Trasmissione della fede e progetto culturale

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LA TRASMISSIONE DELLA FEDE
NELLE SFIDE DEI MUTAMENTI CULTURALI
di
don Gianni Colzani
Al centro di queste considerazioni non porrò una teologia della traditio fidei ma,
piuttosto, l’operatività religiosa e sociale delle istituzioni ecclesiastiche; mi sembra questo
il nodo su cui mi è chiesto di fermare l’attenzione anche se, ovviamente, nessuno può
dimenticare l’importanza della testimonianza della vita e dei rapporti interpersonali in
ordine alla trasmissione della fede. Frutto delle condizioni storiche che le hanno generate,
queste istituzioni – diocesi, parrocchie, associazioni, movimenti, gruppi – operano
attraverso canali e strumenti che trasmettono un complesso di dottrine, di orientamenti
religiosi e sociali, di pratiche devozionali, di comportamenti collettivi e individuali nei
quali la chiesa si riconosce e dei quali si sente depositaria. Questo complesso di attività
intende presentare e comunicare il vangelo di Gesù come senso ultimo della vita e della
storia e non un sistema di credenze; da questo impegno scaturisce però anche una certa
legittimazione della fede in ordine alla comprensione ed alla prassi della vita individuale e
comunitaria. In ultima analisi, questo riferimento al vangelo di Dio comporta
l’indisponibilità di una vita, irriducibile all’orizzonte individuale: in forza di questo
rimando oltre se stessa, essa è obiettivamente segnata da una ulteriorità di senso.
Sacramenti e devozioni sono stati a lungo gli strumenti fondamentali di questa
attività di trasmissione mentre il clero, come ministro del culto, ne era il soggetto
autorevole se non addirittura l’unico. Lo stesso ministero della parola, riservato al clero,
era per lo più collocato nella linea dei sacramenti o per prepararli o per ben celebrarli. Il
rito sacro stava così al centro della vita di fede della comunità e le conferiva la sua identità:
si trattava di una centralità mediata dal presbitero, più che partecipata dal popolo di Dio.
La vita presbiterale, quindi, si riassumeva in questa capacità di annunciare il vangelo e
celebrare i sacramenti; la figura umana del presbitero non riceveva grande attenzione, se
non il richiamo ad essere degno del ministero che Dio gli affidava. Questo ruolo del sacro
giustificava la dimensione specifica che la chiesa rivestiva nell’universo culturale della
società: attraverso una attività, che metteva in gioco il volere di Dio, garantiva una
determinata struttura ed una precisa prassi sociale.
Rilevante nella cultura tradizionale, il sacro lo è molto meno oggi dato che, ad esso,
sono connessi criteri di staticità e di istituzionalità gerarchica, oggi scarsamente sentiti;
sotto la spinta della modernità, il sacro ha perso rilievo anche se, probabilmente, dobbiamo
parlare di una transignificazione delle sue espressioni. Il risultato di queste trasformazioni,
nelle quali avrà un ruolo importante il crollo delle ideologie ed il superamento dei
nazionalismi, sarà una fede inserita in un contesto consumista ed edonista, individualista e
1
pluralista, sarà una fede non più normativa e totalizzante. La sfida della soggettivizzazione
della fede chiede una sua diversa collocazione nella storia umana, una sua diversa
responsabilità verso la storia stessa; la stessa esigenza di una nuova solidarietà e di una
maggiore partecipazione trovano, nella globalizzazione, una realizzazione solo parziale ed
equivoca. Il risultato più pesante di queste trasformazioni è il progressivo impoverirsi della
capacità pedagogica della chiesa: la distanza tra le indicazioni del magistero e la vita dei
cristiani dice la fatica di presentare la chiesa come madre e maestra.
Su questo sfondo va segnalato il cambiamento che, al seguito del concilio, è
intervenuta nel modo di vivere della chiesa; questo cambiamento di paradigma non fa
perno sulla centralità del culto ma sulla decisività della missione e spinge a sviluppare la
relazione con Cristo nel senso di un servizio al vangelo aperto a tutti, non-credenti in prima
fila, nel senso di una immersione nella vita quotidiana, un uscire dal tempio che diventa
accoglienza e scelta degli ultimi, i poveri in particolare. Questa conversione alla missione
chiede di passare dalla gestione dei bisogni religiosi alla attenzione alle domande che le
persone portano con sé, dai credenti ai lontani, dalla ricerca di conferme
all’accompagnamento di persone in ricerca. Almeno implicitamente, questo passaggio
riconosce l’esistenza di un blocco della evangelizzazione e la presenza di una trasmissione
protetta, situata all’interno del mondo ecclesiale che troppo spesso, invece di interrogarsi
su quanto o come trasmetta la fede a questa società, si accontenta di incolparla del suo
fallimento.
Questo cambio di paradigma ha prodotto una varietà di scelte e di comportamenti in
cui le indicazioni dell’episcopato sono affiancate al coraggio ed alla intraprendenza di tanti
operatori pastorali: in questo senso la continuità della tradizione cultuale ed il primato della
evangelizzazione, la preparazione dei ragazzi e l’attenzione ai lontani, il tradizionale
impegno educativo e sanitario e la sensibilità per areopaghi inesplorati sono affiancati tra
loro senza lasciare l’impressione di un disegno organico. Più a fondo ancora, è doveroso
constatare che la trama di legami tra le comunità cristiane e la gente, una volta solida, è
oggi molto meno viva; nelle nostre comunità trovano grande rappresentanza il mondo
contadino, quello cittadino e quello mediamente benestante, non quello industriale e
metropolitano, non quello più segnato dalle trasformazioni in atto. Su questo sfondo
problematico, vorrei ricordare alcune linee di approfondimento seguendo lo strumento di
lavoro.
1. LA
TRASMISSIONE
DISCONTINUITÀ
CULTURALE
OGGI:
CONTINUITÀ
E
Nel nostro mondo, la trasmissione culturale appare segnata da fenomeni
contraddittori come l’incapacità di comunicare e, al contrario, la sua esasperazione, la
chiusura diffidente su di sé e la ricerca continua di contatti e di incontri. In tutto questo ha
avuto ed ha grande incidenza la progressiva tecnicizzazione della comunicazione: l’odierna
ampia rete di comunicazioni sostenute dalla tecnologia, in quanto misurata dall’audience e
2
dal successo, sfugge alla problematica del senso. Per questo funziona molto bene come
trasmissione di conoscenze, meno bene come trasmissione di valori e di esperienze; in una
società sazia, in cui i bisogni primari sono soddisfatti, la comunicazione investe
necessariamente i legami interumani ma li imposta e li risolve in modo molto lontano dalle
ragioni della verità e della vita. D’altra parte rimane vero che chi informa esercita un
grande potere ma, in questa società, lo esercita senza particolare attenzione per l’utente a
cui è chiesta la sola recettività. Ne viene una comunicazione unidirezionale ed acritica che,
se priva di educazione, si presta facilmente ad obiettivi di profitto o di manipolazione
ideologica. Riconsiderare la comunicazione, quindi, è ripensare l’intersoggettività umana,
le sue mete e le sue tensioni; è ovvio che un simile panorama, oggi dominante, finisca per
affermare un consumismo globale, un pluralismo illimitato ed una libertà esasperata
mettendo in crisi la dimensione pratica della verità cristiana.
Occorre poi prendere coscienza del fatto che ogni comunicazione ha degli
insopprimibili limiti esistenziali, nel senso che la comunicazione cozza contro l’originalità
di ciascuno e la sproporzione che sempre si ripropone tra ciò che siamo e ciò che
comunichiamo. Poiché l’io rimane sempre al di là dei gesti e delle parole che lo esprimono,
la comunicazione non potrà mai essere totale: vi sarà sempre un residuo di
incomunicabilità. Questa sproporzione richiama a fondo un dato noto ma non sempre
considerato, cioè che ogni comunicazione riposa innanzitutto sulla accettazione della
alterità, cioè della diversità e della libertà dell’altro: l’altro non è il riflesso della mia
soggettività ma il diverso con cui devo entrare in rapporto. Non è possibile rinfacciare
continuamente all’altro la sua diversità come se fosse una colpa. L’accoglienza dell’altro e
non la pretesa di dominarlo, l’attenzione a capirlo e non l’atteggiamento di chi lo giudica
sono la base di ogni vera comunicazione. Questi limiti portano a concludere che la
comunicazione della fede, legata alla cultura, non può e non deve fermarsi ad essa: la
testimonianza della vita, il dono di sé e il sacrificio, la gratuità e il dialogo hanno una forza
simbolica del tutto unica: come diceva il card. Suhard, “il testimone non è colui che fa
colpo ma colui che rende presente un mistero”.
Su questo sfondo dove l’altro è sempre limite e promessa, la comunicazione appare
una forma singolare di ricerca sulla vita e sulla persona: implica un ripensare il rapporto tra
il proprio mondo vitale e ciò che si affida all’altro, in un dialogo mai facile con la sua
diversità. Se poi richiamiamo qui la scissione tra spirito e materia, tra ragione e affetti che
accompagna l’uomo moderno, diventa facile concludere che la trasmissione culturale non è
mai un fatto pacifico: fa della socialità un processo di continuo cambiamento, oggi
particolarmente accelerato. Questo implica la necessità di ripensare forme nuove, non
autoritarie ma dialogiche, di comunicazione della fede: la sottolineatura delle tonalità
emotive ed il relativo disinteresse per i contenuti spinge, soprattutto oggi, a ripensare
forme capaci di rendere ragione della fede come forza di vita, come ragione di speranza e
di gioia, come singolare pienezza, come radice di solidarietà e di impegno. In una parola
come apportatrice di senso e di significati.
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2. LA GRAMMATICA DELLA TRASMISSIONE DIVINA
La fede costruisce la sua intelligenza della vita a partire da Dio, a partire dal suo
dialogo di rivelazione con l’umanità e la sua storia; per questo appartiene alla fede una
comprensione originaria ed originale del comunicare. Lo comprende in ordine al dono che
Dio ci fa della sua vita, in ordine a quel vangelo che ci libera dal peccato e ci eleva alla
comunione con Lui. Legato alla fede, questo vangelo non dipende da me ma è vero anche
per me: anche a me traccia il passaggio dall’uomo vecchio all’uomo nuovo. Questa
comunicazione di Dio all’uomo è talmente singolare che J. Caillot ha potuto parlare di un
“évangile de la communication”1 e che A. Delzant l’ha interpretata, al di là dell’utile e
dell’inutile, come simbolo del mutuo riconoscimento,2 un riconoscimento costruito attorno
all’eccesso della gratuità e dello scambio personale più che attorno alla comunicazione di
un sapere.
La comunicazione di Dio all’uomo, così come si dà in Gesù, appare perciò
segnata da alcune originali caratteristiche. La prima riguarda il fatto che la comunicazione
di Dio è contrassegnata da “autorità”: lo studio della parola creatrice e della parola
sacramentale ha messo in luce l’efficacia della “Parola”: non solo rappresenta la realtà ma
anche la modifica. La Parola è già operativa, almeno a livello virtuale. Lo studio di J.L.
Austin su “come fare cose con le parole”3 è alla base di una ricomprensione della dabar:
esperienza di Dio, la Parola divina fatta carne in Gesù risale dal livello storico a quello
metastorico e ci fa dono della sua comunione con il Padre. La autorità che agisce in lui
risale, in ultima analisi, al mistero della sua Persona divina; per questo il suo vangelo è
dono e non scambio, è buona notizia che apre le attese umane oltre se stesse, è gioia per
qualcosa che supera le nostre capacità. Questo legame di autorità e gioia è importante: il
principio di autorità che percorre la fede, dalla rivelazione a Gesù, dal dogma al magistero,
non è radice di oppressione ma di pienezza. Germe e caparra di quanto verrà, la fede ha
nella gioia e nella festa, prima che nella sua efficacia, il segno di quel “di più” che Dio
introduce nella storia.
La seconda caratteristica è la responsabilità. Poiché Gesù, uomo e Dio, è al tempo
stesso il fondamento del senso e della libertà e la sua mediazione storico-sociale, allora è
questa stessa comunicazione divina a trasmettere la fede. Lo Spirito di Gesù,
personificazione dell’agape del Padre e della obbediente libertà del Figlio, diventa la
possibilità di accedere a questo divino aprirsi agli uomini ed a questa cristologica libertà.
Sospingendo le persone verso il loro essere-in-Cristo, lo Spirito di Gesù muove le persone
verso la ricerca e la scoperta del senso ultimo della loro vita; comunicandosi, Dio conduce
le persone a scoprire il senso ultimo della loro vita ed a farsene carico. La gioia del vangelo
appare così una gioia esigente che non esonera dal prendere in mano la propria vita:
proprio perché vuole una risposta, la comunicazione divina ci restituisce alla responsabilità
J. CAILLOT, L’évangile de la communication, Cerf, Paris 1985.
A. DELZANT, La communication de Dieu. Par delà utile et inutile. Essai théologique sur l’ordre
symbolique, Cerf, Paris 1981.
3
J.L. AUSTIN, How to do things with Words, Oxford University Press, London 1962 (tr. it. Come fare cose
con le Parole, Marietti, Genova 1974).
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della nostra libertà. Stando al vangelo, questa risposta non può che essere totale e radicale:
il voltarsi indietro, il cercare scuse separa dai doni di Dio. Per altro, la certezza che la
fedeltà incrollabile di Dio precede i nostri dubbi e le nostre fatiche spiega come solo il
“rimanete in me” rende possibile la nostra fedeltà.
Infine la comunicazione del vangelo genera pure comunione. In quanto singolare
realizzazione della natura dialogica della persona, la comunicazione divina si pone nella
storia così da aprire all’eschaton il mondo in cui vivono gli uomini. Non appartiene alla
fede il disinteresse per questo mondo; per lo Spirito di Gesù, è la proclamazione del
vangelo del regno, del vangelo della sua morte e resurrezione a rappresentare la forma
della venuta di Dio nella storia. Proprio la forza efficace della Parola divina fa della carità
il segno della fede: senza condivisione dell’agire divino creativo di vita e di libertà non vi è
fede. Se mai si dovrà ricordare sempre il carattere drammatico dell’instaurazione di questa
comunione: sorta attorno alla croce, essa chiede di discernere e di prendere posizione tra
vita e morte, verità e menzogna, unità e divisione, pace e violenza intesi come criteri che,
nella loro storica mediazione, permettono di riconoscere l’opera di Dio. Solo allora il
Cristo apparirà quello che è, cioè il primogenito tra molti fratelli.
Questa prospettiva sta alla base della comunicazione che la Chiesa è chiamata ad
instaurare con la società; fondata sulla kénosis, non esprime un monopolismo
ecclesiologico ma una sincera volontà di condivisione e di servizio per le persone. Su
questo sfondo si può capire sia il carattere simbolico di una vita cristiana che si costruisce a
partire da Gesù, comunicazione di Dio, sia il valore dell’impegno teologico chiamato ad
impersonare il sapere della fede. Posta in questo modo, la traditio fidei chiede di aprire il
vivere ed il pensare all’alleanza: i criteri, i soggetti della trasmissione e le stesse forme
aggregative che ne scaturiscono dovranno trovarvi il loro punto di riferimento.
3. LE POSSIBILITÀ PER L’OGGI
La riflessione sulla odierna comunicazione della fede in Italia deve prendere atto,
oltre che di quanto detto, anche delle forme concrete che essa ha storicamente assunto.
Proprio questa attenzione alla storia impone, da subito, una prima osservazione.
Non si può fare a meno di notare che la cultura italiana, sia laica che religiosa, è
stata per molto tempo una cultura marginale ed, in larga misura, di importazione. In
particolare poi dove il motore del cambiamento è indicato nella scienza e nelle possibilità
aperte dalla informatica, non si può fare a meno di riconoscere una certa perifericità
dell'Italia e della stessa Europa rispetto all'America del Nord. Scaturisce da qui una prima
difficoltà: è difficile pretendere di influenzare cambiamenti che non siamo noi a produrre, é
difficile guidare un cambiamento se non siamo padroni delle sue direzioni. Si tratta allora
di sapere quale è il compito storico di questa Italia e del suo impegno culturale e di fede. Si
tratta di sapere se questo ruolo è quello di una piena integrazione in una Europa
anglosassone, nord-occidentale e atlantica, o se può essere anche quello di uno stimolo per
il mondo mediterraneo, ponendosi come luogo di incontro tra culture, religioni e popoli
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diversi. Si tratta di sapere se deve cercare una totale integrazione in una civiltà scientifica,
nella quale avrà presumibilmente un ruolo secondario, o se ha la forza di ritagliarsi un suo
spazio di ricerca su alcuni precisi temi, un suo originale cammino di integrazione tra forme
diverse di saperi. Insomma si tratta di sapere se, pur in un quadro europeo ed occidentale,
si possa ipotizzare una tipicità di questo paese o se il cammino che abbiamo intrapreso è
ormai, ineluttabilmente avviato verso la liquidazione del suo passato. Il nostro futuro, i
nostri progetti culturali dipenderanno dalle risposte a questi interrogativi. Non é certo
possibile sfuggire alle sfide della modernità e della globalizzazione ma é possibile far
tesoro del nostro patrimonio cercando, a partire anche da lì, di cogliere la posizione della
chiesa per il futuro.
Mi pare inoltre importante riconoscere che questa cultura, insieme ad aspetti
positivi, appare pesantemente segnata dall’individualismo e dal consumismo; largamente
mediata dai mezzi di comunicazione sociale, questa cultura censura gli aspetti decisivi
della vita, si sposa ad una interpretazione della società disattenta nei confronti della verità e
lascia aperto così uno scenario di insicurezza e di confusione. Più ancora questa
comunicazione agisce in modo indipendente, e non raramente in contrasto, con quella
forma primaria che si dà nella famiglia; per questa via separa privato e pubblico, vita
individuale e vita sociale e giunge ad abbandonare alla coscienza del singolo le questioni
più pesanti del vivere: il nascere ed il morire, il senso e la libertà, l'amore e il lavoro. Su
questo sfondo non si possono prendere troppo sul serio i problemi imposti dai complessi
equilibri politico-culturali; senza trascurare il livello sociale, occorre piuttosto prestare
attenzione soprattutto a quegli aspetti che riguardano la persona. La pastorale non può
disperdersi nell'inseguire una problematica che, nella sua sostanza, le rimane estranea;
deve invece ritrovare la capacità di interpellare a fondo le persone e restituire al vangelo la
forza di parlare e mobilitare le energie verso quelle mete che solo la fede ed un attento
discernimento della storia sanno indicare. Mi sembra questo, in sostanza, il cammino
intrapreso nei primi secoli cristiani, i secoli di una sorprendente diffusione della fede.
Condizionata dalla scienza e dalla tecnica, la persona mantiene ugualmente la sua
capacità di trascendere il mondo delle cose ed è in questo cammino simbolico, ben diverso
dal virtuale, che la persona va accompagnata. Ovviamente questa attenzione all'umano non
va declinata in modo semplicistico, come se nulla fosse cambiato attorno a noi. Poiché ciò
che si é perso é il riferimento al senso, per recuperarlo non basta il semplice rinvio alla
prassi o la riaffermazione di una passata identità religiosa: occorre accettare un confronto
critico e aperto con questo tempo. La scomparsa di un patrimonio condiviso di convinzioni
e di comportamenti, a partire dai quali il cristianesimo si era sviluppato, chiama in gioco il
coraggio di accettare il fondamento della società d’oggi, quello della libertà. Al riguardo il
nostro tempo offre una teoria della libertà come autorealizzazione e spontaneismo ed una
prassi che la sperimenta in modo radicale ed illimitato; poiché una concezione della libertà
come semplice autorealizzazione é una concezione legata ai presupposti della modernità e
chiusa alla trascendenza, il compito dei cristiani sarà invece quello di illuminare e di
praticare una concezione della libertà come affidamento all'Altro, in stretto rapporto con la
fede. Una concezione della libertà come affidamento é l'unica possibilità di fare dei limiti
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della libertà - inevitabili - non una condizione di fallimento ma una possibilità di fiducia e
di pienezza. Raccolta attorno all'agape divino, questa libertà vi trova il fondamento di una
sua singolare energia, di una sua capacità di discernimento e di scelta, cioè di una sua
singolare responsabilità.
Se poi cerchiamo di entrare più concretamente nella questione della comunicazione
della fede, il punto di partenza non può che essere la viva presenza di Cristo, la viva
presenza di colui che ha saldato una volta per tutte il mistero di Dio e la cultura dell'uomo:
attraverso la Parola e il sacramento, Cristo si pone all'interno del mondo come colui che
raggiunge e coinvolge il credente nella sua missione. Ogni comunicazione non potrà che
cominciare con il raccogliersi attorno alle sue sorgenti: nasce da Dio, come dono, non da
noi. Una comunicazione comincia sempre da una previa accoglienza del mistero di Dio e
solo su questa base prende forma: la comunione con quel Dio che es-pone il mistero della
sua vita personale nella nostra storia, la memoria di Gesù rappresentano il fondamento di
ogni autentica comunicazione della fede. Questo bisogno di contemplazione sviluppa la
certezza di essere avvolti dall’amore di Dio; la stessa ricerca di deserto ne é una precisa
mediazione.
Questo raccoglimento contemplativo non scaturisce da una deriva sentimentale ma
da una conquista che conduce il credente là dove recupera le sue energie e ridona unità alla
sua vita. Poiché è vita, questo fondamento contiene in sé la possibilità di interagire con le
dinamiche umane; per questa via di incarnazione la fede, irriducibile a cultura, ne appare
però promotrice. Come ricorda Paolo, il frutto dello Spirito é amore, gioia, pace, pazienza,
benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé: i frutti dello Spirito non vengono da
noi ma accadono in noi. Santificati, siamo colmati di doni che la nostra libertà é chiamata a
sprigionare. Attorno allo Spirito nasce allora una teologia della vita che il Consiglio
mondiale delle chiese sviluppa attorno alla giustizia, alla pace ed alla salvaguardia del
creato, che Giovanni Paolo II raccoglie attorno alla capacità di opporsi ad una cultura di
morte, con particolare attenzione alla vita non nata, ma che si apre a molte altre possibilità
di sviluppo. Se ci interroghiamo sulla obiettiva capacità delle nostre comunità di
comunicare questa fede, dobbiamo dire che questa sarà chiamata a reimpostare una nuova
cultura del corpo e della libertà ed, a livello sociale, una nuova cultura della solidarietà e
della pace. Solo una intelligenza della fede in grado di sostenere queste dinamiche, solo
una nuova spiritualità ed un diverso stile di presenza cristiana nella società potranno
affrontare le sfide dell'oggi.
Al riguardo mi sembra utile, più che parlare dei soggetti, delle strutture e dei
linguaggi di questo impegno, ricordare e riaffermare intuizioni in atto da tempo anche se, a
questo riguardo, si imporrebbe uno sforzo di maggiore concretezza. Vale comunque la
pena di ricordare da una parte il primato della Parola come fondamento di una coscienza
credente, dall'altra l'importanza della fede come garanzia ed educazione della libertà e, da
ultimo, la promozione dei laici come soggetto primario di questo impegno. Per questa via
la celebrazione dei misteri di salvezza si completa in una testimonianza di vita ed in un
impegno per i poveri e per gli ultimi. L'agape, accolto e lasciato agire in noi, é sia liturgia
che diaconia. In questo modo la fede si pone nella storia senza rivendicare privilegi,
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chiedendo solo di essere ciò che é; per questa via la chiesa si svela popolo di Dio in
cammino con questa umanità alla quale offre il servizio della sua fede. Per questa via la
comunicazione della fede esce da una cura del sacro e si avvia verso quella testimonianza
del regno che mira ad avvicinare il mistero di un Dio tutto in tutti.
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