È POSSIBILE UNA BIOETICA IN PSICHIATRIA? di Luisa M. Borgia (in “Pratica clinica e ricerca”, 2003 by MEDISERVE S.r.l. Milano - Firenze - Napoli 2003) Il lettore che si appresti a leggere questo capitolo potrebbe pensare che c’è un intento provocatorio nel titolo. Ebbene, non sbaglierebbe, dal momento che quella domanda non ha un significato retorico, bensì è una vera e propria richiesta carica di dubbi e di problematiche non del tutto risolte, rivolte a coloro che operano in questo settore così specifico e per così tanto tempo tenuto a latere della “medicina ufficiale”. Per tanti, troppi secoli infatti la sofferenza mentale è stata di pertinenza della religione o della magia e ha dato vita a credenze e superstizioni di cui troviamo ancora qualche traccia in alcune comunità. Non ci sono più i roghi a “purificare” la società dagli “indemoniati”, sono stati chiusi i manicomi che proteggevano la collettività dal pericolo dei delinquenti, sono stati proscritti i mezzi terapeutici punitivi e coercitivi precedenti agli psicofarmaci, il matto ha assunto il nome di malato mentale o paziente, eppure… nell’immaginario collettivo resta il difficile e imbarazzante approccio nei confronti di questa branca della medicina e di queste persone a cui non sempre si riconosce la dignità di essere umano. Se queste sono le premesse, non è così illecita la provocazione assunta nel titolo: possono essere applicabili i principi della bioetica ad un essere umano di cui si riconosce con tanta difficoltà la dignità di persona e per la quale è così difficile individuarne la patologia, le cause, la prognosi, la terapia, e dalla quale è spesso problematico ottenere un valido e cosciente apporto-consenso alla relazione terapeutica? Rispetto alle altre categorie di pazienti, il malato mentale è il più solo e il più debole: è isolato dalla comunità che non comprende la profondità di una malattia difficilmente identificabile e perciò inquietante. Persino le compagnie assicuratrici ritengono le spese mediche per le cure delle malattie mentali e psichiatriche “non rimborsabili”, in quanto nel contratto assicurativo sono esplicitamente escluse dalle condizioni generali di polizza; non solo, per alcuni contratti l’insorgenza della malattia dopo la stipula interrompe l’operatività della garanzia1; è isolato dalle istituzioni che devono stanziare le risorse economiche: i fondi sanitari destinati alla psichiatria sono sempre minimi rispetto a tutti gli altri settori; è isolato nella stessa comunità familiare, spesso incapace a gestire da sola una situazione psicologicamente pesante ed un congiunto dal comportamento imprevedibile. Il paziente psichiatrico è così reietto, ghettizzato, respinto dai fatti dietro quelle sbarre che la legge 180/1978 eliminava formalmente, senza possibilità di emergere dall’abisso della patologia, dal momento che le opportunità di cura e di guarigione sono indissolubilmente legate alle relazioni interpersonali e all’inserimento nella comunità. Malato debole, indifeso, esposto, a volte, alla mercé di terze persone che devono decidere per lui: è proprio questo il prototipo del soggetto per la cui tutela è sorta la Bioetica. Allora non solo possiamo rispondere alla provocazione iniziale affermando la possibilità di una bioetica per la psichiatria, ma dobbiamo andare oltre, esigendo che i principi della bioetica debbano essere assunti come conditio sine qua non per un corretto approccio al paziente psichiatrico. Malato psichiatrico, incapace mentale, “demente”…: persona. E’ da questo termine che dobbiamo partire se vogliamo abbattere tutti gli stereotipi sulla psichiatria. Componente della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Comitato Nazionale per la Bioetica Coordinatrice Didattica Master in Bioetica e docente di Bioetica, Università di Camerino Per comunicazioni: [email protected] 1 Ed è proprio la bioetica che ci permette di ri-conoscere la dignità al paziente psichiatrico, considerandolo persona in senso ontologico, come essere umano che ha valore in sé, insito nella sua natura sempre, a prescindere dal suo status giuridico e sociale, dalla sua capacità o incapacità di esprimere un valido e consapevole consenso informato, dalle circostanze e dal luogo in cui si trova, dai primi momenti fino all’ultimo della sua esistenza. La persona così intesa diventa l’unica misura tra il lecito e il non lecito, il “fine” di kantiana memoria a cui il medico si rivolge facendosi guidare dalla propria professionalità e dalla propria coscienza, trovando nei principi della bioetica una guida teorica da applicare nelle specifiche circostanze: - il primo principio di derivazione ippocratica (primum non nocere) è il principio di beneficialità-non maleficienza o principio terapeutico, che permette l’intervento terapeutico sulla base di un’attenta valutazione rischio/beneficio, onde scongiurare il pericolo dell’“accanimento terapeutico”, e avendo come obiettivo il benessere di tutta la persona, nella sua unitotalità corporale e spirituale, ricercando non solo la cura del sintomo ma, ove possibile, l’estinzione della causa, con il consenso del soggetto interessato; - il secondo principio di derivazione illuministica (autonomia) è il principio di libertà di entrambe gli attori, medico e paziente, che devono autonomamente scegliere la migliore terapia per quella persona con peculiarità uniche e irripetibili; libertà che non va mai disgiunta dall’assunzione di responsabilità che si compie ogni volta si effettui una scelta consapevole. Essere responsabili di qualcuno vuol dire porsi in una relazione interpersonale, mai così pertinente come nel caso della psichiatria analitica, nel cui esercizio sofisticato viene giocata ogni possibilità di guarigione. - il terzo principio di derivazione socialista (giustizia) è il principio di socialità, secondo il quale la vita e la salute sono considerati anche beni della società, la quale è chiamata a tutelarli attraverso il principio della sussidiarietà, garantendo maggiore assistenza a chi ha più bisogno. Questi tre principi, sulla cui validità vi è unanime consenso dal punto di vista concettuale, incontrano però notevoli difficoltà nel momento della loro applicazione pratica, quando nei casi concreti entrano in conflitto tra loro, lasciando il medico nell’incertezza etica di dover privilegiare, ad esempio, l’autonomia del paziente rispetto ad una contrastante indicazione terapeutica, o alla salvaguardia dell’incolumità dei familiari. L’incertezza deriva se si pongono i tre principi sullo stesso piano di valore, per cui si privilegia l’uno o l’altro in base alle specifiche circostanze; se invece si ordinano secondo una gerarchia, le indicazioni che ne scaturiscono assumono maggiore concretezza e diventano una guida precisa. L’opinione di chi scrive è che se si pone il bene della persona, nel senso descritto in precedenza, come centro e fine di ogni azione, il principio-guida che deve prevalere in caso di contrasto diventa il principio terapeutico, per garantire la salvaguardia della salute e della vita del paziente. Proprio dai possibili contrasti tra il principio terapeutico e il principio di libertà derivano le più gravi discussioni sui numerosi problemi aperti in campo etico: 1) il primo atto dello specialista in psichiatria carico di responsabilità legale e morale è senz’altro la diagnosi di malattia mentale, la cui attestazione può comportare gravi detrazioni giuridiche e pregiudizi sociali in relazione ai tribunali, allo status lavorativo e alla stessa validità del matrimonio civile e religioso. Per questo il primo requisito etico richiesto al medico è la sua competenza professionale, che comporta l’aggiornamento permanente, con precise sanzioni da parte dell’Ordine nei casi di accertati comportamenti scorretti sia professionalmente sia eticamente. 2) Altro nodo cruciale è quello dell’adeguatezza della terapia in base alla sua efficacia e al rapporto rischio/beneficio: ci riferiamo in particolare all’uso degli psicofarmaci, tralasciando la trattazione di altri tipi di trattamenti ormai desueti come l’elettroshock, 2 l’elettrostimolazione, la chirurgia psichiatrica. Saper individuare il farmaco pertinente è un parametro etico oltre che professionale, dal momento che “l’efficacia clinica di un farmaco è di per se stessa un valore etico”.2 In psicofarmacologia, l’incertezza posologica è ancora più marcata rispetto al resto della farmacologia, e il range di efficacia di questa categoria farmacologica è particolarmente vasto. Il medico che aumenta le dosi in caso di mancata risposta del paziente non sempre ottiene il risultato atteso, dal momento che ogni persona ha una propria soglia oltre la quale il farmaco provoca solo ottundimento. In questi casi il rischio della sedazione è nettamente superiore al beneficio dell’eliminazione delle allucinazioni, con le quali il paziente potrebbe imparare a convivere, continuando ad esercitare il proprio diritto a rimanere lucidamente cosciente. Il limite tra terapia ed accanimento terapeutico è in psichiatria davvero molto sottile, dal momento che non sempre si riesce ad ottenere la remissione completa dei disturbi, ed è alta la tentazione di proseguire nella somministrazione di farmaci per raggiungere un risultato prognostico. Inoltre la scelta di un farmaco deve essere effettuata anche in base alla valutazione degli effetti secondari che possono verificarsi immediatamente e a distanza: un soggetto particolarmente vulnerabile è la donna in età fertile, che potrebbe subire in gravidanza i rischi di una terapia conclusa da tempo. Anche se la farmacocinetica di tali farmaci è tale per cui essi vengono eliminati nel giro di alcuni giorni senza dare accumulo, non è assolutamente da escludere la possibilità che tali terapie possano rivelarsi teratogene, ad esempio a seguito di un’alterazione genica (di cui oggi non siamo a conoscenza). In caso di reazioni avverse che riguardano lo sviluppo comportamentale del concepito, gli effetti si potrebbero osservare solo parecchio tempo dopo. Va anche considerato che spesso i pazienti psichiatrici fanno uso di più farmaci contemporaneamente, e possono essere soggetti a cambiamenti nella terapia, pertanto gli effetti avversi potrebbero derivare anche da possibili interazioni farmacologiche, delle quali il medico deve tener conto prima di effettuare una prescrizione.3 Se l’impiego degli psicofarmaci per uso terapeutico può dar luogo a problematiche delicate e complesse, il loro utilizzo per fini non terapeutici costituisce motivo di scontro difficilmente risolvibile in ambito etico, dal momento che non è applicabile il principio terapeutico e non è giustificabile alcun rischio a fronte di un beneficio “voluttuario”; esso, inoltre, mal si concilia con le esigenze dell’economia sanitaria costretta a disporre di minori risorse per le terapie necessarie. Si configurerebbe così un abuso del farmaco psicotropo, da rifiutare tanto quanto il tabagismo e l’alcoolismo, se si ritiene che procurino le stesse caratteristiche di dipendenza. C’è da considerare che in questi casi la richiesta di psicofarmaci esula dalla semplice relazione medico-paziente per inserirsi in un contesto che coinvolge la famiglia e la società, le cui esigenze possono indurre il soggetto a trovare soluzioni sempre più immediate e apparentemente “risolutive” alle proprie frustrazioni. Il ruolo che si richiede oggi allo psicoterapeuta non è più centrato semplicemente sul paziente, ma deve inquadrarsi in un “sistema” pluridimensionale in cui entrano a pieno titolo altri attori: i familiari, gli amministratori politici e sanitari, le pressioni sociali, strettamente correlati e interagenti. Quanto più è vulnerabile il soggetto alle pressioni di queste forze esterne, tanto più il medico dovrà operare in termini di bilanciamento, attraverso un esercizio “maieutico”, aiutando la persona a ritrovare in sé l’autonomia sufficiente per superare la tentazione di demandare al farmaco ogni soluzione. Può essere questo un esempio di falso contrasto tra l’autonomia del paziente, che richiede una prescrizione per uso non terapeutico, e quella del medico che rifiuta di acconsentire: il contrasto non si pone tra le due autonomie ma tra l’autonomia del medico e il principio di beneficialità. Il medico non può abdicare alla propria coscienza professionale di fronte a richieste che ritiene indebite e irresponsabili, il paziente non è depositario di soli diritti così come il medico non è depositario di doli doveri: “né autoritarismo paternalistico né abbandono rinunciatario dei doveri verso il paziente”4, ma guida e alleanza terapeutica. 3 3) Tutto ciò ci introduce ad una annosa e “vexata quaestio” che divide il dibattito pubblico in tema di pratica medica ed in particolar modo in psichiatria: la necessità del consenso informato e il diritto al rifiuto delle terapie. Non ci addentreremo in un’ennesima trattazione su quello che sta diventando l’argomento più dibattuto nella letteratura medica, ma cercheremo solo di evidenziare alcune contraddizioni che emergono dall’incontro-scontro tra norma e realtà. L’imprescindibilità del consenso informato quale norma giuridica si fonda sul diritto all’autodeterminazione riconosciuto ad ogni soggetto in grado di intendere e di volere, il quale deve poter disporre di un diritto personalissimo com’è quello della sua persona (art. 13, Costituzione Italiana); è questo un principio di ordine generale che quando si estende all’assistenza medica attraverso la norma deontologica dà luogo a numerose contraddizioni. Innanzitutto ci si deve chiedere quanto una persona malata possa essere realmente “libera” da ogni forma di condizionamento, dal momento che lo status stesso della malattia comporta una subordinazione ed una ridotta capacità di autodeterminarsi. E’ dalla consapevolezza di aver bisogno di aiuto che il paziente si “affida” ad un esperto al quale demanda la tutela della propria salute, in una relazione dalla valenza più umana che tecnica e burocratica 5. In una revisione di Kenny6, si evidenzia come il paziente, indipendentemente dalle volontà precedentemente espresse e dal suo grado di cultura, non sempre accetti di essere informato, soprattutto nelle situazioni critiche, in cui sceglie di delegare la decisione al medico cui si è affidato. Analizzando i moduli informativi scritti, al di là delle loro lacune nel contenuto e nella forma espositiva, ciò che emerge è che il loro intento non è tanto quello di “informare” quanto quello di “indurre” il consenso. L’obiettivo da perseguire non dovrebbe essere quello di persuadere alla terapia, quanto quello di accettarla conoscendone vantaggi e rischi, con cognizione di causa7. In una situazione delicata e complessa come quella patologica, non si può standardizzare l’informazione rendendola obbligatoria in qualsiasi circostanza (realizzando così una sorta di “accanimento informativo”), ma deve essere il medico ad applicare il criterio etico e clinico di essere sempre disponibile a “dosare” l’informazione di cui il paziente ha bisogno, man mano che la relazione medico-paziente si evolve nel tempo, in un processo continuo di ascolto, di conoscenza e di empatia che contraddistingue l’analisi psicoterapeutica. Non si tratta di una relazione identificabile con il modello paternalistico, ma di un’alleanza sinergica e di un co-protagonismo che ha una finalità terapeutica, dal momento che sarebbe impossibile raggiungere il miglioramento o la guarigione senza un’attiva partecipazione del paziente, la quale può essere ottenuta anche rispettando la volontà della persona di “non sapere”. Questa è sicuramente la novità più importante del Nuovo Codice di Deontologia Medica8 che riconosce la priorità del principio ippocratiano (primum non nocere) e chiede al medico la capacità di inquadrare il paziente in una visione olistica, in cui la malattia mentale diventa un evento che investe tutta la persona, in una dinamica complessa non solo in senso patologico, ma esistenziale, dove spicca la valenza non solo clinica, ma soprattutto educativa (offerta di aiuto, rafforzamento del sentimento di fiducia) della psicoterapia. Da queste considerazioni emerge l’inapplicabilità dell’ottenimento del consenso informato come atto burocratico e di medicina di carattere “difensivo”: mai come nel caso della psicoterapia la partecipazione del paziente alla terapia è graduale, e la sua “competenza” si inquadra in un percorso lungo e “oscillante” tra fasi di recupero e fasi di regresso, e mai come in questo ambito sono inappropriate le “direttive anticipate” delle proprie volontà. Il ricorso alla formula dell’incapacità di intendere e di volere non può diventare un alibi per lo psichiatra renitente al difficile impegno della comunicazione e dell’ascolto9, ma deve costituire l’ultimo approdo per richiedere un Trattamento Sanitario Obbligatorio nei casi in cui: 4 o il paziente sia in grave ed imminente pericolo e sia realmente incapace di intendere e di volere; o l’atto medico sia proporzionato nel rapporto rischio/beneficio; o non esistano alternative; o il rifiuto del paziente non nasconda una richiesta di segno opposto al medico, che dovrebbe decodificare la vera domanda inquadrando olisticamente il paziente nello specifico contesto familiare e sociale. Per quanto riguarda il rispetto dell’autonomia e della salvaguardia della salute, le legislazioni occidentali tutelano al massimo l’autonomia del paziente psichiatrico, per evitare il ripetersi di abusi commessi in passato; se poi il bene della salute è inteso anche come bene sociale è compito della società tutelarlo soprattutto nelle persone più deboli, per evitare il paradosso che “il malato di mente marcisca nei propri diritti”10. Se, come osserva Angelo Fiori, la responsabilità professionale dello psichiatra “è notoriamente fondata sul principio della obbligazione di mezzi, non di risultati…”11, allora anche quando non è configurabile una responsabilità dei risultati, è sempre configurabile una responsabilità di assistenza al malato, che in certi casi comporta anche l’obbligo del ricovero12. 4) In ambito psichiatrico il problema dell’informazione e del consenso è indisgiungibile dal rispetto della confidenzialità delle notizie e dal coinvolgimento di altri “attori”, specialmente i familiari più stretti, le cui informazioni sono spesso necessarie allo psichiatra per inquadrare la patologia del paziente in maniera corretta e nei casi in cui il disturbo è di tipo “interrelazionale” (quando è necessaria la psicoterapia del gruppo familiare). Per bilanciare il rispetto della privacy con l’applicazione del principio di beneficialità, lo psichiatra dovrebbe attingere le notizie dal gruppo familiare, soprattutto all’inizio della terapia per evitare possibili interferenze nell’iter terapeutico, e sempre con il consenso del paziente. Il rispetto del segreto professionale è fondamentale per un rapporto terapeutico valido e fondato su presupposti etici, tuttavia l’obbligo del segreto non è assoluto e può decadere nei casi in cui è a rischio la vita e l’integrità del paziente o di un suo congiunto. Se non sempre si può parlare di diritto alla riservatezza dei dati, si può invece considerare il diritto del malato di poter controllare il flusso delle informazioni che lo riguardano, non tanto con i propri familiari, quanto con le diverse istituzioni verso le quali il paziente potrebbe subire un danno (assicurazioni, sistema sanitario, banche, datore di lavoro…)13. 5) A conclusione di questa breve riflessione su alcuni dei problemi più frequenti in ambito psichiatrico e di grande complessità etica, accenniamo ad un tema assai dibattuto in ambito internazionale e che tocca il rapporto tra tutti e tre i principi della bioetica: la partecipazione del malato psichiatrico ad una sperimentazione clinica. Su questo argomento si sono pronunciati chiaramente i principali documenti internazionali (Codice di Norimberga, Dichiarazione di Helsinki, Rapporto Belmont, Convenzione Europea di Bioetica,…) in difesa di tutti i soggetti “deboli”, ossia con minore capacità di consentire liberamente (malati psichiatrici, minori, detenuti, indigenti,...), per i quali è consentita esclusivamente la partecipazione alla sperimentazione “terapeutica” (nella quale il beneficio atteso è diretto al paziente stesso e si prevede un rischio assolutamente minimo; in ogni caso deve essere garantito un coinvolgimento della persona nell’esprimere il proprio assenso in relazione alla propria capacità di comprendere). I soggetti “deboli”, pertanto, devono essere assolutamente esclusi dalle sperimentazioni “non terapeutiche” o “pure”, nelle quali prevarrebbe esclusivamente il principio di socialità, rappresentato dal progresso scientifico e quindi dal bene della società. E’ questo un principio fondamentale che permette l’avanzamento della conoscenza, ma non può prevalere sugli altri principi, soprattutto sulla tutela della salute e della vita che, ricordiamolo, è anche un bene sociale, quindi va protetto dalla stessa comunità. La società deve progredire attraverso il bene di ogni singola persona, e non a scapito del bene della singola persona. Ciò che la legge dello 5 Stato deve considerare è il “bene comune”, inteso come il bene di tutte le persone perseguito attraverso il conseguimento del bene di ciascuna persona14. Una società civile si fonda sul rispetto di tutti i suoi componenti e sulla difesa di quelli più deboli che non possono far rispettare da soli i propri diritti, in caso contrario avremmo una società eretta sulla legge del più forte, nella quale vengono calpestati i diritti di coloro che non sono considerati persone perché la loro qualità di vita non rientra nei parametri stabiliti dagli “aventi diritto” e dai “normali”. Ma chi è “normale”? Chi stabilisce il confine tra equilibrio e squilibrio, tra perfezione e imperfezione? In quali periodi storici sono validi questi parametri? Dalla risposta che diamo a queste domande scaturiscono le scelte e i comportamenti di ogni essere umano, e in particolare del medico, alle cui decisioni sono affidate la vita e la salute di altre persone. Per un medico scegliere una procedura non è mai un atto esclusivamente tecnico, perché, essendo questo finalizzato ad un uomo, deve presupporre una precisa concezione dell’uomo in generale e di quell’uomo in particolare. Non è più possibile pensare di separare la scienza dall’antropologia o dall’etica, perché la scienza non è mai neutrale rispetto ai valori (value free o value neutral)15: la storia ci ha dimostrato che separare il progresso dai valori produce solo aberrazione. “Ciò che noi riteniamo giusto o sbagliato, buono o cattivo, dipende dopo tutto da quello che noi pensiamo che sia l’uomo, dal nostro modo di concepire la sua esistenza, da ciò che per noi è la medicina e il suo ruolo nell’esistenza umana”16 NOTE 1 Per la consulenza assicurativa si ringrazia il dott. Dionigi Caraceni, legale esperto in assicurazioni e membro ordinario del Comitato di Etica della ASL di Teramo. 2 M. Schiavone, Luci ed ombre nell’etica psichiatrica contemporanea, in M. Bassi, S. De Risio, M. di Giannantonio, La questione etica in psichiatria, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 2000. pp.1-18 3 Per la consulenza farmacologica, si ringrazia il dott. Giovanni Polimeni dell’Università di Messina. 4 E. Sgreccia, Manuale di Bioetica. II. Aspetti medico-sociali, Vita e Pensiero, 1996, pp. 66-82. 5 M. Ermini, Il consenso informato tra teoria e pratica, in Medicina e Morale 2002/3, pp.493-504. 6 T. Kenny, RG. Wilson, IN. Purves et al, A PIL for every ill? Patient information Leaflets (PILs): a review of past, present and future use. Fam Prac, 1998; 15: 471-9. 7 G. Parisi, Esperienze di comunicazioni scritte: il materiale informativo per i pazienti, in Ricerca e Pratica, 2002; 18:43-47. 8 “…Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza. La documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l'informazione deve essere rispettata…” Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCeO), Codice Italiano di Deontologia Medica, Art. 30 - Informazione al cittadino Titolo III - Rapporti con il cittadino, Capo IV - Informazione e consenso. 9 M Schiavone, Luci ed ombre….. 10 Appelbaum-Gutheil, Rotting with teir rights on…; S.J. Reisr, Refusing treatment for mental illness: historical and ethical dimension, “Am.J.Psychiatry”, 1980,3 pp.329-331. 11 A. Fiori, La responsabilità professionale del medico e dello psichiatra nella tutela della salute mentale, in “Medicina e Morale” 1983, 3, pp.223-240. 12 E. Sgreccia, Manuale… 13 E. Mordini, Orientamenti internazionali in tema di bioetica psichiatrica, in La questione etica….., pp.19-35 14 J. Maritain, I diritti dell’uomo e la legge naturale, Milano, Vita e Pensiero, 1977: 4-5. 15 C. Bresciani, La medicina di fronte alla questione antropologica: le basi della bioetica. Rassegna Clinico-Scientifica, 1985; 9-10:227-43. 16 ED Pellegrino, DC Thomasma, A philosophical basis of medical practice. Toward a philosophy and ethics of the healing professions. New York-Oxford: Oxford University Press, 1981. 6