La Giornata sollievo del Alla manifestazione, svoltasi all’Istituto dei Tumori Pascale, per iniziativa dell’Ospedale Cardarelli presenti, tra gli altri, S. E. mons. Vincenzo Pelvi, l’assessore alla Sanità della Regione Campania Rosalba Tufano, l’assessore del Comune di Napoli Casimiro Monti e i Direttori Generali e Direttori Sanitari delle Aziende Ospedaliere Sanitarie della Regione Campania L’Organizzazione Mondiale della Sanità considera «il confronto del dolore, la riduzione della sofferenza e la disponibilità delle cure palliative» una delle sei grandi priorità in campo sanitario. Nel Piano sanitario nazionale 1998/2000 è affrontato il problema dell’assistenza alle persone nella fase terminale della vita ed è sottolineata l’esigenza di un potenziamento degli interventi di cure palliative e delle strutture residenziali dedicate. Non è solo la cura, non è solo la medicina che può alleviare la sofferenza, ma è tutto un insieme di fattori che più generalmente possono essere definiti di umanizzazione della medicina, cioè la capacità di rapportarsi umanamente a chi soffre dando un ambiente più dignitoso, meno traumatico, un sostegno psicologico, un sorriso quando ce n’è bisogno. Il Presidente del Consiglio dei Ministri in armonia con le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità e del Piano sanitario nazionale 1998/2000 ha emanato il 24 maggio 2001 una direttiva in cui si ritiene indispensabile la realizzazione di un patto di solidarietà «che impegni non solo le istituzioni ma anche una pluralità di soggetti come i cittadini, il volontariato, gli organi ed i mezzi di comunicazione». Con la stessa direttiva è stata istituita la “Giornata del sollievo” in cui, ogni anno, l’ultima domenica di maggio le Amministrazioni Pubbliche, anche in coordinamento con gli organismi di volontariato e di tutela, si impegnano a promuovere ed a testimoniare, attraverso idonea informazione e tramite iniziative di sensibilizzazione e solidarietà, la cultura del sollievo della sofferenza fisica e morale. Domenica 26 maggio si è tenuta la prima manifestazione della “Giornata nazionale del sollievo” anche a Napoli, presso l’Istituto dei Tumori Pascale, promossa da Enrico Iovino, direttore generale dell’Azienda ospedaliera A. Cardarelli, e Vincenzo Montrone, primario Terapia del dolore e cure palliative dell’ospedale Cardarelli. Tra i presenti il Vescovo Ausiliare S. E. mons. Vincenzo Pelvi, l’assessore alla Sanità della Regione Campania Rosalba Tufano, l’assessore del Comune di Napoli Casimiro Monti e i Direttori Generali e Direttori Sanitari delle Aziende Ospedaliere Sanitarie della Regione Campania. L’intervento del Vescovo Sono lieto di poter partecipare a questo vostro Convegno. Porto il saluto del Cardinale Michele Giordano e il suo compiacimento per l’attenzione che viene riservata alle sfide dell’odierno evolversi della scienza e della ricerca. Rivolgo un cordiale ringraziamento agli organizzatori, ai relatori e a tutti i partecipanti all’incontro che affronta una tematica altamente complessa e delicata: l’attenzione ai malati terminali Ci si potrebbe chiedere a quale titolo un Vescovo intervenga a riguardo? Come ogni forma di sapere pratico, anche la medicina moderna implica una visione del mondo, una visione complessiva della vita umana e del suo destino, del suo senso e del suo valore: essa rimanda, inevitabilmente, ad una concezione dell’uomo e a scelte conseguenti. La mia breve considerazione, perciò, si colloca all’interno di una prospettiva esclusivamente etica. È necessario non solo “curare” ma entrare nell’ottica più distesa ed ampia del “prendersi cura” della persona. Interrogandosi sullo stesso concetto di salute, occorre non tralasciare un’antropologia rispettosa della persona nella sua integralità. Senza per nulla tacere la grande dignità e i passi meravigliosi della medicina, occorre imparare ad accettare una realtà che tutti cerchiamo di dimenticare; cioè, che siamo limitati e finiti, soggetti all’invecchiamento, al declino e alla morte, e che alla medicina non possiamo chiedere tutto. Alleviare il dolore È certamente legittimo il diritto non solo di vivere ma anche di “morire con dignità” e senza subire gravi e inutili sofferenze, ma nessuno ha il diritto di uccidere o di uccidersi perché nessuno, al di fuori di Dio, è padrone della vita umana. Non è dunque, né mai sarà lecito a nessuno, porre fine alla vita di un essere umano innocente, qualunque sia la sua età o il male di cui soffre. «Se da una parte la vita è un dono di Dio, dall’altro la morte è ineluttabile; è necessario quindi che sappiamo accettarla con piena coscienza della nostra responsabilità e con tutta dignità. E’ vero, infatti, che la morte pone fine alla nostra esistenza terrena, ma nello stesso tempo apre la vita immortale. Perciò, tutti gli uomini devono prepararsi a questo evento alla luce dei valori umani, e i cristiani ancor più alla luce della loro fede» (Cf. Congregazione per la Dottrina della fede, Dichiarazione sull’eutanasia, 5 maggio 1980). Al diritto di ogni uomo di morire con dignità corrisponde, poi, il dovere dei medici, dei familiari e della società di alleviare le sofferenze dell’ammalato, così che egli possa superare in modo umano la fase terminale della vita. Certo il dolore acuto può indebolire il coraggio di una persona ed essere in qualche modo di ostacolo ad una assistenza appropriata negli stadi terminali. La Chiesa, perciò, insegna che i medici devono assicurare un elevato livello qualitativo di terapia per alleviare il dolore, partendo dal presupposto che i pazienti che non sono in grado di dare il proprio consenso richiederebbero tale terapia. Questa, che ha lo scopo di dare sollievo alle sofferenze provocate dalla malattia ed integrare i bisogni fisici, psicologici e spirituali del paziente, dovrebbe essere un elemento ovvio nella terapia medica, garantita a tutti coloro che ne hanno bisogno, iniziata al momento opportuno e proseguita fino a che il paziente cessa di vivere. Direi che nessun paziente che soffre di una malattia incurabile deve essere considerato non più trattabile da un punto di vista medico. E anche quando un paziente è entrato irreversibilmente nel processo che lo condurrà alla morte e non c’è alcuna possibilità di salvargli la vita, il medico resta comunque difensore e custode della vita. Ciò vale anche per quanti sono vicini al paziente. L’impiego delle cure palliative, allora, deve essere potenziato, così che gli operatori medico-sanitari diventino più qualificati in questo campo e, quindi, siano di effettivo beneficio al paziente. Purtroppo, non tutti i pazienti che hanno bisogno di un trattamento per alleviare un dolore lo ricevono e purtroppo non sempre tale trattamento viene somministrato in maniera appropriata. In confronto ad altri campi medici che godono di maggior prestigio, come ad esempio la genetica o la chirurgia, le terapie palliative vengono forse alquanto trascurate. Politici, operatori medico-sanitari, familiari hanno un compito insostituibile per assicurare che, in modi diversi, anche gli stadi terminali della vita diventino un periodo significativo nella vita di ogni persona. Potremmo pensare agli stadi terminali come ad un tempo ricco di inaspettate possibilità, un tempo significativo per l’ammalato e per coloro che gli stanno accanto. L’assistenza «non consiste solo nelle cure mediche ma soprattutto nel fare attenzione agli aspetti umani della stessa assistenza al fine di creare intorno al malato un’atmosfera di fiducia e di calore in cui egli senta il riconoscimento e l’alta considerazione per la sua vita. Fa parte di questa assistenza il non abbandonare l’ammalato al suo travaglio spirituale. Proprio nel momento della morte diventa più urgente il bisogno di trovare una risposta al problema dell’origine e del fine della vita» (Episcopato tedesco, Lettera pastorale sull’eutanasia, dicembre 1974). Accanimento terapeutico e cure palliative Un altro aspetto sul quale vorrei soffermare la nostra attenzione è l’accanimento terapeutico, cioè l’ostinazione dannosa per il paziente che viene inutilmente sottoposto a gravi sofferenze non allo scopo di migliore la sua situazione o di alleviare le sue sofferenze, ma solo per prolungare di qualche tempo una vita già irrimediabilmente e irreversibilmente vicino alla morte. In realtà, alla base dell’accanimento terapeutico c’è la non accettazione dell’evento naturale della morte, per cui ci si accanisce a prolungare la vita, destinata a concludersi in breve tempo, a prezzo di gravi sofferenze imposte al malato, che dovrebbe invece essere lasciato morire in pace. Perciò, invece che con forme di accanimento terapeutico, il malato terminale va seguito con cure palliative. «Queste - secondo la definizione data dal Comitato Nazionale per la Bioetica nella relazione al Presidente del Consiglio (14 luglio 1995) trovano la loro sostanza non nella pretesa illusoria di poter strappare un paziente alla morte, ma nella ferma intenzione di non lasciarlo solo, di aiutarlo quindi a vivere questa sua ultima radicale esperienza nel modo più umano possibile, sia dal punto di vista fisico sia da un punto di vista spirituale. Volte primariamente ad alleviare il dolore in generale, e in particolare quello dei malati terminali, le cure palliative hanno allargato e continuano ad allargare il loro orizzonte e il loro ambito di azione e si presentano nel nostro tempo come uno dei campi in cui la moderna medicina manifesta la sua vocazione profonda di cura, in senso globale, quindi non solo fisico, ma anche psicologico ed esistenziale, dei sofferenti». Senza volere entrare nel tema dell’eutanasia, non possiamo negare che spesso viene chiesta perché i malati terminali hanno paura di essere lasciati soli e di non essere alleviati nella sofferenza nel momento più tragico della loro vita. Bisogna andare oltre le condizione e le possibilità fisiche e soffermarsi anche e soprattutto sugli aspetti emozionali, psichici e sociali della persona. In realtà la propria morte è, in quanto conclusione di una vita umana concreta, una dimensione spirituale personale che esige una profonda sensibilità verso il dinamismo della persona dall’interno. Si deve allora prevedere l’arte dell’accompagnamento, come il servizio e il dono più importante e rilevante che medici, volontari e familiari possono rendere ad una persona negli ultimi giorni di vita. In questo senso sembra orientare il Corso di perfezionamento avviato alla Facoltà di Scienza della comunicazione dell’Istituto Suor Orsola Benincasa, tendente ad umanizzare la medicina passando anche attraverso una corretta comunicazione medico-paziente. La sofferenza più grande, infatti, è l’isolamento in cui si è collocati, il ripiegamento dell’io sul corpo dolorante, estraniato che deve solo patire, la crudele distanza cui la società confina l’ammalato tanto da fargli credere che deve mettersi da parte e che il suo dovere è farla finita. Una denuncia di un ammalato terminale, qualche mese fa: «Per l’incuria e il silenzio in cui mi avete confinato, chiedo di venir sottratto ai patimenti che da solo non riesco a sopportare». Proposta Sembra utile in definitiva chiedere ai competenti in campo politico e sanitario sviluppare ulteriormente le terapie palliative. Il malato terminale e il morente (specie il più debole della società), ha bisogno di aiuto e sostegno maggiore negli ultimi stadi della vita. Si pensi perciò, ad unire le forze per costituire centri, equipe e forme di accompagnamento e personale, che preparato sulle cure palliative, siano consapevoli delle necessità mediche e spirituali del morente. La morte è un evento naturale, che quando si determina va accettata da tutti e che per i credenti, è via a una nuova vita con Dio. Ma finché viviamo, è la vita stessa, dono di Dio che siamo chiamati a servire, specie tra gli ammalati gravi, rifiutando la cultura della morte. + Vincenzo Pelvi Vescovo ausiliare