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È POSSIBILE UNA BIOETICA IN PSICHIATRIA?
di Luisa M. Borgia
(in “Pratica clinica e ricerca”, 2003 by MEDISERVE S.r.l. Milano - Firenze - Napoli 2003)
Il lettore che si appresti a leggere questo capitolo potrebbe pensare che c’è un intento
provocatorio nel titolo. Ebbene, non sbaglierebbe, dal momento che quella domanda non ha un
significato retorico, bensì è una vera e propria richiesta carica di dubbi e di problematiche non del
tutto risolte, rivolte a coloro che operano in questo settore così specifico e per così tanto tempo
tenuto a latere della “medicina ufficiale”.
Per tanti, troppi secoli infatti la sofferenza mentale è stata di pertinenza della religione o
della magia e ha dato vita a credenze e superstizioni di cui troviamo ancora qualche traccia in
alcune comunità.
Non ci sono più i roghi a “purificare” la società dagli “indemoniati”, sono stati chiusi i
manicomi che proteggevano la collettività dal pericolo dei delinquenti, sono stati proscritti i mezzi
terapeutici punitivi e coercitivi precedenti agli psicofarmaci, il matto ha assunto il nome di malato
mentale o paziente, eppure… nell’immaginario collettivo resta il difficile e imbarazzante approccio
nei confronti di questa branca della medicina e di queste persone a cui non sempre si riconosce la
dignità di essere umano.
Se queste sono le premesse, non è così illecita la provocazione assunta nel titolo: possono
essere applicabili i principi della bioetica ad un essere umano di cui si riconosce con tanta difficoltà
la dignità di persona e per la quale è così difficile individuarne la patologia, le cause, la prognosi, la
terapia, e dalla quale è spesso problematico ottenere un valido e cosciente apporto-consenso alla
relazione terapeutica?
Rispetto alle altre categorie di pazienti, il malato mentale è il più solo e il più debole:
 è isolato dalla comunità che non comprende la profondità di una malattia difficilmente
identificabile e perciò inquietante. Persino le compagnie assicuratrici ritengono le spese
mediche per le cure delle malattie mentali e psichiatriche “non rimborsabili”, in quanto nel
contratto assicurativo sono esplicitamente escluse dalle condizioni generali di polizza; non
solo, per alcuni contratti l’insorgenza della malattia dopo la stipula interrompe l’operatività
della garanzia1;
 è isolato dalle istituzioni che devono stanziare le risorse economiche: i fondi sanitari
destinati alla psichiatria sono sempre minimi rispetto a tutti gli altri settori;
 è isolato nella stessa comunità familiare, spesso incapace a gestire da sola una situazione
psicologicamente pesante ed un congiunto dal comportamento imprevedibile.
Il paziente psichiatrico è così reietto, ghettizzato, respinto dai fatti dietro quelle sbarre che la
legge 180/1978 eliminava formalmente, senza possibilità di emergere dall’abisso della patologia,
dal momento che le opportunità di cura e di guarigione sono indissolubilmente legate alle relazioni
interpersonali e all’inserimento nella comunità.
Malato debole, indifeso, esposto, a volte, alla mercé di terze persone che devono decidere per
lui: è proprio questo il prototipo del soggetto per la cui tutela è sorta la Bioetica.
Allora non solo possiamo rispondere alla provocazione iniziale affermando la possibilità di
una bioetica per la psichiatria, ma dobbiamo andare oltre, esigendo che i principi della bioetica
debbano essere assunti come conditio sine qua non per un corretto approccio al paziente
psichiatrico.
Malato psichiatrico, incapace mentale, “demente”…: persona. E’ da questo termine che
dobbiamo partire se vogliamo abbattere tutti gli stereotipi sulla psichiatria.

Componente della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Comitato Nazionale per la Bioetica
Coordinatrice Didattica Master in Bioetica e docente di Bioetica, Università di Camerino
Per comunicazioni: [email protected]
1
Ed è proprio la bioetica che ci permette di ri-conoscere la dignità al paziente psichiatrico,
considerandolo persona in senso ontologico, come essere umano che ha valore in sé, insito nella sua
natura sempre, a prescindere dal suo status giuridico e sociale, dalla sua capacità o incapacità di
esprimere un valido e consapevole consenso informato, dalle circostanze e dal luogo in cui si trova,
dai primi momenti fino all’ultimo della sua esistenza.
La persona così intesa diventa l’unica misura tra il lecito e il non lecito, il “fine” di kantiana
memoria a cui il medico si rivolge facendosi guidare dalla propria professionalità e dalla propria
coscienza, trovando nei principi della bioetica una guida teorica da applicare nelle specifiche
circostanze:
- il primo principio di derivazione ippocratica (primum non nocere) è il principio di
beneficialità-non maleficienza o principio terapeutico, che permette l’intervento
terapeutico sulla base di un’attenta valutazione rischio/beneficio, onde scongiurare il
pericolo dell’“accanimento terapeutico”, e avendo come obiettivo il benessere di tutta la
persona, nella sua unitotalità corporale e spirituale, ricercando non solo la cura del sintomo
ma, ove possibile, l’estinzione della causa, con il consenso del soggetto interessato;
- il secondo principio di derivazione illuministica (autonomia) è il principio di libertà di
entrambe gli attori, medico e paziente, che devono autonomamente scegliere la migliore
terapia per quella persona con peculiarità uniche e irripetibili; libertà che non va mai
disgiunta dall’assunzione di responsabilità che si compie ogni volta si effettui una scelta
consapevole. Essere responsabili di qualcuno vuol dire porsi in una relazione
interpersonale, mai così pertinente come nel caso della psichiatria analitica, nel cui
esercizio sofisticato viene giocata ogni possibilità di guarigione.
- il terzo principio di derivazione socialista (giustizia) è il principio di socialità, secondo il
quale la vita e la salute sono considerati anche beni della società, la quale è chiamata a
tutelarli attraverso il principio della sussidiarietà, garantendo maggiore assistenza a chi ha
più bisogno.
Questi tre principi, sulla cui validità vi è unanime consenso dal punto di vista concettuale,
incontrano però notevoli difficoltà nel momento della loro applicazione pratica, quando nei casi
concreti entrano in conflitto tra loro, lasciando il medico nell’incertezza etica di dover privilegiare,
ad esempio, l’autonomia del paziente rispetto ad una contrastante indicazione terapeutica, o alla
salvaguardia dell’incolumità dei familiari.
L’incertezza deriva se si pongono i tre principi sullo stesso piano di valore, per cui si
privilegia l’uno o l’altro in base alle specifiche circostanze; se invece si ordinano secondo una
gerarchia, le indicazioni che ne scaturiscono assumono maggiore concretezza e diventano una guida
precisa.
L’opinione di chi scrive è che se si pone il bene della persona, nel senso descritto in
precedenza, come centro e fine di ogni azione, il principio-guida che deve prevalere in caso di
contrasto diventa il principio terapeutico, per garantire la salvaguardia della salute e della vita del
paziente.
Proprio dai possibili contrasti tra il principio terapeutico e il principio di libertà derivano le
più gravi discussioni sui numerosi problemi aperti in campo etico:
1) il primo atto dello specialista in psichiatria carico di responsabilità legale e morale è
senz’altro la diagnosi di malattia mentale, la cui attestazione può comportare gravi
detrazioni giuridiche e pregiudizi sociali in relazione ai tribunali, allo status lavorativo e
alla stessa validità del matrimonio civile e religioso. Per questo il primo requisito etico
richiesto al medico è la sua competenza professionale, che comporta l’aggiornamento
permanente, con precise sanzioni da parte dell’Ordine nei casi di accertati comportamenti
scorretti sia professionalmente sia eticamente.
2) Altro nodo cruciale è quello dell’adeguatezza della terapia in base alla sua efficacia e al
rapporto rischio/beneficio: ci riferiamo in particolare all’uso degli psicofarmaci,
tralasciando la trattazione di altri tipi di trattamenti ormai desueti come l’elettroshock,
2
l’elettrostimolazione, la chirurgia psichiatrica. Saper individuare il farmaco pertinente è un
parametro etico oltre che professionale, dal momento che “l’efficacia clinica di un farmaco
è di per se stessa un valore etico”.2 In psicofarmacologia, l’incertezza posologica è ancora
più marcata rispetto al resto della farmacologia, e il range di efficacia di questa categoria
farmacologica è particolarmente vasto. Il medico che aumenta le dosi in caso di mancata
risposta del paziente non sempre ottiene il risultato atteso, dal momento che ogni persona
ha una propria soglia oltre la quale il farmaco provoca solo ottundimento. In questi casi il
rischio della sedazione è nettamente superiore al beneficio dell’eliminazione delle
allucinazioni, con le quali il paziente potrebbe imparare a convivere, continuando ad
esercitare il proprio diritto a rimanere lucidamente cosciente. Il limite tra terapia ed
accanimento terapeutico è in psichiatria davvero molto sottile, dal momento che non
sempre si riesce ad ottenere la remissione completa dei disturbi, ed è alta la tentazione di
proseguire nella somministrazione di farmaci per raggiungere un risultato prognostico.
Inoltre la scelta di un farmaco deve essere effettuata anche in base alla valutazione degli
effetti secondari che possono verificarsi immediatamente e a distanza: un soggetto
particolarmente vulnerabile è la donna in età fertile, che potrebbe subire in gravidanza i
rischi di una terapia conclusa da tempo.
Anche se la farmacocinetica di tali farmaci è tale per cui essi vengono eliminati nel giro di
alcuni giorni senza dare accumulo, non è assolutamente da escludere la possibilità che tali
terapie possano rivelarsi teratogene, ad esempio a seguito di un’alterazione genica (di cui
oggi non siamo a conoscenza). In caso di reazioni avverse che riguardano lo sviluppo
comportamentale del concepito, gli effetti si potrebbero osservare solo parecchio tempo
dopo. Va anche considerato che spesso i pazienti psichiatrici fanno uso di più farmaci
contemporaneamente, e possono essere soggetti a cambiamenti nella terapia, pertanto gli
effetti avversi potrebbero derivare anche da possibili interazioni farmacologiche, delle
quali il medico deve tener conto prima di effettuare una prescrizione.3
Se l’impiego degli psicofarmaci per uso terapeutico può dar luogo a problematiche delicate
e complesse, il loro utilizzo per fini non terapeutici costituisce motivo di scontro
difficilmente risolvibile in ambito etico, dal momento che non è applicabile il principio
terapeutico e non è giustificabile alcun rischio a fronte di un beneficio “voluttuario”; esso,
inoltre, mal si concilia con le esigenze dell’economia sanitaria costretta a disporre di
minori risorse per le terapie necessarie. Si configurerebbe così un abuso del farmaco
psicotropo, da rifiutare tanto quanto il tabagismo e l’alcoolismo, se si ritiene che procurino
le stesse caratteristiche di dipendenza. C’è da considerare che in questi casi la richiesta di
psicofarmaci esula dalla semplice relazione medico-paziente per inserirsi in un contesto
che coinvolge la famiglia e la società, le cui esigenze possono indurre il soggetto a trovare
soluzioni sempre più immediate e apparentemente “risolutive” alle proprie frustrazioni. Il
ruolo che si richiede oggi allo psicoterapeuta non è più centrato semplicemente sul
paziente, ma deve inquadrarsi in un “sistema” pluridimensionale in cui entrano a pieno
titolo altri attori: i familiari, gli amministratori politici e sanitari, le pressioni sociali,
strettamente correlati e interagenti. Quanto più è vulnerabile il soggetto alle pressioni di
queste forze esterne, tanto più il medico dovrà operare in termini di bilanciamento,
attraverso un esercizio “maieutico”, aiutando la persona a ritrovare in sé l’autonomia
sufficiente per superare la tentazione di demandare al farmaco ogni soluzione. Può essere
questo un esempio di falso contrasto tra l’autonomia del paziente, che richiede una
prescrizione per uso non terapeutico, e quella del medico che rifiuta di acconsentire: il
contrasto non si pone tra le due autonomie ma tra l’autonomia del medico e il principio di
beneficialità. Il medico non può abdicare alla propria coscienza professionale di fronte a
richieste che ritiene indebite e irresponsabili, il paziente non è depositario di soli diritti
così come il medico non è depositario di doli doveri: “né autoritarismo paternalistico né
abbandono rinunciatario dei doveri verso il paziente”4, ma guida e alleanza terapeutica.
3
3) Tutto ciò ci introduce ad una annosa e “vexata quaestio” che divide il dibattito pubblico
in tema di pratica medica ed in particolar modo in psichiatria: la necessità del consenso
informato e il diritto al rifiuto delle terapie. Non ci addentreremo in un’ennesima
trattazione su quello che sta diventando l’argomento più dibattuto nella letteratura
medica, ma cercheremo solo di evidenziare alcune contraddizioni che emergono
dall’incontro-scontro tra norma e realtà. L’imprescindibilità del consenso informato
quale norma giuridica si fonda sul diritto all’autodeterminazione riconosciuto ad ogni
soggetto in grado di intendere e di volere, il quale deve poter disporre di un diritto
personalissimo com’è quello della sua persona (art. 13, Costituzione Italiana); è questo
un principio di ordine generale che quando si estende all’assistenza medica attraverso la
norma deontologica dà luogo a numerose contraddizioni. Innanzitutto ci si deve chiedere
quanto una persona malata possa essere realmente “libera” da ogni forma di
condizionamento, dal momento che lo status stesso della malattia comporta una
subordinazione ed una ridotta capacità di autodeterminarsi. E’ dalla consapevolezza di
aver bisogno di aiuto che il paziente si “affida” ad un esperto al quale demanda la tutela
della propria salute, in una relazione dalla valenza più umana che tecnica e burocratica 5.
In una revisione di Kenny6, si evidenzia come il paziente, indipendentemente dalle
volontà precedentemente espresse e dal suo grado di cultura, non sempre accetti di essere
informato, soprattutto nelle situazioni critiche, in cui sceglie di delegare la decisione al
medico cui si è affidato. Analizzando i moduli informativi scritti, al di là delle loro lacune
nel contenuto e nella forma espositiva, ciò che emerge è che il loro intento non è tanto
quello di “informare” quanto quello di “indurre” il consenso. L’obiettivo da perseguire
non dovrebbe essere quello di persuadere alla terapia, quanto quello di accettarla
conoscendone vantaggi e rischi, con cognizione di causa7. In una situazione delicata e
complessa come quella patologica, non si può standardizzare l’informazione rendendola
obbligatoria in qualsiasi circostanza (realizzando così una sorta di “accanimento
informativo”), ma deve essere il medico ad applicare il criterio etico e clinico di essere
sempre disponibile a “dosare” l’informazione di cui il paziente ha bisogno, man mano
che la relazione medico-paziente si evolve nel tempo, in un processo continuo di ascolto,
di conoscenza e di empatia che contraddistingue l’analisi psicoterapeutica.
Non si tratta di una relazione identificabile con il modello paternalistico, ma di
un’alleanza sinergica e di un co-protagonismo che ha una finalità terapeutica, dal
momento che sarebbe impossibile raggiungere il miglioramento o la guarigione senza
un’attiva partecipazione del paziente, la quale può essere ottenuta anche rispettando la
volontà della persona di “non sapere”. Questa è sicuramente la novità più importante del
Nuovo Codice di Deontologia Medica8 che riconosce la priorità del principio
ippocratiano (primum non nocere) e chiede al medico la capacità di inquadrare il paziente
in una visione olistica, in cui la malattia mentale diventa un evento che investe tutta la
persona, in una dinamica complessa non solo in senso patologico, ma esistenziale, dove
spicca la valenza non solo clinica, ma soprattutto educativa (offerta di aiuto,
rafforzamento del sentimento di fiducia) della psicoterapia. Da queste considerazioni
emerge l’inapplicabilità dell’ottenimento del consenso informato come atto burocratico e
di medicina di carattere “difensivo”: mai come nel caso della psicoterapia la
partecipazione del paziente alla terapia è graduale, e la sua “competenza” si inquadra in
un percorso lungo e “oscillante” tra fasi di recupero e fasi di regresso, e mai come in
questo ambito sono inappropriate le “direttive anticipate” delle proprie volontà. Il ricorso
alla formula dell’incapacità di intendere e di volere non può diventare un alibi per lo
psichiatra renitente al difficile impegno della comunicazione e dell’ascolto9, ma deve
costituire l’ultimo approdo per richiedere un Trattamento Sanitario Obbligatorio nei casi
in cui:
4
o il paziente sia in grave ed imminente pericolo e sia realmente incapace di intendere e di
volere;
o l’atto medico sia proporzionato nel rapporto rischio/beneficio;
o non esistano alternative;
o il rifiuto del paziente non nasconda una richiesta di segno opposto al medico, che
dovrebbe decodificare la vera domanda inquadrando olisticamente il paziente nello
specifico contesto familiare e sociale.
Per quanto riguarda il rispetto dell’autonomia e della salvaguardia della salute, le
legislazioni occidentali tutelano al massimo l’autonomia del paziente psichiatrico, per
evitare il ripetersi di abusi commessi in passato; se poi il bene della salute è inteso anche
come bene sociale è compito della società tutelarlo soprattutto nelle persone più deboli, per
evitare il paradosso che “il malato di mente marcisca nei propri diritti”10. Se, come osserva
Angelo Fiori, la responsabilità professionale dello psichiatra “è notoriamente fondata sul
principio della obbligazione di mezzi, non di risultati…”11, allora anche quando non è
configurabile una responsabilità dei risultati, è sempre configurabile una responsabilità di
assistenza al malato, che in certi casi comporta anche l’obbligo del ricovero12.
4) In ambito psichiatrico il problema dell’informazione e del consenso è indisgiungibile dal
rispetto della confidenzialità delle notizie e dal coinvolgimento di altri “attori”,
specialmente i familiari più stretti, le cui informazioni sono spesso necessarie allo
psichiatra per inquadrare la patologia del paziente in maniera corretta e nei casi in cui il
disturbo è di tipo “interrelazionale” (quando è necessaria la psicoterapia del gruppo
familiare). Per bilanciare il rispetto della privacy con l’applicazione del principio di
beneficialità, lo psichiatra dovrebbe attingere le notizie dal gruppo familiare, soprattutto
all’inizio della terapia per evitare possibili interferenze nell’iter terapeutico, e sempre con
il consenso del paziente. Il rispetto del segreto professionale è fondamentale per un
rapporto terapeutico valido e fondato su presupposti etici, tuttavia l’obbligo del segreto non
è assoluto e può decadere nei casi in cui è a rischio la vita e l’integrità del paziente o di un
suo congiunto. Se non sempre si può parlare di diritto alla riservatezza dei dati, si può
invece considerare il diritto del malato di poter controllare il flusso delle informazioni che
lo riguardano, non tanto con i propri familiari, quanto con le diverse istituzioni verso le
quali il paziente potrebbe subire un danno (assicurazioni, sistema sanitario, banche, datore
di lavoro…)13.
5) A conclusione di questa breve riflessione su alcuni dei problemi più frequenti in ambito
psichiatrico e di grande complessità etica, accenniamo ad un tema assai dibattuto in ambito
internazionale e che tocca il rapporto tra tutti e tre i principi della bioetica: la
partecipazione del malato psichiatrico ad una sperimentazione clinica. Su questo
argomento si sono pronunciati chiaramente i principali documenti internazionali (Codice di
Norimberga, Dichiarazione di Helsinki, Rapporto Belmont, Convenzione Europea di
Bioetica,…) in difesa di tutti i soggetti “deboli”, ossia con minore capacità di consentire
liberamente (malati psichiatrici, minori, detenuti, indigenti,...), per i quali è consentita
esclusivamente la partecipazione alla sperimentazione “terapeutica” (nella quale il
beneficio atteso è diretto al paziente stesso e si prevede un rischio assolutamente minimo;
in ogni caso deve essere garantito un coinvolgimento della persona nell’esprimere il
proprio assenso in relazione alla propria capacità di comprendere). I soggetti “deboli”,
pertanto, devono essere assolutamente esclusi dalle sperimentazioni “non terapeutiche” o
“pure”, nelle quali prevarrebbe esclusivamente il principio di socialità, rappresentato dal
progresso scientifico e quindi dal bene della società. E’ questo un principio fondamentale
che permette l’avanzamento della conoscenza, ma non può prevalere sugli altri principi,
soprattutto sulla tutela della salute e della vita che, ricordiamolo, è anche un bene sociale,
quindi va protetto dalla stessa comunità. La società deve progredire attraverso il bene di
ogni singola persona, e non a scapito del bene della singola persona. Ciò che la legge dello
5
Stato deve considerare è il “bene comune”, inteso come il bene di tutte le persone
perseguito attraverso il conseguimento del bene di ciascuna persona14. Una società civile si
fonda sul rispetto di tutti i suoi componenti e sulla difesa di quelli più deboli che non
possono far rispettare da soli i propri diritti, in caso contrario avremmo una società eretta
sulla legge del più forte, nella quale vengono calpestati i diritti di coloro che non sono
considerati persone perché la loro qualità di vita non rientra nei parametri stabiliti dagli
“aventi diritto” e dai “normali”.
Ma chi è “normale”? Chi stabilisce il confine tra equilibrio e squilibrio, tra perfezione e
imperfezione? In quali periodi storici sono validi questi parametri? Dalla risposta che diamo a
queste domande scaturiscono le scelte e i comportamenti di ogni essere umano, e in particolare del
medico, alle cui decisioni sono affidate la vita e la salute di altre persone. Per un medico scegliere
una procedura non è mai un atto esclusivamente tecnico, perché, essendo questo finalizzato ad un
uomo, deve presupporre una precisa concezione dell’uomo in generale e di quell’uomo in
particolare. Non è più possibile pensare di separare la scienza dall’antropologia o dall’etica, perché
la scienza non è mai neutrale rispetto ai valori (value free o value neutral)15: la storia ci ha
dimostrato che separare il progresso dai valori produce solo aberrazione.
“Ciò che noi riteniamo giusto o sbagliato, buono o cattivo, dipende dopo tutto da quello che
noi pensiamo che sia l’uomo, dal nostro modo di concepire la sua esistenza, da ciò che per noi
è la medicina e il suo ruolo nell’esistenza umana”16
NOTE
1
Per la consulenza assicurativa si ringrazia il dott. Dionigi Caraceni, legale esperto in assicurazioni e membro ordinario
del Comitato di Etica della ASL di Teramo.
2
M. Schiavone, Luci ed ombre nell’etica psichiatrica contemporanea, in M. Bassi, S. De Risio, M. di Giannantonio, La
questione etica in psichiatria, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 2000. pp.1-18
3
Per la consulenza farmacologica, si ringrazia il dott. Giovanni Polimeni dell’Università di Messina.
4
E. Sgreccia, Manuale di Bioetica. II. Aspetti medico-sociali, Vita e Pensiero, 1996, pp. 66-82.
5
M. Ermini, Il consenso informato tra teoria e pratica, in Medicina e Morale 2002/3, pp.493-504.
6
T. Kenny, RG. Wilson, IN. Purves et al, A PIL for every ill? Patient information Leaflets (PILs): a review of past,
present and future use. Fam Prac, 1998; 15: 471-9.
7
G. Parisi, Esperienze di comunicazioni scritte: il materiale informativo per i pazienti, in Ricerca e Pratica, 2002;
18:43-47.
8 “…Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla
persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di
speranza. La documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto
l'informazione deve essere rispettata…” Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri
(FNOMCeO), Codice Italiano di Deontologia Medica, Art. 30 - Informazione al cittadino Titolo III - Rapporti con il
cittadino, Capo IV - Informazione e consenso.
9
M Schiavone, Luci ed ombre…..
10
Appelbaum-Gutheil, Rotting with teir rights on…; S.J. Reisr, Refusing treatment for mental illness: historical and
ethical dimension, “Am.J.Psychiatry”, 1980,3 pp.329-331.
11
A. Fiori, La responsabilità professionale del medico e dello psichiatra nella tutela della salute mentale, in “Medicina
e Morale” 1983, 3, pp.223-240.
12
E. Sgreccia, Manuale…
13
E. Mordini, Orientamenti internazionali in tema di bioetica psichiatrica, in La questione etica….., pp.19-35
14
J. Maritain, I diritti dell’uomo e la legge naturale, Milano, Vita e Pensiero, 1977: 4-5.
15
C. Bresciani, La medicina di fronte alla questione antropologica: le basi della bioetica. Rassegna Clinico-Scientifica,
1985; 9-10:227-43.
16
ED Pellegrino, DC Thomasma, A philosophical basis of medical practice. Toward a philosophy and ethics of the
healing professions. New York-Oxford: Oxford University Press, 1981.
6
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