SCHEDE TEOLOGICHE
PREMESSA
Nell’itinerario di preparazione spirituale alla Visita Pastorale del Santo Padre trova spazio la
redazione di alcune schede catechistiche che accompagnano la catechesi parrocchiale durante il
mese di maggio con indirizzo mariano – petrino in un contesto sinodale.
Lo scopo di queste schede catechistiche è quello di cogliere la novità del messaggio di Gesù
sul senso misterioso della persona del Papa, che verrà a visitare la nostra Chiesa di Brindisi-Ostuni.
Il Vangelo, quando si parla del Papa, viene aperto su due celebri passi di Matteo e di
Giovanni, ove si racconta del Signore che prima promette e poi concede a Pietro la somma autorità
della Chiesa.
Tra i due fatti sta la grande preghiera del sommo ed eterno Sacerdote, Gesù, per il suo vicario:
“io ho pregato per te affinché la fede non venga meno; e tu, quando sarai convertito, conferma i tuoi
fratelli” (Lc 22,31-32).
Nell’attesa di vedere Pietro, nella persona di Benedetto XVI, non manchi la nostra supplica
incessante, nella consapevolezza che “dal Papa ci si va non per ricevere, ma per dare, e il dare è in
corrispondenza dell’amore che gli sapremo portare e manifestare” (don Mazzolari).
La prima scheda ha come titolo: “Tu sei Pietro…”
La seconda scheda ha come titolo: “Mi ami tu? … pasci le mie pecorelle”.
Sono svolte secondo lo schema della Lectio divina.
Il messaggio pasquale ha valore di introduzione al discorso di riflessione e di
approfondimento.
Ringrazio i Sacerdoti don Alberto, don Mimmo, don Sebastiano e don Salvatore per aver
collaborato con disponibilità e con competenza alla elaborazione dei testi.
Le schede possono essere commentate in comunità o anche consegnate a fedeli desiderosi di
saperne di più.
Benedico tutti
 Rocco Talucci
Arcivescovo
1
MESSAGGIO PASQUALE
IN ATTESA DEL SANTO PADRE
Nel Cenacolo pasquale è nato il collegio apostolico che vede in Pietro il Primo, il Capo, la
Roccia, il Padre chiamato a confermare la fede dei Pastori e di tutti i discepoli nella storia della
Chiesa.
Nella notte della passione la fragilità di Pietro lo ha fatto sentire vicino all’uomo di ogni
tempo, ma anche capace di amare di più nell’amarezza del pianto e nella gioia del perdono.
Nella Pasqua il Signore Gesù ci ha dato il comandamento nuovo dell’amore, che è diventato
la “Regola d’oro” per i cristiani e per tutti gli uomini di buona volontà. Ha istituito il Sacerdozio
cattolico per l’annuncio del Vangelo della salvezza. Ha consegnato l’Eucaristia per rimanere con
noi nel sacrificio dell’amore e nella comunione della vita.
A Pietro, che ha professato il suo amore, ha dato il compito di “pascere” le sue pecorelle
cioè di guidarle con l’annuncio della Parola di Verità, sulla Via dell’amore, per la pienezza della
Vita.
È Pietro che, nella parola di Gesù Cristo, getta le reti per la “pesca” degli uomini, è Pietro
che esorta a “piacere a Dio prima che agli uomini”, è Pietro che dona la vita per il Maestro e per la
comunità. È Pietro il Pastore supremo che conduce al pascolo sicuro, è Pietro il Padre che fa
dell’umanità la famiglia di Dio, è Pietro il navigatore verso il porto sicuro nella gioia ultima che non
delude.
Il Successore di Pietro, il Vicario di Cristo, oggi è Benedetto XVI, che verrà da noi come
portatore di speranza: speranza sociale per realizzare la pace e la giustizia nella storia, speranza
morale per edificare la civiltà dell’amore, speranza spirituale per gridare una novità di vita.
Se nella Pasqua si è concretizzata questa promessa, noi vogliamo riviverla e sentirla nostra
questa speranza, dono della Risurrezione, tramite la missione degli Apostoli.
Questa speranza ha permeato la storia, segnando quelle radici cristiane che hanno generato
santità spirituale e giustizia sociale, rendendo la Chiesa anima del mondo e il mondo luogo dove
sperimentare l’amore.
Possa questa Pasqua, che ci predispone alla venuta del Santo Padre, orientare cristiani e
cittadini verso quei valori che redimono l’uomo e lo proiettano verso un sicuro sviluppo.
Auguro a tutti di vivere con questi sentimenti la S. Pasqua del Signore.
 Rocco Talucci
Arcivescovo
Brindisi, 16 marzo 2008, Domenica delle Palme
2
Prima scheda: TU SEI PIETRO
Obiettivo
Questa prima scheda ha lo scopo di farci comprendere che Pietro non è solo il tipo di ogni
discepolo credente, ma ha avuto come figura unica, dal punto di vista storico, un ruolo particolare
nella nascita e nella guida della Chiesa.
Gesù Cristo è la pietra su cui è costruita la Chiesa: essa rimane salda. Pietro e la sua
professione di fede restano vivi nella persona del Papa.
Ogni cristiano deve misurarsi con questa fede.
Preghiera iniziale
Dio onnipotente ed eterno,
sapienza che regge l’universo,
ascolta la tua famiglia in preghiera,
e custodisci con la tua bontà
il papa benedetto XVI,
che tu hai scelto per noi,
perché il popolo cristiano,
da te affidato alla sua guida pastorale,
progredisca sempre nella fede.
Per Cristo nostro Signore. Amen
Alla scuola della Parola “Tu sei Pietro … Su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,
13 -18).
«Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarea di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La
gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” Risposero: Alcuni Giovanni Battista, altri Elia, altri
Geremia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Voi chi dite che io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu
sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la
carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e
su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te
darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò
che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”.
Lectio divina
«TU SEI PIETRO E SU QUESTA PIETRA EDIFICHERÒ LA MIA CHIESA» (Mt 16,1318)
Nei pressi del fiume Giordano, a Cesarea di Filippi, Gesù sembra voler fare un “sondaggio”
circa la sua persona: che cosa pensa la gente sul “Figlio dell’uomo” e cosa pensano i discepoli? Il
titolo cristologico utilizzato da Gesù richiama il Messia umano-divino del libro di Daniele (capitolo
7); evocando l’Antico Testamento Egli svela la sua identità e la nasconde allo stesso tempo: ad un
orecchio distratto “figlio dell’uomo” può significare semplicemente “appartenente all’umanità” cioè
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“uomo”, ma per coloro che si lasciano ammaestrare dalle sue parole è giunto il compimento delle
antiche profezie. Nel viaggio che conduce a Gerusalemme Gesù chiede, perciò, ai “suoi” cosa
pensano sulla sua persona e sul suo operato “quelli di fuori” (hoi anthropoi “gli uomini”). Le
risposte sono varie e vaghe: egli viene scambiato con il Battista o uno dei profeti come Elia e
Geremia. Questa prima risposta consente alla narrazione di spostare l’attenzione dalla folla ai
discepoli. La domanda è ora diretta e chiara: «Voi chi dite che io sia?». Il celebre passo della
confessione di Pietro, riportato anche dagli altri vangeli sinottici (Marco e Luca), ha in Matteo una
connotazione propria che le conferisce preziose sfumature teologiche.
Pietro a nome del gruppo prende la parola e confessa la messianicità di Gesù – “Tu sei il
Cristo” – e la fede nella sua figliolanza divina – “Il Figlio del Dio vivente” – diversamente da
Marco e Luca che riportano solo la prima parte della risposta. Pietro ha già riconosciuto in Gesù,
nel brano in cui egli cammina sulle acque (14,22-33), il suo Signore − il Kyrios (v. 28) – e i
discepoli che sono sulla barca hanno professato la propria fede nella sua dignità teologica − “Tu sei
veramente il Figlio di Dio” – sebbene, in quel contesto, Gesù sottolinei la loro poca fede. In Mt 18,
invece, Egli ha parole di elogio verso Pietro pur riconoscendo che quanto egli ha appena proclamato
è frutto di una rivelazione divina. La coppia “carne e sangue” esprime, in un linguaggio tipicamente
semitico, la totalità della persona considerata nella sua debolezza. Non è merito di Pietro, sembra
dire Gesù, se egli ha risposto “correttamente” alla domanda, sebbene il suo intervento pieno di
slancio − tipico del temperamento dell’apostolo − viene lodato con parole non comuni: “Beato sei
tu!”. Le parole che seguono manifestano il desiderio di Gesù di voler rendere Pietro il fondamento
della Chiesa. Giocando con le parole “pietra” (pétra) e Pietro (pétros) Egli rimanda ad un “edificio”
che poggerà sull’apostolo. Il riferimento più immediato è a Mt 6 in cui Gesù richiama le condizioni
di stabilità del vero discepolo – colui che ascolta e pratica la Parola – attraverso l’immagine della
casa costruita sulla roccia (pétra).
La Chiesa poggiata sulla pietra (nei Vangeli il termine ekklēsía compare solo qui e in Mt
18,17) appartiene a Gesù (“la mia Chiesa”) e per tale ragione l’Ade (si richiama qui lo sheol
dell’Antico Testamento che “divora” coloro che si avvicinano alla sua bocca) non potrà esercitare
alcun poter e alcuna forza (qui c’è il verbo katischúō che significa “porre in essere con forza”). Il
termine “Chiesa” si richiama all’assemblea di Israele − qāhāl − convocata per celebrare la Pasqua
(Es 12), per vivere comunitariamente il perdono (Lv 4) e per ascoltare la Parola (Nee 8).
Il linguaggio adoperato in Matteo 16 è simbolico ma questo non significa che non abbia un
contenuto forte e reale: a Pietro, infatti, è conferito un potere notevole in ordine alla Chiesa. L’atto
di “legare” e “sciogliere” − anche in questo caso espressioni ebraiche utilizzate in un contesto
giuridico − rimandano ad un’ampia potestà (potestà rafforzata dall’altra immagine, quella delle
chiavi) posseduta, normalmente dai rabbini: questi avevano l’autorità di approvare (legare) o
disapprovare (sciogliere) un comportamento o un’interpretazione della Legge. A Pietro Gesù dona
molto di più. Il collegamento tra cielo e terra (ciò che legherai e scioglierai in terra..sarà legato e
sciolto nei cieli…) può indicare una potestà “totale”, cioè che abbraccia tutti gli ambiti della vita
umana racchiusi tra i due estremi. Più specificamente, nel brano la coppia “cielo e terra” rimanda
direttamente all’ingresso nel “regno dei cieli” (v. 19; “regno dei cieli” è l’espressione di Matteo per
indicare il “regno di Dio”). Pietro è costituito non solo il fondamento ma anche il custode del
“regno dei cieli”, che è il cuore della predicazione di Gesù (Mc 1,15). Il testo matteano non va
forzato nelle sue implicanze giuridiche e canoniche circa il primato di Pietro così come poi si
configurerà nella storia della Chiesa: l’evangelista accosta i termini “Chiesa” e “Regno dei Cieli”
senza specificare i particolari di questo rapporto. Sicuramente è attestato che il potere petrino, di
natura disciplinare e teologica, è legato all’ammissione o all’esclusione dalla Chiesa/Regno dei
Cieli.
Il brano di Mt 18,15-18 («Ciò che avrete legato resterà legato, ciò che avrete sciolto resterà
sciolto») sembra mitigare il munus affidato a Pietro o, meglio, sembra completare il quadro nel
quale tale potere va esercitato. Il contesto del capitolo 18 di Matteo richiama la necessità della
correzione fraterna da esercitarsi per “gradi”: se il richiamo personale non è ascoltato si
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coinvolgano “due o tre testimoni”; se anche tale appello è rifiutato allora si informi la Chiesa e se,
infine, anche questo richiamo cade nel vuoto, il fratello peccatore sia considerato come un “pagano
e un pubblicano” (vv. 16-17). Quest’ultima frase si riferisce alla prassi di allontanare il peccatore
dalla comunità in attesa di una sua conversione e di un suo reinserimento nella comunità (cf. 1 Cor
5,4-5). Tale lettura è mutuata dal contenuto dei brani che precedono Mt 18,15-18 e nei quali si parla
della misericordia da riservare ai peccatori (i vv. 11-14, per esempio, riportano la parabola della
pecora smarrita). Il potere prima conferito al solo Pietro è adesso esteso alla ekklēsía: in questo
versetto il termine “Chiesa” rimanda direttamente ai discepoli, dato che Gesù in Mt 18 si rivolge
proprio a loro.
Da questi due passi del vangelo di Matteo si può cogliere una verità fondamentale: nella
Chiesa Pietro − in quanto “pietra” – ha una collocazione diversa rispetto agli altri discepoli;
tuttavia, il suo ministero si esercita nella Chiesa cioè insieme agli altri apostoli. In questa direzione
vanno letti anche i brani di Giovanni 20-21. Infine notiamo che nel vangelo di Luca (22,32), in
continuità con quanto emerge dai vangeli sinottici, si legge il ministero petrino nella linea di un
“primato” che, in questo caso, consiste nella confermazione (da stērizō “rafforzare, irrobustire”)
della fede degli altri discepoli. Anche in questo brano il primato di Pietro è un frutto che viene
dall’alto: Gesù prega per la fede del suo discepolo affinché, superato il momento della prova – ad
opera di satana − che toccherà in sorte sia a lui che agli altri discepoli, egli possa sostenere e
incoraggiare i suoi fratelli.
Per approfondire il tema
IL DOGMA DEL PRIMATO DEL ROMANO PONTEFICE
A Pietro è stata affidata una triplice missione:
a) stare in permanenza sulla soglia della Chiesa con le chiavi del Regno, quale testimonianza
della fede che la Chiesa deve preservare se vuole rimanere se stessa;
b) confermare nella fede e nel ministero coloro che condividono con lui la responsabilità
pastorale della Chiesa;
c) condurre tutti i seguaci dell’unico e sovrano Pastore verso i pascoli della fede.
Tutti gli apostoli partecipano a questa triplice missione, ma Pietro la esercita in eccellenza e
come simbolo per tutti. Quest’unica e fondamentale missione di Pietro, come anche quella degli
altri apostoli, è trasmissibile. In effetti, essendo essi fondamento iniziale della Chiesa, la loro
vocazione è unica nel suo genere. Contiene però degli elementi trasmissibili. Rifiutare di affermare
la trasmissibilità del ministero apostolico, significherebbe creare un distacco tra il ruolo degli
apostoli e quello dei loro successori; significherebbe considerare la Chiesa post-apostolica diversa
dalla Chiesa apostolica. Non c’è invece che una sola Chiesa e questa avrà sempre bisogno di sapere
in che cosa deve credere, avrà sempre bisogno di ministri rinsaldati e confermati nel proprio
incarico; sarà sempre il gregge universale dell’unico Pastore. L’unicità della Chiesa e la perenne
identità della sua natura, dalla Pentecoste alla Parusia, implicano la permanenza della funzione
apostolica e, in particolare, di quella di Pietro.
Il Romano Pontefice esercita nella Chiesa un servizio di unità di tutto il popolo di Dio,
rappresentata e promossa dall’unità del corpo episcopale.
Infatti, il primato petrino va considerato all’interno del ministero episcopale, in quanto fa
parte della realtà unitaria della successione apostolica. Il ministero di Pietro, infatti, rientra nella
natura del “collegio” apostolico, al quale Gesù propone Pietro come capo e, quindi, rientra nella
struttura del ministero apostolico quale è richiesta dalla successione apostolica.
La dottrina sul primato del Romano Pontefice è stata dogmaticamente definita dal Concilio
Vaticano I con la costituzione dogmatica Pastor Aeternus (18 luglio 1870): « Affinché poi lo stesso
episcopato fosse uno e indiviso e mediante la coesione reciproca dei sacerdoti tutta la moltitudine
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dei credenti fosse conservata nell’unità della fede e della comunione, ponendo il beato Pietro a
capo degli altri apostoli costituì in lui il principio perenne e il visibile fondamento di questa duplice
unità»(DS 3061).
La Pastor Aeternus tratta del primato di giurisdizione del Papa nei primi tre capitoli.
Capitolo I: Cristo ha promesso e conferito immediatamente e direttamente a Pietro un vero e
proprio primato di giurisdizione su tutta la Chiesa (DS 3053-3055). Il testo offre così una lettura
ecclesiale del primato apostolico di Pietro.
Capitolo II: per volontà di Cristo, Pietro ha dei successori nel primato e il Romano Pontefice
è il successore di Pietro in tale primato. Si noti che il Vaticano I collega il primato del Romano
Pontefice con il primato della Sede, ossia con la Ecclesia Romana. Chiunque succede a Pietro in
questa cattedra – si dice – per disposizione di Cristo, ha il primato di Pietro su tutta la Chiesa (DS
3057). Il Romano Pontefice è tale in quanto Vescovo di Roma.
Capitolo III: la potestà di giurisdizione del Romano Pontefice è piena e suprema, universale,
ordinaria e immediata e veramente episcopale. “Piena, suprema e universale” configurano l’ambito
della potestà di giurisdizione del Papa: si tratta di una giurisdizione «su tutta la Chiesa, non solo in
materia di fede e costumi, ma anche in ciò che riguarda la disciplina e il governo della Chiesa
universale» (DS 3058).
La pienezza del potere di giurisdizione del Papa non può essere limitata da alcuna altra
potenza umana che sia superiore, ma solamente dal diritto naturale e dal diritto divino.
Tale potere si dice:
a) “ordinario”, nel senso che non è delegato, ma annesso all’ufficio,
b) “immediato”, in quanto non deve passare attraverso il beneplacito del vescovo locale,
c) “Veramente episcopale” sarebbe solo un’esplicitazione di “ordinario e immediato”.
Si afferma, infine, che il primato di giurisdizione del Papa non è a danno del potere di
giurisdizione episcopale, immediato e ordinario, dei vescovi. Anzi, tale potere è asserito, rafforzato
e rivendicato dal pastore supremo ed universale secondo il detto di san Gregorio Magno: «Il mio
onore è l’amore della Chiesa universale. Mio amore è il solido vigore dei miei fratelli. Allora io mi
sento veramente onorato, quando ad ognuno di essi non si nega l’onore dovuto» (Epistula ad
Eulogium, DS 3061).
Dire che il primato papale è pieno, supremo, universale non significa che esso possa venire
esercitato in modo “arbitrario”. La costituzione divina della Chiesa e dell’episcopato, la legge
naturale, le istanze che moralmente vincolano l’esercizio stesso del primato e le finalità del primato
(ad ædificationem) lo vietano.
Il primato del Romano Pontefice si caratterizza come servizio dell’unità della Chiesa
universale e come ministero autenticamente episcopale. È in questa prospettiva che va compresa
anche la dottrina dell’infallibilità di cui il vescovo di Roma gode in alcune circostanze.
La Pastor Aeternus così si esprime: «Il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè
quando definisce una dottrina riguardante la fede o la morale da ritenersi da parte della Chiesa
tutta, […] grazie all’assistenza divina promessa nel beato Pietro, gode di quell’infallibilità della
quale il divino Redentore volle fosse fornita la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede
e alla morale» (DS 3074).
La Chiesa non è infallibile perché il suo pastore supremo è infallibile, ma essa è tale perché
ha ricevuto dal suo divino Redentore il dono dello Spirito e l’assicurazione della sua indefettibilità,
cioè la permanenza della Chiesa nella comunione della fede apostolica nel tempo e nello spazio
(credo la Chiesa cattolica e apostolica).
L’infallibilità del Vescovo di Roma è l’espressione, il segno e lo strumento
dell’indefettibilità della Chiesa, grazie al dono dello Spirito, per cui, insegna il Vaticano II,
«l’universalità dei fedeli che tengono l’unzione dello Spirito Santo, non può sbagliarsi nel credere
[…]quando dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici mostra l’universale suo consenso in cose di fede
e di morale» (Lumen Gentium 12a).
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Un pensiero da…..don Primo Mazzolari
“Quando parla il Papa, dappertutto si fa una attesa cordiale. Lo sappiamo bene che neanche
la sua Parola può cambiare taumaturgicamente il corso della storia: nulla di magico quindi
nell’attesa, che è fatta per il respiro del cuore….
Senza volerlo apertamente dichiarare, credenti e non credenti, riconosciamo d’istinto che c’è
rimasta in piedi un’unica casa, quella del Padre, e che la sola parola che si può ascoltare senza
timore è la sua.
Se mi fosse permesso esprimere un desiderio – ma i figlioli possono prendersi la massima
confidenza! – vorrei dirgli: “Parlateci più spesso, Santo Padre: non lasciateci senza il conforto della
vostra viva voce, poiché avete il modo di arrivare anche all’ultimo dei vostri figlioli sperduti nel
mondo”.
Con la Vostra parola di bontà e di speranza Voi salvate i vostri figli dalla disperazione…Son
le parole, che hanno il sapore delle labbra paterne, che ci tengono su il cuore…”.
Preghiera conclusiva
Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente,
che nella fede di Pietro hai stabilito
la roccia della tua Chiesa,
e nella confessione del suo amore per Te hai sancito
il mandato supremo di pascere il tuo gregge,
ascolta la nostra preghiera
per il tuo servo il papa Benedetto.
Conforta il Suo ministero petrino
nell’oggi della Chiesa
a favore di ogni uomo cercatore della Verità.
Sostieni, con la forza dello Spirito santo,
la sua missione di Vicario del tuo Amore
nell’anelito all’Unità
e nell’attenzione ai più poveri.
Accompagna e benedici la Sua Visita alla nostra Chiesa,
perché confermati da Lui nella fede,
nella speranza e nella comunione,
diventiamo una cosa sola con Te nel Padre,
e il mondo creda all’Amore che salva.
Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen
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Seconda scheda: MI AMI TU? PASCI LE MIE PECORELLE
Obiettivo
Questa seconda scheda ha lo scopo di farci comprendere che:
Solo chi risponde, con amore schietto, come quello di Pietro, alla rivelazione di
Gesù, è capace di diventare pastore vero per gli altri, pronto a dare la vita come il
Maestro.
Solo colui che, insieme a Pietro, può dire di sé di amare Cristo, potrà essere nella
Chiesa, costruttore di comunione e servo nella missione.
Preghiera iniziale
O Dio, che nella serie dei successori di Pietro
hai scelto il tuo servo Benedetto XVI
come vicario di cristo sulla terra
e pastore di tutto il gregge,
fa che Egli confermi i fratelli,
e tutta la Chiesa sia in comunione con Lui
nel vincolo dell’unità, dell’amore e della pace,
perché tutti gli uomini ricevano da te,
pastore e vescovo delle anime,
la verità e la vita eterna.
Per Cristo nostro Signore. Amen
Alla scuola della Parola “Mi ami tu? …Pasci i miei agnelli” (Gv 21, 15-19).
Quando ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone di Giovanni, mi ami tu più di
costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti amo”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”.
Gli disse di nuovo: “Simone di Giovanni, mi ami?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti
amo”. Gli disse: “Pasci le mie pecorelle”. Gli disse per la terza volta: “Simone di Giovanni, mi
ami?”. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: “Signore, tu
sai tutto; tu sai che ti amo”. Gli rispose Gesù: “Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti dico:
quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio
tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”. Questo gli disse per
indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”.
Lectio divina
“MI AMI TU?”
Il Contesto
Il Capitolo 21 del Vangelo di Giovanni
Senza la pretesa di essere esaustiva e dettagliata, questa prima parte della scheda ci offre
qualche indicazione sul contesto immediato dentro il quale è inserita la nostra pericope..
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Il capitolo 21 di Giovanni è un racconto pasquale e come tale conserva le caratteristiche proprie
dei racconti della Risurrezione di Gesù. Tali caratteristiche sono sostanzialmente tre: «iniziativa di
Gesù (21,1.4-6), riconoscimento da parte dei testimoni (21,7-13), missione affidata (21,15-23) »1.
Quale posto occupa questo capitolo all’interno del quarto Vangelo? Il narratore
definisce tale apparizione come «terza» (21,14) quindi si potrebbe pensare che questo capitolo sia la
naturale e consequenziale continuazione del capitolo 20.
Come è strutturato questo capitolo? Anche per rispondere a questa domanda mi rifaccio allo
studio di LÈON-DUFOUR. Il capitolo consta di due sezioni:
prima sezione (vv. 1-13): racconta l'apparizione al gruppo dei discepoli, culmina sul pasto
conviviale offerto dal Signore, dopo che una pesca miracolosa ha portato i discepoli a riconoscere la
sua identità;
seconda sezione (vv. 15-23): Gesù affida il suo gregge a Simon Pietro e gli predice che
morirà martire, poi gli fa conoscere il ruolo permanente del discepolo che Gesù amava.
Il versetto 14 fa da spartiacque e costituisce una piccola annotazione del narratore: «l'opera
di quest'ultimo è autenticata nel v. 24 dal «noi» della comunità credente. Un versetto aggiuntivo
chiude l'insieme del vangelo, che celebra l'opera compiuta da Gesù.
La costruzione del testo si rivela molto curata. L'unità di tempo e di luogo è osservata dal principio
alla fine. Questo o quell'elemento letterario della prima parte, per esempio il piccolo dialogo tra il
Discepolo e Pietro (21,7) o la nota simbolica sulla rete tratta a terra dal solo Pietro (21,11),
preparano gli sviluppi della seconda parte, come mostreremo nella nostra lettura»2.
Il testo
I versetti 15-19
I versetti che ci interessano riguardano il dialogo tra Gesù e Pietro all’interno del quale Gesù gli
annuncia il suo futuro martirio.
Tale dialogo avviene dopo il pasto conviviale e dunque dopo la ristabilita comunione tra Gesù
ed i suoi discepoli, comunione interrotta dalla sua morte.
Domina in questo dialogo il triplice «Mi ami?» di Gesù rivolto a Pietro. Tre volte Gesù glielo
chiede, come tre volte Pietro lo aveva rinnegato. Il centro profondo di questo brano non è dunque il
fatto che Pietro venga ristabilito nella sua identità di discepolo, ma che venga investito di un ruolo
centrale all’interno della comunità, ruolo per il quale non si richiedono competenze o
preparazioni speciali ma solo l’amore per il maestro!
L’immagine del Buon Pastore e delle pecore, che era già stata usata da Giovanni nel capitolo 10
versetti 1-8, qui viene ripresa con più forza: il Buon pastore doveva “deporre” la vita per le pecore e
qui a Pietro è annunciato il martirio.
La domanda di Gesù a Pietro «mi ami?» è rivolta due volte allo steso modo, mentre alla terza
volta si aggiunge una precisazione «più di costoro». Perché? Forse perché si vuole creare
discriminazione nel gruppo dei dodici? Certamente no! Tutto il ministero di Gesù è volto ad
eliminare ogni forma di competizione, specie nel gruppo dei dodici. Né tanto meno Pietro può in
alcun modo misurare l’amore degli altri. E allora che senso ha la domanda di Gesù? La risposta
potrebbe essere quella che troviamo alla conclusione della parabola dei due debitori ai quali il
padrone condona rispettivamente 500 e 50 denari. «Quali dei due lo amerà maggiormente?» (Lc 7,
43) certamente colui a cui è stato condonato di più. Così è per Pietro al quale è stato perdonato di
più3.
L’ultima risposta di Pietro mostra in modo chiaro tutto il suo percorso umano e spirituale. Pietro
non solo non cerca di prevalere sugli altri ma non risponde direttamente di sì, ma si affida alla
X. LÈON-DUFOUR, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, San Paolo, 1990, p. 1209.
X. LÈON-DUFOUR, op. cit., p. 1213.
3
Cfr. X. LÈON-DUFOUR, op. cit., p. 1224.
1
2
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conoscenza del maestro. Pietro non è più lo spavaldo e appassionato discepolo imprudente… ora ha
imparato e si affida al Signore e alla conoscenza che Egli ha del suo cuore.
Interessante è anche notare la differenza di vocabolario usata nel testo greco che non emerge
nella traduzione italiana. Gesù usa per le prime due domande il verbo agapáō e Pietro risponde
invece con il verbo philéo, la terza volta anche Gesù usa il verbo dell’amicizia philéo.
Una possibile traduzione potrebbe essere questa: «Simone di Giovanni, mi ami? Gli rispose:
Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene».
Le spiegazioni degli studiosi sono davvero tante, alcune anche bizzarre ed in contraddizione tra
di loro. È bene non accentuare troppo questo aspetto ricercando spiegazioni che forzino
eccessivamente il testo. Nel greco classico questi due verbi non hanno una grande differenza di
significato. Certo non bisogna cadere neppure nell’eccesso opposto: considerare questa differenza
di vocaboli come una semplice variazione stilistica.
Negli scritti giovannei, agapáō, implica un amore che, anche quando è sperimentato dall’uomo,
è di origine divina; a differenza di philéo che indica sempre un amore umano4. Questa semplice
distinzione di significato apre uno spaccato molto interessante sulla profondità del testo.
L’amore è requisito indispensabile per la missione apostolica: «pasci i miei agnelli».
«Secondo Mt 16,19, Pietro detiene le chiavi del Regno; in Gv, la sua missione consiste nel
vegliare sul gregge riunito da Gesù, l’unico pastore»5.
I due testi di Mt e Gv si illuminano, dunque, a vicenda. Cosa significa “pascere il gregge”? Nel
linguaggio biblico il compito del pastore è caratterizzato da due funzioni:
 Assicurare al gregge pascoli abbondanti e dunque garantire la loro
sopravvivenza;
 proteggere le pecore dai pericoli.
Non è escluso in questo incarico l’esercizio di autorità e guida: il pastore deve reggere e
guidare il suo gregge. Ma qui non è tanto messo in risalto sulle prerogative del pastore quanto sui
suoi obblighi.
Un’ultima parola è da spendere per la futura sorte di Pietro legata alla sua missione: il
compito di pascere il gregge (e dunque assicurare la vita delle pecore, proteggerle e guidarle) si
compie concretamente con il dono della vita. È un richiamo forte questo per ogni pastore.
La missione del Papa ricorda ad ogni pastore la radicalità della sequela e l’anima segreta
di ogni azione pastorale che è il dono della vita.
«Gesù disse questo per indicare con quale morte avrebbe glorificato Dio. E dopo queste
parole gli disse “Seguimi!”». (Gv 21,19).
«La morte di Pietro costituirà il termine terreno del “seguire Gesù” che viene subito
richiamato e che apre nello stesso tempo l’al di là, secondo la promessa del figlio.
Se qualcuno vuol servirmi mi segua
e dove sono io, là sarà il mio servo»6.
Per approfondire il tema
Il ministero del vescovo di Roma per l’unità di tutta la Chiesa
Il Concilio Vaticano II ha offerto un completamento del Vaticano I non solo “aggiungendo”
l’insegnamento sull’episcopato alla dottrina sul papato della costituzione dogmatica Pastor
Aeternus, ma anche collocandola e rileggendola nel quadro generale della collegialità episcopale.
La dottrina del Vaticano II sul papato si trova nel capitolo terzo della Costituzione
Dogmatica Lumen gentium. Sostanzialmente, la dottrina sul primato è la stessa di quella definita dal
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Cfr. X. LÈON-DUFOUR, op. cit., p. 1225.
Cfr. X. LÈON-DUFOUR, op. cit., p. 1226.
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Cfr. X. LÈON-DUFOUR, op. cit., p. 1230.
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Vaticano I: si asserisce la sua “potestà piena, suprema e universale” quale “Pastore di tutta la
Chiesa” (Lumen gentium 22b) e l’infallibilità del suo supremo magistero, quando sancisce con atto
definitivo una dottrina riguardante la fede e la morale (Lumen gentium 25c).
Il progresso compiuto dal Concilio Vaticano II è stato di presentare una visione più
completa della struttura della Chiesa, non per minimizzare il ruolo del Papa, ma per inserirlo nel suo
giusto posto, nell’intero contesto.
La visione della Chiesa presentata dal Vaticano II è quella di una comunione di chiese
particolari, ciascuna delle quali è veramente Chiesa nel suo proprio luogo, e nel loro insieme
costituiscono la Chiesa universale: «questa Chiesa di Cristo è veramente presente nelle legittime
comunità locali di fedeli, le quali, in quanto aderenti ai loro pastori, sono anch’esse chiamate Chiese
del Nuovo Testamento» (Lumen gentium 26a).
La Chiesa universale, la Catholica, non è la somma delle Chiese locali, ma è la comunione
delle Chiese locali. Infatti, «in queste comunità, sebbene spesso piccole e povere e disperse è
presente Cristo, per virtù del quale si raccoglie la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica» (Lumen
gentium 26a).
Ogni Chiesa locale è Chiesa nella sua pienezza in virtù della presenza reale del Cristo
nell’Eucarestia; pertanto ogni Chiesa locale, raccolta attorno al Vescovo che presiede l’Eucarestia, è
identica con tutte le altre Chiese che costituiscono lo stesso e unico corpo di Cristo; in virtù dello
Spirito Santo la molteplicità delle sinassi eucaristiche diviene la comunione dell’unico corpo di
Cristo. La Chiesa una e unica si identifica con la koinonia delle Chiese.
Vi è una prima Chiesa, quella «gloriosissima e antichissima» di Roma (Ireneo, Contro er.
III, 3, 2) che presiede alla comunione universale, il cui Vescovo è il primo tra i suoi fratelli vescovi
della Chiesa universale e presiede il collegio episcopale. Per garantire e alimentare la comunione tra
le Chiese, un vescovo, quello della Chiesa di Roma, è chiamato ad esercitare in modo particolare e
speciale quella sollecitudine per la Chiesa universale inscritta nell’ordinazione di ciascun vescovo.
Scrive Y. Congar: «La storia viene in aiuto all’ecclesiologia per riconoscere alla sede
romana un ruolo di centro, di guardiano e di armonizzatore della comunione delle Chiese, con
l’autorità che questo comporta, senza essere pertanto la sorgente dell’ecclesiologia delle altre
Chiese» (Y. Congar, Autonomia e potere centrale nella Chiesa). E l’Autore specifica qual è questo
potere esigito dalla stessa comunione delle Chiese che spetta alla Sede Romana: «Moderare la
comunione delle Chiese, vigilando sul mantenimento della tradizione e sulla confessione della fede,
organizzando la vita ecumenica delle Chiese, giudicando i casi conflittuali, favorendo l’esercizio
della missione, ecc.» (ivi).
Il pastore di ciascuna di queste chiese particolari è “il vicario di Cristo” per il suo gregge e
riceve il suo triplice ufficio di santificare, insegnare e governare non dal Papa, ma da Cristo nel
sacramento dell’ordine episcopale.
Mentre «il Romano Pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e
fondamento dell’unità sia dei Vescovi sia della massa dei fedeli, i singoli Vescovi, invece, sono il
visibile principio e fondamento di unità nelle loro chiese particolari, formate ad immagine della
Chiesa universale, e in esse e da esse è costituita l’una e l’unica Chiesa Cattolica» (Lumen gentium
23 a).
Tutti i vescovi costituiscono un vero collegio di cui il vescovo di Roma è insieme membro e
capo, essendo lui il successore di Pietro, membro e capo dell’originale collegio dei Dodici.
Così la visione della Chiesa offertaci dal Vaticano II inserisce la Chiesa di Roma nella
comunione di tutte le chiese particolari e inserisce il Vescovo di Roma nel collegio dei vescovi,
dove detiene il primato di giurisdizione definito dal Vaticano I, ma lo detiene precisamente come
capo di un collegio dei vescovi che, come collegio unito col suo capo, ha la stessa potestà suprema e
universale e la stessa sollecitudine per tutta la Chiesa che è propria del Papa.
Così il Vaticano II, pur non negando o attenuando minimamente il dogma del primato di
giurisdizione del Papa, ci offre un nuovo contesto, un quadro più completo nel quale situare e
comprendere il ruolo del Pontefice Romano. Appartiene all’essenza del ruolo del vescovo di Roma
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di essere capo di questo collegio. Si può concludere che, essendo capo del collegio, il Papa non può
agire se non come capo del collegio.
Occorre esplicitare che il potere primaziale del vescovo di Roma non viene dal resto del
collegio, ma direttamente dal Cristo. Agire come capo del collegio non vuol dire che il vescovo di
Roma sia soltanto il portavoce del parere comune del collegio o che in ogni singolo caso sia
obbligato ad ottenere il consenso della maggioranza del collegio prima di prendere una decisione
che riguarda la Chiesa universale. È essenziale al vero primato del Papa che questi non dipenda
giuridicamente dal resto del collegio nell’esercizio del suo proprio primato. Lumen gentium lo
afferma esplicitamente nello stesso contesto nel quale parla della suprema e piena potestà del
collegio su tutta la Chiesa, cioè nel n. 22b, dove dice: «Infatti il romano Pontefice, in forza del suo
ufficio, cioè di vicario di Cristo e Pastore di tutta la Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema
e universale, che può sempre esercitare liberamente».
Invece, ogni atto di suprema giurisdizione da parte del collegio dei vescovi dipende
giuridicamente dal consenso del capo del collegio, la cui autorità fa parte indispensabile
dell’autorità suprema del collegio. L’indipendenza giuridica del Papa dal consenso del collegio per
l’esercizio del suo primato significa che egli è libero di decidere se, in un caso particolare, è meglio
esercitare il proprio potere come Papa oppure chiamare tutti i vescovi ad un’azione “strettamente
collegiale”.
Un pensiero da…..don Primo Mazzolari
“…la vera spiritualità della Chiesa…non è mai assente, molto meno indifferente alle cose
dell’uomo, benché non vi entri alla maniera comune e non si lasci assorbire.
Il Papa è presente nel mondo, non con spirito di competizione o di parte, non per chiedere e
sopraffare, ma con purezza di cuore e universale paternità, con disinteresse completo e carità
illimitata.
Egli è presente non perché…parli ai crocevia di ogni grande avvenimento, ma
perché…continua a parlare con accento distaccato, non sovra ma dentro la mischia e nel bel mezzo
di essa, con animo non partigiano, ove carità e verità si possono dare la mano.
…Prende posizione, non contro gli interessi particolari, per gli interessi di tutti, per il bene
di tutti…difende gli interessi della Chiesa in quanto essi coincidono con gli interessi generali
dell’umanità, preferendo a volte esaurire la carità per avere maggior diritto di presentare l’altro
volto di essa, la verità.
Allora il Papa, con qualunque nome si chiami, non è soltanto il capo della cattolicità
ecclesiastica, ma pur di quella più ampia, che abbraccia tutti coloro che non vogliono rinunciare a
vivere da uomini”.
Preghiera conclusiva
Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente,
che nella fede di Pietro hai stabilito
la roccia della tua Chiesa,
e nella confessione del suo amore per Te hai sancito
il mandato supremo di pascere il tuo gregge,
ascolta la nostra preghiera
per il tuo servo il papa Benedetto.
Conforta il Suo ministero petrino
nell’oggi della Chiesa
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a favore di ogni uomo cercatore della Verità.
Sostieni, con la forza dello Spirito santo,
la sua missione di Vicario del tuo Amore
nell’anelito all’Unità
e nell’attenzione ai più poveri.
Accompagna e benedici la Sua Visita alla nostra Chiesa,
perché confermati da Lui nella fede,
nella speranza e nella comunione,
diventiamo una cosa sola con Te nel Padre,
e il mondo creda all’Amore che salva.
Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen
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