2003b). Il turbogas è la tecnologia termoelettrica migliore, tuttavia non è affatto ad impatto zero o trascurabile e necessita di adeguati accorgimenti per abbattere l'inquinamento (Kato et al. 2004). Questi fatti sono noti in tutto il mondo; tuttavia, quando sono stati ricordati in Italia (Armaroli e Po 2003a, 2003b) hanno suscitato uno scalpore ingiustificato e francamente imbarazzante per un Paese avanzato e ad elevato livello di istruzione. Va rilevato che anche in Italia si è assistito ad una corsa sfrenata alla presentazione di progetti per nuove centrali a turbogas, ma è probabile che essa si sgonfi da sola come accaduto negli Stati Uniti, sia per motivi economici che per limitato approvvigionamento di gas 5. Questi impianti sono destinati a soddisfare principalmente i fabbisogni "di punta", dalle 9 del mattino alle 5 del pomeriggio dei giorni lavorativi. Infatti il disegno strategico dichiarato è quello di una cospicua conversione al carbone per ricavare una larga fetta della potenza elettrica "di base" (Cobianchi 2004), ovvero quella sotto la quale l'Italia non scende in nessun momento dell'anno; essa ammonta a circa 25.000 MW (GRTN 2003). L'obiettivo è quello di svincolarsi fortemente dal petrolio, i cui prezzi sono in ascesa, anche se va notato che da gennaio a settembre 2004 i prezzi del carbone (+ 60%) sono aumentati ancor di più di quelli del petrolio (+ 33%) (EIA 2004b) e l'Italia deve comunque importare entrambi. Gli impianti a carbone previsti in Italia prevedono un buon abbattimento degli inquinanti (MiniAmbiente 2004), tuttavia non hanno nulla a che vedere con i futuribili progetti americani a "carbone pulito" descritti sopra. L'uso disinvolto che talvolta si fa in Italia di questo termine è del tutto inopportuno ed ingiustificato. Queste centrali, che certo rispondono ad una necessità strategica di diversificazione nelle fonti primarie, sono molto più inquinanti di quelle a gas e pertanto non faciliteranno il cammino del nostro Paese nella via del rispetto degli impegni presi in sede internazionale per la riduzione dell'inquinamento e delle emissioni dei gas che alterano il clima. 3.3 Le fonti rinnovabili Oltra ad una buona quota di energia geotermica, il cui sfruttamento ebbe inizio nel lontano 1902, l'Italia produce una considerevole quantità di elettricità per via idroelettrica, il 15,6% del totale nel 2003 (GRTN 2003). Questo fa dire con orgoglio a qualcuno che "fra i grandi Paesi europei l'Italia è sicuramente la nazione che ricorre maggiormente alle fonti rinnovabili per produrre energia elettrica" (Fano 2004). Tale affermazione non deve però generare eccessivi entusiasmi e va inserita nel suo contesto storico: molti impianti idroelettrici sono vecchissimi, alcuni risalgono addirittura agli anni Trenta. Non possiamo illuderci che l'Italia sia oggi una sorta di paradiso delle energie rinnovabili: forse lo è stata in un passato ormai troppo lontano. Oggi il confronto, ad esempio, con la Germania o la Spagna nello sviluppo dell'energia eolica è avvilente (EC e Eurostat 2004) e l'opposizione "ambientalista" che talvolta si riscontra in Italia allo sviluppo delle cosiddette fattorie coliche di terra o di mare, non è facilmente condivisibile. Il potenziale eolico italiano è cospicuo (CESI 2002) così come lo è, naturalmente, quello solare. La potenzialità di queste risorse praticamente inutilizzate dovrebbe stimolare gli investimenti. Proprio a questo scopo, fin dal 1991 i cittadini e le aziende italiane versano, tramite la bolletta elettrica, un "contributo fonti rinnovabili" che ha portato alla raccolta di una cifra colossale, pari a 30 miliardi di euro (Camera 2003). Purtroppo però il legislatore, in modo alquanto disinvolto, ha introdotto il nebuloso concetto di fonti "assimilabili alle rinnovabili" e, come stigmatizzato anche negli atti dei lavori della Camera dei Deputati "Ad oggi non esiste non solo un elenco plausibile di fonti assimilate, ma neanche una chiara definizione dei criteri che consentono l'ammissibilità" (Camera 2003). Il risultato è che questi soldi di provenienza pubblica sono stati spesso dirottati su fonti energetiche "assimilate" che nulla hanno a che vedere col concetto di rinnovabile (rifiuti non biodegradabili, scarti di raffineria, metano). L'utilizzo disinvolto e, per certi versi, non proprio trasparente (Libero 2004) di questi fondi prelevati ai cittadini tramite le bollette elettriche, che potevano fare da volano ad uno sviluppo competitivo e di mercato per le fonti di energia rinnovabili come accaduto in altri Paesi europei, è stato di recente definito dall'on. Bruno Tabacci, Presidente della Commissione Attività Produttive della Camera, "una tassa occulta a favore dei petrolieri" (Camera 2003). Questa vicenda poco edificante merita di essere citata in quanto è sintomatica della carenza di senso di rigore e di responsabilità con cui viene trattato in Italia (ma non solo) il problema energetico. Più in generale, si può affermare che nel nostro Paese il problema complesso e multi-disciplinare della relazione tra produzione ed uso di energia, trasporti, salute e ambiente non viene affrontato in maniera sufficientemente chiara e approfondita. C'è scarsa comunicazione ed interazione tra istituzioni accademiche e di ricerca, istituzioni elettive, organi di controllo, agenzie ambientali e imprese. In particolare, la questione energetica viene discussa, spesso senza il rigore necessario, in ristretti circoli di "consulenti" ed "esperti" che raramente si confrontano con la comunità scientifica nazionale ed internazionale e non sempre sono sufficientemente liberi e slegati da portatori di interessi forti. La vastità e la complessità dei problemi rendono questo modo di agire drammaticamente inadeguato alle sfide che ci aspettano (Caldeira et al. 2003; Hasselmann et al. 2003; Karl e Trenberth 2003; Rosegrant e Cline 2003). È necessario unire con urgenza le forze per costituire una massa critica sufficiente in grado di analizzare con rigore scientifico e lungimiranza politica tutti i problemi sul campo, per poi proporre soluzioni praticabili. Sarebbe molto saggio avviarsi su questa strada ed affrontare i problemi prima che siano loro, in modo dirompente e drammatico, a costringerci a farlo. Continuare a pensare che sarà l'onnisciente mercato a toglierci le castagne dal fuoco dei problemi energetici e ambientali incombenti è una vacua illusione o, come efficacemente detto da qualcuno, "la ricetta per il disastro" (Hall et al. 2003). Capitolo 4 Preparare il futuro Se continueremo a consumare il mondo finché non ci sarà nient'altro da consumare arriverà allora un giorno, è assolutamente certo, in cui i nostri figli, o i loro figli, o i figli dei loro figli ripenseranno a noi — a me e a te — e si diranno: "Mio Dio, ma che razza di mostri erano questi?" Daniel Quinn 4.1 La transizione energetica Per assicurare un futuro all'umanità è necessario svincolarsi progressivamente dall'uso dei combustibili fossili ed ottenere energia da altre fonti. Anzitutto bisogna rendersi conto che la transizione non può essere rapida per motivi tecnici ed economici: il costo dei combustibili fossili è ancora relativamente basso, ci sono ancora considerevoli riserve disponibili, c'è una complessa struttura operativa di miniere, pozzi, oleodotti, gasdotti, petroliere, raffinerie e veicoli che non sarà semplice sostituire anche per gli interessi economici connessi (Robinson 2002). La transizione sarà lenta anche per motivi politici e sociali (Smil 2003): ci vorrà molto tempo, infatti, prima che l'opinione pubblica prenda coscienza dei danni causati dall'uso dei combustibili fossili e prima che i governi, una volta considerati i costi sanitari ed economici indiretti che ricadono sulla società in seguito all'uso dell'energia (le cosiddette esternalità) (Armaroli e Po 2003b; Rabl e Spadaro 2000) intervengano con opportune politiche di incentivi e disincentivi. A questo proposito possiamo riportare alcune cifre. Riguardo alle esternalità si stima che se si tenessero in conto tutti i danni ambientali e sociali causati dall'uso delle auto, il costo effettivo di un'automobile sarebbe da 10 a 20 volte superiore a quello annualmente sostenuto dal proprietario; basti pensare che dal 1900 ad oggi il numero di americani morti in incidenti stradali è più del doppio di quello degli americani uccisi in tutte le guerre (Heinberg 2004). Riguardo agli incentivi, negli Stati Uniti l'industria nucleare ha ricevuto, dal 1947 al 1998, 145 miliardi di dollari, pari al 96% di tutti i fondi destinati alla ricerca e sviluppo in campo energetico (Smil 2003). Approfittando del tempo disponibile, prima che siano causati danni irreparabili all'ambiente e prima che si giunga ad una crisi energetica a causa della diminuzione delle riserve, è necessario eliminare gli sprechi, migliorare l'efficienza nell'uso dell'energia e procedere allo sviluppo di tecnologie basate su fonti di energia rinnovabili e meno dannose 1. Contestualmente ad un vasto piano di ricerca sullo sviluppo di energie alternative, è però necessaria un'opera efficace nel campo sociale e politico per frenare gli aspetti più apertamente consumistici dello stile di vita dei Paesi sviluppati e per demolire i tabù di alcuni economisti, primo fra tutti quello della necessità di un continuo aumento del prodotto interno lordo (PIL), che in ultima analisi significa un continuo aumento nei consumi delle risorse ed un incremento impressionante nella produzione di rifiuti (Smil 2003). Per alleviare le difficoltà di questa transizione, bisogna che l'umanità faccia miglior uso, di quanto non abbia fatto finora, delle sue capacità scientifiche e delle sue risorse sociali. Le poche, autorevoli voci che si sono innalzate in passato relativamente alla necessità di ridurre i consumi sono state presto zittite da interessi economici e rivalità politiche. Il 18 aprile del 1977 il presidente americano Jimmy Carter nel suo Discorso alla Nazione esortò i suoi concittadini al risparmio dicendo, fra l'altro: "La nostra è la Nazione più sprecona sulla Terra; sprechiamo più energia di quanto ne importiamo" (Carter 1977). Carter durante la sua presidenza cercò di promuovere la riduzione dei consumi energetici, ma la sua politica di austerità fu bloccata dall'opposizione che spingeva per un aumento delle importazioni di petrolio. Carter favorì anche, con esenzioni fiscali e contributi, la nascita di molte aziende specializzate nell'uso delle energie alternative e, con un atto di alto valore simbolico, fece installare pannelli solari scalda-acqua sui tetti della Casa Bianca. L'inquilino successivo della Casa Bianca, Ronald Reagan, nel 1980 con un gesto altrettanto simbolico fece rimuovere e gettar via quei pannelli. 4.2 L'energia e la qualità della vita La qualità della vita, come si può desumere da diversi indicatori che vanno dalla mortalità infantile alla disponibilità di cibo, migliora all'aumentare del consumo energetico. Un'attenta osservazione di tali indicatori però, mostra che quando il consumo di energia raggiunge circa 3000 kgoe prò-capite per anno un ulteriore aumento nei consumi non porta ad alcun apprezzabile miglioramento nella qualità della vita (Smil 2003). Ad esempio, la mortalità infantile è leggermente più bassa in Italia che negli Stati Uniti (Tabella 1), anche se in questi ultimi il consumo energetico prò-capite è circa tre volte maggiore (Tabella 2). Altro esempio: il consumo di combustibile per le auto private negli Stati Uniti potrebbe essere ridotto senza problemi di un terzo se al posto dei voraci SUV (Sport Utility Vehicles) si usassero auto aventi le prestazioni di quelle giapponesi od europee (Smil 2003). Da queste ed altre analisi si può concludere che i Paesi più sviluppati potrebbero facilmente ridurre i loro consumi energetici del 25-35% senza sacrifici, semplicemente dedicando più attenzione all'efficienza e al risparmio energetico e tornando ad un livello di consumi pari a quello di 20 o 30 anni fa che, come si può apprezzare guardando la Figura 6, non erano comunque frugali. Una forte diminuzione nei consumi energetici dei Paesi ricchi avrebbe tre importanti conseguenze: (i) permetterebbe ai Paesi sottosviluppati un più facile accesso alle risorse energetiche, contribuendo in modo determinante a diminuire il divario, moralmente intollerabile, fra nazioni ricche e povere, (ii) bilancerebbe l'impatto negativo che l'inevitabile incremento nell'uso dei combustibili fossili da parte dei Paesi in via di sviluppo ha sull'ambiente, e (iii) renderebbe più importante il contributo relativo delle fonti di energia alternativa, concedendo anche più tempo per il loro sviluppo. 4.3 Lo sviluppo "sostenibile" II discorso fatto per l'energia si può estendere a tutte le risorse. I processi di produzione di manufatti e di attuazione di servizi sono soggetti a limiti in quanto utilizzano risorse non rinnovabili e non riciclabili (o non completamente riciclabili). Per esempio, per costruire un'automobile si usano vari tipi di metalli, petrolio per fabbricare le parti in plastica, ancora petrolio per ottenere energia, acqua per raffreddare gli impianti, ecc. È come se si facesse un "buco" nella crosta terrestre per prendere le risorse necessarie alla produzione (Figura 7). L'uso delle risorse per produrre un manufatto o un servizio, comporta poi, inevitabilmente, la produzione di scorie e di rifiuti. Ad esempio, nel costruire un'automobile si producono pezzi di metallo e di plastica come scarti di lavorazione, si sporca molta acqua, si immette nell'atmosfera biossido di carbonio ecc.; alla fine, poi, anche l'automobile diventa un rifiuto. I rifiuti e gli scarti di lavorazione ritornano alla Terra, spesso in altri luoghi e generalmente occupano un volume maggiore rispetto a quello delle risorse utilizzate (Figura 7). Scarti e rifiuti sono materiali degradati che, a seconda del loro stato di aggregazione, si accumulano come escrescenze sulla superficie della Terra, si uniscono alle acque superficiali e/o profonde, percorrendo anche molta strada dai punti di scarico, oppure, come nel caso dei gas, vagano nell'atmosfera. A tutto questo va aggiunto il fatto che il traffico dei rifiuti costituisce, assieme a quello della droga e delle armi, un colossale affare per la criminalità organizzata locale ed internazionale, come le cronache ci ricordano sempre più spesso. Si deduce, quindi, che alla fine dei processi che generano beni fisici e servizi l'ambiente naturale risulta impoverito del suo contenuto originale e addizionato (brutta parola, ma non possiamo dire "arricchito") di una certa quantità di sostanze estranee, solide, liquide o gassose. Queste sostanze modificano negativamente il suolo, le acque e l'atmosfera, rendendoli sempre meno idonei a svolgere successive funzioni vitali ed eco-nomiche. Ogni azione dell'uomo nella "tecnosfera" si lascia alle spalle una natura più o meno impoverita e contaminata (Tiezzi e Marchettini 1999). Al crescere delle attività umane, cresce il timore che le risorse necessarie alla vita e al progresso dell'umanità vengano compromesse in modo irreversibile (ad esempio, il clima e la potabilità delle acque) o giungano ad esaurimento (ad esempio, i combustibili fossili). Si è fatta strada allora l'idea di limitare lo sviluppo, o meglio di perseguire uno "sviluppo sostenibile", definito in prima approssimazione come "uno sviluppo che soddisfa le necessità del presente senza compromettere la possibilità che le generazioni future possano soddisfare le loro necessità" (Brundtland 1988). Nella realtà, però, lo sviluppo (che significa trarre beni fisici e servizi da risorse naturali) non può avvenire lasciando un'equivalente quantità e qualità di risorse alle generazione future (Kennedy 2003; Nebbia 2002). Non può, quindi, essere "sostenibile". Il massimo che si può raggiungere è uno sviluppo "meno insostenibile" di quello attuale. Al fine di raggiungere questo necessario obiettivo, i vari processi messi in atto dall'uomo vanno valutati non solo in base al costo energetico ed al costo in materie prime, ma anche in base al loro impatto ambientale. Devono essere preferiti, a parità di utilità economica, le merci ed i servizi che richiedono meno materie prime, meno energia, durano più a lungo, producono meno scorie, comportano minore inquinamento e minore usura delle risorse naturali (Tiezzi e Marchettini 1999). Per quantificare questi problemi si usano vari tipi di parametri. Uno di questi è l'impronta ecologica, definita come "la quantità di Terra capace di fornire le risorse necessarie al consumo quotidiano di una persona e di smaltirne i rifiuti" (Wackernagel e Rees 1996). I più recenti calcoli informano che uno statunitense medio ha un'impronta ecologica di 12,22 ettari prò capite, un canadese 7,66, un tedesco 6,31, un italiano 5,51, un colombiano 1,90, un indiano 1,06, un cambogiano 0,83, un namibiano 0,66, un afghano 0,58, un eritreo 0,35. Gli individui non hanno quindi lo stesso "peso" sulla Terra. Ci sono popolazioni che superano di gran lunga la loro legittima "fetta" di Terra a disposizione (2 ettari), altri che ne utilizzano una piccolissima parte; una quantificazione scientifica di questa disparità nei consumi di risorse è stata pubblicata di recente (Imhoff et al. 2004). Si stima che ogni cittadino americano che nasce oggi vivrà in media 82 anni consumando circa 4 milioni di kwh di energia elettrica, circa 200 milioni di litri di acqua e circa 300.000 litri di carburante, producendo 1.600 tonnellate di biossido di carbonio. Attualmente nel mondo nascono circa 80 milioni di persone ogni anno ed il 97% dei nuovi nati appartiene alle regioni meno sviluppate. Le risorse della Terra non sono certo sufficienti per dare a ciascuno dei nuovi nati le stesse prospettive che ha un nuovo nato in America o in Europa. Questi dati dimostrano ancora una volta che il livello dei consumi e dei rifiuti degli abitanti dei Paesi ricchi non potrà mai essere esteso a tutti gli abitanti della Terra e che bisognerà trovare un accordo su quali siano i limiti che non bisogna superare. Questo contrasta con la famosa dichiarazione del Presidente George Bush senior sul fatto che "il livello di vita degli americani non è negoziabile". Purtroppo ogni richiamo a minori consumi contrasta con l'idea oggi dominante, comica se non fosse al tempo stesso tragica, portata avanti da alcuni economisti e fatta propria da molti politici, secondo la quale sarebbe possibile uno sviluppo sostenibile con un incremento del prodotto interno lordo del 2-3% all'anno. Prima o poi anche gli economisti dovranno rassegnarsi all'idea che non è possibile uno sviluppo infinito (ovvero un aumento continuo del PIL) basato sull'uso di risorse inesorabilmente finite. Tanto meno si può sperare, come dichiarato dal Presidente George W. Bush in campagna elettorale, di reperire risorse sulla Luna (!) (Bush e Kerry 2004). Questo discorso riguarda non solo gli odierni abitanti della Terra, ma ancor più le prossime generazioni. È stato giustamente osservato che ogni carro armato fabbricato oggi significa meno ferro disponibile per le generazioni future e, in prospettiva, anche meno esseri umani (Georgescu-Roegen 1982). L'obiettivo che bisogna porsi, come abbiamo visto sopra, non può essere che quello di ridurre l'insostenibilità dello sviluppo attuale. E non è certo con i pressanti inviti a consumare di più e con politiche di condoni e rottamazioni che si può procedere in questa dirczione. L'economista che non prende in considerazione ecologia ed etica rischia di essere un cinico; una persona cioè, come dice Oscar Wilde, che sa il prezzo di tutte le cose ed il valore di nessuna (Wilde 1992). 4.4 Ricchezza e povertà La possibilità di disporre di energia e di altre risorse è strettamente collegata alla ricchezza. Ogni anno i rapporti dell'ONU ripresi ed evidenziati sui giornali per un giorno e poi rapidamente dimenticati, ci mostrano quanto la ricchezza sia mal distribuita (Gì 2004; UNDP 2004). Il patrimonio delle tre persone più ricche della Terra è maggiore dell'intero prodotto nazionale lordo dei 48 Paesi più poveri (quasi tutti | africani): basterebbe questo per dimostrare che la nostra civiltà è gravemente malata. Ma vale la pena di esaminare qualche altro dato: i cinquanta milioni di cittadini più ricchi di Europa e Nordamerica hanno lo stesso reddito di 2,7 miliardi di poveri; il 20% più ricco controlla l'86% della ricchezza, lasciandone solo il 14% al rimanente 80%. Metà della popolazione mondiale, quasi tre miliardi di persone, vive con meno di due dollari al giorno. Il reddito annuo medio prò-capite (in dollari) è di 35.200 dollari negli USA, 18.930 in Italia, 200 in Ciad e 100 in Etiopia (Economist 2004a). Se nel mondo antico i debitori insolventi finivano schiavi, nel mondo del capitalismo globale interi Stati vengono di fatto costretti a lavorare per conto dei più ricchi e vengono depredati delle loro risorse. Nei Paesi Occidentali il reddito è molto alto e in crescita, mentre è quasi stazionario a livelli di estrema povertà per i Paesi dell'Africa: cresce dunque la ricchezza, ma cresce anche la disuguaglianza e questo mette in pericolo la pace. L'andamento del sistema economico è stato paragonato ad una corsa di maratona: più si va avanti, più il gruppo si sgrana e questo significa che la "forbice" fra ricchi e poveri si va allargando. In parallelo alla disparità economica va la disparità sanitaria ed educativa. Nel nord del mondo i bambini dei Paesi ricchi sono obesi, mentre nel sud del mondo ci sono 120 milioni di bambini malnutriti; nei Paesi ricchi la vita media si allunga oltre gli 80 anni, mentre nei Paesi poveri 450 milioni di persone non supereranno i 40 anni, quasi 800 milioni di persone non hanno assistenza sanitaria, più di 800 milioni di adulti sono analfabeti, un miliardo e duecento milioni di persone non hanno accesso all'acqua potabile, un miliardo e 300 milioni sono "poveri" (UNEP 2004). In molti Paesi dell'Africa il tasso di mortalità infantile raggiunge il 10% (in alcuni Paesi africani come Angola e Sierra Leone è superiore al 15%), mentre nei Paesi occidentali è attorno allo 0,5%; in ampie zone del pianeta la gente deve sopravvivere con meno di 2000 calorie, mentre nei Paesi ricchi è l'eccesso di cibo che causa malattie. In Italia c'è un medico ogni 169 persone; in Ciad e in Eritrea, uno ogni cinquantamila; in Nigeria solo il 10% degli abitanti ha accesso alle medicine di base. L'AIDS fa strage nei Paesi poco sviluppati, particolarmente in Africa, dove la percentuale di uomini e, soprattutto, di donne ammalate è altissima. Per esempio nello Zimbabwe il 25% degli abitanti è sieropositivo, l'aspettativa di vita che avrebbe dovuto essere di 67 anni in assenza dell'epidemia, è scesa a 33 anni. Nel periodo 2000-2015 si stima che in Zimbabwe moriranno 4,2 milioni di persone; alla fine del 2001 vi erano oltre 780.000 orfani di genitori morti per AIDS (Garbus e Khumalo-Sakutukwa2003). Riguardo la disparità nell'educazione, è sufficiente citare due cifre: in Niger solo il 16% degli adulti è alfabetizzato, mentre negli Stati Uniti il 72% dei ragazzi va all'università (Economist 2004a). Quindi il divario fra il Nord e il Sud del mondo non è solo questione di denaro, ma riguarda tutti gli aspetti del vivere: la sanità, la cultura, l'ambiente, le relazioni sociali, la politica, le opportunità, ecc. Tutti questi fattori vengono tenuti in considerazione quando gli esperti calcolano quello che chiamano l'indice di sviluppo umano, che ovviamente è alto in America del nord, Europa, Australia e Giappone, e bassissimo nelle zone dell'Africa centrale. Non si deve dimenticare, poi, che le disuguaglianze sono presenti, ed in aumento, anche all'interno dei singoli Paesi ricchi (UNDP 2002). Negli Stati Uniti, il prodotto interno lordo prò-capite è aumentato del / 38% dal 1979 al 1997; in questo periodo il redditto dell'1% delle fa- / miglie più ricche è aumentato del 140%, mentre quello delle famiglie a medio reddito è cresciuto solo del 9% (UNDP 2002). In altre parole il rapporto fra i redditi di queste due tipologie di famiglie è passato da 10:1 a 23:1. In Italia, il 10% delle famiglie possiede il 47% della ricchezza, mentre il 12% vive sotto la soglia di povertà. E grazie a condoni e scudi fiscali, il numero dei "paperoni" italiani (un milione di dollari di patrimonio personale, immobili esclusi) è aumentato del 13% nel 20032. È ovvio che una situazione del genere non potrà durare, pena la rottura della coesione sociale, sia su scala nazionale che internazionale. E una situazione non giustificabile, non accettabile da un punto di vista etico. Dobbiamo chiederci se è lecito condividere "valori" come, ad esempio, lusso, consumismo, competizione economica e guerra che inevitabilmente contribuiscono ad aumentare le disuguaglianze e ad alimentare l'odio ed il terrorismo. Siamo talmente immersi nella logica del consumismo da non meravigliarci più di nulla. Ad esempio, non ci scandalizza che il supplemento del sabato del più diffuso quotidiano italiano "di sinistra" ci spinga, con centinaia di pagine, a comprare profumi, creme di bellezza e una vasta gamma di altri oggetti di lusso e non ci appare come una profonda contraddizione il fatto che quelle pagine, come scritto in un angolino della rivista, siano "stampate su carta prodotta con cellulosa senza doro gas nel rispetto delle normative ecologiche vigenti". Bisogna anche aggiungere che la ricchezza non è una buona maestra. Il suo uso crea nuove abitudini e nuove aspettative. Quando si è ricchi si terne di perdere la ricchezza e quindi è più facile vedere dei nemici nelle altre persone. 4.5 Le disuguaglianze La necessità di cambiare l'attuale modello di sviluppo è chiara negli ambienti scientifici. Ad esempio in un editoriale della prestigiosa rivista scientifica americana Science, subito dopo l'attentato alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001, si riconosceva che il problema fondamentale, da cui derivano tutti gli altri problemi (incluso il terrorismo internazionale), è la grande disuguaglianza fra il Nord e il Sud del mondo nel consumo delle risorse della Terra e nella produzione di rifiuti e di inquinamento (Kennedy2001). Ci si può chiedere come mai i governanti dei Paesi sviluppati non si preoccupino e non tentino di porre rimedio alle assurde e inaccettabili disuguaglianze fra le nazioni del mondo. Apparentemente ci sono due possibili risposte a questa domanda: 1) i Paesi ricchi pensano che lo sviluppo di cui godono, incrementando ulteriormente i ritmi della produzione, possa coinvolgere anche i Paesi poveri e portarli al benessere; 2) i Paesi ricchi confidano che le conseguenze catastrofiche dell'aumento della popolazione nei Paesi poveri (come abbiamo visto, il 97% dei nuovi nati nasce in questi Paesi) e del progressivo impoverimento del pianeta causeranno tragedie solo nei Paesi poveri. In effetti, nessuna delle due ipotesi sopra riportate appare fondata. La forbice che separa le economie dei Paesi arricchiti da quelle dei Paesi impoveriti si allarga sempre più; non solo, ma anche nel caso in cui lo sviluppo economico potesse estendersi ai Paesi più poveri, è chiaro che le risorse della Terra non sarebbero sufficienti a sostenere i 12 miliardi di persone previste per il 2100 (Cohen J. E. 1998) ad un livello di vita paragonabile a quello di cui oggi godono i cittadini dei Paesi occidentali. Anche l'altra, inconfessabile, ipotesi di poter mantenere i propri privilegi (risorse e consumi) in un mondo afflitto da una crescente povertà della grande maggioranza della popolazione appare altrettanto irreale. La messa in pratica di questa ipotesi, già prefigurata in un libro di fantascienza (Lehman 2000), giungerebbe a creare una fascia della Terra comprendente le zone più ricche di risorse e abitata da una minoranza privilegiata che si difende con ogni tipo di arma dai disperati assalti dei poveri che premono alle sue frontiere. Si tratterebbe di erigere una nuova Cortina di Ferro non più per separare due ideologie, ma per difendere i privilegi dei ricchi ormai inconciliabili con la disperazione dei poveri. Naturalmente si tratterebbe di un muro molto più tecnologicamente attrezzato di quello di Berlino, che è forse già in fase di rodaggio in Israele per proteggere gli insediamenti dei coloni o chiudere i palestinesi in certe zone del territorio. Questo è sostanzialmente il macabro schema che sta alla base della "guerra infinita" dichiarata dal presidente George W. Bush (La Valle 2003): se il mondo non può essere tenuto in piedi tutto, allora se ne garantisce solo una parte, la propria, con uno scettro di ferro. Ma l'attentato dell' 11 settembre, Fimmotivata ed inutile (anzi, controproducente) guerra in Iraq e il moltiplicarsi degli episodi di terrorismo dimostrano che la tecnologia e le armi dei Paesi avanzati non possono garantire la loro sicurezza. Questi semplici ragionamenti dovrebbero far comprendere la necessità di cambiare il tipo di approccio politico ed economico alla soluzione dei problemi della Terra. Ma, come abbiamo visto, anche all'interno dei Paesi ricchi le cose non vanno per il meglio in quanto c'è una forte tendenza alla concen-trazione della ricchezza. Nel Medio Evo, quando l'accumulo della ricchezza da parte dei ceti sociali superiori incominciò a provocare spreco ed ostentazione, alcune città, come Bologna e Firenze, furono così sagge da emanare leggi contro il lusso. Oggi, invece, in Italia c'è un esplicito incitamento al consumismo e al lusso e c'è la tendenza a diminuire le tasse, particolarmente per le categorie più abbienti, cosa che comporterà un abbassamento nel livello del servizio sanitario e scolastico. E necessario ed urgente mettere in atto, sia su scala mondiale che nell'ambito di ciascuna nazione, una politica di pace, di condivisione delle risorse e di assunzione di responsabilità verso le future generazioni. In un tale ambito, le ingentissime risorse oggi dedicate al settore militare (vedi sez. 1.6) potrebbero essere dirottate sullo sviluppo di nuove tecnologie per risolvere gli intricati problemi dell'energia e dell'ambiente. Capitolo 5 Sviluppo di nuove tecnologie Scoprire significa vedere quello che tutti vedono e pensare quello che nessuno ha ancora pensato. A. Szent-Gyorgyi La necessità di intensificare le ricerche su nuove tecnologie per produrre, trasportare ed immagazzinare energia senza compromettere l'ambiente non è molto compresa dall'opinione pubblica e, forse, ancor meno dalla classe politica. Dal punto di vista scientifico, nessuna tecnologia attualmente presa in considerazione appare così convincente da essere scelta come soluzione unica su cui puntare. Si pensa che la cosa migliore sia esplorare molti approcci diversi, senza escludere nulla e senza idee preconcette. D'altra parte, se si mette in atto la politica di riduzione dei consumi delineata sopra, c'è parecchio tempo per trovare le soluzioni giuste (Smil 2003). Al momento, oltre che sull'utilizzazione dell'energia solare, che sarà trattata a parte, l'interesse dei ricercatori è principalmente rivolto ad un miglioramento dell'efficienza energetica (Demirdoven e Deutch 2004; Pacala e Socolow 2004) e ad alcune opzioni molto futuristiche e francamente discutibili (Hoffert et al. 2002). 5.1 Bilanci energetici: "energia netta"ed "energy payback lime" L'uso di energia di qualsiasi specie presenta, a "monte", un suo proprio costo energetico. Ad esempio, per avere la benzina nel serbatoio delle nostra auto si sono dovuti sostenere costi di estrazione, raffinazione, distribuzione, trasporto, ecc. Per tener conto di questo importante aspetto del problema energetico è bene introdurre il concetto di rapporto tra energia restituita ed energia investita, comunemente indicato con la sigla EROEI e chiamato energia netta 1 (Heinberg 2004). Questo rapporto non è fisso per una data fonte di energia, ma cambia in funzione del tempo, della situazione economica, della localizzazione geografica, ecc. È stato calcolato che l'EROEI per il petrolio in USA è passato da 100 nel 1950 a 30 nel 1970 e a 10 nel 2004 (Heinberg 2004). In altre parole oggi il petrolio USA restituisce dieci unità di energia per ogni unità di energia investita. Il peggioramento di questo rapporto riflette, tra le altre cose, il progressivo passaggio da petrolio "locale" a petrolio importato da zone sempre più lontane e il passaggio da tecnologie estrattive semplici a tecnologie sempre più sofisticate ed energivore. Quando l'indice EROEI di una data fonte energetica risulta pari o inferiore ad 1, l'utilizzo di quella fonte perde totalmente significato. Un importante parametro di valutazione di un sistema per la produzione di energia è il tempo che esso impiega per restituire l'energia che è stata spesa per fabbricarlo, questo rapporto viene comunemente indicato come "energy payback time" (EPT). L'analisi dell'energia netta non è sempre tenuta in debita considerazione nel dibattito corrente. Ad esempio, il nucleare è una forma energetica ad altissima intensità, ma esso risulta molto meno potente se si calcolano le ingenti risorse energetiche (e ambientali) necessarie per fabbricare i suoi complicatissimi impianti di sicurezza, le barre di uranio arricchito da inserire nel reattore, lo smaltimento delle scorie, ecc. Il discorso vale anche, ovviamente, per i pannelli solari fotovoltaici: la loro costruzione richiede notevoli quantità di energia ed il loro payback time è di qualche anno (si veda sezione 7.6). La situazione è invece nettamente più favorevole per l'eolico (EPT minore di un anno, vedi sez. 7.2), che usa una tecnologia relativamente semplice e a basso costo e che è basato sullo sfruttamento di una fonte abbondante e diffusa. Nel loro ciclo di vita tutte le tecnologie energetiche cosiddette "alternative" poggiano su un input energetico iniziale, generalmente fornito dai combustibili fossili, che deve essere almeno restituito: non esiste alcuna tecnologia energetica che non coinvolga in qualche misura la produzione di sostanze dannose all'uomo e all'ambiente (Nomura et al. 2001). In altre parole, la transizione energetica che ci porterà fuori dall'era dei combustibili fossili richiederà molti combustibili fossili: è per questo motivo che sarebbe saggio investire risorse consistenti nella transizione, prima che la loro disponibilità ed il loro costo rendano più difficile la transizione stessa. Infine, tornando alla nostra auto, vale la pena ricordare che i consumi di carburante non sono l'unico parametro da considerare per valutarne il bilancio energetico. Infatti, considerando l'intero ciclo di vita, un'auto divora circa la metà dell'energia nella fase di fabbricazione, prima cioè di percorrere un solo chilometro (Heinberg 2004). 5.2 Efficienza della conversione energetica La quasi totalità dell'energia non viene usata nei luoghi dove viene prodotta e nella forma in cui è originariamente ottenuta. Per esempio, nelle centrali termoelettriche si bruciano combustibili fossili per produrre energia termica, che viene poi convertita in energia meccanica e successivamente in energia elettrica. Quest'ultima viene trasportata e distribuita (attraverso un infrastruttura complessa e molto costosa) ai vari luoghi di utilizzo, ove viene nuovamente convertita, a seconda dell'uso che se ne deve fare, in energia termica, o luminosa, o meccanica, ecc. Può risultare strano, ma l'energia che fa funzionare il nostro computer è spessissimo, in ultima analisi, energia contenuta nei legami chimici di combustibili fossili, che è stata trasformata e trasportata in vari modi sino a raggiungere silenziosamente il tavolo del nostro ufficio. In ciascuna delle trasformazioni indicate sopra, come insegna il II Principio della Termodinamica, una parte dell'energia va inesorabilmente perduta in calore, la forma meno nobile ed utile di energia. Questo significa che il lavoro "utile" che noi possiamo ottenere da una data trasformazione energetica, non sarà mai pari al 100% di quello che in teoria potremmo ricavare: una parte più o meno consistente andrà persa in calore, e non verrà mai recuperata. Il II Principio è una legge inesorabile imposta dalla Natura. Questa legge, nel corso di miliardi di anni, condurrà l'Universo in una situazione di disordine ("entropia") crescente, facendolo scivolare verso il caos irreversibile (Atkins 1988). Questa ineludibile costrizione non ci deve però far dimenticare che si può migliorare notevolmente l'efficienza di conversione energetica rispetto agli standard attuali: siamo ben lontani dai limiti teorici possibili. Per fare un esempio esistono sul mercato automobili che fanno 4 km con un litro di carburante, tuttavia se ne possono acquistare altre 5 volte più efficienti (20 km con un litro), senza sacrificare troppo "il piacere" della guida. Negli Stati Uniti, il Paese con il maggior numero di auto, prevalgono nettamente quelle con elevati consumi, anche perché il prezzo della benzina è un terzo di quello europeo. Per fare un altro esempio, il rendimento medio delle centrali termoelettriche americane è sostanzialmente fermo da 50 anni al 32%, una deprecabile situazione di stallo (Smil 2003). Come già accennato, citiamo spesso dati americani non perché amiamo accanirci sui difetti di quel grande Paese, ma perché è molto più agevole reperire informazioni e statistiche americane che non di altre nazioni. Non illudiamoci però: gli sprechi esistono in tutto il mondo. Il miglioramento dell'efficienza di tutti i tipi di conversione energetica di cui si fa uso (termica —» elettrica; termica —» meccanica; elettrica —» luminosa, ecc. ) ridurrebbe in modo considerevole la quantità di energia che bisogna produrre. Anche se alcune stime in questo campo sono ottimistiche fino al ridicolo (Hawken et al. 1999) c'è ancora molto margine di miglioramento (Hoffert et al. 2002; Smil 2003). Un esempio a tutti familiare ci aiuta a capire quanto l'efficienza energetica possa essere migliorata. Le nostre case, anche di notte, sono piene di piccole luci accese. Esse appartengono ad elettrodomestici e dispositivi non del tutto spenti ma in condizione di riposo ("standby"), pronti a partire in qualsiasi momento: televisori, videoregistratori, antifurto, cancelli automatici ecc. Si stima che solo negli Stati Uniti siano costantemente all'opera 5-7 centrali di grande potenza (800 MW) per alimentare questa miriade di piccoli apparecchi in "standby" la cui diffusione è in continuo aumento (Smil 2003). Con tecnologie già oggi disponibili, sarebbe possibile abbattere questi consumi del 70%, una strada che molte aziende produttrici di apparecchiature elettriche stanno iniziando a percorrere. Il successo di questa operazione costituirebbe un esempio di aumento di efficienza che non comporta sacrifici per le persone in quanto un calo del consumo in "standby" non influisce sulle prestazioni di un apparecchio elettrico. Naturalmente l'operazione avrebbe ancora maggiore successo se accompagnata da un'educazione specifica dei consumatori sull'uso razionale degli apparecchi in condizione di riposo. Altri progressi in termini di efficienza sono possibili non solo sul fronte dei consumi, ma anche su quello della produzione, ovvero le centrali elettriche. Il modo più efficiente e meno inquinante per produrre energia termoelettrica è la costruzione di centrali a ciclo combinato a gas naturale di piccola e media taglia che operano in condizioni di "cogenerazione", ovvero generazione combinata di calore ed elettricità (Johnson 2003e; Nature 2004c). Questi impianti producono elettricità con grande efficienza (> 50%) mentre, a causa della taglia ridotta, il calore di scarto (ovvero il prezzo pagato al II Principio della Termodinamica) può essere convogliato abbastanza agevolmente ad utenze industriali e domestiche (teleriscaldamento). In tal modo questa forma di energia, meno nobile di quella elettrica, ma non meno preziosa, viene sfruttata e non trattata da vero e proprio rifiuto come accade nei grandi impianti di produzione elettrica, che sono collocati quasi sempre in prossimità di fiumi o in riva al mare, proprio per facilitare questa rimozione di calore in eccesso. Il beneficio ambientale della cogenerazione è triplice: (i) utilizzo del gas naturale con la massima efficienza possibile, e conseguente riduzione dei consumi di una risorsa non rinnovabile; (ii) drastica riduzione del problema dell'inquinamento termico nella produzione di energia elettrica; (iii) spegnimento di un gran numero di piccole sorgenti emissive, spesso inefficienti e molto inquinanti, in corrispondenza delle utenze servite dal teleriscaldamento. Le centrali turbogas cogenerative di piccola e media taglia, inoltre, possono essere dotate di tecnologie di abbattimento degli inquinanti (catalizzatori) in grado di limitare notevolmente l'inquinamento atmosferico (Kato et al. 2004). Soluzioni di questo tipo richiedono investimenti in infrastrutture per la distribuzione del calore e non possono essere applicate in tutte le realtà industriali ed urbane. Tuttavia in Italia, pur trovandoci in preda ad una specie di delirio energetico con decine di progetti per nuove centrali elettriche di grande potenza in tutto il Paese, non è stata avviata un'analisi accurata delle potenzialità di sviluppo della cogenerazione diffusa. Eppure questo è possibile: nella città di Reggio Emilia è stata recentemente inaugurata una centrale elettrica cogenerativa da circa 50 MW con le caratteristiche appena descritte. Esistono poi molti altri settori in cui è lecito attendersi, in un futuro non lontano, un miglioramento notevole dell'efficienza; ne citiamo alcuni. Uno dei settori chiave è quello dei trasporti, con la costruzione di veicoli sempre più leggeri e con consumi progressivamente ridotti; un recentissimo studio americano, mette in luce questa enorme potenzialità (Lovins et al. 2004). Un altro settore dei consumi in cui l'efficienza può essere migliorata in modo notevole è quello dell'illuminazione; a questo proposito esistono ambiziosi progetti di ricerca finanziati dalla Commissione Europea per mantenere in Europa il predominio tecnologico nel settore (EC 2004b). Anche sul fronte della trasmissione e distribuzione energetica è necessario una maggiore efficienza: la diffusione su larga scala di materiali superconduttori forse permetterà in futuro di ridurre drasticamente le perdite delle reti elettriche, che sono talvolta dei veri e propri colabrodi. L'aumento dell'efficienza energetica, comunque, non sarà la grande novità del futuro. Si tratta infatti di una tendenza storica: nel secolo corso questo parametro è mediamente triplicato. Qualsiasi dispositivo che esce oggi sul mercato è notevolmente più efficiente (ovvero consuma meno energia a parità di prestazioni) di un suo analogo delle generazioni passate. Alla fine degli anni Venti la leggendaria Ford T, prima autovettura di serie fabbricata nel mondo, aveva una potenza di circa 25 cavalli e percorreva meno di 7 chilometri con un litro di carburante (Smil 2003). Oggi una moderna auto diesel 4 volte più potente (100 cavalli) ha un consumo circa tre volte più basso e delle prestazioni neppure lontanamente paragonabili. Nonostante questo impressionante aumento dell'efficienza (riscontrabile in innumerevoli altri settori), il consumo di carburante per autotrazione è aumentato considerevolmente: le statistiche riportano che nel 1936 un auto americana media consumava 580 litri di carburante, nel 2000 il consumo annuale medio è stato di 2.400 litri (Smil 2003). A questo va aggiunto il fatto che il numero di auto è aumentato in maniera drammatica: le auto immatricolate negli Stati Uniti nel 1920 erano 10 milioni, nel 2000 sono passate a 215 milioni (il 30 % del totale mondiale). I veicoli circolanti negli Stati Uniti oggi consumano circa il 7% di tutta l'energia primaria mondiale (Smil 2003). Si tratta di uno dei più irrazionali sprechi che la nostra civiltà del petrolio a buon mercato si permette da decenni, con poche voci a denunciarne l'insostenibilità. Il passaggio ad un parco auto con consumi medi paragonabili alle vetture circolanti in Europa o in Giappone, farebbe calare drasticamente questo consumo energetico, senza intollerabili sacrifici per gli automobilisti. L'esempio dell'automobile è uno dei tanti che si possono riportare per evidenziare un fatto assodato: una maggiore efficienza energetica è storicamente accompagnata da maggiori consumi energetici. In altre parole il guadagno dell'efficienza e stato sistematicamente cancellato da un aumento dei consumi. Questo vale anche per le nostre abitazioni: la lavatrice ed il frigorifero che abbiamo oggi in casa sono molto più efficienti di quelli di 30 anni fa. Oggi però possediamo anche una lavastoviglie, un forno a microonde, un impianto stereo, un computer, un telefono cellulare da ricaricare, un condizionatore ecc., che cancellano largamente la migliore performance della lavatrice e del frigo. Le ragioni dell'impressionante aumento dei consumi energetici mondiali registrato tra il 1900 ed il 2000 (+ 1.500 %) sono molteplici. Tra i più rilevanti vi sono certamente l'aumento della popolazione mondiale (+ 400 %) e l'aumento del reddito individuale e del benessere in alcune nazioni. Vanno poi considerati altri innumerevoli fattori, apparentemente del tutto slegati da questioni energetiche, ma con un impatto notevole. Uno fra questi, in costante aumento negli ultimi decenni, è la parcellizzazione dei nuclei familiari che porta ad una moltiplicazione delle unità abitative e dei consumi complessivi. In conclusione, l'efficienza è sicuramente un obiettivo da perseguire con maggiore convinzione, ma non è la panacea. Il vero problema è il contenimento dei consumi complessivi, il cui continuo aumento è in rotta di collisione con la limitatezza delle risorse naturali ed il progressivo deterioramento della biosfera. Questo concetto è ben riassunto da quanto scritto recentemente da uno studioso americano: "la logica dell'ambiente naturale non è quella dei chilometri per litro, ma quella dei litri" (Rudin 1999). Ma è possibile o almeno auspicabile consumare di meno? La risposta a questa domanda passa dal piano scientifico e tecnologico a quello morale e politico. Discuteremo la questione in sede di considerazioni finali. 5.3 Sequestro di C02 Partendo dalla considerazione che l'uso dei combustibili fossili si protrarrà per decenni e che le proiezioni indicano un aumento del 50% nelle emissioni di CO2 entro il 2020, alcuni scienziati pensano che l'unica soluzione per combattere i cambiamenti climatici sia quella di "sequestrare" il biossido di carbonio prodotto dalla combustione dei combustibili fossili, evitando lo scarico in atmosfera (Hoffert et al. 2002; Service 2004b). Almeno una decina di tecniche diverse sono state proposte a questo riguardo, la più promettente delle quali consiste nell'immagazzinare il biossido di carbonio in cavità sotterranee, particolarmente in pozzi di petrolio o di gas naturale esauriti. Le valutazioni teoriche sono confortanti ed i progetti in corso sembrano dare risultati soddisfacenti, ma bisognerà valutare bene i costi, particolarmente quelli necessari per trasferire il biossido di carbonio dai luoghi in cui è prodotto a quelli nei quali dovrebbe essere immagazzinato, nonché la possibilità di incidenti. Ad esempio, la fuoriuscita di grandi quantità di CO2, che è più pesante dell'ossigeno, potrebbe causare gravi danni alla popolazione, come è già accaduto in seguito all'eruzione di 80 milioni di metri cubi di CO2 dal lago Nyos in Cameroon nel 1986, che causò 1800 morti (Service 2004b). A proposito degli investimenti su questa tecnologia, forse vale anche la pena riflettere su quanto scritto di recente da John Turner, del Laboratorio Nazionale delle Energie Rinnovabili degli Stati Uniti: "Benché grandi quantità di denaro, intelligenza ed energia stiano per essere investite nelle tecnologie per il sequestro della CO2, rimane una questione aperta: è questo il miglior modo per spendere le nostre limitate risorse energetiche e finanziarie? Il solo fatto di possedere grandi riserve di carbone, non significa che dobbiamo necessariamente usarle. Il punto è valutare se non sia il caso di lasciare quelle risorse nel sottosuolo e muoverci con decisione verso qualcosa di più avanzato" (Turner 2004). 5.4 Fissione nucleare Si è già accennato all'uso di questa fonte energetica nella sezione 2.13 (Colombo 1996; Garwin e Charpak 2001). Accanto ai problemi ben noti delle scorie, della proliferazione di armi di distruzione di massa e dei pericoli che potrebbero causare attacchi terroristici, c'è quello della scarsità di uranio che, utilizzando la tecnologia attuale, potrebbe bastare solo per alcuni decenni (MIT 2003). L'uso di torio e di reattori autofertilizzanti permetterebbe di avere energia per molti centinaia di anni, ma la tecnologia non è matura (Smil 2003). In un recente Forum di un consorzio di dieci nazioni interessate allo sviluppo dell'energia nucleare è stato fatto il punto sui progetti di reattori di IV Generazione che potrebbero entrare in uso fra circa 20 anni (Butler 2004). Tali reattori dovrebbero funzionare a temperature molto più alte (fra i 550 e i 1000 °C) di quella dei reattori attuali (ca. 300 °C), in modo da essere utilizzati anche per la scissione termochimica dell'acqua in idrogeno ed ossigeno. Si stima che un prototipo di ricerca di questa nuova generazione di reattori costerà circa 1 miliardo di dollari, cifra che ben difficilmente un singolo Paese può permettersi di spendere da solo. In queste condizioni, considerati anche gli enormi investimenti necessari, non sembra probabile che la fissione nucleare possa svilupparsi su scala molto più grande di quella attuale, anche se alcuni studi recenti sostengono la necessità di ricorrere al nucleare come una "tecnologia ponte", in attesa che siano disponibili altre opzioni non basate sull'uso dei combustibili fossili (Meserve 2004). Ad ogni modo, alla luce degli enormi danni umani e materiali che il cambiamento climatico indotto dall'uso dei combustibili fossili può causare, dovrebbe essere avviato un serio confronto scientifico ed economico a livello internazionale per valutare la reale potenzialità della opzione nucleare, lasciando da parte ogni pregiudizio (Meserve 2004). 5.5 Fusione nucleare Su tempi lunghi, la fusione nucleare potrebbe essere la soluzione più promettente (Flower 1997). Infatti, utilizzando come combustibile il deuterio che si trova nell'acqua di mare, la fusione nucleare può essere una fonte di energia praticamente inesauribile. In realtà lo sviluppo di questa tecnologia è estremamente lento. Nel 1972 si predisse che nel 2000 sarebbe stato possibile generare elettricità mediante impianti commerciali basati sulla fusione nucleare (Creutz 1972), ma anche i più "semplici" esperimenti che dovrebbero dimostrare la potenzialità di questa tecnologia non sono stati ancora compiuti perché richiedono enormi investimenti. Oggi è opinione diffusa che non si possa far conto su questa tecnologia prima della seconda metà del secolo (Hoffert et al. 2002; Smil 2003). 5.6 Geoingegneria Si definisce geoingegneria una manipolazione intenzionale dell'ambiente da parte dell'uomo (Keith 2001). Nel contesto dei cambiamenti climatici causati dai combustibili fossili, questo termine si riferisce ad esempio alla possibilità di modificare il bilancio della radiazione terrestre in modo da compensare l'effetto serra provocato dal biossido di carbonio prodotto dall'uso dei combustibili fossili (Schneider 2001). Si tratta di immettere aerosol o polveri nell'alta atmosfera o nella stratosfera, o di collocare specchi giganteschi in punti critici dello spazio, ma a causa dei rischi che comportano, sono considerati interventi da ultima spiaggia (Hoffert et al. 2002). Un altro possibile intervento di geoingegneria, finalizzato a limitare l'accumulo di carbonio in atmosfera, può essere quello di stimolare la "digestione" dell'anidride carbonica in eccesso da parte del plancton marino. Nella fascia oceanica meridionale del globo ed in Alaska, ad esempio, si è tentato di promuovere una maggiore crescita di plancton mediante il rilascio di sali di ferro da parte di apposite navi; i risultati non sono stati particolarmente significativi (Boyd et al. 2004; Buesseler et al. 2004). Inoltre, gli effetti secondari di interventi di geoingegneria su vasta scala restano un'incognita. In un bilancio complessivo, questo tipo di approccio potrebbe talvolta rivelarsi un classico esempio di rimedio peggiore del male. Capitolo 6 L'economia all'idrogeno I sostenitori dell'economia all'idrogeno talvolta esibiscono un tecno-utopismo di intensità quasi messianica. Richard Heinberg Stando a quanto riportano i giornali, l'idrogeno potrà risolvere tutti i problemi energetici in quanto è una forma di energia abbondante, pulita e persino "democratica" (Parlangeli 2002; Piervincenzi 2002). Anche in ambienti scientifici poco informati e in quelli politici che si informano solo attraverso i giornali si sentono discorsi di questo genere (Kennedy 2004a): oggi siamo costretti ad usare i combustibili fossili che sono in via di esaurimento e che producono il biossido di carbonio, responsabile dell'effetto serra, ma fra pochi anni potremo finalmente usare l'idrogeno che non inquina perché quando lo si usa produce solo acqua. Sfortunatamente, le cose sono ben più complicate. La cosiddetta "economia ali'idrogeno"(Rifkin 2002; Wald 2004) è in realtà un problema molto complesso che difficilmente troverà una soluzione in tempi rapidi (Bossel 2004; Coontz e Hanson 2004; Service 2004a). Vediamo brevemente quali sono i termini di questo problema. 6.1 Produzione L'idrogeno utilizzabile per avere energia è l'idrogeno molecolare, gassoso, di formula H2. È noto da più di duecento anni che quando l'idrogeno brucia, cioè quando si combina con l'ossigeno, viene generata energia, così come succede quando si bruciano gas naturale, petrolio e carbone. La grande differenza è che, come abbiamo già visto (sezione 2.7), dalla combustione del carbone si genera biossido di carbonio, da quella del petrolio e del gas naturale biossido di carbonio e acqua, e da quella dell'idrogeno soltanto acqua, fermo restando che in tutti e quattro i casi (e in misura varia) si ottengono anche ossidi di azoto NOx, dal momento che nella combustione non si usa mai ossigeno puro ma aria, che è una miscela al 78% di azoto. H2 + 1 /2O2 -> H2O + 286 kj/mol ( 1 ) 1 g di idrogeno sviluppa una quantità di calore pari a 143 kj Quindi l'uso dell'idrogeno per ottenere energia mediante combustione non comporta l'immissione di carbonio in atmosfera, al contrario di quanto accade per i combustibili fossili. Ma fra idrogeno e combustibili fossili c'è anche un'altra fondamentale differenza che, stranamente, viene spesso dimenticata. Il gas naturale, il petrolio e il carbone sono risorse energetiche primarie che si trovano in giacimenti naturali dai quali vengono estratte per poi essere usate, mentre, sfortunatamente, non ci sono giacimenti di idrogeno molecolare. Anzi, l'idrogeno molecolare non esiste sulla Terra, anche se sui giornali si può trovare scritto che è abbondante1. Quello che è abbondante in natura è l'idrogeno combinato con altri elementi, per esempio con l'ossigeno nell'acqua, la cui molecola è costituita da due atomi di idrogeno e un atomo di ossigeno, H2O. Spesso nei giornali si legge anche che "L'acqua sarà il carbone del futuro"2 e altrettanto spesso3 questa frase è accompagnata da una citazione di Giulio Verne tratta da L'Isola Misteriosa: "E quando le riserve di carbone saranno finite, da dove trarrà l'uomo l'energia necessaria per far funzionare le sue macchine? Dall'acqua. Io penso che un giorno l'acqua sarà usata come combustibile e che l'idrogeno e l'ossigeno che la costituiscono, usati separatamente o assieme, forniranno una sorgente inesauribile di calore e di luce". L'acqua, in realtà, non può essere neppure lontanamente paragonata al carbone, come l'esperienza comune ci conferma: l'acqua, a differenza del carbone, non alimenta, ma spegne il fuoco. L'acqua non brucia perché è già "bruciata"; infatti bruciare significa combinare una sostanza con l'ossigeno, ma l'idrogeno che è nell'acqua è già combinato con l'ossigeno. I giornali, tuttavia, non si rassegnano: se anche ammettono che l'idrogeno non c'è, sostengono poi che può essere estratto facilmente dall'acqua4. Niente affatto: se si vuole estrarre idrogeno dall'acqua si spende energia, esattamente la stessa quantità di energia che l'idrogeno produce bruciando con l'ossigeno per ridare acqua: HO + 286 kj -»• H + 1/2 O, (2) In conclusione, l'idrogeno molecolare non è una fonte primaria di energia, per il semplice fatto che sulla Terra non c'è. Essendo il prodotto di processi che richiedono il consumo di energia, non si può neppure dire che l'idrogeno sia un "combustibile". Questi concetti, evidentemente, non sono chiari a molte persone. Al Meeting di Rimini 2004, il 23 agosto si è tenuto un convegno patrocinato dalla Regione Lombardia dal titolo "Idrogeno. La sfida possibile. La salvaguardia dell'ambiente attraverso l'utilizzo dell'idrogeno come combustibile innovativo". Inoltre, secondo un comunicato stampa sull'avvenimento pubblicato sul sito web della Regione Lombardia, il segretario generale del Ministero dell'Energia della Repubblica Popolare Cinese, Shi Dinhuan, avrebbe dichiarato che "la Cina è impegnata nello studio delle ricerca di energie alternative agli idrocarburi, quale appunto può essere l'idrogeno" (corsivi nostri). Neppure si può dire che l'idrogeno è "pulito". In effetti, è "pulito" o "sporco" a seconda della fonte di energia usata per ottenerlo. Utilizzare idrogeno ottenuto da processi che si basano sull'uso dei combustibili fossili non offre nessun vantaggio, rispetto all'uso diretto di quei combustibili, per quanto riguarda l'impatto ambientale su scala globale: in entrambi i casi viene prodotta la stessa quantità di biossido di carbonio. In queste condizioni l'uso dell'idrogeno non è conveniente dal punto di vista economico perché, come abbiamo visto, ogni trasformazione da una forma di energia ad un'altra comporta inevitabilmente delle perdite. Ad esempio, nella produzione di idrogeno a partire dal gas naturale va perduto almeno il 15% dell'energia. La prospettiva cambia completamente se si trova un modo economico per produrre idrogeno dall'acqua usando una fonte di energia non costosa e non inquinante. In tal caso l'idrogeno potrebbe essere utilizzato come vettore energetico, non senza aver prima risolto altri problemi legati al fatto che è un gas difficile da trasportare, immagazzinare ed usare. Un grande vantaggio dell'idrogeno come vettore energetico sta nel fatto che esso si può interscambiare direttamente con un altro importante vettore energetico già estensivamente usato: l'energia elettrica. L'idrogeno viene prodotto (assieme all'ossigeno) quando, usando energia elettrica, si fa l'elettrolisi dell'acqua; viceversa, viene generata energia elettrica (e prodotta acqua) quando l'idrogeno è usato (assieme all'ossigeno) nelle celle a combustibile. 6.2 Trasporto e distribuzione L'idrogeno è un gas a bassa densità. A temperatura e pressione ambiente, occupa un volume 3000 volte superiore a quello della benzina a parità di energia prodotta. Per trasportarlo è necessario quindi comprimerlo o liquefarlo. Per trasportare la stessa quantità di energia contenuta in una autocisterna di gasolio ci vogliono 21 autocisterne di idrogeno ed è stato calcolato che per portare un carico di idrogeno a 500 km di distanza un'autocisterna consumerebbe energia pari al 40% di quella che trasporta (Service 2004a). Per fare viaggiare l'idrogeno per 150 km in un gasdotto è necessario usare compressori che consumano un'energia pari al 1,4% dell'idrogeno che fluisce; di fatto, solo il 60-70% dell'energia immessa come idrogeno in un gasdotto nel Nord Africa sarebbe utilizzabile in Europa. Trasportare l'idrogeno allo stato liquido, d'altronde, è molto costoso perché, per raffreddarlo alla sua temperatura di liquefazione (-253 °C), è necessario consumare una quantità di energia pari al 30% di quella in esso contenuta (Service 2004a). La soluzione più praticabile, ma anch'essa costosa, sembra sia quella di usare la rete elettrica per trasportare e distribuire l'energia e di convertire poi l'energia elettrica in idrogeno nelle stazioni di servizio o nelle case quando occorre. 6.3 Immagazzinamento Tutte le difficoltà sopra menzionate si ritrovano se si vuole alimentare con l'idrogeno un veicolo, particolarmente un aereo. Per disporre della stessa quantità di energia, un serbatoio contenente idrogeno compresso deve essere otto volte più grande di un serbatoio di benzina (Service 2004a). Con la liquefazione si può ridurre il volume necessario per l'idrogeno ma, a parte il costo, occorre aumentare lo spessore delle pareti del serbatoio affinchè ci sia isolamento termico. La soluzione usualmente adottata nei prototipi delle auto ad idrogeno è quella del gas compresso, con un'autonomia molto limitata. Da tempo sono allo studio diversi materiali metallici o carboniosi capaci di immagazzinare idrogeno a basse pressioni e anche sistemi basati su reazioni chimiche reversibili, ma in tutti i casi sono emersi problemi difficili da risolvere (Service 2004a). 6.4 Uso II principale uso dell'idrogeno dovrebbe essere quello di combinarlo con ossigeno nelle celle a combustibile per generare direttamente energia elettrica (Ormerod 2003): H2 + 1/2O —» HO + energia elettrica Anche se il principio delle celle a combustibile è noto dall'Ottocento, il loro uso è stato finora limitato a fornire energia all'interno dei veicoli spaziali, con l'eccezione dell'Islanda dove sono in funzione tre autobus alimentati da celle a combustibile (Vogel 2004). Il principale problema delle celle a combustibile è il loro costo, dovuto al fatto che utilizzano metalli preziosi come catalizzatori del processo (Ormerod 2003). È molto più semplice, invece, utilizzare l'idrogeno per alimentare motori a combustione interna. In effetti, tutti gli attuali prototipi di auto ad idrogeno hanno motori di questo tipo (Cho 2004). Rimangono, ovviamente i problemi legati alla necessità di avere una rete di distribuzione e, soprattutto, quelli connessi alla produzione di idrogeno. 6.5 Sicurezza L'idrogeno è pericoloso da maneggiare (Wald 2004). Mentre il gas naturale brucia nell'intervallo di concentrazione tra il 5 e il 15%, per l'idrogeno questo intervallo è molto più ampio: tra il 2 e il 75%. In altre parole è molto più facile produrre una miscela infiammabile con l'idrogeno che col gas naturale. Inoltre l'energia necessaria per avviare la combustione dell'idrogeno è molto inferiore a quella del gas naturale e quando l'idrogeno brucia non si vede alcuna fiamma. L'idrogeno è un gas molto volatile e si calcola che perdite di idrogeno, inevitabili nei processi di trasporto e stoccaggio, sarebbero difficilmente riducibili sotto ali'1-3% del totale. In un'economia globale basata sull'idrogeno enormi quantità di questo gas molto reattivo sarebbero inevitabilmente riversate in atmosfera con la possibilità di innescare processi complessi e non sempre prevedibili (Schultz et al. 2003; Tromp et al. 2003; Warwick et al. 2004). 6.6 II caso dell'lslanda Nei giornali sono apparsi numerosi articoli nei quali si da grande enfasi al fatto che in Islanda sono già operativi tre autobus a trazione elettrica, con energia fornita da celle a combustibile alimentate a idrogeno. In effetti l'Islanda sta sviluppando un piano per la progressiva sostituzione dei veicoli convenzionali con veicoli alimentati da idrogeno, in modo da eliminare progressivamente l'uso (e quindi l'importazione) di combustibili fossili (Vogel 2004). Quella dell'lslanda, in realtà, è una situazione del tutto particolare. Questo Paese, per sua fortuna, è molto ricco di fonti di energia idrica e geotermica, mediante le quali può produrre energia elettrica con la quale, a sua volta, può produrre idrogeno mediante elettrolisi dell'acqua. L'idrogeno poi alimenta celle a combustibile che forniscono energia elettrica che viene trasformata in energia meccanica per far viaggiare gli autobus (Figura 8). Siccome l'idrogeno per far funzionare le celle a combustibile è ottenuto dall'elettrolisi dell'acqua, alcuni giornali, con un impressionante ed insensato "corto circuito" hanno riportato che quegli autobus funzionano con motori ad acqua (Piervincenzi 2003). 6.7 Disinformazione e speranze Appare chiaro che il passaggio dall'economia energetica attuale, basata sui combustibili fossili, all'economia all'idrogeno "is not so simple"(Coontz e Hanson 2004) al contrario di quello che si sostiene da parte dei mezzi di informazione e, purtroppo, anche dai politici. Si tratta, infatti, di un percorso lungo e scientificamente molto impegnativo. Alcuni studiosi sostengono che, se si esamina il problema da un puro punto di vista fisico e chimico senza assunzioni futuristiche (Bossel 2004), l'uso di idrogeno per alimentare i veicoli non sarà mai conveniente rispetto all'uso dell'alimentazione elettrica (Shinnar 2002). Se questo corrisponde al vero, la decisione dell'Islanda di orientarsi decisamente verso l'economia all'idrogeno per l'autotrazione (Vogel 2004), quella dell'Europa di cofinanziare la costruzione di veicoli pubblici alimentati a idrogeno (Cianciullo 2003) e l'accordo fra Stati Uniti e Europa per sviluppare un'economia all'idrogeno (Piervincenzi 2003) sarebbero scelte economicamente sbagliate. L'idrogeno potrà essere molto utile all'umanità, ma prima bisogna trovare un modo economico per produrlo, a partire dall'acqua, usando un'energia pulita e rinnovabile: l'energia solare. Poi, a causa della bassa densità dell'energia solare (si veda più avanti), dell'inefficienza nel trasporto e della difficoltà di immagazzinamento dell'idrogeno, dovremo modificare almeno in parte il nostro stile di vita, diminuendo al massimo i consumi per unità di superficie. Per esempio, non sarà facile alimentare con l'idrogeno ottenuto dall'energia solare un parco di veicoli mondiale che già raggiunge i 775 milioni, e sarà ancor più difficile alimentare aerei e industrie molto energivore. Un recente editoriale su Science stigmatizza il fatto che l'amministrazione Bush abbia concentrato la sua attenzione sullo sviluppo delle celle a combustibile che, anche se fossero meno costose, oggi potrebbero funzionare solo con idrogeno generato da combustibili fossili (Kennedy 2004a). L'idrogeno, quindi, non può essere per gli americani il "combustibile della libertà" (dalle importazioni di petrolio), come l'ha definito il Presidente George W. Bush che nel frattempo continua ad ignorare, per favorire l'industria del suo Paese, che l'emergenza attuale è contrastare il cambiamento climatico riducendo le emissioni di gas serra (Claussen 2004; Kennedy 2004a, 2004b; Yohe et al. 2004). L'aumentata consapevolezza riguardo il problema del riscaldamento del pianeta (Kerr 2004a) ha portato ai già menzionati accordi internazionali (Protocollo di Kyoto) per la progressiva riduzione dei livelli di emissione di biossido di carbonio, ma gli Stati Uniti, che da soli sono responsabili del 25% di queste emissioni, hanno deciso di non ratificare l'accordo. Fortunatamente, però, molti singoli stati all'interno degli USA hanno deciso di impegnarsi a ridurre i gas serra andando in controtendenza rispetto alla politica del governo federale (Appell 2003; Watson 2003). Né del resto la "virtuosa" Europa che ha firmato il protocollo di Kyoto si sta comportando meglio: per ora i gas serra prodotti dal nostro continente continuano a crescere, nonostante gli impegni presi (EEA 2003a). Lo stesso editoriale su Science citato prima giudica inutile e addirittura controproducente l'enfasi che si da all'economia all'idrogeno e ad azioni specifiche in questo campo (Kennedy 2004a), come la produzione di costosissimi prototipi dimostrativi di veicoli ad idrogeno (ormai un centinaio), compresi motocicli (Cavaciuti 2004), esibiti in tutte le esposizioni motoristiche internazionali. Fa parte di questa deprecabile politica anche la recente inaugurazione, alla presenza delle maggiori autorità locali, di un distributore di idrogeno a Milano. Dopo pochi giorni il distributore era, ovviamente, inutilizzato e dimenticato, come è stato anche documentato dal TG satirico "Striscia la notizia" del 30 settembre 2004. Tanta enfasi sull'idrogeno porta la gente a pensare che i problemi siano risolti e i politici a prendere e giustificare decisioni sbagliate, come appunto quella di ignorare il problema dell'urgenza di ridurre l'emissione di gas serra. Dovrebbe, invece, essere chiarito a tutti che il programma verso un'economia all'idrogeno è a lungo termine e, prima di svariati decenni, non potrà aiutarci a risolvere il problema del riscaldamento del globo, che va invece affrontato adesso e che può trovare soluzione con minori consumi energetici, aumentata efficienza, e un uso più esteso di tecnologie già collaudate (Pacala e Socolow 2004). Giungere ad un'economia all'idrogeno sarà possibile solo sviluppando prima tutta la ricerca di base necessaria, senza illusioni e senza scorciatoie che si rivelerebbero controproducenti. Poiché quello di un'energia pulita è il più importante problema che l'umanità deve risolvere, bisogna investire molto di più nella ricerca di base in questo campo, ad esempio attingendo fondi da una speciale tassa posta sulla benzina, come ha proposto il Premio Nobel per la Chimica Richard Smalley (Service 2004a). Capitolo 7 Energie rinnovabili. L'energia solare 7.1 Introduzione Si possono definire energie rinnovabili quelle basate su fonti inesauribili sulla nostra scala dei tempi. Se escludiamo l'energia termica del sottosuolo terrestre (pensiamo alla lava incandescente di un'eruzione vulcanica) e l'energia gravitazionale dell'interazione Terra-Luna che provoca le maree, tutte le forme potenzialmente sfruttabili di energia rinnovabile sono di natura solare diretta o indiretta. A sua volta, l'energia che scaturisce dal Sole è generata da reazioni termonucleari che avvengono a temperature di milioni di gradi, alla provvidenziale distanza di circa 150 milioni di km dalla Terra. L'energia geotermica ha teoricamente un potenziale enorme legato al fatto che la temperatura della crosta terrestre aumenta in media di 3 °C ogni cento metri di profondità. Tuttavia il calore del sottosuolo terrestre sfruttabile in superficie in modo sostanziale è limitato a pochissime aree geografiche come l'Islanda (Smil 2003). Lo sfruttamento dell'energia degli oceani (gradienti termici e onde), nonostante gli entusiasmi di 30 anni fa, resta poco più di una curiosità scientifica (Smil 2003). Più promettente è l'energia delle maree, campo in cui negli ultimi anni si sono sviluppati progetti innovativi (Johnson 2004c). Ad esempio, in Nord Europa sono state installate "pale marine", analoghe a quelle coliche, che si muovono sotto l'azione delle maree producendo energia elettrica (Stone R. 2003). L'impatto visivo è nullo perché si tratta di impianti sottomarini, tuttavia i costi di manutenzione per dispositivi perennemente immersi in mare non saranno trascurabili. L'energia idroelettrica, eolica e quella derivata dai gradienti di temperatura dei mari sono generate da flussi di acqua o aria provocati dal riscaldamento solare; sono quindi fonti energetiche rinovabili di natura solare indiretta. Come già accennato, il non trascurabile contributo dell'energia idroelettrica (2,5% del fabbisogno mondiale attuale) potrà difficilmente aumentare in modo sostanziale. La biomassa (legname, sterpaglia) è energia solare trasformata in energia chimica. L'uso delle biomasse per ottenere energia è in concorrenza con la produzione di cibo: la coltivazione di piantagioni per la produzione di combustibili sottrae terreno fertile all'agricoltura. È stato anche stimato che l'efficienza di conversione energetica attraverso le biomasse è 100 volte minore di quella del processo fotovoltaico (Weisz 2004) e che il trasporto di biomasse a distanze superiori a 60 km dal luogo di produzione non renderebbe utile il loro impiego (Trifirò 2004). Una particolare attenzione deve invece essere riservata all'energia eolica. 7.2 Energia eolica Lo sviluppo La produzione di energia elettrica tramite turbine coliche ha conosciuto nell'ultimo decennio uno sviluppo consistente. L'Europa è leader mondiale assoluto del settore: il 75% della potenza eolica mondiale è installata in Europa, con la Germania, la Spagna e la Danimarca come capofila (EWEA 2003). L'85% delle turbine coliche prodotte nel mondo vengono fabbricate in Europa, con l'impiego di 72.000 persone che nel 2020 si stima saliranno a 200.000 (EWEA 2003). Per dare un'idea di quanto sia alta questa cifra possiamo ricordare che Fiat Auto occupa attualmente in Italia circa 35.000 lavoratori. Se non vi saranno cambiamenti di rotta, l'Italia sarà tagliata fuori da questa grande opportunità di sviluppo. In Europa è attualmente installata una potenza eolica di 40.000 MW. La Danimarca copre più del 15% del proprio fabbisogno elettrico con questa fonte, la Germania e la Spagna circa il 5% (EIA 2002; EWEA 2003). In Italia vi è una potenza installata di 870 MW, che nel 2003 ha fornito lo 0,4% della produzione nazionale (GRTN 2003). Nei Paesi EU-15, agli attuali ritmi di crescita, la potenza eolica installata al 2010 sarà pari a 75.000 MW, ovvero il 5,5 % del fabbisogno elettrico complessivo. Questa potenza potrà soddisfare il fabbisogno energetico domestico di 195 milioni di cittadini europei (EWEA 2003). Fino ad oggi le centrali o "fattorie" coliche ("windfarm", Figura 9) si sono sviluppate principalmente su Terra ("onshore"), ma negli ultimi anni è iniziato lo sfruttamento in mare ("offshore") (Johnson 2003b). La tecnologia eolica si è evoluta in maniera impressionante. Nei primi anni Ottanta una pala eolica tipica aveva un diametro di 15 metri ed una potenza elettrica di 50 kW, oggi esistono modelli di 124 metri ed una potenza di 5.000 kW (5 MW) (EWEA 2003). Sono inoltre in fase di progettazione pale da 10 MW per installazioni in mare (Johnson 2003b). Con queste dimensioni una windfarm di solo 60 pale potrà fornire l'energia di una centrale termoelettrica o nucleare di media potenza (600 MW). Nell'ultimo ventennio, a fronte di un aumento di 100 volte della potenza di una turbina eolica, si è avuto un calo dell'80% dei costi di produzione elettrica (EWEA 2003), così che alcune centrali coliche "onshore" hanno prezzi di produzione dell'energia elettrica molto competitivi, vicini a quelli delle centrali turbogas (EWEA 2003; Smil 2003). La tecnologia eolica presenta numerosi pregi a fronte di un numero oggettivamente minore, ma non irrilevante, di svantaggi. Pregi e difetti Una centrale eolica di 10 MW, sufficiente per i fabbisogni elettrici di 4.000 famiglie europee medie, può essere costruita in 2 mesi (EWEA 2003). In tempi altrettanto brevi una "windfarm" può essere trasferita in altro sito, con una semplicità del tutto impensabile per qualsiasi altro impianto di produzione elettrica. Uno studio ha evidenziato che una fattoria eolica danese di Terra restituisce in meno di 5 mesi ("payback time") l'energia investita per costruirla; questo termine si riduce a 3 mesi per un impianto "offshore" (Schleisner 2000), il che porta ad un invidiabile indice EROEI di oltre 50 (Heinberg 2004). I materiali utilizzati per la costruzione di una turbina eolica possono essere riciclati per oltre il 90% (Schleisner 2000), una windfarm moderna richiede una minima manutenzione e l'impianto può funzionare mediamente per il 98% delle ore annuali, cifra impensabile per impianti a combustibili fossili. Le risorse eoliche mondiali sono enormi, come riportato negli "Atlanti del Vento" pubblicati in tutto il mondo (EWEA 2003). In linea di principio l'Europa potrebbe soddisfare tutto il proprio fabbisogno elettrico: il potenziale eolico sfruttabile di Terra e di mare dell'Europa a 25 Stati membri è conservativamente stimato in 3.600 TWh (EWEA 2003). Questo dato va confrontato con la produzione elettrica totale dei Paesi EU-25 che nel 2002 è stata di 3.000 TWh (EC e Eurostat 2004). Il potenziale eolico del solo stato del Nord Dakota potrebbe fornire l'elettricità necessaria a tutti gli Stati Uniti d'America (Johnson 2003b). Le fattorie coliche comportano un uso modesto del territorio dal momento che l'agricoltura può continuare sui terreni in cui sorgono impianti di questo tipo. Nei Paesi dell'Europa del nord gli agricoltori diventano talvolta imprenditori elettrici, impiantando pale nei loro campi e vendendo l'energia prodotta. Le turbine coliche non hanno bisogno di acqua per il raffreddamento e quindi non hanno un impatto termico sull'ambiente. In Germania il costo delle esternalità sanitarie associate alla produzione di energia eolica è stimato in 0,05 centesimi di euro per kWh, mentre per la produzione di elettricità da carbone e da gas questo costo sale, rispettivamente, di 100 e di 40 volte (EC 2003a). Si stima che nel solo anno 2020, l'Europa risparmierà 25 miliardi di euro di costi esterni grazie alla diffusione dell'energia eolica (EWEA 2003). Nel solo anno 2000 sono state evitate immissioni in atmosfera di 15 milioni di tonnellate di CO2 grazie all'uso dell'energia eolica in Europa (EWEA 2003). Quanto alle questioni della sicurezza risulta molto improbabile che, pur con le peggiori intenzioni, qualcuno possa architettare azioni che mettano seriamente a rischio l'incolumità pubblica prendendo di mira fattorie coliche. Veniamo ora agli aspetti negativi. L'energia primaria da sfruttare, il vento, risulta intermittente su base giornaliera, stagionale e annuale. Le reti di trasmissione e distribuzione cui sono collegati gli impianti eolici debbono quindi essere preparate ad un input intermittente, tipicamente di media e non alta tensione. Le reti di distribuzione dei Paesi sviluppati sono attualmente concepite in maniera del tutto opposta: debbono smistare elettricità prodotta da pochi impianti di grande potenza con un flusso prevedibile e controllato. Il passaggio massiccio ad una produzione proveniente da molti impianti di piccola taglia, eolici ma non solo, richiederà adeguate e costose modifiche della rete (Soldadino e Gola 2003). Va notato inoltre che, sfortunatamente, le variazioni giornaliere medie dei flussi eolici spesso non coincidono coi picchi dei consumi e che, in molti casi, le zone a più elevato potenziale eolico sono lontane da quelle di maggior consumo. Ad esempio se, come già ricordato, il Nord Dakota ha un potenziale eolico enorme, esso si trova a migliaia di km di distanza dalle zone di maggior consumo degli Stati Uniti, che si trovano sulle coste. Per di più, gli USA, al contrario dell'Europa, sono sprovvisti di una rete di trasmissione Est-Ovest a lunga distanza. Per quanto riguarda l'Italia, la Pianura Padana, il bacino più energivoro del Paese, non ha risorse coliche di Terra significative. Il problema dell'intermittenza della produzione eolica può essere meglio gestito con la crescente affidabilità delle previsioni meteo e con l'ampliamento dei siti di produzione. Maggiore sarà il numero e più estesa la distribuzione delle centrali coliche collegate alla rete, maggiore sarà la stabilità media del sistema, poiché la distribuzione media dei venti tenderà ad essere più omogenea, moderando l'impatto delle variazioni locali. Quanto allo sfasamento tra produzione e richiesta, numerose opzioni sono possibili per immagazzinare il surplus ed utilizzarlo quando necessario, prima fra tutte la produzione di idrogeno come riserva e vettore di energia. È evidente però che queste opzioni non potranno essere disponibili in tempi brevi. L'impatto visivo delle centrali coliche può essere molto forte, quindi la loro localizzazione va ben studiata per limitare danni al paesaggio. E anche vero che in Italia non si è mai andati molto per il sottile sotto questo aspetto: basti pensare alla selva di antenne e ripetitori della TV e del telefono che deturpano gli edifici, o alle linee aeree dell'elettricità e della telefonia, che sono ormai diventate parte integrante del paesaggio. È oggi praticamente impossibile scattare una foto nelle nostre campagne senza includere un indesiderato traliccio di qualche natura; non saranno quindi le fattorie coliche a cambiare drammaticamente la situazione estetica, a fronte di un sostanziale beneficio al clima e alla salute. L'impatto coi volatili è un'altra questione su cui occorre fare attenzione in sede di localizzazione degli impianti (Williams 2004). Va rilevato, però, che la frequenza di rotazione delle pale è stata progressivamente diminuita limitando questo problema (EWEA 2003; Heinberg 2004; Johnson 2003b; Smil 2003). Negli Stati Uniti perdono la vita ogni hanno centinaia di milioni di volatili per l'impatto con veicoli in movimento, edifici e linee elettriche ad alta tensione (EWEA 2003). Pertanto, la diffusione delle fattorie coliche di moderna concezione non modificherà in modo sostanziale questi numeri (Johnson 2003b). Poiché lo sviluppo massiccio dell'energia eolica per la produzione di elettricità è piuttosto recente, un'analisi esauriente dei costi e dei benefici introdotti da questa tecnologia potrà essere fatta solo tra un decennio (Smil 2003). Tuttavia i fatti indicano che al momento essa è la più promettente ed economica forma di energia alternativa. Uno dei principali fattori di tensione ed incertezza sul mercato dell'energia è la disponibilità ed il costo dell'energia primaria, cioè dei combustibili fossili. Nel settore eolico (e solare) questo fattore chiave dell'attuale sistema energetico non ha alcun peso. Il costo della materia prima necessaria per azionare gli impianti è noto e fissato. Il prezzo di oggi è lo stesso di un anno fa e sarà lo stesso tra 10 o 100 anni: zero. Non è un vantaggio di poco conto, specie se il costo del petrolio e del gas continueranno a salire. 7.3 Energia solare diretta e sue potenzialità L'energia solare diretta Come abbiamo visto, l'astronave Terra riceve in continuazione energia solare ed è grazie a questa energia che nel processo fotosintetico si generano il cibo e l'ossigeno che mantengono la vita. Ma abbiamo anche visto che l'uomo moderno ha bisogno di tanta altra energia per le industrie, i trasporti, il riscaldamento ed il raffreddamento degli edifici, ecc., energia che attualmente si ottiene dal consumo dei combustibili fossili. Perché non usare l'energia che ci viene continuamente dal Sole (energia solare diretta) per far fronte a tutte le esigenze energetiche? È una domanda che già si poneva, circa un secolo or sono Giacomo Ciamician, lo scienziato di cui porta il nome il Dipartimento di Chimica dell'Università di Bologna, e che è ancora in attesa di una risposta soddisfacente (Ciamician 1912). L'energia solare ha molti pregi. Anzitutto è molto abbondante; il flusso di potenza solare che raggiunge la superficie terrestre, al netto della radiazione riflessa o assorbita in vari modi (dall'atmosfera, dalle nubi, dai ghiacci delle calotte polari, ecc,) ammonta a 85 mila miliardi di kW, pari a 168 W per metro quadro (Halacyjr. 1973; Smil 2003). Ricordando che la potenza che può sviluppare una persona è di 50 W (vedi sezione 1.8) possiamo concludere che il Sole ci fornisce mediamente, con continuità, più di tre "schiavi energetici" per metro quadrato di superficie terrestre. Una parte quasi trascurabile di questa energia (0,05%) serve alla biosfera per il proprio sostentamento producendo anche, attraverso il processo di fotosintesi, tutto il cibo di cui gli esseri viventi si nutrono (Halacyjr. 1973). E sempre questa minuscola frazione dell'energia solare che, nel corso delle ere geologiche, ha prodotto i combustibili fossili che abbiamo ereditato. L'energia solare non solo è abbondante, ma è anche inesauribile sulla nostra scala dei tempi, gratuita, ben distribuita, non inquinante. Ha, però, due grandi difetti dal punto di vista della sua utilizzazione: bassa intensità ed intermittenza su scala locale (ma non su scala planetaria). Per utilizzarla in modo proficuo bisogna trasformarla ed immagazzinarla in forme di energia più concentrate, cosa che presenta molte difficoltà. La densità di potenza dell'energia solare Ad ogni forma di energia può essere assegnata una "densità di potenza" ("Power Density", PD), Tabella 9 (Smil 2003). Si tratta di un parametro medio che descrive, in watt per metro quadro (W/m2), la potenza che può essere generata per ogni metro quadro di superficie terrestre impegnato per produrre quell'energia. Come abbiamo visto sopra, l'energia solare diretta ha una densità di potenza di circa 170 W/m2, che viene ulteriormente ridotta dipendentemente dal modo in cui la si converte in energia utile. Questa densità è maggiore di quella di tutte le altre forme energetiche rinnovabili, ad esempio l'energia delle maree, ma non può neppure lontanamente competere con quella dei combustibili fossili (Tabella 9). Considerando le superfici di territorio impegnate in attività estrattive di carbone, petrolio e gas si ottengono fattori PD dell'ordine 1.000-10.000 W/m2. Negli Stati Uniti tali attività "consumano" appena 1000 km2 di territorio, cui vanno aggiunti 30.000 km2 per le infrastrutture di trasporto (Smil 2003). Queste cifre riflettono la gigantesca concentrazione energetica che si trova in alcuni punti della crosta terrestre, in corrispondenza dei giacimenti di combustibili fossili. Per quanto riguarda i consumi, l'attuale sistema di vita nei Paesi sviluppati richiede densità di potenza elevate: si va dai 20-100 W/m2 di un'abitazione ai 300-900 W/m2 di un'acciaieria. Di conseguenza i combustibili fossili sono la soluzione ideale per fornire energia ad una società come la nostra, che funziona con un'elevata densità di potenza. In altre parole: è molto facile supplire al fabbisogno energetico di un'accieria coi combustibili fossili, mentre non sarà mai possibile far funzionare un'impianto così "affamato" di energia coi pannelli solari che ne ricoprono i tetti. Queste considerazioni sulla densità energetica sono molto importanti per capire le cruciali differenze tra l'attuale sistema energetico e quello cui dovremmo tendere. Il passaggio da una società che si regge (provvisoriamente) sullo sfruttamento dei combustibili fossili ad una società basata sull'uso delle energie rinnovabili richiederà un profondo cambiamento nell'infrastruttura di produzione ma, forse ancor più, un radicale ripensamento del modo in cui l'energia dovrà essere distribuita e consumata. Per prima cosa, passando da una forma di energia "densa" ad una "diluita" dovremo diminuire al massimo i consumi per unità di superficie, ma anche questo non basterà. Poiché è presumibile che anche in futuro non potremo fare a meno di infrastrutture ad altissima richiesta locale di energia come ospedali ed acciaierie, dovremo trovare il modo di conver-tire l'energia primaria a bassa densità ottenuta dalle fonti rinnovabili, che sono abbondanti ma molto diffuse sulla superficie terrestre, in forme di energia secondaria a più alta densità. Bisogna considerare che la bassa densità delle energie rinnovabili non ha soltanto aspetti negativi. Si può pensare, infatti, che il passaggio da fonti energetiche non rinnovabili, localizzate in piccole aree del pianeta e quindi possedute da pochi individui, a fonti rinnovabili gratuite e distribuite sul pianeta in maniera abbastanza omogenea potrà comportare un miglioramento della condizione sociale e delle relazioni internazionali. 7.4 Calore a bassa temperatura La conversione dell'energia solare in calore a bassa temperatura si può compiere molto facilmente, ad esempio scaldando con i raggi solari un liquido contenuto in un recipiente. Il calore a bassa temperatura, però, non è una forma concentrata di energia e non può essere né immagazzinato né trasportato. Può essere utilizzato per scaldare acqua ad uso domestico mediante i cosiddetti pannelli solari (da non confondersi con i pannelli fotovoltaici per la produzione di elettricità, di cui si tratterà più avanti). Questa semplice applicazione, che richiede piccoli investimenti e una bassa tecnologia, dovrebbe essere incentivata ed estesa il più possibile. Come minimo, questo metodo di conversione dell'energia solare, rinnovabile e pulito, permette di ottenere un risparmio sull'energia elettrica che viene consumata in scaldabagni, lavatrici e lavastoviglie, tutti dispositivi altamente energivori. Si pensi, infatti, all'assurdità di scaldare l'acqua per la lavatrice o per fare la doccia con uno scalda acqua elettrico: l'energia elettrica convertita in calore proviene, con perdite di trasmissione, da una centrale dove viene prodotta mediante la combustione di combustibili fossili, non rinnovabili ed inquinanti. L'insensatezza di un tale utilizzo dell'energia elettrica risulta del tutto evidente se si considera che la resa di produzione elettrica di una centrale è mediamente del 40% e che il restante 60% dell'energia del combustibile fossile è convertito, nella centrale, in calore che viene dissipato nell'ambiente come un rifiuto, generando inquinamento termico. Un tal modo di utilizzare l'energia è contrario al più elementare buon senso. Eppure nel nostro Paese questo messaggio non è ancora passato e la diffusione dei pannelli solari per il riscaldamento dell'acqua domestica è rarissimo: la superficie italiana attrezzata a pannelli solari è 8 volte meno estesa di quella della piccola e fredda Austria e 13 volte inferiore a quella della Grecia (Tabella 10) (EC e Eurostat 2004). Da notare poi che buona parte degli impianti italiani sono localizzati in Alto Adige, e non nel più soleggiato Mezzogiorno. Per fare l'esempio probabilmente più assurdo, l'acqua calda delle docce degli stabilimenti balneari italiani è spesso ottenuta bruciando gas. Sono dati e fatti che si commentano da soli e fanno sorgere, come già accennato, alcune domande "indiscrete". Perché l'Italia è quasi sempre il fanalino di coda in Europa su ogni innovazione in campo energetico? Perché la quasi totalità dell'informazione in Italia sulle "novità" energetiche riguarda il nucleare e il carbone? Chi si incarica di fornire agli italiani un'informazione completa ed aggiornata sui temi dell'energia? Chi fa veramente la politica energetica nel nostro Paese? 7.5 Calore ad alta temperatura La conversione dell'energia solare in calore ad alta temperatura, che è una forma di energia concentrata convertibile in energia meccanica, si può ottenere mediante un campo di specchi che focalizza i raggi solari su una caldaia dove un liquido viene portato all'ebollizione. Alternativamente si possono usare collettori parabolici lineari che focalizzano la luce su un tubo dove viene fatto circolare un liquido opportuno. Il primo metodo è ormai abbandonato (Smil 2003) mentre il secondo, più efficiente, non è ancora giunto a piena maturazione. Un impianto che utilizza questo principio è in fase di realizzazione a Priolo in Sicilia, frutto di un progetto congiunto tra ENEL ed ENEA (ENEL 2003). L'impianto solare sarà accoppiato ad una centrale a ciclo combinato a gas da 760 MW. Il vapore generato nella caldaia alimentata dai collettori solari verrà unito a quello dei generatori a recupero dell'impianto turbogas, aumentando l'energia ottenibile dalla centrale elettrica a combustibile fossile. L'area occupata dalla centrale solare sarà di 40 ettari, metà dei quali occupati dagli specchi collettori. In un anno si produrranno circa 60 GWh di energia elettrica, pari ad un centesimo dell'energia prodotta dall'impianto turbogas, ipotizzando un funzionamento di 6000 ore/anno. Uno dei modi in cui si potrebbe utilizzare calore di origine solare è la produzione di idrogeno mediante scissione dell'acqua ad altissima temperatura (Steinfeld 2002, 2004). 7.6 Energia fotovoltaica e fotoelettrochimica La conversione diretta di energia luminosa in energia elettrica avviene mediante le cosiddette celle fotovoltaiche, nelle quali l'assorbimento di un quanto di luce da parte di un materiale semiconduttore fotoattivo (tipicamente silicio) origina un movimento di carica elettrica. Singole celle solari vengono collegate fra loro per formare dei moduli denominati pannelli fotovoltaici (Figura 10). Questa tecnologia di produzione elettrica fu introdotta alla fine degli anni Cinquanta e già da tempo è usata per applicazioni in luoghi lontani dalle reti di trasmissione elettrica o che necessitano di piccole quantità di energia (es. calcolatrici portatili). Essa è largamente impiegata in campo spaziale per alimentare i satelliti, che debbono rimanere attivi per anni lontani da fonti di rifornimento convenzionali. Ovviamente, il costo dei dispositivi per la produzione di energia elettrica non ha alcun peso rispetto agli investimenti complessivi di un'impresa spaziale. La diffusione dei pannelli fotovoltaici è attualmente in forte sviluppo in molti Paesi. La produzione di moduli fotovoltaici nel 2003 è aumentata del 32% e di conseguenza i costi vanno diminuendo (Johnson 2004b). Un esempio virtuoso di sostegno a questa tecnologia viene dal Giappone, un Paese povero di risorse energetiche e che investe molto in conoscenza, ricerca e sviluppo. Il governo giapponese ha finanziato un progetto decennale (1994-2004) di sostegno alla diffusione dei pannelli fotovoltaici che ha comportato una crescita nella diffusione di questi sistemi del 43% all'anno (Johnson 2004b). Alla fine del 2003 in Giappone è stata installata una potenza di 887 MW, l'equivalente di una centrale nucleare o a gas, ma l'obiettivo è più ambizioso: raggiungere 4.800 MW (equivalenti a 6 centrali nucleari) alla fine del 2010. Il Governo giapponese ha investito un massimo di 220 milioni di dollari/anno per questo progetto, una cifra che sta nelle pieghe della legge di bilancio di un qualsiasi Stato. Nel 2005 cesseranno i finanziamenti pubblici e questa industria comincerà , a muoversi con le proprie gambe. Cosa che farà con ottime prospettive visti i prezzi del petrolio e considerato che in 10 anni il Giappone è diventato il primo produttore mondiale di moduli fotovoltaici, con il 50% del mercato mondiale; questo permetterà allo Stato un pronto rientro dei finanziamenti erogati nella fase iniziale. Oggi in Giappone si vendono case nuove già dotate di un impianto fotovoltaico da 4 kW, che rientra nell'investimento immobiliare e viene pagato nel mutuo casa. Così facendo in Giappone il costo dell'energia elettrica fotovoltaica è diventato praticamente uguale a quello dell'energia elettrica ottenuta da fonti non rinnovabili (Johnson 2004b). Negli Stati Uniti l'energia elettrica fotovoltaica costa attualmente 10 volte di più di quella ottenuta dal carbone, quattro volte di più di quella ottenuta dal gas naturale e tre volte di più di quella eolica (Johnson 2004b). La metà della potenza installata si trova in California, da sempre uno stato guida sulla frontiera dell'innovazione. In Italia, nel 2001, era installato solo il 7% della potenza fotovoltaica dell'Unione Europea, mentre la molto meno soleggiata Germania aveva il 73% della quota complessiva! (EC e Eurostat 2004). La più grande centrale fotovoltaica del mondo, 4 MW, entrerà in funzione in Germania a fine 2004, come parte di un parco fotovoltaico di 18 MW delocalizzato su vari siti. Si prevede che in una decina d'anni si avrà un ulteriore impulso grazie a (i) un aumentato rendimento delle celle fotovoltaiche, (ii) lo sviluppo di nuovi materiali che sostituiscano il silicio, (iii) la diminuzione dei costi legata ad una crescente offerta e (iv) una mirata politica di incentivi e disincentivi legati all'impatto ambientale delle varie forme di energia (Johnson 2004b). Gli impianti fotovoltaici sono posti usualmente sui tetti delle abitazioni, isolati o collegati alla rete di distribuzione. Nel primo caso hanno batterie per l'accumulo del surplus di energia prodotto durante il giorno, per gli usi notturni. Nel secondo caso scambiano energia con la rete, vendendo di giorno il surplus e comprando il fabbisogno per le ore di buio. A fine mese si incassa la differenza: una bolletta "al contrario" ove l'azienda elettrica paga al consumatore/produttore e non viceversa. In circa 10 anni si recuperano gli investimenti di installazione. Nei Paesi del Terzo Mondo, dove manca un'infrastruttura di trasmissione e distribuzione dell'elettricità, i pannelli fotovoltaici potrebbero costituire una pratica soluzione, almeno parziale, al fabbisogno di energia elettrica di due miliardi di persone. Come già sottolineato, la produzione di energia elettrica fotovoltaica necessita di ampi spazi di raccolta, ma non così estesi come si potrebbe pensare e come erroneamente riportato talvolta anche da illustri scienziati (Zichichi 2004). È stato calcolato, ad esempio, che utilizzando pannelli aventi una efficienza di conversione del 10%, che è quella della tecnologia corrente, basterebbe ricoprire di moduli fotovoltaici un quadrato di 161 km di lato per ottenere l'energia elettrica consumata dagli Stati Uniti (Turner 1999). Una tale area, pur essendo grande, è meno di un quarto di quella occupata negli stessi Stati Uniti dalle strade e sarebbe naturalmente molto minore se, all'energia fotovoltaica, si affiancasse quella ottenuta dagli impianti idroelettrici ed eolici. Si è anche calcolato che sarebbe necessario utilizzare il 2,7% della superficie degli Stati Uniti per produrre, per via fotovoltaica, tutta l'energia loro necessaria, una percentuale che sale al 24% per il Belgio e scende allo 0,3% per il Brasile (Weisz 2004). È di particolare interesse, per la tecnologia fotovoltaica, valutare il parametro EPT ("energy payback time", sezione 5.1), tenendo comunque ben presente che non è possibile calcolare un valore assoluto ed universale, valido per tutto il mondo. EPT è infatti un parametro "site specific", ovvero dipende dal luogo che si prende in esame. E intuitivo capire che esso sarà più conveniente per siti localizzati in zone altamente soleggiate e distanti da reti di distribuzione dell'energia elettrica. Studi recenti in Olanda ed in California, indicano payback times dell'ordine di 3-5 anni per moduli convenzionali al silicio (Knapp e Jester 2001; Meijer et al. 2003). Quindi mediamente un pannello fotovoltaico da abitazione, per il quale si attende una vita operativa di 30 anni, produrrà circa 10 volte l'energia impiegata per fabbricarlo. Questo surplus energetico è di provenienza extraterrestre (solare) e non impoverisce le risorse del pianeta. Sono anche stati fatti calcoli per stimare la produzione di gas serra dell'energia prodotta per via fotovoltaica. Essa, per unità di energia prodotta, è solo un decimo rispetto a quella generata da impianti a gas a ciclo combinato, considerando l'intero ciclo di vita (Dones e Frischknecht 1998). Analoghi studi in Giappone indicano incoraggianti bilanci sui cicli di vita per le emissioni di NOx e SO per unità di energia prodotta anche se, sotto questo aspetto, l'energia idroelettrica ed eolica sono decisamente superiori (Nomura et al. 2001). Sono ora in fase iniziale studi per valutare il potenziale di centrali fotovoltaiche localizzabili in vaste aree desertiche. Un impianto da 100 MW installarle nel deserto di Gobi occuperebbe un'area di circa 2 km2 e avrebbe un "energy payback time" di solo 1,7 anni (Ito et al. 2003). E interessante notare che gli studi sulla produzione di idrogeno mediante energia solare, che sono iniziati una quarantina di anni orsono (Balzani et al. 1975), hanno recentemente portato a sistemi capaci di convertire direttamente l'energia solare in elettricità, come fanno i sistemi fotovoltaici, ma utilizzando una diversa base scientifica e quindi una diversa tecnologia, quella delle celle fotoelettrochimiche con sensibilizzatori (Gratzel 2001). Dispositivi di questo tipo sono già stati fabbricati e ci sono buone prospettive riguardo il loro costo, che potrebbe essere addirittura inferiore a quello delle celle fotovoltaiche (Gratzel 2004; Tulloch 2004). In entrambi i campi si è alla continua ricerca di nuovi materiali e nuove strategie (ad esempio, la combinazione di celle fotovoltaiche con elettrolizzatori per ottenere direttamente idrogeno) al fine di aumentare le efficienze di conversione ed abbassare i costi di produzione (Eckert et al. 2000; Jacoby 2004; Khaselev et al. 2001; Nierengarten et al. 2001). 7.7 Energia chimica: fotosintesi naturale ed artificiale La conversione dell'energia solare in energia chimica si ottiene mediante reazioni fotochimiche (Balzani et al. 1975). L'energia chimica (combustibili) è la forma più utile di energia perché è concentrata, trasportabile ed immagazzinabile e quindi il metodo della conversione fotochimica è, in linea di principio, quello più interessante per utilizzare l'energia solare. Questo è, in effetti, il metodo (fotosintesi) che la natura ha scelto nell'evoluzione per sostenere la vita e che, così come avviene in natura, non riesce a soddisfare gli altri bisogni energetici dell'umanità. Viene allora spontaneo chiedersi se non sia possibile realizzare una fotosintesi artificiale per produrre combustibili utilizzando l'energia solare. Molti scienziati pensano che un progetto di questo tipo, se adeguatamente finanziato, potrà avere successo. Il processo fotosintetico naturale nella sua globalità può essere schematizzato nel modo seguente: luce solare H2O + CO2 -> O2 + carboidrati (4) clorofilla e altre molecole e i primi stadi del processo sono i seguenti (Balzani et al. 2003b): 1) la luce viene assorbita da un sistema organizzato di molecole di clorofilla che passano così ad uno stato elettronico eccitato; 2) l'energia viene poi trasferita all'interno del sistema molecolare organizzato e convogliata, come in una "antenna", su un sito specifico, detto "centro di reazione". 3) in questo sito l'energia viene utilizzata, in tempi estremamente brevi (dell'ordine del picosecondo, IO"12 s) per separare cariche di segno opposto, un "più" da una parte, un "meno" dall'altra. Ottenuto questo risultato, il processo nelle piante continua con una serie incredibilmente complessa di reazioni che portano ai prodotti dell'agricoltura. Lo studio del processo fotosintetico naturale ha fatto capire che un analogo sistema artificiale, per funzionare, deve essere perfettamente organizzato nelle dimensioni dello spazio (le distanze fra molecola e molecola sono un fattore determinante), del tempo (alcune reazioni devono essere molto più veloci di altre e devono avvenire in tempi estremamente brevi), e della energia (ogni stadio del processo può avvenire solo se viene utilizzata una parte della energia fornita dalla luce solare). Partendo da queste basi, gli scienziati sono al lavoro per creare sistemi fotosintetici artificiali. Il processo su cui si punta, molto più semplice di quello che avviene in natura, è la scissione fotochimica dell'acqua in idrogeno ed ossigeno (Balzani et al. 1975): luce solare molecole artificiali H2 + 1/2 02 (5) Questo processo permetterebbe di creare un ciclo chiuso per la produzione di energia. Si prende acqua, molecola inerte a basso contenuto energetico (e per questo abbondantissima sulla Terra), si "inietta" in essa energia sotto forma di luce solare, ottenendo così la separazione dei due componenti, idrogeno (combustibile) e ossigeno (comburente). Questi, quando serve, vengono ricombinati e restituiscono l'energia immagazzinata. Il processo non comporta la produzione di inquinamento chimico, ma è semplicemente un ciclo di trasformazione energetica. La chiave di volta consiste nel sintetizzare molecole aventi proprietà specifiche, da certi punti di vista simili a quelle della clorofilla naturale, e poi di assemblare queste molecole in sistemi supramolecolari capaci di compiere le funzioni necessarie (assorbimento della luce solare, trasferimento dell'energia assorbita in siti opportuni del sistema, separazione di carica, generazione di idrogeno e ossigeno) (Balzani et al. 2003a, 2003b). Il lavoro degli scienziati in questo campo si può schematicamente paragonare a quello di un bambino che deve costruire una casa con una scatola di LEGO. Ormai si conoscono le caratteristiche che devono avere i singoli pezzi e come questi pezzi debbono essere assemblati; ma i pezzi a disposizione sono ancora pochi, molto costosi, e non sempre si incastrano nel modo voluto. C'è quindi ancora molto lavoro da fare. Alcuni obiettivi parziali sono stati recentemente raggiunti. Ad esempio, si possono costruire grandi molecole, chiamate dendrimeri per la loro forma ramificata, capaci di raccogliere l'energia luminosa e di incanalarla nella direzione voluta (Armaroli et al. 1999; Balzani et al. 2003a). Altre ricerche avanzate riguardano centri di reazione fotosintetici, capaci di effettuare la separazione di carica indotta dalla luce (Balzani et al. 2003b). Ci sono tuttavia problemi non ancora risolti, come ad esempio quello di trovare catalizzatori capaci di effettuare con buona efficienza i processi multielettronici che sono coinvolti nella generazione di idrogeno e ossigeno. C'è da notare infine che si può produrre idrogeno mediante energia solare anche usando le celle fotoelettrochimiche prima menzionate (Lewis 2001). L'utilizzo eventuale dell'acqua come materia per la trasformazione dell'energia, fa sorgere inevitabilmente una domanda: andremmo incontro ad un impoverimento delle risorse idriche, tale da obbligarci a scegliere se bere o produrre energia? È stato calcolato che, per far funzionare l'intera flotta degli automezzi leggeri degli Stati Uniti (230 milioni di veicoli) con motori a celle a combustibile alimentate ad idrogeno ricavato dall'acqua occorrerebbero circa 400 miliardi di litri di acqua all'anno (Turner 2004). Considerando l'intero ciclo di vita del sistema energetico per produrre quell'idrogeno da fonti rinnovabili, per esempio fattorie coliche, sarebbero necessari circa 1.200 miliardi di litri di acqua all'anno, una quantità paragonabile a quella utilizzata nella produzione di benzina nelle raffinerie americane. Si tratta perciò di una quantità di acqua del tutto ragionevole, specie se paragonata a quelle annuali utilizzate per uso personale nelle case (circa 18.000 miliardi di litri), per non parlare di quella impiegata per il raffreddamento delle centrali termoelettriche (280.000 miliardi di litri) (Turner 2004). Il giorno in cui usassimo l'acqua per produrre idrogeno, non saremmo costretti a patire la sete, perché ci basterebbe abbondantemente l'acqua che avremmo risparmiato abbandonando il sistema energetico dei combustibili fossili. Capitolo 8 Considerazioni finali Non occorre particolare acume analitico per capire che se il denaro risparmiato da un più efficiente uso dell'energia viene utilizzato per passare i week-end a Las Vegas, una destinazione scelta da milioni di famiglie americane ogni anno, il consumo energetico globale aumenterà. Vaclav Smil 8.1 Prospettive Dai combustìbili fossili all'energia solare La storia della civiltà umana può essere vista come il progressivo sviluppo di nuove risorse energetiche e delle tecnologie volte alla loro utilizzazione. Anche se è vero che col passare degli anni acquistano sempre più importanza la conoscenza e l'informazione rispetto alla disponibilità di materie prime, rimane il fatto che ancor oggi l'energia determina, guida, limita e forgia le capacità di lavoro in tutti i processi della società (Hall et al. 2003). Le risorse energetiche dell'astronave Terra sono sostanzialmente di due categorie: (i) quelle immagazzinate nella Terra stessa sotto forma di residui fossili, isotopi particolari e calore, limitate dalla loro quantità finita; (ii) il flusso della energia solare, abbondante ed immutabile nel tempo, ma difficile da convertire in energia di comoda utilizzazione. Con la scoperta e l'uso dei combustibili fossili, l'umanità (o almeno parte di essa) ha imboccato la strada dello sviluppo tecnologico, la cui continuazione sembra ora compromessa dalla quantità finita di questa comoda risorsa energetica e, ancor più, dai danni che il suo uso (e abuso) ha portato e sempre più porterà all'ambiente. Siamo dunque in un periodo storico cruciale per quanto riguarda l'energia (Smil 2003) ed è ormai chiaro che per assicurare un futuro alla civiltà bisogna impegnarsi con urgenza a progettare la transizione verso l'energia solare. Bisogna rendersi conto che i combustibili fossili sono un regalo irripetibile che la natura, nel corso delle ere geologiche, ha reso disponibile all'umanità. Utilizzando termini economici, potremmo dire che si tratta di una risorsa "una tantum". Oggi sappiamo anche che questo regalo, che abbiamo già in parte utilizzato, comporta danni all'ambiente. Anche nell'economia, del resto, le risorse "una tantum", ad esempio quelle provenienti dai condoni edilizi, producono più danni che benefici. In analogia con quanto si richiede per una sana politica economica, anche nel campo delle fonti energetiche dovremo smettere di utilizzare risorse "una tantum" e mettere in atto una "riforma strutturale": dovremmo passare, cioè, dall'uso (limitato nel tempo e pericoloso dal punto di vista ambientale) dei combustibili fossili, all'uso della grande quantità di energia che la Terra riceve in continuità dal Sole (Turner 1999). L'umanità, quindi, dovrà gradualmente abbandonare l'uso dell'energia "densa" dei combustibili fossili ed abituarsi a quello dell'energia "diluita" che ci arriva dal Sole. Questo comporterà presumibilmente un mutamento sostanziale nello stile di vita. Dovremo abituarci a consumare meno energia, particolarmente nel settore dei trasporti, ma saremo più liberi, perché l'energia non sarà più localizzata in piccole zone del pianeta: sarà diffusa sui nostri tetti e nelle nostre campagne, non sarà più posseduta da poche nazioni, sarà di tutti. Quindi, non dovrebbe più essere motivo di guerre e obiettivo di atti terroristici. Nel frattempo, per uscire gradualmente e senza grandi traumi dalla crisi energetica ed ecologica che si affaccia al nostro orizzonte, il fattore più importante è il risparmio energetico, un concetto che deve essere ben spiegato a tutti i cittadini dei Paesi sviluppati e deve diventare il primo impegno di coloro che hanno responsabilità amministrative. Non si può certo dire che l'Italia sia all'avanguardia in questo campo. Dopo il black out del 28 settembre 2003, e anche più recentemente, molti ministri e parlamentari hanno dichiarato che è necessaria la costruzione di nuove centrali, persino nucleari. Praticamente nessuno ha detto che sarebbe più saggio risparmiare energia. Eppure basterebbe che ogni cittadino italiano riducesse di appena il 10% il suo consumo di energia elettrica per evitare qualsiasi pericolo di black out. Ma il risparmio energetico, che le persone accetterebbero volentieri di praticare se fossero invitate a farlo con motivazioni sensate da persone in cui hanno fiducia, ovviamente non piace a chi ha interesse ad importare, a vendere e a distribuire l'energia. Il risparmio energetico è un termine che sembra censurato nei mezzi di [ comunicazione di massa. Noi cittadini dei Paesi ricchi, abituati ad avere decine di "schiavi energetici" al nostro servizio che ci permettono di vivere senza fatica nella comodità e nel lusso, non dobbiamo illuderci di poter continuare all'infinito in questa condizione di privilegio. I nostri "schiavi energetici" non sono eterni, causano danni e, soprattutto, non sono loro che possono risolvere i problemi dell'umanità. Se continueremo ad usarli rinunciando ad esercitare le doti più alte che caratterizzano l'uomo, l'intelligenza e lo spirito di fratellanza, diventeremo (in parte lo siamo già) loro schiavi e andremo incontro a crescenti problemi ambientali e sociali, sia su scala nazionale che internazionale. In ogni caso dobbiamo ricordare che ogni attività umana, compreso l'uso dell'energia solare, richiede il consumo di risorse (superficie terrestre, acqua, minerali, metalli, ecc.) e deve essere chiaro che più risorse si consumano oggi, meno ne resteranno domani. Quindi ogni tipo di crescita, anche quella economica, ha un limite, contrariamente al pensiero che ispira gli economisti di stretta osservanza ultraliberista (Degli Espinosa e Tiezzi 1987; Smil 2003; Tiezzi e Marchettini 1999). Lo sviluppo delle nuove tecnologie Molte tecnologie per l'utilizzazione delle energie rinnovabili, in particolare dell'energia solare eolica e fotovoltaica, si stanno sviluppando in diversi Paesi del mondo, mentre in Italia, che pure è avvantaggiata geograficamente, si fa di tutto per ignorarne l'esistenza e pochissimo per stimolarne la crescita. C'è il fondato sospetto che tutto questo succeda non per ignoranza, ma per l'azione dei forti poteri economici e politici legati all'uso dei combustibili fossili. Anche se l'energia solare è gratuita, la sua trasformazione in energia utile all'uomo non è senza problemi. Per usare una qualsiasi fonte di energia ci vogliono infrastrutture ed impianti la cui costruzione richiede il "consumo" non solo di energia, ma anche di altre risorse. A questo proposito si può ricordare che le prime celle fotovoltaiche dovevano funzionare per almeno 20 anni per generare una quantità di energia pari a quella consumata nella loro fabbricazione; oggi questo tempo si è ridotto a pochi anni (Knapp e Jester 2001; Meijer et al. 2003). Apparentemente, nessuna delle nuove tecnologie può al momento fornire energia a costi competitivi con quella ottenibile dai combustibili fossili, ma la situazione apparirebbe ben diversa se nei costi fossero inclusi quelli indiretti ("esternalità") relativi alla salute umana e alla conservazione dell'ambiente per le generazioni future (EC 2003a; Rabl e Spadaro 2000), costi che nessuna impresa energetica è disposta a pagare e che solo alcuni governi sembrano orientali a prendere in considerazione. Nelle guerre si parla spesso di "effetti collaterali" per indicare i morti e i feriti provocati fra la popolazione civile e i danni all'ambiente 1; le "esternalità" possono essere considerate come gli "effetti collaterali" derivanti dall'uso dell'energia. Quando, nel prezzo delle diverse fonti di energia, verrà incluso il costo delle rispettive esternalità, la produzione di elettricità mediante i generatori eolici e le celle fotovoltaiche potrà definitivamente decollare. Un esame accurato mostra che l'economia all'idrogeno è un problema molto complesso. Tale economia, se accoppiata con la produzione di idrogeno mediante energia solare, potrà offrire fra alcuni decenni la soluzione ideale ai problemi dell'energia e dell'ambiente, ma non ha concrete prospettive a breve termine. Questa conclusione contrasta con quanto la gente è indotta a pensare da analisi superficiali del problema propagate dai mezzi di informazione. Lo slogan "economia all'idrogeno" serve anche a creare o a difendere scelte politiche discutibili, come quella di puntare sullo sviluppo delle celle a combustibile ignorando il problema ben più urgente della riduzione dei gas serra (Kennedy 2004a). Se poi l'idrogeno verrà prodotto dal carbone o dall'energia nucleare, esso può diventare un alibi ambientale per spingere l'acceleratore verso due tecnologie che presentano ancora molti problemi irrisolti in termini di salvaguardia climatica e sicurezza, come già discusso. L'affermazione di una nuova tecnologia può essere molto lenta, ma anche molto veloce, dipendentemente da tanti fattori, anche perché le tecnologie spesso si evolvono in maniera molto diversa da come si immagina al loro inizio. Per esempio, dagli studi volti ad utilizzare l'energia solare per la scissione fotochimica dell'acqua in idrogeno e ossigeno (Balzani et al. 1975) è derivata la tecnologia delle celle fotoelettrochimiche per la produzione di energia elettrica (Gràtzel 2001). Nel caso dell'automobile lo sviluppo è stato molto veloce: i venditori di cavalli accolsero con sorrisi di compatimento le prime auto che, nel giro di pochi anni, mandarono tutte queste persone fuori dal mercato. Nel caso dell'energia nucleare, invece, dopo gli entusiasmi iniziali è subentrata una crisi di sviluppo che nessuno aveva previsto (Colombo 1996; Smil 2003). 8.2 Alcune cose fattibili Da sempre la storia delle civiltà è stata profondamente influenzata dalla disponibilità di risorse energetiche. La sopravvivenza della nostra società tecnologica di inizio XXI secolo è possibile solo grazie alla disponibilità di una quantità di energia prò capite che nessun'altra generazione nella storia ha mai neppure sognato di poter disporre. È quindi prevedibile che, nel prossimo futuro, il fattore energetico avrà un peso ancora più rilevante sull'evolversi delle vicende umane. Anche se fare previsioni attendibili in campo energetico è alquanto difficile (Smil 2003), è possibile tracciare alcune linee guida lungo le quali sarebbe saggio indirizzare le politiche dell'energia a livello locale e globale. Fermo restando, naturalmente, che l'imprevisto può causare bruschi rallentamenti o accelerazioni, capaci di cambiare radicalmente i termini del problema. Eventi imprevisti potrebbero essere catastrofi ambientali (es. aggravamento della crisi climatica), sommovimenti politici (es. una guerra totale in Medio Oriente), eventi accidentali o indotti (es. gravi incidenti a infrastrutture energetiche chiave), spettacolari progressi scientifici e tecnologici (es. anticipato successo nella produzione di idrogeno dall'acqua mediante l'uso di energia solare). Ci sarebbe energia per tutti Prima di addentrarsi in qualsiasi considerazione, comunque, è bene premettere che esistono due priorità assolute, dettate dal semplice buonsenso, alle quali tutte le altre debbono essere subordinate: 1) l'integrità della biosfera per garantire la continuazione della vita sulla Terra; 2) la dignità della vita umana di tutti gli abitanti del pianeta, e non solo di una parte. Uno dei più autorevoli studiosi mondiali di energia, Vaclav Smil, ha calcolato che un consumo annuale di energia prò capite pari a 50-70 GJ oggi permetterebbe uno standard di vita paragonabile a quello medio della Francia o del Giappone negli anni Sessanta (Smil 2003). In quell'epoca, francesi e giapponesi conducevano una vita già sufficientemente agiata e godevano di libertà individuali ed opportunità di ottimo livello. Egli rileva poi che suddividendo la produzione globale di energia dell'anno 2000 per il numero di tutti gli abitanti della Terra si otterrebbe un consumo prò capite di 58 GJ all'anno. In altre parole oggi consumiamo globalmente una quantità di energia che permetterebbe a tutti gli abitanti del pianeta di godere uno standard di vita di buon livello; analoghe stime portano a conclusioni del tutto simili per quanto riguarda la distribuzione delle risorse alimentari (Smil 2003). Ma non è tutto. Grazie ai continui progressi nell'efficienza energetica, nel 2025 saremo capaci di "spremere" 75 GJ di energia utile dalla stessa quantità di energia primaria che oggi impieghiamo per ottenere la nostra "quota personale media" di 58 GJ. Ovvero, da qui a vent'anni, senza aumentare il tasso di sfruttamento delle risorse naturali, potremmo anche aumentare la nostra dote energetica prò capite del 30% (Smil 2003). Purtroppo la realtà attuale è ben diversa. Giapponesi e francesi consumano oggi il triplo di quanto consumavano negli anni Sessanta (170 GJ/anno), mentre canadesi a statunitensi dovrebbero tagliare i loro consumi dell'80% per arrivare alla soglia di equità di 70 GJ a testa. Nel contempo, miliardi di persone non intravedono neppure lontanamente alcuna prospettiva di raggiungere il livello di vita che si godeva a Parigi o a Tokyo 40 anni fa. È evidente che non è possibile imporre con la forza ai Paesi ricchi un ritorno ai consumi degli anni Sessanta o Settanta. Tuttavia i numeri indicati sopra debbono suscitare alcune salutari domande. Ad esempio: la vita dei Paesi ricchi negli anni Sessanta o Settanta era davvero così dura da costringerci a triplicare i consumi energetici per uscire da quell'inferno? Le responsabilità degli scienziati A questo punto, evidentemente, la questione esce da un piano tecnico e scientifico per entrare in quello della politica e della responsabilità individuale. A noi, professionalmente, compete il primo. Tuttavia riteniamo che sia preciso dovere degli scienziati dire con forza la propria opinione a chi è chiamato a fare le scelte a nome di tutti. In un recente saggio Richard Ernst, Premio Nobel per la Chimica, affronta questo tema con decisione: "Noi scienziati amiamo spesso sottolineare la nostra indipendenza accademica, che ci da la libertà di fare quello che vogliamo [...] Come è possibile attendersi che i manager industriali o i politici, nella loro posizione così traballante, possano esprimere opinioni impopolari ma oneste, oppure intraprendere azioni coraggiose che possano mettere in pericolo la loro posizione personale? In questo gli scienziati e gli insegnanti universitari non sono solo predestinati, ma anche obbligati ad esprimere con onestà le loro opinioni e le loro convinzioni per il bene della società [...] Chi altro, se non gli scienziati, ha la responsabilità di indicare le linee guida per definire il progresso e salvaguardare gli interessi delle future generazioni? " (Ernst 2003). È giunto il momento di dire con franchezza, pubblicamente, ai cittadini ed ai politici che l'aumento esponenziale dei consumi energetici è una spirale che deve essere fermata, perché è insostenibile dal punto di vista fisico ed inaccettabile sotto l'aspetto morale. Non è possibile rispondere all'aumento continuo della domanda energetica con nuova offerta di energia, ma occorre intervenire per moderare la domanda. Le responsabilità dei politici La classe politica deve capire che quello dell'energia è il grande problema del XXI secolo: è necessario garantire l'approvvigionamento energetico ad oltre 6 miliardi di persone (che diventeranno circa 8 miliardi tra 20 anni), permettendo una convivenza accettabilmente pacifica senza compromettere in modo irreversibile l'equilibrio della biosfera. Potrebbe sembrare un obiettivo troppo ambizioso; in realtà è possibile cominciare a perseguirlo fin da oggi, con tecnologie già disponibili sul mercato e scelte politiche neppure eccessivamente coraggiose e, tanto meno, rivoluzionarie. In Italia, dopo il black-out del 28 settembre 2003, causato da incapacità professionale di alcuni individui e non da scarsità energetica (alle 3 di notte di un fine settimana di settembre si toccano i minimi consumi elettrici annuali) molti politici e persino il Presidente della Repubblica, persona autorevole, equilibrata e preparata, hanno rivolto un appello per la costruzione di nuove centrali elettriche. Deve essere invece chiaro che la cosa più urgente da fare è ridurre i consumi. Dovrebbe essere superfluo ricordare la necessità di potenziare le reti di trasporto pubblico e disincentivare l'uso dell'auto. La potenza energetica dispiegata per la motorizzazione automobilistica è impressionante. La potenza della flotta automobilistica mondiale è di gran lunga superiore alla potenza di tutte le centrali elettriche del mondo messe insieme. Questo non deve stupire. Un auto media pesa 10 quintali, e spesso deve portare in giro un solo passeggero dal peso medio di 75 chili: una sproporzione notevole, che diventa gigantesca per un SUV che può pesare sino a 40 quintali. È evidente dunque che il primo settore su cui occorre intervenire è quello della riduzione dei consumi della flotta dei veicoli stradali. Questo è possibile secondo la totalità delle scuole di pensiero, comprese quelle di Smil e Lovins, spesso in profondo disaccordo (Smil 2003). Secondo il primo sarebbe possibile diminuire di un terzo i consumi di carburante negli Stati Uniti nel giro di pochi anni, disincentivando l'acquisto dei SUV; inoltre non esistono ostacoli tecnici per dimezzare i consumi in un decennio e ancor di più negli anni a venire (Smil 2003). Questo forse non servirebbe ad abbattere i consumi globali ma permetterebbe di trasferire i nostri sprechi di carburante a tutti i cinesi o indiani che salgono sulla prima auto della loro vita. Lovins ha pubblicato recentemente uno studio (co-finanziato dal Pentagono) secondo il quale è possibile investire quantità non proibitive di risorse (180 miliardi di dollari) per sostituire la flotta automobilistica attuale con una molto più leggera ed efficiente. In questo modo, nel 2040, gli Stati Uniti potrebbero eliminare completamente le importazioni di petrolio e dare inizio ad un autentico boom economico indotto da questa transizione (Lovins et al. 2004). Senza addentrarsi in tali visioni futuristiche, forse basta ricordare che già oggi sono disponibili sul mercato modelli di auto "ibride" a benzina, che nelle frenate recuperano parte dell'energia cinetica sotto forma di energia elettrica. L'efficienza energetica di queste auto è fino al 50% superiore a quella di auto con motore tradizionale (Demirdoven e Deutch 2004). Purtroppo non esiste ancora in Italia alcun incentivo fiscale per l'acquisto di queste autovetture, che diverranno sempre più diffuse nel prossimo futuro, in attesa delle automobili a celle a combustibile il cui ingresso sul mercato è ancora lontano. Risparmio di energia elettrica Passando all'altro grande settore dei consumi, quello elettrico, le opzioni per un uso più efficiente delle risorse disponibili sono innumerevoli. Prima fra tutte la sostituzione di impianti obsoleti ad olio e carbone con impianti a gas a ciclo combinato (Armaroli e Po 2003a; Pacala e Socolow 2004). Questo può portare ad aumenti di efficienza del 70-80% assieme ad un minore impatto ambientale. I camini delle centrali a gas possono essere poi muniti di abbattitori catalitici che riducono ulteriormente l'inquinamento atmosferico. Questo standard, accettato da anni negli Stati Uniti (Kato et al. 2004), quando è stato suggerito in Italia (Armaroli e Po 2003b, 2003a) ha suscitato un dibattito ai limiti del surreale: alcuni sono arrivati ad argomentare che le centrali col catalizzatore sono "di vecchia concezione" (Matteoli 2004), mentre naturalmente non è così (Guazzo 2004). Come già ricordato, la cogenerazione diffusa mediante piccoli e medi impianti a gas (Johnson 2003e), laddove possibile, ha un'efficienza ben maggiore dei grandi impianti produttivi. Numerosi altri accorgimenti potrebbero portare ad una riduzione dei consumi energetici italiani, primo fra tutti la diffusione dei pannelli solari per la produzione di acqua calda sanitaria che, a tutt'oggi, registra in Italia una diffusione inspiegabilmente irrisoria (Tabella 10) (EC e Eurostat 2004). La leva fiscale Al fine di favorire questi e molti altri possibili interventi per limitare la domanda energetica e promuovere un uso più razionale delle risorse è necessario ricorrere alla leva fiscale. Questo può sembrare oltraggioso in un'epoca in cui molti esponenti politici, delle più varie estrazioni, fanno sfoggio di modernità e lungimiranza nell'annunciare mirabolanti tagli alle tasse. Se una persona vuole guidare un auto che fa 4 km con un litro di carburante mangiandosi una fetta sproporzionata di risorse naturali, inquinando l'aria 4 volte di più del necessario e occupando uno spazio doppio nelle strade pubbliche è giusto che paghi per questi suoi lussi. In generale: poiché l'immissione di CO2 ed inquinanti in atmosfera causa un danno a tutti, senza alcuna distinzione geografica, chi più ne produce più dovrebbe pagare (Nature 2004d). Naturalmente sarebbe essenziale die queste risorse finanziarie, ottenute attraverso la leva fiscale, fossero destinate a facilitare un'uscita non traumatica dall'era dei combustibili fossili (incentivazione dell'efficienza energetica, promozione delle fonti rinnovabili, incremento dei finanziamenti della ricerca scientifica in campo energetico, ecc.). Se qualcuno si scandalizza per queste proposte e le ritiene non praticabili, vale la pena ricordare che da sempre il vigente sistema energetico gode di enormi iniezioni di denaro pubblico. Nel dopoguerra, ogni famiglia americana ha sborsato in media 1.400 dollari per sussidi al nucleare e solo 11 dollari per incentivare le centrali coliche (Smil 2003). Oggi, una larghissima parte dei crediti fiscali americani sono destinati all'incentivazione dell'uso dei combustibili fossili non convenzionali e solo l'l% delle risorse va alle energie rinnovabili (Smil 2003). Attualmente è in discussione presso il Congresso americano una legge che darebbe incentivi ancora maggiori all'industria del petrolio, del gas e del carbone, con grande disappunto della comunità scientifica (SCIAM 2004). Per quanto riguarda l'Italia, abbiamo già ricordato l'imbarazzante vicenda delle fonti "assimilate" alle rinnovabili (sezione 3.3). L'educazione e le responsabilità individuale Per incentivare il cittadino al risparmio energetico occorrerebbero inoltre validi strumenti di verifica. A questo fine sarebbero necessarie bollette elettriche più semplici e trasparenti che informassero adeguatamente l'utente sull'andamento periodico dei consumi. In un mercato liberalizzato, in cui chi più consuma più è premiato, una opzione del genere è percorribile solo se si interviene per legge. Probabilmente non occorrerebbero grandi sforzi, ma solo un po' di saggezza politica, che non è certo stimolata dalla pubblicazione di libri che spargono un facile ottimismo sulla salute del pianeta e sull'andamento delle risorse della Terra (Cascioli e Gaspari 2004). Pur essendo certamente vero che bisogna rifuggire un dogmatico quanto vuoto catastrofismo ambientalista, risulta privo di fondamento scientifico affermare che le foreste mondiali godono di ottima salute, la popolazione mondiale può tranquillamente aumentare a dismisura, l'inquinamento atmosferico non è un problema rilevante e il surriscaldamento del pianeta è solo una "teoria" (Cascioli e Gaspari 2004). Ad un occhio sufficientemente esperto, l'inconsistenza scientifica di coloro che spargono queste "verità" è evidente anche perché essi basano le loro affermazioni su una bibliografia fatta per lo più di articoli di quotidiani e non di letteratura scientifica accreditata. Gli autori (e talvolta gli autorevoli redattori delle prefazioni) si sono semplicemente persi migliaia e migliaia di articoli scientifici che dicono esattamente l'opposto (Brook B. W. et al. 2003; Brunekreef e Holgate 2002; Cochrane 2003; Cohen J. E. 1998; Fu et al. 2004; Kerr 2004a; Laurance et al. 2004; Laurance et al. 1997; OMS 2003b; Schiermeier 2004b; Thomas et al. 2004). È però evidente che per un cittadino comune o un politico, che non hanno adeguate competenze, il rassicurante contenuto di questi libri costituisce un comodo alibi per continuare a consumare e sprecare senza porsi troppi problemi. Secondo questi autori il problema di chi sta peggio di noi si risolverà da sé: l'onnisciente mercato (quasi un oggetto di culto neo-monoteista) e il contagioso "sviluppo" prima o poi faranno migliorare la sua condizione (Cascioli e Gaspari 2004). Questa visione molto ottimista ha ottenuto recentemente una certa popolarità anche grazie al successo di un libro dal titolo L'ambientalista scettico pubblicato nel 2001 da un politologo danese e uscito in Italia nel 2003 (Lomborg 2003). Tale lavoro ha riscosso insperata pubblicità ed immeritata fortuna grazie anche alla Sconsiderata campagna di attacco da parte di alcuni integralisti ambien-i tali (Giles 2003). Questa vicenda è stata comunque utile: ha mostrato [ ancora una volta che è bene affrontare i temi ambientali con pacatezza e [rigore scientifico, lasciando da parte ogni approccio ideologico preconcetto, di qualsiasi tendenza. Passando all'aspetto della responsabilizzazione individuale, la strada [da percorrere è molto più lunga. Innanzitutto è necessaria un'educazione all'uso razionale dell'energia in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Sarebbe molto più utile per l'interesse nazionale di quanto non lo siano ! Improbabili slogan elettorali tradotti in politiche scolastiche di scarsa fortuna e ancor minore contenuto educativo. Ognuno deve essere reso consapevole del fatto che una luce accesa, un , apparecchio elettrico in funzione, un auto in moto hanno un costo non solo economico, ma anche ambientale. Bisogna cominciare a responsabillizzare i giovani (ma non solo) sugli acquisti degli apparecchi dotati di presa elettrica. Dobbiamo cominciare a chiederci se è proprio necessario installare un condizionatore oppure se possiamo sopravvivere anche senza, pur sopportando qualche disagio. Quando acquistiamo un auto, è buona norma valutarne la dimensione (e i consumi) in base alle effettive necessità della nostra famiglia: è necessario acquistare un fuoristrada le viaggiamo quasi sempre da soli e in città? E ancora: è indispensabile acquistare un telefonino ogni 3 mesi, buttando quello "vecchio" nella spazzatura, assieme alla spesa energetica impiegata per fabbricarlo? Non è detto, infine, che un impegno verso un'esistenza a più bassi consumi energetici sia necessariamente un sacrificio o un danno. Tenere spenta ogni tanto la TV e scegliere di leggere un buon libro anziché abbruttirsi davanti ad un reality show, comporta un beneficio intellettuale e spirituale oltre che un risparmio energetico. Non va dimenticato poi che le comodità della "civiltà energetica" stanno ritorcendosi contro di noi in maniera impressionante. Nei Paesi ricchi la diminuzione diffusa dell'attività fisica, appaltata in modo crescente a "schiavi energetici" a buon mercato, causa un notevole incremento del numero delle persone sovrappeso e obese, con conseguente aumento di patologie quali diabete, disturbi cardiocircolatori e cancro, con elevatissimi costi umani ed economici (Allison et al. 1999; Calle e Thun 2004; Fontaine et al. 2003; Giannini 2004; Mokdad et al. 2001). La sfida In questo libro abbiamo cercato di illustrare in modo sintetico alcuni termini entro i quali il problema energetico e quello più generale delle risorse naturali devono essere analizzati. Qualcuno potrà giudicare pessimistico il quadro che abbiamo delineato. Noi però non siamo affatto pessimisti. Riteniamo che il periodo storico che abbiamo davanti, proprio perché presenta grandi sfide, offre anche enormi opportunità, in buona parte non ancora evidenti. Non è la prima volta che l'umanità si trova ad affrontare crisi profonde, che è sempre riuscita a superare mettendo in campo le sue energie migliori. Non esistono ostacoli tecnici insormontabili per superare la crisi energetica, ma occorre dispiegare molte risorse intellettuali (Ehrlich e Ehrlich 2004; Goodstein 2004; Turner 1999). L'era dei combustibili fossili, che tante opportunità ha offerto a noi abitanti dei Paesi ricchi, finirà per essere una breve parentesi della Storia umana. Oggi abbiamo ancora sufficienti scorte di queste risorse "una tantum" per progettare un'uscita non troppo traumatica da quest'era per tanti versi entusiasmante. Occorre però cominciare, senza perdere altro tempo, a progettare il nostro futuro energetico sulla base di una "riforma strutturale": il progressivo abbandono dei combustibili fossili per favorire il graduale passaggio all'energia solare nelle sue varie forme. In questa partita ognuno di noi ha il suo compito. Primo fra tutti quello di eleggere politici all'altezza di questa sfida ambiziosa ma non impossibile. Tutti siamo corresponsabili di quello che verrà. Sessanta anni fa gli Stati Uniti misero in campo il progetto Manhattan, impiegando una quantità enorme di risorse economiche ed intellettuali, per risolvere in breve tempo un problema concreto: fabbricare un'arma capace di distruggere la mortale minaccia di spietate e disumane dittature. Oggi non mancano le risorse intellettuali e materiali per mettere in campo progetti altrettanto ambiziosi per un fine di pace e non di guerra: offrire all'umanità una risorsa energetica inesauribile, disponibile in varie forme, a disposizione di tutti e il cui uso non metta a rischio l'integrità della biosfera. Evitare la crisi energetica e facilitare la transizione dall'uso dei combustibili fossili all'energia solare che continuamente arriva sulla Terra è possibile se si interviene con decisione. Ma non dobbiamo nasconderei che c'è una questione più importante, di cui la crisi energetica è solo una parte, che bisogna affrontare e risolvere con estrema urgenza: quella delle disuguaglianze. 8.3 II consumismo e la civiltà malata dell"'usa e getta" Come è già stato sottolineato, la produzione di merci e di servizi è inevitabilmente accompagnata dall'impoverimento delle risorse della Terra, dall'accumulo di scorie e rifiuti. Questo fatto, che è a tutti gli effetti una verità scientifica che deriva dal II Principio della Termodinamica, non viene tenuto in nessun conto dall'attuale modello unico di sviluppo economico: il capitalismo (Georgescu-Roegen 1971 ; Tiezzi e Marchettini 1999; Weisz 2004). Il consiglio che ci viene da governanti poco saggi ed ancor meno lungimiranti è quello di "consumare di più". Alla radio e alla televisione i vengono trasmessi non solo spot pubblicitari che ci invitano a comprare certi prodotti dei quali viene esaltata l'utilità, ma anche spot che ci chiedono esplicitamente di comprare qualunque cosa, perché cercano di convincerci che qualunque acquisto, anche inutile, è utile per rilanciare l'economia. Questa istigazione al consumismo, che avviene in tutti i Paesi iviluppati, rivela appieno la miopia dei governanti e di molti industriali. Ai primi interessa solo che ci sia una ripresa dell'economia nel loro Paese, condizione necessaria per essere rieletti, mentre ai secondi interessa esclusivamente il profitto. Il fatto poi che una ripresa economica nel mondo ricco continui ad aver luogo con l'impoverimento dei Paesi meno sviluppati, la diminuzione delle risorse non rinnovabili e l'aggravamento dei problemi ambientali sembra interessare pochi. Un'economia chiusa in se stessa, che ignora i limiti fisici delle risorse, i problemi ecologici e l'etica sociale non ha alcun senso. Un spia della tragica comicità di questa situazione la troviamo nei notiziari televisivi. Ogni giorno, immancabilmente, il conduttore del telegiornale ci annunzia l'andamento di indici di borsa dal nome oscuro (NASDAQ, NUMTEL, S&P MIE) assumendo un cipiglio euforico o cupo a seconda che ci siano stati guadagni o perdite. La stragrande maggioranza dei telespettatori non ha alcun interesse in tale notizia per il semplice fatto che ignora totalmente il significato di questi indici o non ha capitali investiti in borsa. D'altro canto quelli che sono professionalmente interessati a conoscere questi numeri non attendono certo il telegiornale delle venti per sapere come è andata la giornata. Questa ovvietà non ha nessuna importanza per i guru degli indici di ascolto, in questo caso stranamente distratti. Magari il telespettatore sarebbe più interessato ad apprendere con regolarità notizie che lo riguardano decisamente più da vicino: l'andamento dei consumi delle risorse naturali (acqua, foreste, combustibili, metalli, ecc.), del deperimento della biosfera (qualità dell'aria, deforestazione, clima, ecc.), della diffusione di malattie infettive (AIDS, morbillo, poliomielite, influenza) (Altomare 2004; Cohen J. 2004; Enserink 2004; Mahmoud 2004; Norman 2004; Roberts 2004). Su tutti questi "indici", invece, incombe un'inquietante cappa di silenzio. Al fine di mantenere alta la produzione, vengono messi sul mercato oggetti appositamente studiati per diventare obsoleti dopo pochi anni o addirittura pochi mesi (ad esempio, i computer, gli oggetti per la riproduzione della musica, i telefoni cellulari), oppure si interviene con incentivi fiscali per favorire la rottamazione. Il singolo cittadino, specialmente se giovane e con reddito medio-alto, è terribilmente esposto ad entrare nella spirale del consumismo. Il filosofo Umberto Galimberti ha identificato il consumismo come il primo dei vizi capitali della nostra epoca. Forse 1' Occidente, culla di alcune fra le espressioni più alte della civiltà umana, sta perdendo progressivamente ogni contatto con l'etica e scivola verso il dominio dell'economia e del denaro. La nostra, in effetti, non è neppure una civiltà dei consumi; è, ancor peggio, una civiltà dello spreco e del cosiddetto "usa e getta". È stato calcolato che in un anno potrebbero essere recuperate, dietro le quinte dei 500 ipermercati italiani, 55.000 tonnellate di cibo per qualche motivo invenduto e, quindi, destinato a finire nei rifiuti. Un recupero di questo genere, il cui valore finanziario sarebbe da 7 a 27 milioni di euro, eviterebbe fra l'altro di immettere nell'amosfera 212.000 kg di biossido di carbonio (Segrè 2004). Consumiamo le risorse della Terra con arroganza pensando solo al nostro presente e in modo altrettanto arrogante ammassiamo sulla Terra rifiuti e sostanze inquinanti. Lo smaltimento dei rifiuti, infatti, è oggi un problema enorme non solo per le industrie ma anche per gli amministratori pubblici locali e persino per i governi, particolarmente per le nazioni che hanno scorie nucleari. Consumiamo un capitale enorme di risorse naturali, tenendo scarsamente conto dei servizi vitali che ci vengono forniti dagli ecosistemi, ad esempio la depurazione delle acque (Smil 2003; Tiezzi e Marchettini 1999). Si deve inoltre notare che nei Paesi ricchi la crescita dei consumi e dei redditi non è affatto accompagnata da una parallela crescita del "benessere" e della "soddisfazione" della gente. E stato riscontrato che un bene di consumo è fonte di soddisfazione finché rappresenta una novità e una modalità di distinzione, un'indicazione, cioè, del particolare status dei consumatore all'interno della società. È noto anche che l'abbondanza ! dei beni superflui elimina il piacere dato dalla soddisfazione dei bisogni « primari (cibo, vestiti, riparo) e che il meccanismo del consumo dei beni, 1 Indotto dalla pubblicità, può essere assimilato al meccanismo della dipendenza dall'alcool o dalle droghe. Il consumismo, facendo fulcro sul principio di scadenza e autodistruzione delle cose, è anche causa di crisi profonde di identità nelle persone, perché in un mondo dove gli oggetti appaiono e si dissolvono con grande rapidità, diventa sempre più difficile distinguere tra sogno e realtà, tra immaginazione e dati di fatto. Tutto questo poi induce ad applicare la consuetudine di "usare e gettare" anche nei rapporti fra persone. Alcuni filosofi arrivano ad affermare che la vera ricchezza di un uomo è espressa dalle cose che può concedersi di non avere. Queste considerazioni richiamano le parole del Salmo 48 che recita: "L'uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono". 8.4 La fragilità del mondo tecnologico e globalizzato È probabile che il progresso della scienza ci aiuti ad uscire dalla crisi energetica, così come ha risolto tanti altri problemi dell'umanità. Si pensi come sarebbe più difficile la vita se la scienza non ci avesse portato i farmaci, le materie plastiche, i fertilizzanti, l'acciaio, il cemento, il vetro. Ma non dobbiamo dimenticare che lo sviluppo della scienza crea sempre nuovi problemi, legati ad un motivo fondamentale che investe tutto l'agire dell'uomo e che SJ. Gould ha definito come la grande asimmetria: "La tragedia umana, e anche la fonte della grande potenzialità cattiva della scienza, sta nel fatto che la realtà, le leggi naturali, sono caratterizzate da una grande asimmetria: per fare qualcosa di buono, ci vuole molto tempo. Per rovinare tutto, basta un attimo. Come la biblioteca di Alessandria, dove erano raccolte le conoscenze di un millennio, è stata distrutta in un giorno di fuoco, così un attentato può compromettere in un attimo anni di colloqui di pace" (Gould 1998). Non basterà dunque la scienza a risolvere i problemi dell'umanità, ci vorrà anche molta sapienza. I sistemi tecnologici, economici e politici del nostro mondo occidentale sono pienamente funzionali ed efficaci, ma estremamente fragili e vulnerabili. Questo è vero non solo per singoli punti del sistema che possono nascere o diventare "difettosi", come è accaduto per fabbriche chimiche (Seveso e Bhophal), dighe (Vajont), centrali nucleari (Chernobyl), o reti elettriche (black out negli Stati Uniti del 14 agosto 2003), ma più in generale per l'intero sistema che, essendo molto complesso, per funzionare ha bisogno che non ci siano inconvenienti inattesi (la caduta di un albero che mette in ginocchio un Paese intero: Italia, 28 settembre 2003) e, tanto meno, attentati. Per il presente modello di sviluppo, quindi, la pace è una necessità: o si vive in relazione positiva con tutto il mondo, o il sistema va in crisi. Raniero La Valle ha espresso molto bene questo concetto: "I grattacieli delle Torri Gemelle avevano 110 piani in altezza più sette piani sotterranei: edifici lunghi quasi mezzo chilometro con una sola uscita, il pianterreno, raggiungibile solo per le scale quando gli ascensori vanno fuori uso. Se non si può fare a meno di simili edifici, bisogna stare in pace con tutto il mondo. E se la pace non è possibile, il sistema va in crisi..... Si può costruire un sistema di aviazione civile2 che trasporti milioni di persone con giganteschi che sia a prova di temperino o persino di una biro usata come un'arma? No, non si può, e allora se si vuole continuare a volare e a vivere cosi, occorre stare in pace con tutto il mondo. E se non si può stare in pace, allora il sistema va in crisi" (La Valle 2003). Da questi ed altri esempi La Valle trae la conclusione che il sistema instaurato dal modello di sviluppo capitalistico non può reggere, semplicemente perché non può garantire la pace. Non la può garantire perché i ricchi non possono porsi in relazione positiva con i poveri; di fatto i ricchi fanno la guerra ai poveri e i poveri, a loro volta, entrano nella spirale perversa dell'odio. Le guerre dei ricchi contro i poveri mettono questi ultimi all'angolo, li privano di "futuro", come è il caso di chi è cresciuto e vive nei campi profughi palestinesi. Ma da chi non ha più nulla da perdere, puoi aspettarti di tutto: ed ecco il terrorismo. A questo proposito, J. Baudrillard afferma: "E perfettamente logico che la crescita In potenza della Potenza esacerbi la volontà di distruggerla. Ma c'è di più: in un certo senso, la Potenza è complice della sua stessa distruzione. [...] Tutto è quindi avvenuto per una sorta di complicità imprevedibile, come se il sistema intero, per la sua fragilità interna, entrasse nella partita della propria liquidazione, e facesse dunque il gioco del terrorismo." | (Baudrillard 2003). Un mondo in cui ci sono tre uomini le cui ricchezze sono pari a quelle | di tutta l'Africa non è un mondo sano. Un mondo dove molti sprecano i cibo e acqua e moltissimi muoiono di fame e di sete non è un mondo giusto. Un mondo dove una nazione con il 5% della popolazione consuma il 30% dell'energia producendo il 25% dei gas serra che compromettono il clima di tutta la Terra non è un mondo solidale. Un mondo dove i ricchi vivono impauriti e i poveri sono disperati non ha futuro. Un mondo di questo genere non è difendibile e non è accettabile da un punto di vista etico. Dovremmo chiederci se è lecito renderci complici di comportamenti che portano ad aumentare le disuguaglianze, sia fra le nazioni che all'interno di ciascuna nazione. E, soprattutto, dovremmo chiederci se è lecito fare la guerra, perché non è con la guerra che si possono risolvere i problemi del nostro mondo. Come dice una bella poesia di Wim Wcnders: "Ogni guerra finisce per mangiarsi le sue ragioni quand'anche fossero le migliori”. E continuo a pensare che combattere il male con altro male non può, alla fine, essere un bene." Bisogna uscire dalla spirale della violenza e della vendetta, dall'idea di impersonare il Bene, di essere gli inviati della giustizia divina per combattere e vincere il Male. 8.5 Eliminare le disuguaglianze A monte di tutto e, quindi, anche di ogni scelta in campo energetico, si deve porre la situazione moralmente intollerabile delle troppo diverse "classi" in cui viaggiano gli abitanti di questa astronave chiamata Terra. La grande disuguaglianza fra le condizioni di vita delle popolazioni ricche del Nord e quelle povere del Sud del mondo e l'incapacità del modello di sviluppo capitalistico, attualmente in atto, di ridurre queste differenze costituiscono le principali ragioni di destabilizzazione del nostro mondo, che sono guerra e terrorismo ancor prima delle crisi energetica ed ambientale. La paura di perdere i propri privilegi 3 (cioè di dover abbassare il proprio livello di vita per permettere ad altri di innalzare il loro) sta spingendo gli Stati Uniti e altri Paesi occidentali, compresa l'Italia, ad una guerra ammantata da "buone ragioni" (lotta contro il terrorismo, guerra contro il Male), ma essenzialmente motivata da una ragione "inconfessabile": prendere il controllo militare del mondo e, in particolare, delle regioni ricche di risorse, per attuare la cosiddetta "politica dei 2/3": Poiché non si possono portare tutte le persone del mondo ad un alto livello di vita, si garantisce solo quel "terzo" che è rappresentato dalla propria parte: "Se tutto il mondo non si può sviluppare, che cresca e si arricchisca almeno una parte: gli appagati e gli esclusi. Se non c'è cibo sufficiente per quelli che vivono nella povertà, almeno che siano abbondanti le mense degli altri: i sazi e gli affamati. Se il lavoro umano deve essere distrutto, perché è il fattore più caro fra i costi di produzione, lo si conservi solo per coloro che non possono essere sostituiti dalle macchine: i necessari e gli esuberi. Se tutta la Terra non si può salvare perché i mari si innalzeranno, si cinga di mura e si riempia di armi quella parte che non deve naufragare: i sommersi e i salvati.". C'è quindi una drammatica rottura dell'unità del mondo, della famiglia umana: gli eletti ed i respinti. C'è una antropologia della divisione, della esclusione, della diversità di destino. L'umanità non è più una: uomini e no" (La Valle 2002, 2003). Molti autori notano che la crisi che stiamo vivendo non è iniziata 1' 11 settembre 2001: l'attentato di quel giorno l'ha soltanto portata agli occhi di tutti. Massimo Fini si spinge a dire: 'Se gli americani non fossero stati vittime dell'agghiacciante attacco dell'11 settembre, avrebbero dovuto inventarselo. Perché permette loro, in virtù della guerra al terrorismo globale, di teorizzare apertamente ciò che non era nemmeno pensabile: la guerra preventiva all'Iraq, all'Iran,... per estirpare il Male" (Fini 2002), in realtà, per estendere il dominio militare su tutto il mondo al fine controllare le risorse naturali e conservare la propria (e nostra) condizione di privilegio. Bisogna meditare sulle situazioni di disuguaglianza, bisogna farle conoscere; bisogna avere il coraggio di uscire dal coro di chi considera "civile" e "progredito" il nostro mondo occidentale (Morrone 2002a). iBisogna fare obiezione di coscienza contro tutto quello che divide, che f discrimina, che rompe l'unità della società umana. Come ha sottolinea-fto Tiziano Terzani, "Dobbiamo onestamente renderci conto che noi ; non abbiamo il monopolio della civiltà, della cultura e della saggezza" (Morrone 2002b). Lo squilibrio di potere, di forza militare, di opportunità, di benessere, di consumi e di risorse a livello internazionale è tale da rappresentare di per sé una violenza. Attorno a questo "ordine" c'è una stretta solidarietà fra i Paesi più progrediti, che vogliono assicurare continuità al loro sviluppo e mantenere l'egemonia sul resto del mondo. Secondo questi Paesi la "pace" è il mantenimento di questo ordine mondiale, cioè dei loro privilegi. Chi si rifiuta di sottostare ad esso è semplicemente dichiarato nemico della pace. E l'unica superpotenza si arroga anche il diritto di fare guerre dove e quando vuole (guerre preventive) per il fatto che, dopo 1' 11 settembre, si considera vittima. Qualcuno potrebbe obiettare che la nostra civiltà è pur sempre fondata sulla cultura dei diritti e dei doveri, uguali per ogni uomo che vive «ulla Terra, e quindi sulla giustizia e non sulla prepotenza del più forte. I )i fatto, però, il connotato fondamentale dell'attuale ordine mondiale è Iti disuguaglianza. In un mondo regolato da diritti e doveri, in effetti, si vengono fatalmente a costituire delle gerarchle e chi è povero finisce, in realtà, per essere senza diritti e quindi per soccombere. Se in un mondo dove regna la disuguaglianza i diritti e i doveri sono uguali per tutti, non c'è giustizia. Non c'è, infatti, maggiore ingiustizia che fare parti uguali fra disuguali (Gorrieri 2001; Milani 1996). Anche perché nella vita ci sono molti misteri, incominciando da quello del Male che è più forte dell'uomo e che colpisce gli uomini e le nazioni in modo disuguale. In un mondo basato solo sui diritti e doveri, quindi, finiscono per regnare disuguaglianza ed ingiustizia: in esso non può sorgere la vera pace, ma si potrà avere solo la pace imposta dal più forte. Come uscire da questa situazione? Con un'etica basata sulla relazione e sulla solidarietà, fra i popoli e fra le persone, perché gli uomini sono tutti figli di Dio e quindi fratelli tra di loro. Ogni popolo e ogni persona è portatore di valori con i quali può arricchire l'altro. Solo l'approfondimento paziente e perseverante delle relazioni, la condivisione delle risorse intellettuali ed economiche, il rispetto per il prossimo e l'assunzione di responsabilità verso le future generazioni potranno rendere l'umanità meno inquieta, più consapevole del suo ruolo nella creazione e più capace di progettare il proprio futuro.