MITI DI NARCISO
Esistono diverse versioni letterarie riguardo il mito di Narciso, il quale
originariamente in Grecia veniva considerato poco più che una leggenda
locale legata al culto del dio Eros;
è solo grazie alle “Metamorfosi” di Ovidio che si iniziò a considerarlo un
vero e proprio mito.
Ogni versione presenta uno svolgimento diverso con conclusioni sempre
tragiche.
Proponiamo alcune di queste versioni, tra cui la più famosa scritta dal
romano Ovidio (I sec a.C.).
Conone (Grecia, sec. I a.C./ I d.C.),
Narrazioni XXIV
A Tespie di Beozia ( è una città situata non lontano dall’Elicona) nacque il
fanciullo Narciso, che era bello assai, ma anche grande spregiatore di
Eros e degli amanti. Gli altri suoi innamorati finirono per rinunciare ad
amarlo, mentre il solo Aminia perseverava nel supplicarlo
continuamente. E poiché Narciso non gli dava retta, e anzi gli aveva
mandato in dono una spada, si trafisse davanti alla porta del giovane,
non senza aver molto invocato il dio perché lo vendicasse.
Così Narciso, contemplando ad una fonte la propria immagine e la
propria bellezza riflesse nell’acqua, lui solo, e per primo, divenne
assurdamente amante di se stesso. Infine, preso dalla disperazione, e
giudicando di soffrire una giusta punizione, in cambio delle colpe
commesse nell’oltraggiare gli amori di Aminia, si uccise. Da allora i
Tespiesi stabilirono di onorare e venerare ancora di più il dio Eros, oltre
che con sacrifici pubblici, anche con culti privati; le genti del luogo
pensano che il fiore narciso sia spuntato per la prima volta dalla terra
sulla quale fu versato il sangue di Narciso.
RIASSUNTO
Nella città di Tempie, in Beozia, nacque un fanciullo assai bello
chiamato Narciso. Egli disprezzava Eros, il dio dell’amore, e tutti gli
amanti. Solo uno dei tanti innamorati non rinunciò ad amarlo,
Aminia, che persuadeva nel supplicare il bellissimo giovinetto.
Narciso però non gli diede retta e gli mandò in dono una spada con
la quale il povero Aminia si tolse la vita, non senza aver invocato il
dio perché lo vendicasse.
Così Narciso, contemplando ad una fonte la propria immagine e la
propria bellezza riflesse nell’acqua, divenne assurdamente amante
di se stesso. Infine preso dalla condizione in cui si trovava, in
quanto era consapevole dell’impossibilità del suo amore si uccise.
Da allora i Tespiesi stabilirono di onorare e venerare ancor di più il
dio Eros e le genti del luogo pensano che il fiore narciso sia
spuntato per la prima volta dalla terra sulla quale fu versato il
sangue di Narciso.
Pausania (Grecia, II sec. a.C.),
Guida della Grecia I
Davanti all’ingresso dell’Accademia c’è un altare di Eros, con inciso un
epigramma, che dice come Charmos fu il primo degli Ateniesi a dedicare
un altare ad Eros.
Dicono invece che l’altare chiamato di Antèros, che si trova nella città
(di Atene) sia stato dedicato da meteci, perché Melete ateniese,
disprezzando il meteco Timagora che si era innamorato di lui, gli aveva
ordinato di gettarsi giù dalla rupe, dopo esser salito sul punto più alto di
essa; Timagora non volle risparmiare la propria vita, e desiderò far cosa
gradita al giovinetto in qualunque cosa gli ordinasse, così si recò sulla
rupe e si gettò di sotto. Melete, quando infine vide Timagora morto, ne
ebbe un cosi grande rimorso che si precipitò da quella stessa rupe, e cosi
gettandosi perì.
Da allora fu costume per i meteci di venerare come Anteros il demone
che vendicò Timagora.
RIASSUNTO
Davanti all’ingresso dell’Accademia di Atene c’è l’altare di Antèros,
dedicato dai meteci perché Melete ateniese, disprezzando il meteco
Timagora che si era innamorato di lui, gli aveva ordinato di buttarsi giù
dalla rupe, dopo essere salito sul punto più alto di essa.
Timagora allora si recò sulla rupe e si gettò di sotto. Melete, quando
vide Timagora morto, fu preso dal rimorso e si precipitò da quella stessa
rupe.
Da allora i meteci venerano Antèros come il demone che vendicò
Timagora.
Ovidio (Roma, I sec. d.C.),
Metamorfosi III
E Tiresia, divenuto famosissimo per le città dell’Aonia, dava ineccepibili
responsi alla gente che lo consultava. La prima a saggiare la veridicità delle
sue parole fu l’azzurrina Liriope, che un giorno il Cefiso aveva intrappolato
nelle curve della propria corrente, imprigionato tra le onde e violentato.
La bellissima ninfa, rimasta incinta, aveva partorito un bambino che già
appena nato meritava di essere amato, e lo aveva chiamato Narciso.
Interrogato se Narciso sarebbe giunto a vedere una lunga, tarda vecchiaia,
l’indovino aveva risposto: << Se non conoscerà se stesso>>.
Per un pezzo quello predizione sembrò vuota, ma poi fu confermata dal
modo come finirono le cose, dal tipo di morte in seguito a una singolare
passione. E infatti il figlio di Cefiso aveva superato di un anno i quindici
anni, e si poteva prendere tanto per un fanciullo quanto per un giovinetto.
Molti giovani, molte fanciulle lo desiderarono; ma quella tenera bellezza era
di una superbia così ostinata che nessun giovane, nessuna fanciulla mai lo
toccò. Un giorno, mentre spaventava i cervi per spingerli nelle reti, lo vide
una ninfa dotata di una voce sonora, che non sapeva tacere quando uno
parlava, ma neppure sapeva parlare per prima: Eco che rimanda i suoni.
Eco aveva ancora un corpo, non era una voce soltanto; ma benché loquace,
usava la bocca in modo non diverso da come fa ora, riuscendo a rimandare, di
molte parole, solamente le ultime. Questo fatto si doveva a Giunone, poiché tante
volte Giunone avrebbe potuto sorprendere sui monti le ninfe a far l’amore col suo
Giove, se quella astutamente non l’avesse trattenuta con lunghi discorsi, per dar
tempo alle ninfe di fuggire. Quando la figlia Sturno se ne accorse, disse: <<Di
questa lingua che mi ha ingannato potrati disporne poco: farai della voce un uso
ridottissimo>>. E alle minacce fece seguire i fatti: solo quando uno finisce di
parlare, Eco duplica i suoni ripetendo le parole che ha uditi.
Ora, quando vide Narciso vagare per solitarie campagne, Eco se ne infiammò,
e ne seguì di nascosto le orme. E quanto più lo seguiva, tanto più, per l’accorciarsi
della distanza, si scaldava, come lo zolfo vivo e tenace spalmato in cima a una
fiaccola divampa se si accosta al fuoco. Oh quante volte avrebbe voluto abbordarlo
con dolci parole e rivolgergli tenere preghiere! La sua natura si oppone, non le
permette di cominciare; però- questo le è permesso- sta pronta ad afferrare i suoni,
per rimandargli le sue stesse parole. Per caso il fanciullo si sperde dai suoi fedeli
compagni e dice: << c’è qualcuno? >>, ed Eco risponde: << qualcuno>>. Lui si
meraviglia, e cercando con gli occhi da tutte le parti grida a gran voce << vieni!>> e
lei chiama ma lui che chiama. Egli si guarda dietro le spalle, e poiché anche questa
volta nessuno viene fuori, << perché-dice- mi fuggi?>>, e quante parole pronuncia,
altrettante ne riceve. Insiste, e smarrito dal rimbalzare della voce dice: << qui
riuniamoci!>>, ed Eco, che a nessun suono mai risponderebbe più volentieri,
<<uniamoci!>> ripete.
E decisa a far come dice esce dal bosco e si fa avanti per gettargli
bramosamente le braccia al collo. Lui fugge, e nel fuggire:<< giù le mani,
non mi abbracciare!- esclama. – preferisco morire piuttosto che darmi a
te!>>eco non risponde altro che << darmi a te!>>
Disprezzata essa si nasconde nei boschi occultando dietro le frasche il volto
per la vergogna e da allora vive in antri solitari. Ma l’amore resta conflitto in
lei e cresce per il dolore del rifiuto. I pensieri la tengono desta e fanno
deperire in modo pietoso, la pelle si raggrinzisce per la magrezza e tutti gli
umori del corpo si disperdono nell’arai. Non rimangono che la voce e le ossa.
La voce esiste ancora; le ossa, dicono, presero l’aspetto di sassi. E così sta
celata nei boschi e non si vede su nessun monte, ma dappertutto si sente: è
il suono, che vive in lei. Così Narciso aveva deluso costei, così altre ninfe,
nate dalle acque o dai monti, così, prima, frotte di maschi. Finché un giorno
uno, disprezzato, levò le mani al cielo e disse: << che possa innamorarsi
anche lui e non possedere chi ama! >> così disse, e la dea di Ramnunte,
assentì a quella giusta preghiera.
C’era una fonte senza un filo di fango, dalle acque argentate e trasparenti,
a cui mai si erano accostati pastori o caprette portate al pascolo sui monti o
altro bestiame, che mai era stata agitata da altro da un uccello o da un
animale selvatico o da un ramo caduto da un albero. Tutt’intorno c’era erba,
rigogliosa per la vicinanza dell’acqua, e su una selva che mai avrebbe
permesso a quel luogo di essere intiepidito dal sole.
Qui il fanciullo, sposato dalle fatiche della caccia e dalla calura, si getta
bocconi, attratto dalla bellezza del posto e dalla fonte, ma mentre cerca di
sedare la sete, un’altra sete gli cresce: mentre beve, invaghitosi della forma
che vede riflessa, spera in un amore che non ha corpo, crede che sia un
corpo quella che è un’ombra. Attonito fissa se stesso e senza riuscire a
staccare lo sguardo rimane immobile come una statua scolpita in marmo di
Paro. Disteso a terra contempla le due stelle che sono i suoi occhi, e i
capelli degni di Bacco, degni anche di Apollo, e le guance impuberi e il collo
d’avorio e la gemma della bocca e il rosa soffuso sul candore di neve, e
ammira tutto ciò che fa di lui un essere meraviglioso. Desidera, senza
saperlo, se stesso; elogia, ma è lui l’elogiato, e mentre brama, si brama, e
insieme accende e arde. Quante volte non dà vani baci alla fonte
ingannatrice! Quante volte non tuffa nell’acqua le braccia per gettarle attorno
al collo che vede, ma nell’acqua non si non si afferra! Non sa che sia quel
che vede, ma quel che vede lo infiammo, e proprio l’errore che gli occhi glieli
riempe di cupidigia. Ingenuo, che sta i cercar di afferrare un’immagine
fugace? Quello che brami non esiste; quello che ami se ti volti, lo fai svanire.
Questa che scorgi è l’ombra, il riflesso della tua figura. Non ha nulla di suo
quest’immagine; con te è venuta e con te rimane; con te se ne andrebbe- se
tu riuscissi ad andartene! Né desiderio di cibo, né desiderio di riposo riesce
invece a staccarlo da lì. Buttato sull’erba ombrata fissa con sguardo mai
sazio la forma ingannevole e si strugge attraverso i propri occhi.
E sollevandosi un po’, tenendo le braccia verso le selve circostanti dice:
<< c’è qualcuno; o selve, che abbia sofferto d’amore più crudelmente? Voi certo
lo sapete, voi che per molti siete state un opportuno nascondiglio. Vi ricordate di
qualcuno, nella vostra esistenza (da tanti secoli dura la vostra vita), che si sia
consumato così? So che mi piace,so che lo vedo; ma se lo vedo e mi piace,pure
trovarlo non mi riesce: tanto l’amore mi confonde! E ragione di più per affliggermi,
non è che ci separi un gran mare, o un lungo cammino, o dei monti, o una cinta di
mura con le porte sbarrate: ci divide un sottile che porgo baci alla limpida onda,
tutte le volte si protende verso di me offrendo la bocca. Diresti che si può toccare;
è un nulla che si oppone al nostro amore. Chiunque tu sia, vieni fuori! Perché mi
illudi, fanciullo unico al modo? Dove te ne vai mentre io ti desidero? E sì che la
mia bellezza e la mia bellezza e la mia età non sono da disprezzare: mi hanno
amato anche delle ninfe. Con sguardo amichevole mi prometti e mi fai sperare
chissà che cosa, e quando io tendo le braccia verso di te, subito le tendi anche
tu.Quando rido, ricambi il riso. Spesso ho anche notato lacrime sul viso tuo
quando lacrimo io, e anche rispondi con un cenno ai segni miei, e a quel che
posso arguire dai movimenti della bocca bella, mi rimandi parole che non
giungono alle mie orecchie. Ma questo sono io! Ho capito, e la mia immagine non
m’inganna più!brucio d’amore per me stesso, suscito subisco la fiamma! Che
devo fare? Farmi chiedere, oppure chiedere io? Ma poi, chiedere che? Quel che
bramo l’ ho in me: ricchezza che equivale a povertà.
Oh potessi staccarmi dal mio corpo! Desiderio inaudito per uno che ama, vorrei la
cosa amata fosse più distante. E ormai questa sofferenza mi toglie le forze e non
mi resta più molto da vivere, mi spengo nella prima giovinezza. E la morte non mi
è gravosa, poiché con la morte finirà questa pena; ma vorrei che l’altro, l’amato,
vivesse di più. Ora invece morremo congiuntamente, spirando, due,un’anima
sola>>
Così dice, e delirando torna a contemplare la figura, e con le lacrime turba lo
specchio d’acqua, che s’increspa; e la forma si offusca. Vedendola svanire: <<
dove ti ritiri?- esclama- rimani, non abbandonare, crudele, me che ti amo! Se
toccarti non posso, mi sia permesso guardarti e nutrire così la mia disgraziata
passione!>> e mentre si lamenta si tira giù l’orto, percosso, si tinge di un tenue
rossore, così come i pomi, bianchi da una parte, dall’altra rosseggiano, o come
l’uva, in grappoli cangianti, si vela, quando matura, di un colore porporino. A
quella vista (l’acqua è tornata limpida) non resiste più. E come cera bionda a una
leggere fiamma, come brina mattutina al tepore del sole, così, sfinito dall’amore si
strugge e un fuoco occulto a poco a poco lo consuma. E ormai non ha più il suo
colorito, rosa misto a candore, non ha più vigore e forze né ciò che prima tanto
piaceva a vedersi, e il corpo non è più quello di cui un giorno si era innamorata
Eco.
Ed Eco tuttavia, quando lo vede così, sebbene ancora adirata al ricordo prova
un grande dolore, e ogni volta che il misero fanciullo dice << ohi, ohi>>, lei
rimandando il suo ripete << ohi, ohi>>, e quando lui con le mani si percuote le
braccia, rifà lo stesso suono, il suono della percossa.
Reclinò il capo stanco sull’erba verde. La morte buia chiuse quegli occhi che
ancora ammiravano la forma del loro padrone. Anche dopo, quando fu
accolto nella sede infernale, continuava a contemplarsi nell’acqua dello Stige.
Levarono lamenti la Naiadi sue sorelle; si tagliarono i capelli e li offrirono al
fratello. Levarono lamenti le Draidi. Ed Eco risonando si unì a quel coro di
dolore. E già preparavano il rogo, e le fiaccole da agitare, e il feretro: il corpo
era scomparso. Al posto del corpo trovarono un fiore: giallo nel mezzo, e
tutt’intorno petali bianchi.
(traduzione di P. Berrnardini Marzolla).
RIASSUNTO
Si narra che il giovane Narciso nasce da Liriope, la ninfa di fonte che, per la sua
bellezza, fu rapita dal dio fluviale Cefiso, che l’avviluppò nelle sue tortuose
correnti. Figlio delle acque, egli è un giovane di straordinaria bellezza, cui Tiresia,
il veggente, ha previsto lunga vita solo a condizione che "non conosca se stesso".
A sedici anni poteva contare già numerosi amanti, tutti respinti, di entrambi i sessi.
Un giorno, mentre è a caccia di cervi in una foresta, domanda a gran voce se ci
sia qualcuno lì. La ninfa Eco, che si è innamorata di lui e lo segue di nascosto,
ripetendo le sue ultime parole gli risponde e tenta il desiderato abbraccio, ma egli
la respinge prontamente. Si narra che della bella ninfa non siano rimaste che le
sole ossa, tramutate in sassi, e la voce tutt'ora vagante in valli solitarie.
Ma qualcuno degli amanti respinti chiede vendetta al cielo.
Interviene la dea Nemesi a far sì che anche Narciso sia privato dell’abbraccio di
colui che ama. Accade infatti che, assetato, Narciso si affacci ad una sorgente: lì
scorge la propria immagine e se ne innamora irrimediabilmente. Sulle prime non
riconosce se stesso, poi giunge la verità: "Io sono te".
Struggendosi d’amore per quello che oramai sa essere se stesso, Narciso si lascia
morire. Quando cercano di dargli degna sepoltura coloro che lo amano scoprono,
nel punto in cui il giovane è scomparso, un bellissimo fiore dai petali bianchi orlati
di color zafferano, il narciso.
Plotino (Licopodi, Egitto 205 / Roma 270, III sec d.C.),
Enneadi, I, 6, 8
E in che modo? Con quale mezzo? Come si potrà contemplare un’irresistibile
bellezza che rimane come all’interno del santuario e non procede all’esterno dove
anche i profani possono vederla? Vada e prosegua fino all’interno chi ne è
capace, abbandonando all’ esterno la vista degli occhi, senza più volgersi al
fulgore dei corpi che si è lasciato dietro. Non bisogna infatti, vedendo le bellezze
dei corpi, precipitarsi ad esse, ma, si deve, sapendo che sono immagini, orme ed
ombre, fuggire verso quello di cui queste sono immagini. Perché se uno si
precipitasse volendo afferrare tali bellezze come fossero vera realtà, incorrerebbe
nello stesso destino di colui che, volendo afferrare una bella parvenza sulla
superficie dell’acqua – come un mito mi pare lasci allusivamente ad intendere-,
s’inabissò giù nella corrente e scomparve; allo stesso modo, dunque, chi è tutto
preso dai bei corpi e non li abbandona, sprofonderà, non con il corpo, ma con
l’anima, in abissi pieni di tenebra e odiosi all’ intelletto, dove, cieco abitante
dell’ Ade, starà, lì come qui, in compagnia di ombre.
RIASSUNTO
Secondo la riflessione di Plotino, di fronte ad
un’irresistibile bellezza, non bisogna fermarsi
all’apparenza e al corpo stesso ma bisogna andare a
fondo e cogliere l’essenza dell’anima. Se uno si
precipitasse volendo afferrare tali bellezze, come
fossero realtà, incorrerebbe nello stesso destino di
“colui ” che nel tentativo di afferrare una bella parvenza
sulla superficie dell’acqua s’ inabissò giù nella corrente
e scomparve.
Allo stesso modo chi è tutto preso dai bei corpi
sprofonderà con l’anima in abissi tenebrosi in
compagnia di ombre.
Giovanni Boccaccio(XIV sec. d.C.),
Genealogie deorum Gentilium LIX
Narciso fu figlio di Cefiso e della ninfa Liriope, come bene mostra Ovidio, quando
dice:[Ovid. Metam. III 341-46] ecc.
Su questo stesso Narciso, Ovidio riporta una favola
abbastanza nota. Dice infatti che quando nacque Narciso, fu portato dal vate
Tiresia, per ricevere un responso sulla sua vita futura. Il quale rispose a chi lo
interrogava che il bambino sarebbe vissuto tanto a lungo, quanto avesse differito il
momento di vedere se stesso. Questo vaticino sulle prime fu oggetto delle risa di
chi lo ascoltò, ma alla fine non mancò di andare all’effetto. Infatti, quando il
bambino fu cresciuto come un bellissimo adolescente, diventato cacciatore, fu
amato da molte ninfe; ma soprattutto da Eco, ninfa del Pernaso.
Ma restando inesorabile, e non facendo alcun conto di tutti quelli che lo amavano,
per le preghiere delle ninfe si ottenne ciò che dopo poco accadde. Infatti un giorno,
essendosi rifugiato in una valle, spossato sia dalla fatica della caccia che dalla
calura della stagione estiva, si chinò assetato su una limpida fonte, e vista la
propria immagine, che non aveva mia contemplato prima, credendola una ninfa
della fonte, subito ne ammirò la bellezza e fu preso d’amore; e non potendo toccare
ciò che credeva di poter toccare, dopo lunghi lamenti, dimenticò se stesso, morì di
inedia sul posto, e per la compassione delle ninfe fu tramutato nel fiore che porta il
suo nome.
RIASSUNTO
Boccaccio riprende il mito di Ovidio partendo dalla nascita di Narciso e
concludendo con la sua tragica morte.
Ci sono alcune differenze nello svolgimento del racconto, ad esempio qui la
profezia contro Narciso viene lanciata dalle ninfe da lui rifiutate e non da
alcuni giovinetti.
Secondo Boccaccio poi Narciso, specchiandosi nell’acqua della sorgente, si
innamora della sua immagine credendola una ninfa della fonte e preso della
disperazione morì di inedia sul posto.
Si dice che per la compassione delle ninfe il giovane fu tramutato nel fiore
che porta il suo nome.