SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE L’ORIZZONTE MEDIOEVALE 490 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE XI VIAGGIO LA REALTA’ COME COSTRUZIONE RAZIONALE DI DIO 491 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Cannocchiale su… L’ORIZZONTE STORICO DELL’ETA’ MEDIEVALE (476 d.C.-1453 d.C.) La formazione dei regni romano-germanici nell’Europa occidentale A partire dall’inverno del 406-407 d.C., in più ondate successive che si esaurirono solo nel X secolo, numerosi popoli nomadi, per lo più di etnia germanica, ma anche ugro-finnica e turco-mongola, oltrepassarono il confine orientale dell’impero romano d’Occidente e vi si stabilirono come nuovi dominatori, appropriandosi delle proprietà terriere, fondendosi in parte con la popolazione romana e dando vita ai cosiddetti regni romano-germanici. Le istituzioni statali romane vennero meno e con esse l’esistenza stessa di uno Stato centralizzato. I popoli germanici, infatti, avevano un’organizzazione tribale, cioè erano privi di istituzioni centrali formalmente definite. I loro regni, dunque, non esigevano imposte, ma nemmeno si occupavano di lavori pubblici, di amministrazione della giustizia, di assistenza sociale, insomma non svolgevano alcuna funzione statale centrale se non quella della difesa militare e dell’imposizione di comandi, cioè di leggi non scritte. La chiesa cristiana di Roma, che già all’interno dell’impero si era organizzata sempre più efficacemente ed aveva acquisito sempre maggiori funzioni statali, emerse così come l’unico elemento di centralizzazione politica, di omogeneizzazione delle diverse popolazioni, di disciplinamento della vita collettiva, di assistenza sociale. Essa poteva svolgere queste funzioni perché era l’unica organizzazione esistente in grado di riscuotere imposte (le decime) che in parte servivano a finanziare le diocesi, in parte affluivano al papato romano. Inoltre solo i chierici sapevano leggere e scrivere, nonché comunicare nell’unica lingua europea comune: il latino. In altre parole, la chiesa diventò l’unico Stato effettivo, cioè l’unica organizzazione dotata di autorità, funzionari, strutture, poteri diffusi uniformemente su tutti i territori dell’ex impero romano d’Occidente. La depressione economico-demografica e la nascità di una civiltà rurale L’economia e la demografia dell’impero romano erano già in fase di recessione a partire dal III secolo a.C., quando alle carestie si erano aggiunte, aggravandole, le continue guerre civili per il potere imperiale e vaste epidemie di malattie infettive. Le invasioni germaniche provocarono a lungo nuove guerre, razzie e saccheggi, il crollo delle istituzioni, il venir meno della stessa tutela dell’ordine pubblico, in altre parole una situazione di anarchia, deprimendo ulteriormente l’economia e riducendo drasticamente la popolazione che dai circa 40 milioni del II secolo passò ai circa 20 milioni del VII. L’industria sparì, il commercio si ridusse a pochi scambi locali e di conseguenza le città diminuirono e le poche che sopravvissero, le più grandi, si contrassero enormemente. Roma, che aveva avuto nell’età augustea un milione di abitanti, scese sotto i 30mila abitanti. Le strade romane, che innervavano i diversi territori dell’impero, unendoli, caddero in disuso e, prive di manutenzione, si disfecero. In questo modo, la nuova popolazione europea si ruralizzò e si passò da una civiltà urbana e dinamica a una civiltà agricola e sedentaria. Ma la stessa produzione agricola subì una 492 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE forte contrazione a causa del crollo demografico e della drastica riduzione degli spazi coltivati, dovuta alla riforestazione spontanea di gran parte delle terre. L’agricoltura fu sempre più basata sull’assegnazione in usufrutto dei campi coltivabili a famiglie di contadini-coloni, formalmente liberi ma di fatto in una condizione servile, da parte dei grandi proprietari fondiari in cambio di un canone in prodotti agricoli e di prestazioni gratuite di lavoro (corvées). La piccola proprietà terriera e i contadini effettivamente liberi si ridussero ai minimi termini. Le carestie erano frequenti e la fame endemica. L’impero romano d’Oriente e il suo tentativo di riconquista dell’Occidente Mentre l’impero romano occidentale soccombeva sotto l’assalto dei germani, quello orientale riusciva non solo a difendersi ma anche a rafforzarsi a tal punto da riuscire, nel VI secolo, sotto l’imperatore Giustiniano, a riconquistare l’Africa settentrionale e la penisola italiana, abbattendo il regno dei vandali e quello degli ostrogoti. Si trattava, tuttavia, di una riconquista effimera, perché già alla fine del VI secolo, l’Italia settentrionale fu invasa da una nuova popolazione germanica, i Longobardi, e nella I metà del VII secolo il Medio oriente e l’Africa settentrionale furono conquistati dagli arabi islamici. La formazione dell’impero arabo e la nascita dell’Europa A partire dalla penisola arabica, galvanizzati dalla religione islamica di Maometto, i nomadi arabi conquistarono, nell’arco di un secolo, un vasto impero che si estendeva dall’Indo ai Pirenei, occupando tutto il Sud del bacino del Mediterraneo, che così si divise longitudinalmente in due parti nettamente differenziate per religione e civiltà: il Nord cristiano e il Sud musulmano. Di conseguenza, il Mediterraneo settentrionale divenne progressivamente un nuovo continente: l’Europa. Questo nuovo continente, però, presentava a sua volta una divisione longitudinale tra est ed ovest, cioè tra Europa orientale, sede dell’impero romano d’Oriente, detto anche impero bizantino; e Europa occidentale, dove si instaurarono dapprima i regni germanici e poi il sacro romano impero, o impero carolingio. Pur condividendo la stessa religione cristiana, le due parti dell’Europa si differenziarono sempre più: mentre l’Europa orientale rimase legata alla tradizione romana, in quella occidentale si sviluppò una nuova civiltà nata dalla fusione della cultura romana con le culture dei popoli invasori. Ciò alimentò la sempre più accentuata divergenza tra chiesa cristiana occidentale e chiesa cristiana orientale. La nascita del sacro romano impero (o impero carolingio) Dal V all’VIII secolo, grazie al rafforzamento reciproco della sua attività religiosa e della sua funzione statale, la chiesa romana estese enormemente la sua influenza ideologica e al tempo stesso incrementò sempre più il suo potere politico sull’intera popolazione europea. In altri termini, la chiesa romana, abbinando il potere spirituale al potere temporale, diventò sia istituzione religiosa sia istituzione politica. Ma, mentre esercitò direttamente il 493 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE proprio potere religioso, preferì esercitare direttamente quello politico solo quanto bastava a garantirle una cintura territoriale protettiva, mentre, sul resto d’Europa, si propose di esercitarlo indirettamente, cioè attraverso autorità e istituzioni laiche da essa stessa scelte. Per realizzare questa strategia, nell’VIII secolo, la chiesa romana dapprima stipulò un patto con la famiglia franca dei Pipinidi (o Carolingi), legittimando la sua ascesa al trono e ricevendo in cambio i territori dell’Italia centrale, che vennero a costituire lo Stato della chiesa; poi favorì la conquista, nell’Italia settentrionale, del regno longobardo da parte di Carlo Magno e lo incoronò imperatore del Sacro romano impero, cioè di un nuovo Stato imperiale occidentale di natura esplicitamente religiosa (definito res publica christiana). Data la nuova situazione del Mediterraneo, il baricentro geopolitico dell’Europa occidentale non poteva più essere la penisola italiana, bensì l’area compresa tra l’attuale Francia centro-orientale e l’attuale Germania centro-occidentale. Ossia proprio l’area in cui sorse l’impero carolingio. Inoltre, tra l’VIII e il IX secolo, gli arabi riuscirono a occupare una parte dell’Europa occidentale: prima la penisola iberica e poi la Sicilia. Di conseguenza, da un lato, l’intera Europa occidentale era minacciata dall’invasione islamica, dall’altro il regno franco era l’unico regno romano-germanico in grado di impedirla. Da qui, un’ulteriore motivazione della scelta della chiesa romana di sostenere i carolingi e spingerli a costituire il sacro romano impero. Lo sfaldamento dell’impero carolingio e il primo feudalesimo L’impero carolingio assolse la funzione di impedire l’invasione islamica dell’Europa occidentale e di assimilarne, sotto l’egida del cristianesimo romano, le diverse popolazioni, garantendo circa un secolo di relativa stabilizzazione e parziale ripresa. Ciò fu possibile perché Carlo Magno, e i suoi successori, ristabilirono un minimo di centralizzazione politica, istituendo il vassallaggio e affidando l’amministrazione dei territori imperiali ai loro compagni d’armi (comites, da cui conti), in qualità di vassalli dell’imperatore. Ma si trattava di una centralizzazione per delega fiduciaria, e perciò fragile, e già a metà del IX secolo, l’impero carolingio cominciò a disgregarsi, a causa sia della tradizione germanica, che prevedeva la spartizione del regno tra tutti i figli del re, sia di una nuova ondata di invasioni/incursioni di popolazioni nomadi. Il sacro romano impero si trovò nella morsa degli attacchi simultanei e ricorrenti dei normanni da nord, dei saraceni da sud e degli ungari da est. Gli eserciti carolingi, indeboliti dalle lotte intestine, e comunque militarmente inadeguati a fronteggiare la guerriglia predatoria dei nuovi invasori, si dimostrò incapace di difendere la popolazione europea. Furono i potenti locali, laici (signori rurali) ed ecclesiastici (vescovi e abati), a organizzare la difesa, imperniandola sulla costruzione di castelli all’interno dei quali la popolazione poteva trovare rifugio. Nacque così il primo feudalesimo, un’organizzazione politica basata sul frazionamento dello Stato centrale in tanti microstati locali (feudi), di dimensioni disparate, che facevano capo all’autorità suprema dei signori feudali, laici o ecclesiastici. Questi feudatari, però, pur essendo sovrani nel proprio feudo, non erano indipendenti gli uni dagli altri ma intessevano tra loro fitte reti di rapporti personali di subordinazione 494 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE gerarchica, ma anche di sostegno reciproco, incardinate sull’istituto giuridico del vassallaggio. I reticoli vassallatici, molteplici, spesso sovrapposti e comunque variabili, da un lato servivano a incrementare le capacità difensive dei singoli feudatari contro le scorrerie dall’esterno e a limitare i conflitti interni; ma, dall’altro, divennero lo strumento per condurre guerre interne per la supremazia. In tal senso, non è inappropriata la definizione di “anarchia feudale”, almeno per il secolo compreso tra la metà del IX e la metà del X secolo. La società dei tre ordini: preganti, guerrieri, lavoratori La società feudale era costituita per il 99% da contadini, in maggioranza in condizione servile (i servi della gleba), da una nuova nobilità di sangue, formata dalle famiglie dei signori feudali, e dal clero. Su queste basi reali, gli unici intellettuali dell’epoca, i chierici, elaborarono una rappresentazione socio-politica della società feudale, dividendola in tre “ordini” – cioè gruppi sociali definiti giuridicamente – cui corrispondevano tre funzioni esclusive: il primo e più importante era naturalmente costituito dai “preganti” (orantes), cioè dal clero stesso, cui spettava la funzione considerata superiore, cioè il culto religioso; il secondo, dai “guerrieri” (bellatores), cui spettava il compito della difesa militare e del governo politico; il terzo, dai lavoratori (laboratores), cioè dai contadini che avevano il compito di produrre, cioè di sostentare se stessi, ma soprattutto clero e nobiltà. Si trattava di una rappresentazione ideologica in quanto finalizzata a giustificare una gerarchia socio-politica imperniata sul dominio del clero (ierocrazia) e, a un livello subordinato, della nobiltà (aristocrazia), e sulla soggezione totale della stragrande maggioranza della popolazione. In tal senso, essa corrispondeva solo parzialmente all’effettiva differenziazione economico-sociale e politica della popolazione altomedievale. Non solo i laboratores comprendevano un piccolo strato di contadini liberi agiati, ma soprattutto vi era una netta diversità tra la grande e la piccola nobilità e tra l’alto (vescovi, abati) e il basso (parroci, monaci) clero. Inoltre sempre più la grande nobiltà e l’alto clero finirono per costituire una classe unica, in quanto le alte cariche ecclesiastiche divennero monopolio delle maggiori famiglie aristocratiche. Crisi e rinascita della chiesa romana e nascita dell’impero germanico La chiesa romana, che inizialmente aveva cercato di arginare la conflittualità feudale istituendo la cavalleria, ovvero tentando di incanalare la bellicosità dei guerrieri medievali verso fini di giustizia sociale, subì anch’essa un processo di feudalizzazione che fece crollare il livello morale medio del clero e ne minò la centralizzazione. La chiesa fu salvata dalla completa disgregazione grazie alla reazione morale della parte migliore della sua componente più spirituale, i monaci. Nel corso del X secolo, la regola benedettina, che ormai la maggior parte dei monasteri non rispettava più, fu ripristinata da nuovi ordini monacali, per primi dai cluniacensi, poi dai cisterciensi, dai certosini, dai camaldolesi e altri ancora. Contemporaneamente, in Germania, area non romanizzata e di recente civilizzazione carolingia, i duchi di Sassonia riuscirono a imporre un parziale 495 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE potere monarchico centrale nominando come propri vassalli soprattutto dei vescovi (i “vescovi-conti”). Grazie a questa organizzazione, Ottone I conquistò l’Italia settentrionale e sconfisse gli ungheresi, ponendo fine alle loro incursioni. Papa Giovanni XII decise di incoronarlo imperatore, per ricostituire così il sacro romano impero. Si trattava in realtà di un nuovo impero, l’impero germanico, basato su rapporti di forza completamente diversi tra impero e chiesa. Il papato, infatti, nel corso del X secolo, era diventato ostaggio delle famiglie nobili romane, che si contendevano la nomina papale con continui intrighi, conflitti violenti e crimini efferati. Forte della fedeltà dei suoi vassalli, Ottone I poté imporre la propria tutela sulla chiesa romana, attribuendosi il potere della ratifica dell’elezione del papa. Così, i rapporti di forza tra impero e chiesa si rovesciarono a favore dell’impero germanico. Si trattò di una situazione di breve durata, perché l’impero germanico non riuscì nemmeno a conquistare l’intera penisola italiana e tanto meno il resto dell’Europa occidentale. Il suo superiore potere universale era dunque solo teorico, mentre quello della chiesa era ancora effettivo grazie alla sua diffusione capillare sull’intero territorio europeo. La ripresa economico-demografica dell’Europa e il secondo feudalesimo Tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo, le cicliche ondate di invasioni nomadiche cominciate nel V secolo si esaurirono, il pericolo di un’invasione araba era venuto meno e l’Europa poté godere di una relativa stabilità interna. Ciò stimolò la ripresa economico-demografica che si sviluppò nei tre secoli successivi, cioè fino alla fine del XIII secolo. Grazie al circolo virtuoso tra incremento demografico e incremento della produzione agricola, non solo la popolazione raggiunse i 75-80 milioni ma si ebbe un surplus sufficiente a permettere la ripresa del commercio e dell’industria nonché la nascita delle banche. Di conseguenza l’Europa occidentale tornò a urbanizzarsi: le poche città rimaste gradualmente cominciarono a crescere e nacquero molte nuove città. Accanto alla popolazione rurale, che tuttavia per molto tempo ancora continuò a costituire oltre il 90% del totale, crebbe così una nuova popolazione urbana, minoritaria ma consistente e influente, costituita da mercanti, artigiani, nobili inurbati, professionisti (medici, notai, esperti di diritto), operai, vagabondi, mendicanti, ladruncoli e prostitute. Anche l’agricoltura, però, grazie allo stimolo della domanda di prodotti alimentari da parte delle città, si trasformò, sia per l’adozione di nuovi rapporti di produzione – nuovi contratti (p.e. la mezzadria) ed espansione della piccola proprietà dei contadini liberi – che incentivavano il lavoro contadino, sia per la diffusione di nuove tecniche (aratro pesante, rotazione triennale, collare rigido per gli animali da traino, mulini ad acqua e a vento) che ne aumentarono la produttività. L’anno Mille è pertanto convenzionalmente considerato lo spartiacque cronologico tra l’Alto Medioevo, o età del primo feudalesimo, e il Basso Medioevo, o età del secondo feudalesimo. Politicamente il Basso Medioevo fu caratterizzato dalla coesistenza di due poteri continentali superiori – uno effettivo, la chiesa romana, l’altro virtuale, l’impero 496 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE germanico – e di una miriade di poteri locali inferiori, costituiti ora non più solo dai feudi maggiori (ducati e contee) e minori, ma anche da nuovi Stati: i comuni e le monarchie feudali. La riforma monarchica della chiesa romana e lo scontro impero/papato Nella I metà dell’XI secolo l’impero germanico, sempre più basato sui vescovi-conti e pertanto interessato alla qualità del clero, promosse la riforma morale della chiesa favorendo l’ascesa ai vertici della curia papale dei monaci dei nuovi ordini riformati, i quali, a loro volta, approfittarono della morte precoce di Enrico III e della minore età del futuro Enrico IV per varare una riforma della Chiesa che la rendesse indipendente da qualsiasi potere laico. Il nucleo di tale riforma fu l’elezione del papa da parte del collegio dei cardinali (conclave) e l’attribuzione al papa di un potere sovrano all’interno della chiesa. La riforma della chiesa provocò la definitiva rottura in due della cristianità tra chiesa cattolica romana e chiesa ortodossa greca, la quale si rifiutò di riconoscere la suprema autorità del vescovo di Roma, e lo scontro tra il papato e l’impero germanico. La prima fase di questo scontro epocale terminò nel 1122, con il Concordato di Worms, un compromesso alla pari, che però sanciva l’emancipazione della chiesa romana dalla subordinazione all’impero. La nascita dei comuni e delle monarchie feudali Sull’onda della crescita economico-demografica, favoriti dallo scontro tra chiesa e impero, nel corso dell’XI secolo nacquero e si svilupparono due nuovi tipi di attori politici, ovvero di Stati: i comuni e le monarchie feudali. I comuni erano delle repubbliche cittadine, inizialmente aristocratiche, poi oligarchiche, infine, benché in pochi casi, semidemocratiche (donne, stranieri e nullatenenti erano esclusi dal potere politico). Essi si formarono nelle rinate città per iniziativa dei nuovi ceti emergenti borghesi, inizialmente egemonizzati dai nobili inurbati. Benché di natura e interessi diversi e spesso antitetici, i comuni si affiancarono alle signorie feudali, inserendosi nella tendenza feudale al frazionamento locale del potere e contribuendo così al rinnovamento ma anche al rafforzamento del feudalesimo. Tuttavia, il fenomeno comunale non fu generalizzato, ma limitato ad alcune aree europee, nell’insieme di gran lunga inferiori per estensione a quelle rurali controllate dai signori feudali. Contemporaneamente, nacquero e cominciarono a svilupparsi, in Francia, in Inghilterra, in Spagna, ma anche in Ungheria e Polonia, le monarchie feudali. Inizialmente i re di questi Paesi erano dei conti o duchi molto potenti, ma spesso meno potenti di altri duchi, e dunque il loro “regno” non si differenziava dagli altri ducati o contee. Col tempo, però, si rafforzarono progressivamente, aumentando le loro estensioni territoriali, riaggregando e unificando i poteri locali (feudi e comuni) e reintroducendo istituzioni centralizzate. Il processo di crescita delle monarchie feudali fu favorito dal sostegno della chiesa, che diede una legittimazione teocratica al potere regale, in funzione antimperiale; e dal consenso della borghesia urbana e anche del popolo contadino, che volevano così limitare 497 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE lo strapotere dei signori feudali. Tenendo conto, però, che le monarchie feudali, fino al XV secolo, si basarono prevalentemente sulla delega del potere amministrativo ai vassalli e che il loro territorio raggiunse dimensioni solo pluriregionali, anch’esse per il momento non ribaltarono il feudalesimo ma ne costituirono un ulteriore elemento di frammentazione, pur segnando l’inizio di una controtendenza, cioè di una nuova tendenza all’accentramento statale. Le guerre della croce e il potenziamento della chiesa romana Nel pieno della prima fase dello scontro con l’impero, la chiesa romana, assecondando e al contempo suscitando la spinta espansionistica della popolazione europea in forte crescita, bandì le guerre della croce, cioè invitò i cristiani europei, in primo luogo i cavalieri nobili, a combattere contro gli infedeli per acquisire al cristianesimo cattolico nuovi territori e convertire alla fede cristiana nuove popolazioni. Le guerre della croce ebbero come teatri principali la penisola iberica, la Sicilia, la Palestina, territori islamici, ma anche l’Europa baltica e le locali popolazioni germaniche di religione politeistica. Mentre la Palestina, l’obiettivo prioritario, fu conquistata solo precariamente e temporaneamente, tutte le altre aree furono acquisite alla cristianità occidentale, rafforzando il prestigio e il potere del papato, che se ne servì per indebolire l’impero ed estendere la propria egemonia sui nuovi Stati feudali: le monarchie e i comuni. Il trionfo della ierocrazia cattolica Nella seconda metà del XII secolo, dopo aver attraversato un nuovo lungo periodo di crisi dinastica e di guerre intestine, con Federico I Barbarossa l’impero germanico tentò di restaurare la sua supremazia riassoggettando i comuni italiani, ormai resisi del tutto indipendenti, e puntando, in questo modo, a ristabilire i precedenti rapporti di forza con la chiesa, che nel frattempo si era ulteriormente rafforzata. Il tentativo di Federico I si infranse contro l’alleanza tra comuni e chiesa che utilizzò anche l’arma dell’obbligo religioso dell’imperatore di partecipare alla III crociata in Palestina. All’inzio del XIII secolo, il papa Innocenzo III, tutore del nipote di Federico I, poté infergere un nuovo colpo all’impero germanico, alleandosi con il re di Francia, Filippo II Augusto, sconfiggendo l’imperatore Ottone IV e sostituendolo con Federico II. In questo modo Innocenzo III impose la supremazia del potere religioso della chiesa romana su tutti i poteri politici laici. Alla sua morte, Federico II, cercò di realizzare il progetto del nonno ma anche lui fu sconfitto dall’alleanza comuni-chiesa. Così, dalla seconda metà del XIII secolo, l’impero germanico era ormai definitivamente sconfitto e col giubileo del 1300 la chiesa romana potè celebrare, sotto papa Bonifacio VIII, il trionfo della ierocrazia cattolica. La crisi della Chiesa romana e la fine della ierocrazia cattolica Già tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, la supremazia della Chiesa romana era stata minacciata, proprio sul suo terreno, cioè quello religioso, dall’emergere di nuove chiese 498 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE cristiane (i catari, i valdesi) che criticavano l’arricchimento, l’acquisizione di funzioni e poteri politici e la nuova degenerazione morale del clero, in particolare dei vescovi e degli abati. La chiesa riuscì a sventare questa minaccia sia con la violenza – i catari furono sterminati dai tribunali dell’inquisizione e dall’indizione di una guerra della croce contro di loro – sia con l’accettazione e la promozione di due nuovi ordini religiosi: domenicani e francescani. All’inizio del XIV secolo, mentre cominciava la recessione economico-demografica, Filippo IV il Bello, re di Francia, per rafforzare ulteriormente la sua monarchia feudale, rigettò l’ordine papale di non tassare i vescovi francesi, e in seguito proibì l’afflusso delle decime francesi a Roma. Con questa decisione, Filippo IV negava la superiorità del potere della chiesa romana. Bonifacio lo scomunicò ma Filippo IV mantenne il suo potere e riuscì a far arrestare, seppur temporaneamente, il papa. L’episodio attestava che le monarchie feduali si erano ormai potenziate a tal punto da poter fare a meno della tutela papale e da rendersi del tutto indipendenti sia dal potere imperiale sia dal potere ecclesiastico. La catastrofe economico-demografica del XIV secolo Lo sviluppo economico-demografico europeo si bloccò alla fine del XIII secolo e nella prima metà del XIV ripetute carestie provocarono l’avvio del calo demografico e segnarono l’inizio della recessione economica. A causa dello scarso aumento della produttività, a sua volta dovuto alla mancanza di innovazioni tecniche, si era prodotta una situazione di sovrappopolamento: la crescita della popolazione era avvenuta a ritmi molto maggiori di quella del prodotto agricolo. In questa situazione economica già compromessa, il contagio della peste nera, portato dalle navi che commerciavano con l’India e la Cina, provocò una catastrofe demografica: in soli 4 anni (1348-1351) la popolazione calò da 75-80 a 50 milioni, diminuendo di circa un terzo. Dal sovrappopolamento si passò fulmineamente al sottopopolamento: la carenza di forzalavoro agricola e industriale e il crollo della domanda di beni provocarono una lunga depressione economica. La satellizzazione francese e lo scisma della Chiesa romana Nel 1305, il conclave dei cardinali elesse papa Clemente V, un vescovo francese, ritenuto capace di ricucire il conflitto tra chiesa e regno di Francia e di evitare il rischio di uno scisma della chiesa francese. Di conseguenza, il papato si trasferì in territorio francese, dal 1309 ad Avignone, e negli anni successivi furono eletti altri 6 papi francesi. Pur mantenendo l’indipendenza, la chiesa, in questo periodo, subì il condizionamento della monarchia francese. Nel 1378, l’ultimo papa francese, Gregorio XI, riportò la curia pontificia a Roma, ma alla sua morte i cardinali si spaccarono in due ed elessero due papi contrapposti, un italiano e un francese. Il Regno d’Inghilterra appoggiò il primo, il regno di Francia il secondo e anche gli altri Stati europei si divisero tra le due fazioni. 499 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE La crisi della chiesa fu aggravata dal riemergere di nuove chiese alternative – i lollardi in Inghilterra e gli hussiti in Boemia – che riproponevano la critica alla ricchezza, al potere e alla corruzione morale del clero e propugnavano un nuovo modello di chiesa, basato sulla povertà, l’abbandono di ogni funzione politica e l’uguaglianza dei fedeli. Con l’aiuto degli Stati, la chiesa riuscì però a soffocare nel sangue anche queste nuove chiese alternative, ma contraendo un pesante debito con i poteri laici. La spaccatura della chiesa cattolica fu del tutto superata solo nel 1445, ma a prezzo della concessione dell’autonomia alle chiese nazionali, ovvero a favore di una maggiore indipendenza dei regni. In altre parole, il potere di influenza politica della chiesa si ridusse notevolmente, a beneficio delle monarchie laiche. La teocrazia monarchica aveva vinto sulla ierocrazia papale. La guerra dei Cent’anni e l’emergere delle monarchie nazionali La crisi economica e la peste aumentarono le conflittualità sociali e politiche, tra cui anche lo scisma ecclesiastico, che però non può essere compreso senza tener conto che esso si svolse contemporaneamente alla guerra dei Cent’anni (1337-1453). Questa lunga guerra vide lo scontro tra regno d’Inghilterra e regno di Francia a causa dell’incompatibilità tra i tradizionali legami vassallatici e la tendenza delle due principali monarchie feudali a espandersi e ad acquisire una piena sovranità sui rispettivi territori. Le due principali monarchie feudali europee, che già si erano notevolmente sviluppate, nel corso della guerra dei Cent’anni si rafforzarono militarmente e amministrativamente, centralizzando sempre di più il loro controllo sui rispettivi territori. Così alla fine della guerra, non solo giunsero a dare una conformazione nazionale ai loro territori, ma anche a amministrarli prevalentemente in modo diretto con funzionari alle dipendenze del re. In questo senso, convenzionalmente la guerra dei Cent’anni segna la trasformazione delle monarchie feudali in monarchie nazionali, destinate a dominare la scena politica europea nei secoli successivi, relegando la chiesa romana sempre più in una posizione di secondo piano. La formazione dell’impero ottomano e la fine dell’impero bizantino Già nel corso del XIV secolo, un popolo nomade turco, gli ottomani, di religione islamica, si insediò nella penisola anatolica e da lì cominciò a espandersi verso est, impossessandosi dell’impero islamico di origine araba, e verso ovest, invadendo la penisola balcanica, espugnando Bisanzio nel 1453 e provocando il crollo dell’impero bizantino, l’ex impero romano d’Occidente, ovvero l’ultimo elemento di continuità con l’antica civiltà grecoromana. Considerando che nel 1453, come si è visto, abbiamo la concomitanza di due cambiamenti epocali, e che intorno a quello stesso anno il tipografo tedesco Gutenberg mise a punto la tecnica della stampa meccanica, destinata a rivoluzionare la civiltà europea, non è immotivato utilizzare questa data come quella convenzionalmente più indicativa della fine del Medioevo e dell’inizio dell’età moderna. 500 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Cannocchiale su… L’ORIZZONTE TECNICO-SCIENTIFICO DELL’ETA’ MEDIEVALE La situazione culturale europea Nel 529 d.C. l’imperatore Giustiniano, che già progettava la riconquista dell’Europa occidentale, emanò un editto con il quale impose la chiusura di tutte le scuole “pagane”, cioè di tutte le istituzioni culturali non cristiane. L’editto segnò la fine violenta della filosofia e, più in generale, della cultura antica legata alla tradizione religiosa politeistica. Così, dal 529, la cultura, in Europa, divenne monopolio del clero cristiano. Nello stesso anno, infatti, o intorno ad esso, Benedetto da Norcia fondò il famoso monastero di Montecassino e, con esso, l’ordine monacale benedettino. Il monachesimo cristiano era già nato secoli prima in Oriente e già nel V secolo aveva attecchito in Occidente, a partire dall’Irlanda. Ma, grazie alla sua regula (“ora et labora”), Benedetto da Norcia lo istituzionalizzò e dal VI secolo il monachesimo occidentale divenne prevalentemente benedettino. I monasteri benedettini divennero le arche in cui si salvò quanto restava del patrimonio librario, e quindi della cultura, dell’età antica. Gli sconvolgimenti storico-politici dei secoli della decadenza e della dissoluzione dell’impero romano, infatti, avevano portato alla distruzione di gran parte dei testi (rotoli di papiri o di pergamene) prodotti dalla cultura antica. L’esempio più emblematico è quello della famosa biblioteca del Museo di Alessandria, che ospitava circa 500.000 testi, distrutta da incendi parzialmente nel III d.C., a causa della guerra tra romani e Zenobia di Palmira; completamente nel VII, con la conquista araba. Ma ciò che vale in grande per la biblioteca alessandrina, vale in misura minore, ma non meno significativa anche per quasi tutte le altre biblioteche antiche, a cominciare da quella di Pergamo, seconda solo a quella di Alessandria. In Europa occidentale, i pochi libri che si salvarono furono quelli presi in custodia, restaurati e ricopiati dai monaci nei monasteri. I monaci, infatti, e l’alto clero secolare (i vescovi) erano diventati gli unici uomini capaci di leggere e scrivere. I monasteri, dunque, e le cattedrali, cioè le chiese vescovili, costituivano le uniche istituzioni culturali, ovvero le uniche scuole. Se è vero che il clero, in tal senso, salvò una parte della cultura antica dal naufragio altomedievale, non bisogna dimenticare che si trattò di un salvataggio selettivo: i monaci e chierici conservarono solo le opere che giudicavano compatibili con il cristianesimo, distruggendo o non ricopiando le altre (p.e. i testi di Democrito o di Epicuro). Inoltre, nell’Europa occidentale, si perse la conoscenza del greco e pertanto furono ricopiate solo le opere scritte in latino. In questo senso, il libro per eccellenza dell’Alto Medioevo, la Bibbia, quello naturalmente più diffuso e letto, ma unicamente dai membri del clero, circolava solo nella traduzione latina eseguita da Sofronio Eusebio Girolamo alla fine del IV secolo e che prese il nome di Vulgata. 501 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Dunque, durante l’Alto Medioevo, la situazione culturale europea era caratterizzata innanzitutto e soprattutto dall’analfabetismo di massa: solo l’élite del clero sapeva leggere e scrivere, i laici di tutte le classi, non solo i contadini ma anche i nobili, e perfino le massime autorità politiche erano analfabeti. Di conseguenza la cultura popolare altomedioevale fu una cultura unicamente orale, gestuale e iconica (affreschi, quadri e statue delle chiese). Il popolo conosceva la Bibbia solo in base alle sue raffigurazioni iconiche presenti nelle chiese e alle esposizioni orali in volgare da parte dei sacerdoti, gli unici che sapevano leggere ma anche gli unici che, secondo le prescrizioni ecclesiastiche, avevano il permesso di leggere il testo sacro. La cultura dell’élite intellettuale clericale, inoltre, si differenziava da quella popolare non solo perché era anche una cultura scritta, ma anche e soprattutto perché la lingua, sia scritta sia parlata, usata dai chierici era il latino, che in questo senso costituiva la lingua europea, la lingua grazie alla quale i chierici di tutti i Paesi europei erano in grado di comunicare. Dunque, tra laici e clero sussisteva anche un’altra fondamentale differenza: mentre il clero parlava anche latino, i laici parlavano esclusivamente i diversi “volgari”, le nuove lingue emerse dalla fusione dei romani e dei germani, diverse da paese a paese, ma spesso da regione a regione e perfino da villaggio a villaggio. La nuova cosmologia: la problematizzazione del geocentrismo tolemaico Come si è già visto (L’orizzonte storico-culturale dell’età romana), gli intellettuali cristiani, che sempre più nel corso dell’Alto Medioevo coincisero con i membri del clero, fin dal II secolo d.C. si divisero, con varie sfumature intermedie, in quelli che consideravano la cultura greco-romana incompatibile col cristianesimo e quelli che invece la consideravano conciliabile. Anche per questi ultimi, tuttavia, la compatibilità tra cristianesimo e cultura classica era solamente parziale e dunque anche per loro era necessario vagliare le opere antiche per separare ciò che poteva essere accettato, e quindi utilizzato, e ciò che invece era da modificare o da scartare. Questo atteggiamento, da un lato, provocò la perdita di libri interi e la censura o l’oblio di nozioni e teorie scientificamente rilevanti; dall’altro, però, almeno in alcuni casi, promosse una revisione critica delle teorie scientifiche classiche e l’ideazione di nuove teorie che posero le premesse della rivoluzione scientifica moderna che si sarebbe avviata nel XVI secolo. In questa prospettiva, nell’ambito della cosmologia e dell’astronomia, per esempio, la teoria cristiana della creazione – fissata da Agostino – divenne la principale motivazione che spinse gli intellettuali cristiani a criticare e a rivedere non solo le teorie dell’ateo Democrito, riprese e diffuse da Epicuro e dagli epicurei, ma anche quelle di Aristotele e di Tolomeo. Soprattutto inizialmente, questa revisione ebbe esiti scientificamente regressivi: p.e., Lattanzio (240-320 d.C.), retore afroromano convertitosi al cristianesimo, negò la sfericità della Terra riproponendo la tesi – che era stata di Talete nel VI secolo a.C. – della sua forma piatta; Basilio (330-379 d.C.), vescovo bizantino, confutò anche la sfericità del cielo, 502 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ossia del cosmo; Diodoro (330-394), vescovo di Tarso, come molti altri successivamente, sostenne la teoria di un cosmo a forma di tabernacolo, cioè di parallelepipedo, in cui la Terra occupa il fondo e non vi sono sfere cristalline (quelle che per l’astronomia aristotelico-tolemaica muovevano i pianeti) ma solo due cieli a volta; Cosma (VI secolo), mercante egizio poi dedicatosi a una vita ascetica, sostenne che anche la Terra è un tabernacolo con un fondo piatto su cui sorge un’alta montagna, e che i pianeti e le stelle fisse sono mossi dagli angeli. Va, però, tenuto ben presente che queste teorie scientifiche regressive non furono fatte proprie dalla maggioranza degli intellettuali cristiani, come attesta Isidoro (560-636), vescovo di Siviglia, che invece continuò a sostenere la sfericità della Terra. In seguito, il monaco benedettino inglese Beda il Venerabile (673-735) rilanciò e impose la teoria geocentrica di Tolomeo nell’ambito degli intellettuali cristiani, tanto che dal IX secolo nessuno mise più in discussione la sfericità della Terra né l’importanza della matematica per la conoscenza dei fenomeni naturali. La nuova fisica: le premesse della fisica moderna Altri intellettuali cristiani, però, elaborarono delle teorie scientificamente progressive, non solo a livello astronomico ma anche della fisica terrestre. E’ il caso Giovanni Filòpono di Alessandria (VI secolo) che partì dalla confutazione della teoria aristotelica dell’eternità del cosmo – argomentando che implicherebbe l’esistenza di un’infinità di anni e individui e dunque dell’infinito attuale che Aristotele stesso aveva confutato – per confutare anche l’esistenza dell’etere – e dunque la differenza tra corpi celesti (astri) e corpi terrestri –, la proporzionalità tra peso e velocità di caduta di un corpo (argomentando che se si lasciano cadere dall’alto due oggetti di peso diverso giungono a terra insieme), la tesi che il moto di proiettili, p.e. un freccia scoccata, sia sostenuto e trasmesso dall’aria – teorizzando invece l’azione di una forza cinetica incorporea impressa nel proiettile da ciò che lo ha scagliato. Più avanti, cioè nel Basso Medioevo, l’inglese Thomas Bradwardine (1290-1349), arcivescovo di Canterbury, e il vescovo tedesco Alberto di Sassonia (1316-1390) confermarono che due corpi omogenei, p.e. due pezzi di legno, cadono nel vuoto con la stessa velocità anche se hanno volume e peso differenti, confutando anch’essi la teoria aristotelica. Ma il contributo più innovativo venne dal canonico francese Giovanni Buridano (1290-1358) che elaborò la teoria dell’impetus, intesa come la forza impressa a un corpo (p.e. un sasso) da un motore (p.e. una fionda azionata da un uomo). Egli sostenne che un corpo dotato di impetus, in assenza di resistenza del mezzo (p.e. l’aria) e della deviazione gravitazionale verso il basso, lo conserva sempre, e quindi si muove all’infinito. In tal senso, secondo Buridano gli astri, che non subiscono resistenza del mezzo né cadono verso il basso, si muovono perennemente per l’impetus loro conferito da Dio all’atto della creazione. Buridano elaborò anche una nuova teoria dell’accelerazione dei gravi in caduta. Mentre Aristotele aveva sostenuto che l’accelerazione dei corpi che cadono dipende dal fatto che avvicinandosi al loro luogo naturale il loro peso aumenta, Buridano sostenne che l’accelerazione deriva dal fatto che la gravità incrementa continuamente l’impetus del 503 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE corpo cadente, in quanto la velocità iniziale dovuta alla gravità naturale produce un impetus che aumenta la velocità iniziale stessa, a sua volta l’aumento della velocità produce un aumento di impetus che genera un ulteriore aumento di velocità e così via. Nel XIV secolo gli studiosi della scuola del Merton College di Oxford posero le basi della meccanica, distinguendo tra dinamica (studio delle cause del moto) e cinematica (studio delle proprietà spaziotemporali del moto), individuando il concetto di velocità istantanea, definendo il moto uniformemente accelerato come quello che acquista incrementi uguali di velocità in uguali intervalli di tempo e, infine, dimostrando il teorema della velocità media. Sempre a livello di ricerca fisica, sulla base di quanto aveva teorizzato Averroè, il canonico inglese Walter Burley (1275-1345) e Giovanni Buridano sostennero la costituzione corpuscolare della materia, benché sulla base di una concezione qualitativa dei “minima naturalia”, ovvero delle parti più piccole e non riducibili della materia. Nel XIII l’alchimista Paolo di Taranto, frate francescano, affermò che le trasformazioni chimiche sono combinazioni di parti minime degli elementi fondamentali (terra, acqua, aria, fuoco) che danno luogo allo zolfo e al mercurio che a loro volta, combinandosi, producono i metalli. Nell’ambito della fisica astronomica, nel XIII secolo astronomi islamici sostituirono l’equante di Tolomeo con un sistema di piccoli epicicli molto simile a quello che Copernico avrebbe utilizzato tre secoli dopo per spiegare i supposti moti circolari uniformi dei pianeti intorno al Sole. Addirittura, nell’università di Padova, a partire dal XIII secolo, si cominciò a mettere in dubbio l’esistenza delle sfere cristalline, degli epicicli e perfino l’immobilità e la centralità della Terra. In questa direzione, il contributo scientifico più radicale del medioevo si deve al francese Nicola Oresme (1323-1382), probabile discepolo di Buridano, certamente docente universitario e in seguito vescovo di Lisieux. Oresme trasse le estreme conseguenze della millenaria critica cristiana alla cosmologia pagana a partire da Filopono: in primo luogo teorizzò la relatività dell’osservazione dei moti deducendone che un osservatore terrestre vede muoversi le stelle sia nel caso la Terra sia ferma e siano effettivamente le stelle a muoversi (come voleva l’astronomia aristotelico-tolemaica) sia nel caso le stelle siano ferme e sia la Terra a girare su se stessa, e pertanto non possiamo escludere questa seconda ipotesi; in secondo luogo, confutò l’argomento tolemaico secondo cui se la Terra si muovesse da ovest verso est una freccia lanciata perpendicolarmente alla superficie terrestre dovrebbe cadere più ad ovest rispetto al punto da cui è stata scoccata, ma ciò non si verifica, argomentando che ciò potrebbe accadere perché il moto rotatorio della Terra coinvolge l’atmosfera terrestre e tutto quello che vi si trova sospeso. Tuttavia, benché così Oresme dichiari che sul piano scientifico non si può stabilire con certezza se la Terra si muova oppure no, egli si sottomette all’autorità della Bibbia – che in alcuni passi parla del moto del Sole e dell’immobilità della Terra – e afferma che per fede bisogna credere che la Terra non si muova, così evidenziando l’ambiguità scientifica della sacra scrittura cristiana che forniva, da un lato, argomenti per confutare e abbandonare la cosmologia aristotelico-tolemaica e, dall’altro, argomenti per difenderla e conservarla. 504 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Il progresso tecnico Anche per quanto riguarda la conoscenza e l’arte meccanica, e più in generale tutte le tecniche (considerate arti manuali), la religione cristiana medievale giocò un ruolo innovativo. Nell’età greca classica l’arte meccanica era stata giudicata inferiore alla vera scienza, in età ellenistica alcune arti erano state accettate come onorevoli, altre rigettate come disonorevoli, in epoca romana Cicerone nel De officiis aveva condannato come degradante ogni attività manuale, e quindi tutte le arti, a eccezione dell’architettura e dell’agricoltura. Al contrario, nell’Alto Medioevo la regola monastica rivalutò il lavoro manuale attribuendogli un significato religioso. Inoltre, la vita monastica presupponeva l’autosufficienza materiale delle comunità monacali. Di conseguenza, il monachesimo promosse la conservazione, la copiatura e lo studio delle opere tecnico-scientifiche di Plinio il Vecchio, Vitruvio, Galeno, Tolomeo, l’apprendimento delle conoscenze meccaniche, e più in generale delle tecniche, dell’antichità, ma anche il loro sviluppo innovativo. Ma la riabilitazione delle tecniche fu portata avanti anche da intellettuali cristiani, laici o appartenenti al clero secolare: il monaco Cassiodoro (490-583) attribuì alle arti meccaniche un valore scientifico ed esaltò le abilità del meccanico; il vescovo Isidoro di Siviglia (560-636) considerò la meccanica, insieme all’astrologia e alla medicina, una branca legittima della scienza fisica; l’abate tedesco Rabano Mauro (780-856) esaltò la meccanica soprattutto come capacità di lavorare la pietra, il metallo e il legno. All’inizio del Basso Medioevo, fu in particolare il nuovo ordine monacale dei cistercensi a promuovere l’istruzione tecnica e l’attività tecnica, in particolare relativamente alla metallurgia del ferro, il metallo utilizzato nella costruzione sia dei nuovi aratri pesanti sia delle cattedrali gotiche. Gli apporti delle civiltà islamica, indiana e cinese I progressi scientifici e tecnici dell’Europa medioevale dovettero molto agli sviluppi tecnico-scientifici compiuti dalla civiltà islamica. Data la posizione e l’estensione dell’impero arabo (che però comprendeva molte altre nazioni islamizzate, p.e. la Persia), i filosofi, gli scienziati e i tecnici islamici potevano attingere al patrimonio librario della Grecia classica, conservato dai bizantini, ma anche ai patrimoni tecnico-scientifici della Persia (dove dal IV secolo si era rifugiata una comunità di intellettuali Greci nestoriani e di filosofi neoplatonici messi fuorilegge), dell’India e della Cina. Queste antiche tradizioni tecnico-scientifiche, almeno in parte, furono anche originalmente sviluppate e arricchite dagli stessi islamici. Nel corso del Medioevo, più intensamente durante il Basso Medioevo, la civiltà islamica trasmise alla civiltà europea testi antichi e nuove conoscenze tecnico-scientifiche, soprattutto nei campi medico e farmaceutico, della tessitura, della tintura, della costruzione di strumenti di misura e osservazione (p.e. l’astrolabio), dell’editoria (prima la 505 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE carta e poi la stampa, scoperte e usate dai cinesi già nell’VIII secolo), della meccanica (fontane zampillanti, valvola conica, manovella a gomito, orologi ad acqua, automi), dell’arte bellica (polvere da sparo, inventata e usata fin dal IX secolo dai cinesi), della tessitura (l’arcolaio). Frutto anche di questa trasmissione, fu la Schedula diversarum artium (XII sec.), un trattato tecnico scritto da Theophilus, pseudonimo di un monaco-artigiano di Colonia, il quale vi esaltò il valore religioso del lavoro manuale, sostenendo che l’opera dell’artigiano è simile all’attività creatrice di Dio. Nel suo trattato, Theophilus descrisse dettagliatamente strumenti e operazioni tecniche negli ambiti della pittura, della vetreria, della ceramica, della costruzione di mosaici, della metallurgia. Sempre nel XII secolo, il cardinale francese Ugo di San Vittore rivalutò la scienza della natura come mezzo per arrivare a Dio e classificò, accanto alle sette arti liberali, attribuendo loro uguale dignità culturale, sette arti meccaniche: tessitura, armamento (che includeva l’architettura), metallurgia, agricoltura, caccia e pesca, medicina e arti scenico-teatrali. Per comprendere il progresso e la valorizzazione delle tecniche nel Basso Medioevo europeo, occorre tener presente anche il notevole sviluppo economico che si registrò in Europa nei primi tre secoli del secondo millennio e che fu al tempo stesso causa ed effetto dello sviluppo tecnico. A livello agricolo le principali innovazioni tecniche furono la rotazione triennale, nuove modalità di irrigazione, l’aratro pesante col vomere a versoio, il collare rigido per i cavalli; a livello industrial-artigianale il mulino ad acqua, il mulino a vento, l’albero a camme (che trasformava il movimento rotatorio in movimento rettilineo su/giù, l’arcolaio, importato dalla Cina); a livello marittimo-commerciale la bussola (importata dalla Cina); a livello militare, la polvere da sparo, archibugi e cannoni, il trabucco (anch’essi di origine cinese). Ma il più stupefacente effetto-causa dello sviluppo economico e tecnico bassomedievale furono le cattedrali gotiche che si diffusero in tutta Europa e comportarono innovazioni architettoniche e tecniche di grande rilievo. La costruzione delle cattedrali, insieme all’industria bellica e a quella degli attrezzi agricoli, aumentò la domanda di ferro e stimolò la meccanizzazione delle miniere, in particolare nel drenaggio dell’acqua, e dell’industria metallurgica che cominciò a servirsi di magli e mantici azionati dalla forza idraulica e di nuovi tipi di forni che permettevano di far assorbire al ferro una maggiore quantità di carbonio, e producevano così la ghisa, più dura del ferro. Altre invenzioni e innovazioni furono la manovella, a partire dal XIV secolo, il pedale (fine XII), telai a pedale, la molla, il filatoio con trasmissione a cinghia, la carriola, la gru girevole, l’orologio meccanico a scappamento (che fu collocato sulle cattedrali), gli occhiali. Gli sviluppi della matematica In campo matematico, la cultura monastica fu meno esigente e si limitò a conservare, ricopiare e tramandare versioni ridotte e semplificate delle grandi opere dell’età ellenistica. Da questo punto di vista, grande importanza ebbe il romano Severino Boezio (480-525), il quale, oltre a tradurre in latino alcune opere di Aristotele, sintetizzò la matematica greca, 506 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE in particolare la geometria di Euclide e l’astronomia di Tolomeo. A sua volta, rifacendosi a Varrone (116-27 a.C.) e a Marziano Capella (410-439), Isidoro di Siviglia (VII secolo) nelle Etymologiae canonizzò la suddivisione delle discipline conoscitive (dette arti liberali) nella tre scienze letterarie del trivio (grammatica, retorica, dialettica) e nelle quattro scienze matematiche del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica). Negli ultimi secoli dell’Alto Medioevo, le scienze matematiche acquisirono sempre più importanza nel mondo cristiano e nel X secolo la spiegazione matematica dei fenomeni naturali prese il sopravvento sulla spiegazione morale sostenuta dai primi padri della Chiesa. Emblema di questa svolta fu la nomina a papa, col nome di Silvestro II, di un grande matematico e astronomo dell’epoca, Gerberto d’Aurillac. Fin da allora l’interesse della Chiesa romana per la matematica fu strettamente associato alle necessità del calcolo del tempo, ovvero alla elaborazione dei calendari, che guidavano e ordinavano sia il lavoro agricolo sia la liturgia religiosa Nel Basso Medioevo, l’Europa poté avvalersi degli importanti sviluppi della matematica realizzati dagli islamici durante l’Alto Medioevo, in particolare dopo l’istituzione a Bagdad, all’inizio del IX secolo, della Casa della Sapienza, che ambiva a essere l’equivalente del Museo e della Biblioteca di Alessandria dell’età ellenistica. Al-Khuwarizmi (780-850) espose e adottò il sistema di notazione numerica e di calcolo usato dagli indiani – dando origine agli appellativi “numeri arabi” e “algoritmo” – e scrisse un trattato originale, intitolato Al-jabr wa’l muqabalah (“completamento e riduzione”), che ne fece il “padre dell’algebra”. Altri matematici islamici scoprirono soluzioni alternative più chiare dei teoremi dei matematici Greci ed elaborarono tavole più precise e aggiornate di quelle di Tolomeo per il calcolo delle posizioni dei pianeti. I matematici e astronomi del X secolo alBattani e Abu al-Wafa introdussero in astronomia l’uso del calcolo trigonometrico inventato dagli indiani. Il grande matematico Leonardo Fibonacci (1170-1240), allievo di un matematico islamico, utilizzando il patrimonio matematico islamico, fece compiere un notevole passo in avanti alla tecnica di numerazione e ai metodi di calcolo. Egli scoprì le famose serie numeriche che portano il suo nome e che utilizzò per trovare le soluzioni di problemi algebrici connessi alla ricorsività (p.e., quante coppie di conigli derivano per riproduzione, in un determinato periodo, da una coppia di conigli?) Gli sviluppi dell’ottica Gli arabi contribuirono anche al progresso dell’ottica. In particolare, ibn al-Haytham confutò la tesi, sostenuta sia da Euclide sia da Tolomeo, secondo cui il raggio visuale esce dall’occhio per colpire e così far vedere gli oggetti, e argomentò che, al contrario, l’occhio riceve i raggi luminosi riflessi dagli oggetti producendone così al suo interno le immagini. Nel Basso Medioevo cominciano a diffondersi in Europa le lenti sferiche, di cui il vescovo inglese Roberto Grossatesta (1175-1253) spiegò il funzionamento sulla base della teoria della doppia rifrazione. In seguito furono costruiti e si diffusero i primi occhiali utilizzando 507 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE lenti convesse delle cui proprietà si occupò il frate francescano inglese Roger Bacon (12191292). L’islamico Al-Farisi (1267-1320) scoprì la scomposizione cromatica della luce e spiegò l’arcobaleno come l’effetto del passaggio della luce nelle particelle di pioggia sospese nell’atmosfera. Gli sviluppi della medicina Per quanto riguarda la medicina, inizialmente, e anche in seguito nelle sue correnti fondamentaliste, il cristianesimo contrastò il suo sviluppo. La malattia, infatti, per lo più era ritenuta dai primi cristiani una conseguenza inevitabile del peccato originale, una punizione da accettare come banco di prova, se non addirittura da abbracciare come un martirio, cioè come la più alta testimonianza della propria fede. In caso contrario, ovvero quando desideravano la guarigione, i cristiani confidavano nei miracoli. Ma, in un secondo tempo, e a partire dall’area orientale, il cristianesimo accolse la scienza e la cura mediche in quanto strumenti della carità, cioè dell’impegno evangelico di assistenza verso il prossimo, tanto da giungere ad assimilare il medico alla figura del Salvatore, cioè di Cristo. Per questo, le opere di Ippocrate e Galeno furono accettate e valorizzate anche dai Padri della Chiesa. In particolare, a partire dal VI secolo nell’impero bizantino, si devono al cristianesimo l’invenzione e la diffusione dell’ospedale, ovvero un edificio adibito a fornire assistenza diagnostica e terapeutica e perfino a permettere degenze prolungate. Ma anche in Europa occidentale a partire dal IX secolo si diffusero nei monasteri le “farmacie” e gli “ospizi” (da hospitalia) costituiti da spazi riservati a medici, ai farmaci, ai bagni (a fini terapeutici) e ai salassi, ma anche alla copiatura e alla scrittura di manuali di medicina, farmacologia e botanica. Anche per gli sviluppi bassomedievali della medicina europea fu decisiva l’attività di raccolta, rielaborazione e trasmissione di opere e tradizioni mediche e farmaceutiche grecoantiche, persiane, indiane e cinesi svolta dalla cultura araba nell’Alto Medioevo. P.e., lo zucchero di canna (quello di barbabietola si cominciò a usare nel XIX secolo), coltivato in Persia, a partire dall’XI secolo fu venduto dai mercanti arabi a quelli genovesi e veneziani (che lo chiamarono “sale arabo”!) e arrivò così in Europa, diventando una componente preziosa della farmacopea poiché serviva a prolungare la durata dei preparati. Uno sviluppo originale di notevole importanza nella farmaceutica si ebbe grazie al matematico islamico al-Kindi (IX secolo) che studiò il rapporto tra la geometria delle sostanze medicinali e i loro effetti terapeutici. In seguito anche Ibn Rushd (1126-1198), latinizzato in Averroè, dimostrò con i suoi studi l’importanza di una valutazione quantitativa e di un dosaggio preciso dei farmaci al fine della loro efficacia. Inoltre nel IX secolo anche a Bagdad fu costruito un ospedale e in seguito se ne diffusero altri nell’intero impero islamico. Gli ospedali islamici, oltre ad accogliere e curare i malati, erano anche scuole di istruzione medica imperniate sull’insegnamento in base all’esempio e al tirocinio. Altri progressi arabi si ebbero nella patologia, con l’identificazione della scabbia, del vaiolo 508 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE e del morbillo. Gli arabi invece, pur praticandola, non fecero progressi nella chirurgia e soprattutto nell’anatomia, a causa della proibizione religiosa della dissezione dei cadaveri umani. Fu araba, tuttavia, la scoperta, dovuta a Ibn al-Nafis (1213-1288), della circolazione polmonare, benché solo teorica, ossia non dettagliata da osservazioni empiriche. Più in generale, grande importanza ebbe l’opera del persiano al-Razi (864925) poiché egli evidenziò i limiti della medicina di Galeno e sostenne la necessità di sviluppare ulteriormente la teoria medica superando la tradizionale impostazione galenica. Anche grazie all’apporto della medicina araba, a partire dal X secolo nacque e si sviluppò la scuola medica di Salerno, che fu la prima scuola di medicina dell’Occidente medievale. Nel Basso Medioevo Salerno perse importanza a favore delle università di Parma, Bologna e Padova. Gli sviluppi teorici della medicina medievale sono legati alla contrapposizione tra la tradizione aristotelica e quella ippocratico-galenica, in particolare riguardo a due questioni: la gerarchia degli organi vitali e la riproduzione. Quanto alla prima, Aristotele aveva sostenuto il primato del cuore, mentre Galeno aveva dato la preminenza al cervello; quanto alla seconda, Aristotele aveva teorizzato che è solo il seme maschile a determinare la forma, cioè le caratteristiche, dell’embrione e quindi dei figli, mentre per Galeno le caratteristiche dei figli dipendono sia dal seme maschile sia da quello femminile. Nel Trecento prevalse l’impostazione galenica, ma essa fu notevolmente rielaborata. Gli sviluppi dell’alchimia Nell’Europa medievale, un’altra importante ricerca di stampo scientifico, se non altro in quanto preparò il terreno alla futura scienza chimica, fu l’alchimia, ossia la teoria e la pratica della trasmutazione dei metalli. L’alchimia si basava sulla convinzione dell’esistenza e della possibilità di produrre artificialmente, attraverso la distillazione, la calcinazione e la sublimazione di minerali, la materia prima – chiamata “elisir” o anche “pietra filosofale” – di cui sarebbero fatti tutti i minerali e con la quale, dunque, sarebbe possibile generare qualsiasi minerale a piacere: oro, argento, pietre preziose, ma anche farmaci taumaturgici. Allo stesso tempo, però, la trasformazione dei minerali aveva per gli alchimisti anche il significato simbolico di un percorso di purificazione e perfezionamento umano. La culla medievale dell’alchimia è la civiltà bizantina la quale trasmise il sapere alchemico a quella islamica, che a sua volta lo fece giungere a quella europea. Tra i vari studiosi arabi che si occuparono di alchimia, un posto a parte spetta al persiano Ibn Sina (980-1037), noto come Avicenna, il quale teorizzò che i minerali nascono dalla combinazione del mercurio e dello zolfo ma confutò, in base ad accurate esperienze, la possibilità umana di trasmutare un minerale in un altro. La posizione di Avicenna, tuttavia, non impedì lo sviluppo della tradizione alchemica nei secoli successivi, sia nel mondo islamico sia in quello cristiano-europeo. Nel Basso Medioevo, il domenicano tedesco Alberto Magno (1200-1280) fece propria la tradizione alchemica araba considerandola un’integrazione della filosofia naturale di Aristotele. Il francescano inglese Roger Bacon (1214-1294) giunse a sostenere che l’oro 509 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE artificiale, prodotto dagli alchimisti, è migliore di quello naturale e che, se ingerito nella forma di “oro potabile”, è in grado di prolungare la vita umana. In questo modo Bacon concepì l’alchimia non solo come una scienza dei metalli ma anche come una scienza farmacologica, capace cioè di produrre sostanze curative per l’uomo. Paolo di Taranto a sua volte sostenne che l’alchimia è la scienza che permette all’uomo di intervenire nei processi naturali modificandoli a suo piacere, tesi decisiva perché costituisce uno dei presupposti fondamentali della scienza moderna. Il francescano francese Giovanni da Rupescissa (1310-1365) teorizzò che l’elisir (detta anche “quintessenza”), da lui identificato nell’alcol, è una sostanza incorruttibile, che coincide con l’etere celeste, e che quindi ha il potere di contrastare la corruzione dei corpi terrestri. Questa tesi alchemica ebbe conseguenze a livello della scienza astronomica, in quanto mise in dubbio la separazione e la differenza tra sfera celeste e sfera terrestre. Nel 1317 una bolla papale proibì l’alchimia e in seguito gli alchimisti furono perseguitati come eretici in quanto accusati di pensare che l’uomo, potendo agire sui processi naturali, possa sostituirsi a Dio. 510 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Cannocchiale su… L’ORIZZONTE FILOSOFICO DELL’ETA’ MEDIEVALE L’Alto Medioevo: ultimi sviluppi ed esaurimento della Patristica Dopo la chiusura della scuola neoplatonica di Atene nel 529 d.C. per decreto imperiale di Giustiniano, la scuola neoplatonica di Alessandria sopravvisse fino alla conquista araba del 642, senza tuttavia alcun sviluppo originale. Nella nuova situazione storico-culturale, caratterizzata dall’acquisizione del monopolio dell’istruzione e della produzione culturale da parte della chiesa cristiana, la prima opera filosofica innovativa fu un corpus di quattro trattati (I nomi divini, La gerarchia celeste, La gerarchia ecclesiastica, La teologia mistica), che cominciò a circolare a Bisanzio a partire dal 532, attribuiti a Dionigi, il giudice dell’Areopago ateniese che, secondo gli Atti degli apostoli, si sarebbe convertito al cristianesimo dopo aver ascoltato l’apostolo Paolo e che dunque avrebbe vissuto nel I secolo d.C. I successivi accertamenti filologici hanno stabilito che si tratta di un apocrifo, per cui l’autore è stato convenzionalmente chiamato “pseudo-Dionigi l’Areopagita”. Questo ignoto filosofo cristiano bizantino del V-VI secolo forgiò una versione cristiana del tardo neoplatonismo di Proclo (412-485) imperniata sulla distinzione tra “teologia affermativa”, quella che studia gli attributi biblici di Dio, e “teologia negativa” (o “apofatica”), quella, cioè, che cerca di comprendere Dio negando che possieda qualsiasi proprietà conoscibile dalla mente umana, benché questo non significhi che sia privo di qualcosa, perché Dio è al di là della privazione e dell’abbondanza, in quanto egli è coincidenza degli opposti. L’obiettivo di questa doppia teologia è l’ “ignoranza assoluta”, cioè la consapevolezza dell’impossibilità umana di comprendere pienamente Dio, presupposto della “teologia mistica”, cioè dell’estasi religiosa, della possibilità del credente di unirsi a Dio annullandosi in lui. Ma il Corpus dello pseudo-Dionigi è importante anche perché propone una versione della creazione come “prosecuzione” (proòdos) di Dio scandita in precisi gradi gerarchici decrescenti: prima i nove “cori” angelici (angeli, arcangeli, principati, potestà, virtù, dominazioni, troni, cherubini e serafini), poi i tre livelli del clero cristiano (vescovi, sacerdoti, diaconi) e infine i tre livelli dei laici (purificati, illuminati, perfetti). L’opera dello pseudo-Dionigi si diffuse in Europa occidentale a partire dal IX secolo e fu una delle fonti del Paradiso di Dante Alighieri. Nei secoli VI, VII e VIII, i filosofi europei occidentali sono accomunati dall’obiettivo di elaborare delle sintesi enciclopediche delle filosofie e, più in generale, dei saperi della civiltà greco-romana. I più importanti autori di questo periodo furono: il romano Severino Boezio (480-524), collaboratore del re ostrogoto Teodorico, da cui fu però condannato a morte come traditore, traduttore di Aristotele e Porfirio e autore di La consolazione della filosofia; il romano Cassiodoro (490-583), anch’egli funzionario del regno ostrogoto, poi monaco in Calabria, autore di Istituzioni delle lettere divine ed 511 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE umane; l’iberico Isidoro (560-636), divenuto vescovo di Siviglia, che scrisse Etimologie; il monaco britannico Beda il Venerabile (673-735), autore di La natura delle cose. Attraverso questi quattro autori si venne definendo il canone dell’istruzione medievale, articolato nelle sette arti liberali e nella teologia. Le arti liberali, a loro volta, erano distinte nelle arti del trivio (o “sermocinali”, cioè della parola): grammatica, retorica, dialettica (cioè logica); e nelle arti del quadrivio (o “reali”): aritmetica, geometria, musica, astronomia. Le arti liberali furono intese e praticate come preparazione alla teologia, ovvero allo studio della rivelazione divina nella sacra scrittura, che era considerata la conoscenza di più alto livello. Gli unici centri di insegnamento e attività culturali dell’Alto Medioevo – i monasteri e le poche “scuole cattedratiche” delle poche città sopravvissute – organizzarono l’istruzione sulla base di questo schema. La breve rinascita carolingia Tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo, la cultura europea fu rilanciata dalla fondazione ad Aquisgrana, per volontà di Carlo Magno, della Schola palatina diretta dal monaco irlandese Alcuino di York (735-804). Su questa base, fu un altro monaco irlandese, Giovanni Scoto Eriugena (810-877), maestro di arti liberali a Parigi nell’851, a produrre un nuovo sviluppo originale in ambito filosofico. Avvalendosi anche dei trattati dello Pseudo-Dionigi Areopagita, pervenuti da Bisanzio, e da lui tradotti in latino, Scoto Eriugena scrisse Sulla natura. L’originalità di quest’opera consiste nell’interpretazione della natura come un ordine gerarchico basato su quattro specie: “quella che crea e non è creata”, cioè Dio, trascendente e ineffabile, causa prima di tutte le cose; “quella che è creata e crea”, cioè Gesù Cristo, il Verbo, ovvero l’insieme dei criteri razionali che sono le cause primarie particolari della natura; “quella che è creata e non crea”, cioè tutti gli enti naturali; “quella che non crea e non è creata”, cioè Dio come causa finale a cui tutte le cose tendono e in cui tutte le cose sono destinate a rifluire. In questo senso, anche per Scoto, il fine della vita umana è unirsi a Dio annullandosi in Lui. Nel 1255 papa Onorio III proibì la lettura dell’opera di Scoto, bollandola di eresia panteistica. Il Basso Medioevo: la “disputa sugli universali” e la nascita della Scolastica Tra la fine del IX e l’inizio del X secolo, la disgregazione dell’impero carolingio, le nuove invasioni barbariche e l’incastellamento feudale congelarono la rinascita culturale europea. Dopo due secoli di stasi, nell’XI secolo si ebbe una ripresa della creatività filosofica grazie alle due opere – Monologio (1076) e Proslogio (1077-8) – frutto dell’ingegno del monaco Anselmo d’Aosta (1033-1109), che fu il primo filosofo cristiano a dedicarsi all’elaborazione sistematica e rigorosa di argomentazioni razionali dell’esistenza di Dio (Vedi più avanti: Rotta su… La scolastica, Tappa 1). Ma Anselmo d’Aosta è importante nella storia della filosofia medievale anche per aver dato il via, insieme al monaco francese Roscellino di Compiègne (1050-1120), alla “disputa sugli universali”, che per la sua lunga durata fu chiamata vexata quaestio (“problema tartassato”). Roscellino, maestro di logica, sosteneva che gli universali – cioè i nomi 512 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE “collettivi” dei generi e delle specie come “animale”, “cane”, “marrone”, ecc. – fossero solo delle etichette verbali o grafiche, dei flatus vocis, delle mere emissioni di suoni, prive di corrispondenza con le cose reali, in quanto queste sono tutte “individui”, cioè sono tutte differenti le une dalle altre. Il corollario di questa posizione logica era l’interpretazione religiosa della Trinità come relazione di tre individui separati. Contro questa interpretazione, da lui considerata eretica, Anselmo si scagliò con foga riaffermando sia il dogma dell’unità della Trinità sia il fondamento reale degli universali, i quali, secondo lui, designavano le idee divine – sommamente reali – in base alle quali è avvenuta la creazione dei generi e delle specie. Mentre si accendeva così la polemica sugli universali, a partire dalla seconda metà dell’XI secolo cominciarono a circolare in Europa occidentale le prime traduzioni latine delle traduzioni arabe di opere dell’antichità classica salvate e conservate da intellettuali arabi, a cominciare da quelle scientifiche di Ippocrate, Galeno, Euclide. In seguito, di decennio in decennio, le traduzioni si moltiplicarono, fornendo anche nuovi testi filosofici, soprattutto di Aristotele, che rivoluzionarono il contesto culturale europeo. Effetto, ma anche causa, di questo arricchimento del patrimonio filosofico europeo fu un sempre maggior interesse filosofico per la natura. La filosofia cristiana del secondo millennio acquisì così una nuova fisionomia rispetto alla Patristica del primo millennio e, per questo, è stata chiamata “Scolastica”, dal nome che veniva dato ai filosofi-maestri bassomedievali: scholastici, ossia insegnanti. Mentre la Patristica aveva relegato in secondo piano la natura, considerandone i fenomeni solo come manifestazioni immediate e contingenti della volontà di Dio, i filosofi scolastici distinguono tra Dio, come causa prima della natura, e le “cause seconde”, cioè le forze/leggi naturali, certo create da Dio, ma autonome e permanenti, e dunque meritevoli di essere studiate in modo indipendente dalla teologia. In altre parole, mentre prima la filosofia della natura, comprendente le scienze naturali, era considerata parte della teologia, dal XII secolo diventò sempre più una conoscenza autonoma, basata su testi propri, ovvero sempre meno dipendente dalla Bibbia. Il rafforzamento della Scolastica e la riorganizzazione dell’istruzione La valorizzazione della natura, e della ricerca naturalistica, si abbinò a una nuova consapevolezza storica, da parte dei filosofi dell’epoca, del loro ruolo e della loro statura nella storia della filosofia. Al francese Bernardo di Chartres (XI-XII secolo), maestro in una delle più importanti scuole cattedrali europee, quella di Chartres appunto, si attribuisce la paternità di una sentenza emblematica, che verrà poi continuamente ripresa nel corso della Basso Medioevo e anche in seguito: “Siamo nani sulle spalle di giganti”. Questa sentenza, esprime il riconoscimento da parte dei filosofi bassomedievali della propria inferiorità rispetto ai grandi filosofi classici, ma anche la coscienza di essere arrivati, grazie al proprio originale apporto, più in alto di loro. In altre parole, la filosofia cristiana bassomedievale si liberò del complesso di inferiorità nei confronti della filosofia antica. O, quantomeno, cominciò a farlo. 513 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Sempre nel corso del XII secolo, nelle scuole dei monasteri e delle cattedrali, si venne a definire un comune metodo didattico incentrato sulla lettura dei testi e scandito in tre gradi: 1) comprensione della “lettera”, cioè la struttura semantica e sintattica; 2) comprensione del “senso”, cioè il significato superficiale; 3) comprensione della “sentenza”, cioè il significato più profondo. La sentenza era integrata dal “commento” del maestro, che, se si ampliava a un’intera opera, prendeva il nome di “glossa”. Inoltre nacque e si diffuse un nuovo tipo di scuola, quello dei “canonici regolari”, una comunità di chiericimaestri che vivevano insieme in città in base a una regola, alla maniera dei monaci, pur non essendo monaci. Ma una novità ancora più rivoluzionaria fu quella sancita dal maestro canonico francese Ugo di San Vittore (1096-1141), ovvero l’introduzione, come oggetto degli studi, a fianco delle arti liberali, delle arti meccaniche, fissate anch’esse nel numero di sette: arte della lana, architettura (comprendente l’arte militare), navigazione, agricoltura, caccia e pesca, medicina, teatro. Queste, secondo Ugo di San Vittore, pur essendo inferiori alle arti liberali, dovevavo avere piena dignità conoscitiva perché miglioravano la vita materiale dell’uomo permettendogli di dedicarsi meglio e con più tempo a Dio. Naturalmente, rimase sempre fermo per Ugo di San Vittore, che la regina di tutte le discipline conoscitive era la teologia, fine ultimo sia dello studio delle arti liberali sia dello studio delle arti meccaniche. La prima reazione della tradizione patristica Nel XII secolo, la nascita di nuovi ordini benedettini, animati dalla volontà di tornare al rigore morale originario della regola benedettina, come quelli dei certosini e dei cistercensi, da un lato portò alla conferma della valorizzazione del lavoro manuale e delle arti meccaniche, dall’altro, a livello propriamente filosofico, innescò una reazione contro la nuova tendenza alla ricerca naturalistica, e alla valorizzazione della ragione, e a favore invece della tradizionale visione della natura come espressione della imperscrutabile, e quindi mai definitiva, volontà di Dio, e quindi del primato della fede anche in ambito naturale. Esponente di spicco di questa reazione fu il monaco cistercense francese Bernardo di Clairvaux (1091-1153), soprannominato “doctor mellifluus”. Egli sostenne che autentica conoscenza è solo quella che permette all’uomo di ottenere la salvezza e che dunque la scienza della natura è solo vana curiositas e presunzione. Più in generale, Bernardo negò che la ragione potesse servire per dimostrare l’esistenza di Dio e comprenderne l’identità, e sostenne l’uso della ragione unicamente come strumento interpretativo della sacra scrittura, ovvero come mezzo di potenziamento della fede. E’ solo la fede, in tal senso, che, secondo Bernardo, ci porta a Dio, non nella modalità razionale della sua conoscenza teoretica, ma nella modalità estatica dell’unione mistica con lui. L’indirizzo innovativo della Scolastica, basato sulla rivalutazione della ragione come strumento di indagine autonomo dalla fede, fu rilanciato dall’antagonista di Bernardo di Clairvaux sulla scena filosofica della prima metà del XII secolo, il chierico, prima, e poi monaco francese Pietro Abelardo (1079-1142), discepolo di Roscellino di Compiègne ma anche del maestro canonico parigino Guglielmo di Champeaux, il quale, nella disputa sugli 514 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE universali, si era contrapposto al “nominalista” Roscellino, e si era schierato al fianco del “realista” Anselmo d’Aosta, affermando l’esistenza reale degli universali come idee di Dio. Abelardo pur aderendo al nominalismo, ne elaborò una versione più moderata di quella di Roscellino, sostenendo che gli universali, benché non significhino alcunché di reale, non sono nemmeno solo delle emissioni di suoni o delle composizioni grafiche, ma designano dei concetti, cioè dei contenuti mentali che la mente umana produce artificialmente associando “individui” simili. Per esempio, l’universale “cane”, per Abelardo non designa l’insieme reale dei cani fisici – che non può esistere perché ogni cane è diverso da ogni altro – ma l’insieme razionale dei cani prodotto dalla mente umana facendo astrazione dalle loro differenze individuali e isolando le loro proprietà comuni. Per distinguerli, in seguito il nominalismo radicale di Roscellino fu chiamato “vocalismo”, quello moderato di Abelardo “concettualismo”. Ma, soprattutto, Abelardo sostiene che la logica, chiamata allora “dialettica”, doveva essere posta a fondamento dell’interpretazione della stessa Bibbia, dal momento che le autorità intellettuali della Chiesa, cioè i filosofi patristici, avevano spesso dato interpretazioni tra loro discordanti, mentre l’interpretazione della verità divina non può che essere univoca. Proprio per questo le opere di Abelardo furono più volte accusate di eresia ed egli stesso dovette bruciare una di esse, la Teologia del sommo bene, in seguito alla condanna del concilio di Soissons (1121). La filosofia di Abelardo, però, è innovativa anche in ambito etico. Abelardo, infatti, argomentò efficacemente che il peccato, cioè l’agire immorale, non consiste nel comportamento fisico esteriore, ma nell’intenzione e nei sentimenti interiori: p.e., nel caso del peccato di lussuria, il peccato non consiste nel cedere effettivamente al desiderio carnale, ma nel provare questo desiderio stesso e nel voler soddisfarlo, anche se poi non ci si riuscisse. La fioritura della Scolastica: “università”, francescani e domenicani A partire dalla seconda metà del XII secolo, la situazione culturale europea fu ulteriormente innovata dalla nascita dei primi “studi” (Salerno, Bologna, Parigi, Oxford) e dalla loro moltiplicazione, soprattutto nel corso del XIII secolo, nella forma giuridicoorganizzativa di corporazioni di docenti e discenti, che presero il nome di universitas magistrorum et scholarium. L’iter scolastico era organizzato in quattro facoltà: a un livello inferiore la facoltà delle sette arti liberali, a livello superiore Medicina, Diritto e infine Teologia, che era considerata la facoltà di massimo livello. L’attività didattica era imperniata sulla lectio (la lezione), la lettura commentata di un libro, e la disputatio, la discussione che era impostata e avviata da una quaestio, cioè dalla formulazione di un problema relativo a una tesi del libro letto. Da questa nuova attività nacquero i “commenti”, decisamente più originali e ampi di quelli dei maestri delle scuole monastiche o cattedrali, e che spesso consistevano in raccolte di “questioni”, che venivano titolate “somme” quando si consideravano esaustive dello scibile di una disciplina. 515 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE La diffusione delle “università” fu il sintomo di un processo ancora più importante: la graduale laicizzazione degli studenti ma anche degli insegnanti (soprattutto in Italia), e quindi dell’attività e della produzione culturale. In questo senso, le università nacquero dall’esigenza di una maggiore autonomia culturale di nuovi insegnanti e nuovi studenti rispetto al controllo esercitato dalle autorità locali, in particolare dai vescovi. Dato il potere di questi ultimi, le università riuscirono ad affermarsi soprattutto grazie all’appoggio del Papato, che a sua volta era impegnato in un processo di centralizzazione a proprio favore di ogni potere religioso e politico europeo. Da questo punto di vista, furono emblematici l’istituzione, intorno al 1160, da parte del papa Alessandro III della licentia docendi, che concludeva (a mo’ della nostra attuale laurea) l’iter degli studi universitari conferendo l’autorizzazione a insegnare; e l’emanazione da parte di Gregorio IX della bolla Parens scientiarum (1231) che sancì l’indipendenza delle università rispetto ai vescovi. Un ulteriore cambiamento nel cambiamento fu, sempre dall’inizio del XIII secolo, la costituzione dei due nuovi ordini dei francescani e dei domenicani, molti dei quali divennero col tempo maestri universitari, acquistando sempre più importanza e impremendo, soprattutto i domenicani, un indirizzo innovativo alla ricerca filosofica. L’irruzione delle opere di Aristotele e lo scontro tra aristotelici e antiaristotelici Ma il fiorire della Scolastica nel XIII fu favorito, o quantomeno radicalizzato, dall’afflusso sempre più massiccio, nel medesimo periodo, delle traduzioni delle opere di Aristotele, in gran parte sconosciute in Europa, cui si aggiunsero i commentari delle opere aristoteliche dei filosofi islamici Ibn Sina (latinizzato in Avicenna) e Ibn Ruschd (latinizzato in Averroè). Nella prima metà del 1200, l’uso dei testi aristotelici fu avversato e limitato da vescovi e abati tradizionalisti – fino ad allora la filosofia di riferimento della Chiesa era stata quella di Agostino, di impianto neoplatonico – ma anche dai papi, che ammettevano lo studio delle opere aristoteliche nella facoltà inferiore delle Arti ma erano contrari al loro uso in ambito teologico. In altre parole, la razionalità aristotelica era accettata se riferita al mondo terreno, ma rigettata nella sua pretesa di parlare di Dio. In ogni caso, a partire all’incirca dalla metà del 1200 i divieti di studio dei testi aristotelici nelle facoltà delle Arti caddero e anzi essi vennero inseriti nel curriculum obbligatorio di studio. Al di là dei divieti delle autorità ecclesiastiche, la circolazione dei testi aristotelici scatenò una vera e propria guerra filosofica tra i maestri universitari. La filosofia di Aristotele, infatti, contiene almeno tre tesi incompatibili con la dottrina cristiana: 1) l’eternità del cosmo; 2) la mortalità dell’intelletto potenziale, cioè dell’anima razionale individuale; 3) la possibilità per l’uomo di raggiungere una piena felicità nella dimensione terrena in base a una vita dedita alla conoscenza. Nello scontro dialettico intorno a questi tre temi, i maestri tradizionalisti sostennero l’impossibilità di conciliare Aristotele con la fede e quindi la necessità di rigettarne gli scritti; i maestri innovativi, invece, perorarono la causa della conciliabilità, sulla base di alcune revisioni parziali del pensiero aristotelico, e sostennero quindi l’esigenza di accogliere la filosofia aristotelica e anzi di farne il nuovo fondamento 516 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE razionale della fede, in quanto più efficace di quello agostiniano-neoplatonico tradizionale. Da questo punto di vista, più in generale, sostituire l’impianto agostiniano-neoplatonico con un nuovo impianto aristotelico significava rinunciare alla concezione dei fenomeni naturali come semplici segni della volontà divina a favore di una concezione della natura come un ordine razionale dotato di proprie leggi, certo così creato da Dio, ma autonomo da lui. Nel corso del XIII secolo, la contrapposizione tra tradizionalisti antiaristotelici e innovatori aristotelici sempre più venne a coincidere con quella tra francescani e domenicani. Furono infatti soprattutto i maestri del nuovo ordine domenicano ad accogliere le opere aristoteliche e a utilizzarle per elaborare una nuova dottrina cattolica della natura e di Dio. E furono invece i maestri del pur altrettanto nuovo ordine francescano a contestare questa nuova dottrina e non solo a difendere la tradizionale dottrina agostiniano-neoplatonica della natura e di Dio ma anche a rilanciarla, rielaborandola originalmente e perfino utilizzando a tal fine spunti aristotelici. In questo senso, anche i francescani, benché difensori della tradizione, furono in realtà degli innovatori. La polemica domenicani/francescani aveva comunque la sua radice nel diverso modo di concepire il rapporto ragione/fede: mentre i domenicani tendevano a dare più peso alla ragione, i francescani rivendicavano la superiorità della fede, valorizzando maggiormente la facoltà pratica della volontà connessa con il sentimento dell’amore. Il primo promotore ed elaboratore della cristianizzazione della filosofia aristotelica fu il domenicano tedesco Alberto di Lauingen (12oo-1280), detto Alberto Magno per la superiorità delle sue capacità intellettive. Per difendersi dal sospetto di eresia, Alberto Magno fondò la sua riabilitazione di Aristotele sul presupposto di una netta distinzione tra la filosofia, che ha come compito la conoscenza razionale delle leggi della natura, e quindi può e deve avvalersi della scienza aristotelica; e la teologia, il cui fine è la conoscenza di Dio basata sulla comprensione della sua rivelazione nelle sacre scritture, per la quale la filosofia aristotelica non ha alcun valore. Su questa base, in particolare, Alberto Magno reinterpretò originalmente la teoria aristotelica dell’anima razionale, sostenendo la possibilità, grazie a una vita sempre più dedita alla conoscenza, che l’intelletto potenziale si assimili all’intelletto agente fino a coincidere con esso. E, poiché l’intelletto agente è l’ordine razionale con cui Dio ha creato il mondo, il filosofo, per Alberto Magno, può rendersi simile a Dio e conseguire la massima felicità terrena, fermo restando che questa rimane inferiore a quella celeste. Il principale avversario dell’aristotelismo, e quindi di Alberto Magno, fu il francescano laziale Bonaventura da Bagnoregio (1217-1274), il cui nome deriva dalla guarigione da una grave malattia infantile ottenuta in seguito al tocco della mano di Francesco d’Assisi, che poi gli augurò una “buona sorte”. Va però evidenziato che Bonaventura, come gli altri filosofi francescani, non rigettò la filosofia di Aristotele come tale, di cui anzi in parte anche lui si avvalse, ma l’abuso che, secondo lui, ne facevano i filosofi domenicani e che finiva per ridurre e deformare la fede a tutto vantaggio di una superba sopravvalutazione della capacità della ragione teoretica dell’uomo. 517 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Secondo Bonaventura, le arti meccaniche e quelle liberali, cioè le scienze terrene, vanno apprese ma solo in quanto mezzi per arrivare ad acquisire la teologia, e questa, a sua volta, deve essere appresa solo in quanto una scienza pratica finalizzata alla comprensione della “sapienza perfetta”, cioè delle sacre scritture. Lo studio delle sacre scritture deve comprenderne i quattro sensi: 1) quello letterale, 2) quello allegorico, che svela le verità ultraterrene, 3) quello morale, che ci indica come comportarci; 4) e, infine, il più importante, quello anagogico, che eleva l’anima umana a Dio rendendola sempre più simile a lui, e che dunque rappresenta il massimo livello e il fine ultimo della conoscenza. Seguendo questo iter conoscitivo, si giunge a comprendere, secondo Bonaventura, che Dio ha creato il mondo dal nulla; non ab aeterno, ma nel tempo; senza ricorrere a potenze angeliche intermedie, ma solo al Verbo, cioè alla sua seconda persona, ossia sempre a se stesso; e “come un’opera d’arte”, cioè come un libero prodotto della sua volontà onnipotente, ovvero senza sottostare a leggi naturali di qualsiasi genere. La materia creata da Dio, per Bonaventura, è originariamente luce, e può assumere due forme: la materia spirituale, inestesa e incorruttibile, propria degli angeli e delle anime umane, e la materia corporea, estesa e corruttibile, propria dei corpi umani e di tutte le cose fisiche. La capacità della materia di assumere diverse forme razionali deriva sia dalla luce, cioè da Dio, sia dai semi razionali di ogni cosa che Dio ha posto in essa. La materia non è dunque solo passiva e potenziale, ma anche parzialmente attiva. In questo senso, le “cause seconde”, cioè le leggi naturali, non sono l’unica causa dei fenomeni naturali, in quanto esse producono effetti solo grazie alla loro connessione con i semi razionali immessi nella materia da Dio. Quanto all’uomo, Bonaventura afferma che il corpo umano possiede già una sua forma, che gli dà la vita, cui si aggiunge l’anima individuale, una sostanza separata dal corpo, a sua volta composta da materia spirituale che assume la forma vegetativa, quella sensitiva e infine quella razionale. L’intelletto passivo e quello agente appartengono entrambi all’anima individuale che, come tale, è immortale. Ma l’opera più significativa di Bonaventura, Itinerario della mente in Dio (1259), è dedicata alla descrizione del cammino di ascesa che l’uomo può compiere fino a raggiungere Dio già durante la vita terrena. Tale cammino si basa sull’acquisizione progressiva di sei facoltà conoscitive cui corrispondono altrettanti livelli di realtà: 1) il senso, che scopre nelle cose fisiche le impronte di Dio in quanto loro creatore; 2) l’immaginazione, con la quale le sensazioni si depositano nell’anima, e che, unita al senso, produce la “contuizione”, cioè la conoscenza di Dio in quanto presente nel mondo fisico; 3) la conoscenza dell’impronta divina nell’anima umana, che è trina come Dio: la memoria, corrispondente alla persona trinitaria del Padre; l’intelletto, corrispondente al FiglioVerbo; la volontà di amare, corrispondente allo Spirito Santo; 4) la conoscenza di Dio in quanto presente nelle tre supreme virtù dell’anima: fede, speranza, carità; 5) la conoscenza di Dio trascendente in quanto essere; 6) la conoscenza di Dio trascendente in quanto bene; 7) l’estasi d’amore, cioè l’unione mistica con Dio che presuppone l’abbandono di ogni razionalità (“la luce”) a favore del puro slancio amoroso (“il fuoco”). 518 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Un altro importante filosofo francescano del XIII secolo fu l’inglese R o b e r t o Grossatesta (1168-1253), il quale elaborò una teoria della luce come prima forma data da Dio alla materia e quindi come prima e fondamentale causa naturale della costituzione del cosmo fisico. Qust’ultimo, infatti, secondo Grossatesta, nacque dall’espansione della luce in tutte le direzioni che produsse la conformazione sferica del cosmo e i dieci cieli in cui è suddiviso in base a dieci diversi gradi di rarefazione della materia ad opera della luce: il decimo e ultimo cielo, quello del firmamento, è il più rarefatto, mentre la regione sotto il primo cielo, quello della Luna, cioè la regione terrena, è costituita dalla massima condensazione della materia. In questo modo Grossatesta conciliò la narrazione biblica della creazione con la fisica aristotelica, riproponendo la divisione del cosmo in due regioni: quella celeste, priva di divenire, e quella terrestre, in cui domina il divenire. Tuttavia, per un altro decisivo aspetto, Grossatesta si rifece alla tradizione pitagoricoplatonica, sostenendo che, poiché la luce si muove in linea retta secondo leggi otticogeometriche, il cosmo ha un ordine di tipo matematico e quindi le scienze della natura devono essere matematiche. Seguace e continuatore di Grossatesta, fu il francescano inglese Ruggero Bacone (12101292), la cui ricerca filosofica fu ispirata all’idea che fosse interesse e compito della Chiesa promuovere lo sviluppo scientifico e tecnico della cristianità. Fondendo Agostino e Aristotele interpretato da Avicenna, Bacone teorizzò che l’intelletto umano si divide in un intelletto potenziale, che fa parte dell’anima individuale, e in un intelletto agente, che è esterno all’anima individuale, in quanto è lo stesso intelletto divino. Attraverso il suo intelletto agente, Dio, secondo Bacone, illuminò i Patriarchi biblici (Abramo, Mosè, ecc.) non solo relativamente alle verità trascendenti ma anche riguardo alla verità naturale, dando così origine alla filosofia. Questa poi sarebbe stata trasmessa dagli ebrei ai Greci e, successivamente, dai Greci agli arabi per arrivare infine alla cristianità europea. Di conseguenza, per Bacone, i nuovi testi di Aristotele e dei suoi commentatori arabi erano del tutto compatibili con il cristianesimo in quanto provenienti da Dio. Più in generale, secondo Bacone, la ricerca filosofica, cioè l’indagine razionale della natura, era voluta e ispirata da Dio e quindi era un’attività doverosa per ogni intellettuale cristiano. In questo senso, sulle orme di Grossatesta, Bacone sostenne che la ricerca scientifica deve avvalersi della matematica, ma al contempo deva anche basarsi sempre sulla verifica dell’esperienza. D’altra parte, anche per Bacone il fine ultimo della filosofia come conoscenza della natura doveva essere la filosofia morale, la quale ha il compito di rendere l’uomo buono e quindi meritevole della salvezza ultraterrena. Benché, dunque, Bacone non mettesse in discussione il primato della dimensione trascendente, e quindi della teologia e della fede, nel 1277 fu imprigionato e poi incarcerato per una decina di anni, con l’accusa di stregoneria ed eresia. La versione di maggior successo dell’aristotelismo cristiano: il tomismo Il filosofo che interpretò con maggiore ampiezza, profondità e potenza argomentativa la svolta aristotelica della filosofia cristiana bassomedievale fu il domenicano laziale e 519 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE maestro di teologia dell’università di Parigi Tommaso d’Aquino (1224-1274), il quale diede origine a un nuovo indirizzo filosofico, il “tomismo”, ancor oggi seguito e attualizzato da molti filosofi cristiani. Come Agostino aveva reinterpretato la tradizione neoplatonica, trasformandola nel fondamento filosofico della fede cristiana, così Tommaso, pur avvalendosi anche di elementi agostiniano-platonici, reinterpetò la filosofia aristotelica, depurandola di tutte le tesi antitetiche ai dogmi cristiani e ponendola così al servizio della dottrina cattolica. Rispetto alla tradizione agostiniana-neoplatonica, il tomismo valorizzò maggiormente la razionalità teoretica sia relativamente all’uomo sia in riferimento a Dio e alla natura da lui creata. Tommaso infatti sostenne che Dio ha creato il mondo in base a criteri razionali unici e insostituibili e che pertanto i fenomeni naturali dipendono solo da leggi naturali razionalmente conoscibili. In questo modo il tomismo si poneva in aperta concorrenza con la tradizione patristica, rielaborata e rilanciata soprattutto, come si è visto, dai filosofi francescani. Non a caso la filosofia tomistica, per tutta la seconda metà del XIII secolo, fu fortemente avversata da maestri universitari e vescovi, e addirittura nel 1277, tre anni dopo la morte di Tommaso d’Aquino, alcune sue tesi furono condannate ufficialmente dall’arcivescovo di Canterbury, che pure era un domenicano. Tuttavia, nel 1323 Tommaso d’Aquino fu dichiarato santo dalla chiesa cattolica e due anni dopo furono revocate tutte le condanne delle sue tesi. Questo rovesciamento della posizione delle alte gerarchie ecclesiastiche segnò la vittoria del tomismo che in seguito egemonizzò sempre più ampiamente la filosofia cristiana. (Vedi più avanti: Rotta su… La scolastica, Tappe da 2 a 6.) L’aristotelismo radicale e la sua condanna ufficiale per eresia Tommaso d’Aquino non fu l’unico è tantomeno il più radicale aristotelico della sua epoca. Nella seconda metà del 1200, infatti, la filosofia di Aristotele fu esaltata e promossa nella sua integralità, ovvero senza espunzioni e revisioni che la conciliassero con la dottrina teologica cristiana, da due grandi “maestri delle Arti” dell’università di Parigi, cioè docenti universitari che insegnavano le sette discipline “liberali”, il laico fiammingo Sigieri di Brabante (1235-1284) e il danese Boezio di Dacia (le date di nascita e di morte sono ignote) che dopo la condanna delle sue tesi nel 1277 entrò nell’ordine domenicano. Sigieri di Brabante fu assertore dell’interpretazione averroistica della filosofia aristotelica, in particolare per quanto riguarda l’anima dell’uomo: a differenza di Tommaso, che aveva affermato l’unità dell’intelletto e del corpo, secondo Sigieri, la parte razionale dell’anima, cioè l’intelletto (sia potenziale sia attuale), essendo immateriale, è del tutto separata dal corpo e dunque non è individuale, ma universale. In altre parole, Sigieri sostenne che esiste un unico intelletto per tutti gli uomini. Questa tesi era in palese contrasto con la dottrina cattolica dell’individualità, ovvero della personalità, dell’anima razionale, fondamento sia della responsabilità morale sia dell’immortalità dell’anima di ogni singolo uomo. Sigieri, tuttavia, teorizzava che, a livello filosofico, ossia scientifico, si poteva e si doveva accettare una tesi razionale, anche se in contrasto con la rivelazione, salvo riconoscere che l’unica verità è quella che scaturisce dalla fede, e che è depositata nella 520 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE dottrina teologica cristiana, e quindi alla fine giudicare false tutte le tesi filosofiche in contrasto con la rivelazione. In altre parole, per Sigieri la filosofia, cioè la conoscenza razionale dell’uomo riferita alla dimensione terrena, deve essere autonoma dalla teologia, cioè dalla conoscenza ispirata da Dio del mondo ultraterreno, ma non può e non deve essere considerata certa, ma soltanto probabile, e quindi deve essere subordinata alla verità certa della teologia. Dunque, anche per Sigieri l’ultima parola spetta alla fede. Tuttavia, la sua filosofia fu duramente attaccata dallo stesso Tommaso d’Aquino e gli costò un processo inquisitoriale per eresia, alla cui condanna si sottrasse solo perché morì prima della sua conclusione. L’aristotelismo radicale di Boezio di Dacia è, invece, incentrato sulla tesi dell’eternità del cosmo. Boezio argomentò che la filosofia, basata sulla conoscenza razionale del mondo naturale, non può che arrivare alla conclusione che dall’eternità devono esistere necessariamente un primo motore immobile e la materia. Ma la rivelazione, depositaria della verità, attesta che il cosmo è nato dalla creazione volontaria di Dio, e dunque che non è eterno. Ora, la filosofia, cioè la ragione umana, non può confutare la rivelazione perché non sa nulla su come Dio abbia voluto creare il primo motore immobile e la materia, in quanto tutto ciò che concerne Dio trascende il mondo fisico. Dunque la filosofia, secondo Boezio, non può dimostrare né che Dio ha creato il mondo ab aeterno né che l’ha creato in un certo istante nel tempo. In altre parole, per Boezio la questione se il mondo sia eterno o temporaneo è irrisolvibile a livello di razionalità filosofica. Non rimane pertanto che affidarsi alla rivelazione, cioè credere per fede che il mondo non sia eterno, rinunciando però alla pretesa di voler corroborare razionalmente questa tesi e ammettendo che, a livello puramente razionale, cioè considerando solo le cause naturali del mondo, si deve concludere che esso è eterno. La commissione inquisitoriale istituita dal vescovo di Parigi nel 1277 accusò per questo Boezio di sostenere due verità in contraddizione tra loro e ne condannò come eretiche le tesi. Alla base della condanna ci fu però anche la volontà di colpire la presunzione dei maestri delle Arti, ovvero dei filosofi, i quali sostenevano anche che i filosofi erano gli unici uomini in grado di raggiungere la felicità già nella dimensione terrena, finendo, almeno agli occhi delle autorità ecclesiastiche, per considerarsi migliori dei santi e dei teologi. La nuova controffensiva antiaristotelica dei francescani tra XIII e XIV secolo In connessione con le condanne ufficiali, che culminano nel 1277 con quelle del vescovo di Parigi e del vescovo di Oxford, ma anche autonomamente da esse, fu sferrata una vera e propria controffensiva filosofica contro il tomismo da parte soprattutto dei francescani. In altre parole, durante i secoli XIII e XIV, quelli della sua maggiore fioritura, la scolastica si sviluppò grazie allo scontro tra tomismo domenicano, ovvero un neoaristotelismo cristiano, e neoagostinismo francescano, ovvero un neoplatonismo cristiano. Va però ribadito che entrambi gli schieramenti contaminarono tesi e argomenti l’uno dell’altro: così come i tomisti utilizzarono anche ingredienti agostiniano-neoplatonici, i neoagostiniani fecero uso di elementi aristotelici. In entrambi i casi, però, gli uni e gli altri 521 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE poterono avvalersi di tesi e argomenti mutuati dall’armamentario filosofico avverso solo interpretandoli in modo coerente con il proprio: i tomisti interpretando aristotelicamente tesi e argomenti agostiniano-neoplatonici; i neoagostiniani interpretando neoplatonicamente tesi e argomenti aristotelici. A maggior ragione, è importante definire chiaramente le divergenze fondamentali tra i tomisti e i neoagostiani: 1) i primi davano più peso all’intelletto, e quindi alla conoscenza teoretica, i secondi alla volontà e quindi alla conoscenza pratico-morale; 2) quelli valorizzavano l’autonomia naturale della capacità conoscitiva dell’uomo, questi la subordinavano all’illuminazione divina; 3) gli uni enfatizzavano le cause seconde del mondo e quindi l’indipendenza e il carattere necessario delle leggi della natura; gli altri Dio come causa prima ed unica e quindi la contingenza della natura, cioè la sua dipendenza dall’imprevedibile volontà divina; 4) i primi consideravano la teologia una scienza speculativa, cioè che ha come scopo la conoscenza di Dio, i secondi una scienza pratica, cioè che ha come scopo amare Dio; 5) i tomisti ritenevano possibile raggiungere una beatitudine terrena grazie alla conoscenza, i neoagostiniani che il peccato originale impedisse all’uomo di conseguire una beatitudine terrena e che dunque l’uomo dovesse confidare solo nella grazia divina e sperare, come unica beatitudine possibile, in quella ultraterrena. Nell’ultimo scorcio del XIII secolo, il più significativo esponente della reazione neoagostiniana al tomismo fu il francescano scozzese Giovanni Duns Scoto (12661308), detto “dottor sottile” in onore della sua capacità argomentativa. Duns Scoto sostenne, innanzitutto, una netta distinzione tra teologia e filosofia: essendo la prima basata sulla rivelazione divina e la seconda sulla ragione, nessuna delle due può confutare l’altra ma nemmeno supportarla. In secondo luogo, Duns Scoto suddivise la teologia in “teologia in sé”, riguardante l’inconoscibile essenza di Dio, e la “teologia nostra”, riguardante le caratteristiche divine che Dio ci ha rivelato nelle sacre scritture e che dunque siamo in grado di comprendere. In ogni caso, il fine della teologia è farci amare Dio per ottenere la salvezza e in tal senso la teologia è una scienza pratica, che non ha nulla a che vedere con la scienza teorica della natura, cioè la filosofia. Tuttavia, Duns Scoto ammise ed elaborò una forma di filosofia “metafisica” come scienza dell’essente in quanto essente, complementare alla teologia. La scienza metafisica non deve basarsi, come per Aristotele, sull’esperienza sensibile, ma sul ragionamento puro a partire dal concetto di essente, ovvero di essere, il più generale e indeterminato. All’essere devono essere attribuite tre proprietà fondamentali: la causalità, il finalismo, la perfezione; da ognuna di esse Duns Scoto deduce l’esistenza di un essere primo, semplice, cioè di un’unica sostanza razionale priva di parti, dotato di intelletto e volontà, infinito. In questo modo la metafisica giunge a risultati che si accordano con la teologia, ma senza esaurirla. Infatti l’essere dimostrato dalla metafisica si avvicina al Dio della rivelazione cristiana, tuttavia Dio è molto di più. Per esempio, all’essere primo non possono venire razionalmente attribuiti l’onnipotenza, l’ubiquità, l’onniscienza proprie del Dio cristiano e ricavabili solo dalle sacre scritture. In questo senso, se la filosofia argomenta l’esistenza di “cause 522 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE seconde” autonome della natura, la teologia afferma che Dio avrebbe potuto creare anche altri tipi di cause seconde, oppure avrebbe anche potuto non crearle. Insomma, Dio, per Duns Scoto, non è minimamente vincolato ai criteri razionali che egli stesso ha scelto liberamente e può dunque cambiarli quando e come vuole. L’unico suo limite è che non può contraddirsi. Un’importante scelta creativa di Dio è stata, secondo Duns Scoto, quella di attribuire a tutti gli essenti l’individualità, cioè quella che Duns Scoto chiama heacceitas (da haec, questo), letteralmente “questità”. In altre parole, ogni cosa possiede una forma individuale che la differenzia da tutte le altre. Gli universali (generi e specie) sono solo delle astrazioni mentali, ma sono tutt’altro che prive di significato conoscitivo, perché possiamo conoscere gli individui solo per differenza rispetto alla specie e al genere in cui li includiamo. Dalla “metafisica della luce” alla “mistica della luce” Tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV ebbe un ulteriore sviluppo un indirizzo scolastico che si può denominare “metafisica della luce”. Iniziato da Alberto Magno e ripreso da Roberto Grossatesta, fu poi rilanciato dal domenicano tedesco Ulrico di Strasburgo (1220-1267), allievo di Alberto Magno, il quale sostenne l’identità di luce, essere e intelligenza, e rielaborato dal domenicano tedesco Teodorico di Vriberg (12501310), il quale si avvalse anche della filosofia tardo-neoplatonica di Proclo, tradotto in latino a partire dal 1260, e coniugò i contenuti metafisici e teologici platonico-agostiniani e aristotelici con il metodo scientifico teorizzato e usato da Grossatesta e Bacone. Teodorico, in particolare, argomentò che l’intelletto individuale è intelletto agente e, come tale, può arrivare alla conoscenza di tutte le cose. La “metafisica della luce” fu ulteriormente sviluppata in una “mistica della luce” da un altro domenicano tedesco, Johannes Eckhart, detto Meister Eckhart (1260-1327), che sostenne che Dio crea l’essere ma non è essere, è del tutto irraggiungibile razionalmente e dunque attingibile solo abbandonando ogni cosa finita, e lo stesso io, fino a trovarlo nel fondo della propria anima. (Vedi più avanti: Rotta su… La scolastica, Tappa 7.) La confutazione del tomismo e l’inizio della fine della Scolastica Nella prima metà del 1300, la filosofia di Duns Scoto fu ripresa e sviluppata in modo tanto originale quanto radicale dal francescano inglese Guglielmo di Ockham (1280-1349) il quale sostenne la completa indipendenza della filosofia e della teologia, e il carattere assolutamente arbitrario e irriducibile alla ragione umana della creazione divina, propugnando così la superiorità e l’irrazionalità della fede, ma anche l’autonomia e il valore della conoscenza scientifica della natura, del tutto priva di significati religiosi. Ockham confutò così la metafisica tomistica e mise in dubbio le tesi scientifico-metafisiche tradizionali (il geocentrismo, la temporalità, l’unicità e la finitezza del cosmo) aprendo le porte alla filosofia rinascimentale e alla rivoluzione scientifica moderna. (Vedi più avanti: Rotta su… La scolastica, Tappe da 8 a 11.) 523 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE La filosofia politica del XIV secolo Nella prima metà del XIV secolo emerse invece un filone di pensiero tendente ad attribuire un’autonomia alla filosofia politica e a contrapporsi alla ierocrazia cattolica. Il grande poeta, ma anche filosofo, fiorentino Dante Alighieri (1265-1321), in Monarchia, teorizzò che l’uomo ha due fini pratici: la felicità nella vita terrena, simboleggiata dal paradiso terrestre, e perseguibile con la ragione umana, ovvero con la filosofia; la beatitudine nella vita ultraterrena, simboleggiata dal paradiso celeste, e raggiungibile con la grazia divina propiziata dalla fede. Da questa distinzione conseguiva per Dante la netta separazione tra Impero e Chiesa e la superiorità dell’Impero per tutto ciò che attiene l’organizzazione sociale nella dimensione terrena. Il maestro delle arti, ma anche funzionario politico e medico, Marsilio da Padova (1275-1343) nel Difensore della pace (1324) sostenne che l’esercizio del potere politico da parte della Chiesa è contrario al piano provvidenziale di Dio e che lo Stato non si fonda su principi religiosi ma sulla volontà dei cittadini che si traduce nel “diritto positivo”, cioè nelle leggi che storicamente vengono stabilite e applicate. Marsilio argomentò anche che la monarchia elettiva è la migliore forma di governo e che la validità ed efficacia delle leggi deve basarsi su una scrupolosa procedura includente molti passaggi affidati a diversi gruppi di esperti. Infine il teologo inglese John Wyclif (1324-1384) teorizzò che la Chiesa deve essere radicalmente povera e dedita unicamente alla sua missione spirituale. Tuttavia, poiché gli uomini che compongono la Chiesa sono soggetti al peccato, essa può corrompersi e per questo occorre che lo Stato eserciti un controllo su di essa. Dunque la Chiesa deve essere sottomessa allo Stato. 524 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA Alcuni confratelli mi pregarono ripetutamente e con insistenza di scrivere per loro, come esempio di meditazione, le cose che avevo loro esposto, parlando con linguaggio usuale, intorno all’essenza di Dio e ad alcuni altri argomenti connessi con questa meditazione. E, badando più al loro desiderio che alla difficoltà della cosa o alla mia possibilità, mi prescrissero questo metodo nello scrivere la meditazione: che nulla vi fosse persuaso con l’autorità della Scrittura, ma tutto ciò che si concludesse in ogni singola investigazione fosse dimostrato brevemente con argomenti necessari e manifestato apertamente dalla luce della verità; e tutto ciò con stile piano e argomenti accessibili a tutti e con semplice discussione. Vollero pure che non trascurassi di risolvere le obiezioni che si potessero presentare, anche le più semplici e apparentemente sciocche. Anselmo d’Aosta, Monologion, Prologo, in Monologio e Proslogio, Bompiani, 2002 525 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ROTTA SU… LA SCOLASTICA Nel 999, l’imperatore Ottone III impose l’elezione a pontefice, col nome di Silvestro II, dell’abate francese Gerberto d’Aurillac (950-1003), grande matematico e astronomo formatosi in Spagna sui testi filosofici e scientifici conservati e prodotti dalla civiltà islamica. Il pontificato di Silvestro II fu effetto e causa di una maggiore valorizzazione da parte della Chiesa cattolica della conoscenza razionale e in questo senso l’elezione di Silvestro II può essere convenzionalmente assunta come l’inizio di una nuova fase della filosofia cristiana medievale, quella della filosofia scolastica. In questo senso, schematizzando, si può dividere il pensiero cristiano medievale in due indirizzi, la Patristica, che si sviluppò nella tarda età romana e nell’Alto Medioevo, e la Scolastica, che fiorì nel corso del Basso Medioevo. Il nome “Scolastica” deriva dalle “scuole” per la formazione del clero, quelle dei monasteri per il clero regolare e quelle delle chiese cattedrali per il clero secolare, cui si aggiunsero dalla seconda metà del XII secolo le università. I monaci e i chierici che insegnavano venivano chiamati “scolastici” e, poiché tutti i nuovi filosofi cristiani erano insegnanti, la nuova filosofia cristiana fu chiamata Scolastica. Il pilastro della filosofia scolastica fu la convinzione che fede e ragione potessero essere complementari, ovvero che non fossero solo compatibili ma anzi reciprocamente solidali, capaci di potenziarsi vicendevolmente. Di conseguenza il problema centrale della Scolastica, intorno a cui ruotarono tutte le sue altre tesi, fu quello del dosaggio di fede e ragione, ossia del peso relativo dell’una e dell’altra. La ricerca della migliore soluzione a questo problema diede vita a contrapposizioni e discussioni accanite per non dire furiose. In questo senso, benché basata sulle stesse sacre scritture cristiane e legata alla sola Chiesa cattolica, la filosofia scolastica fu tutt’altro che omogenea e unitaria, e meno che mai monotona. Al contrario l’intero suo svolgimento fu caratterizzato dal divampare delle polemiche spesso accompagnate da reciproche accuse di eresia (che, oltretutto, in taluni casi si tradussero in veri e propri processi inquisitoriali). Vi si possono evidenziare due orientamenti contrapposti: quello neoaristotelico, nato proprio nel Basso Medioevo, che tendeva a valorizzare maggiormente la razionalità della creazione divina e, di conseguenza, la ragione umana, intesa come efficace strumento per scoprire le leggi del mondo fisico, dimostrare l’esistenza di Dio e raggiungere la felicità nella dimensione terrena; e quello neoagostiniano-platonico, che si rifaceva maggiormente alla tradizione patristica e tendeva a enfatizzare l’imperscrutabilità dei criteri della creazione divina e, quindi, a ridimensionare le capacità della ragione umana, a favore della fede e della rivelazione, e a prospettare come unica felicità possibile quella donata da Dio ai giusti nella dimensione ultraterrena. La contrapposizione tra questi due indirizzi, che innervano lo svolgimento della Scolastica, non va però assolutizzata, sia nel senso che i neoagostiniani non furono meno 526 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE innovativi dei neoaristolelici; sia nel senso che entrambi gli schieramenti utilizzarono, adattandole alla loro impostazione generale, dottrine particolari proprie del patrimonio filosofico degli avversari; sia, infine, nel senso che le singole personalità filosofiche, soprattutto quelle di maggior levatura, tutt’altro che poche, diedero alle loro filosofie un’impronta peculiare che esorbita dal filone cui appartengono. La filosofia scolastica esaurì la sua energia creativa nel corso della seconda metà del Trecento, in particolare in seguito alla confutazione della complementarità di fede e ragione operata da William of Ockham, che, in tal senso, rappresenta il filosofo di confine, ovvero il crinale filosofico, tra la filosofia medievale e la filosofia rinascimentale. 527 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VITA DI UN CAPITANO ANSELMO D’AOSTA Nacque ad Aosta nel 1033 da una famiglia dell’alta aristocrazia. Grazie al profondo rapporto con la madre, fervida credente, fin da ragazzo si sviluppò in lui una spiccata sensibilità religiosa e, al contempo, conoscitiva. Affidato a un precettore severo e incapace di comprenderne le capacità, Anselmo fu vittima di una sindrome depressiva che superò grazie alle cure e all’amore della madre che poi lo fece studiare nel monastero benedettino d’Aosta. Ormai quindicenne, manifestò la sua intenzione di farsi monaco ma la scelta gli fu proibita dal padre il quale voleva, invece, che Anselmo lo affiancasse nella sua attività politicomilitare e che ereditasse il suo feudo. Anselmo subì l’autorità paterna e visse alcuni anni lasciandosi andare alle passioni e ai piaceri fisici. Rimase così nella casa familiare fino alla morte della madre, poi, a 23 anni, fuggì in Francia alla ricerca di un monastero dove proseguire e approfondire i suoi studi. Nel 1059 scelse di seguire le lezioni di Lanfranco di Pavia, priore dell’abbazia benedettina di Notre-Dame du Bec in Normandia, con il quale Anselmo entrò in sintonia tanto da decidere di farsi monaco. Grazie alle sue doti intellettive, nel 1063 divenne priore e maestro di arti liberali e nel 1078 poi abate di Bec, dove visse fino al 1092 accrescendo il prestigio culturale e religioso dell’abbazia. Durante la sua permanenza nell’abbazia del Bec, Anselmo scrisse numerose opere, tra le quali spiccano il Monologion (“monologo, discorso tra sé e sé”) e il Proslogion (“dialogo, discorso rivolto ad altri”), pubblicati il primo nel 1076 (un anno dopo il dictatus papae di Gregorio VII) e il secondo nel 1078. Nel 1093, Anselmo fu nominato arcivescovo di Canterbury. Come tale si scontrò con i re inglesi Guglielmo II ed Enrico I che volevano acquisire il potere di nomina dei vescovi inglesi per controllare la chiesa inglese. Esiliato per due volte, soggiornò in entrambi i casi a Roma, collaborando prima con Urbano II e poi con Pasquale II. Potè tornare a Canterbury nel 1106 quando Enrico I rinunciò al potere di nomina dei vescovi, accontentandosi di un omaggio formale. Anselmo morì nel 1109 a Canterbury. 528 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 1 ANSELMO: L’ESISTENZA DI DIO SI PUO’ ARGOMENTARE A PRIORI Dunque, o Signore, tu che dai l’intelligenza alla fede, concedimi di comprendere, per quanto sai che mi possa giovare, che tu esisti come crediamo e che sei quello che noi crediamo. E davvero noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non si possa pensare nulla di più grande. O forse non vi è una tale natura, perché «disse l’insipiente in cuor suo: Dio non esiste». Ma certamente quel medesimo insipiente, quando ascolta ciò che dico, cioè «qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande», comprende ciò che ode; e ciò che comprende è nel suo intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro, infatti, è che una cosa sia nell’intelletto, e altro è intendere che quella cosa esista. Quando il pittore infatti, prima pensa a ciò che sta per fare, ha certamente nell’intelletto ciò che ancora non ha fatto, ma non intende ancora che questo esista. Quando invece lo ha già dipinto, non solo ha nell’intelletto ciò che ha già fatto, ma intende anche che esso esista. Anche l’insipiente, dunque, deve convenire che, almeno nell’intelletto, vi sia qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande, perché quando sente questa espressione la intende, e tutto ciò che si intende è nell’intelletto. Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande non può essere nel solo intelletto. Se infatti è almeno nel solo intelletto, si può pensare che esista anche nella realtà, il che è maggiore. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore è nel solo intelletto, quello stesso di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Ma evidentemente questo non può essere. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste, senza dubbio, sia nell’intelletto sia nella realtà. Tutto ciò è talmente vero, che non si può neppure pensare che Dio non esista. Infatti si può pensare che vi sia qualcosa di cui non si possa pensare che non esiste; e questo è maggiore di ciò che si può pensare non esistente. Quindi, se ciò di cui non si può pensare il maggiore può essere pensato non esistente, quello stesso di cui non si può pensare il maggiore non è ciò di cui non si può pensare il maggiore; ma questo è contraddittorio. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste così veramente che non si può neppure pensare non esistente. E questo sei tu, Signore Dio nostro. Dunque tu esisti così veramente, Signore Dio mio, che non puoi neppure essere pensato non esistente. E giustamente. Se infatti una qualche mente potesse pensare qualcosa migliore di te, la 529 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE creatura si eleverebbe al di sopra del Creatore e sarebbe giudice del Creatore; il che sarebbe grandemente assurdo. In verità, di tutto ciò che è, all’infuori di te solo, si può pensare che non sia. Tu solo dunque hai l’essere nel modo più vero, e perciò massimo, rispetto a tutte le cose, perché qualsiasi altra cosa non è in modo così vero e, quindi, ha un essere minore. Perché dunque «l’insipiente ha detto in cuor suo: Dio non esiste», quando è così evidente ad una mente razionale che tu sei più di tutte le cose? Per quale motivo, se non perché è stolto e insipiente? Ma in quale modo l’insipiente ha detto in cuor suo ciò che non ha potuto pensare, o in che modo non ha potuto pensare ciò che ha detto in cuor suo, dato che è la stessa cosa dire nel cuore e pensare? Se poi veramente, anzi poiché veramente sia lo pensò perché lo disse in cuor suo, sia non lo disse in cuor suo perché non poteva pensarlo, non in un modo soltanto si dice nel cuore o si pensa qualcosa. In un modo, infatti, una cosa è pensata quando si pensa la parola che la significa; in un altro modo, quando si comprende ciò che la cosa è. Nel primo modo, pertanto, si può pensare che Dio non sia, ma nel secondo assolutamente no. Perciò nessuno, il quale comprenda ciò che Dio è, può pensare che Dio non esista, sebbene dica in cuor suo queste parole, non dando loro alcun significato o dandogliene uno estraneo. Dio, infatti, è ciò di cui non si può pensare il maggiore. Chi comprende bene questo, comprende certamente che egli esiste in modo tale che neppure nel pensiero può non essere. Chi dunque comprende che Dio è così, non può pensare che egli non esista. Ti ringrazio, buon Signore, ti ringrazio perché ciò che prima ho creduto per un tuo dono, ora per la tua illuminazione lo comprendo in modo tale che, se non volessi credere che tu esisti, non potrei non comprenderlo. Anselmo d’Aosta, Proslogion, in Monologio e Proslogio, Bompiani, 2002, pp. 317-321 Il genere filosofico dell’argomentazione dell’esistenza di uno o più esseri divini trae la sua origine da Socrate. Agostino lo pratica in modo marginale, abbozzando tre argomentazioni dell’esistenza di Dio, senza attribuire loro un rilievo strategico, dal momento che per lui la strada maestra per accertarsi dell’esistenza di Dio è la conoscenza della propria anima basata su quella della sacra scrittura. L’innovazione filosofica di Anselmo d’Aosta consiste, dunque, innanzitutto nell’aver dato all’argomentazione dell’esistenza di Dio un posto d’onore nell’ambito della filosofia cristiana. In questo modo, rispetto alla tradizione patristica, Anselmo conferisce alla ragione dell’uomo una maggiore dignità e una maggiore autonomia, non solo e tanto come capacità di conoscere la natura ma anche e soprattutto come strumento per giungere a Dio 530 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE indipendentemente dalla rivelazione. Anselmo, infatti, dichiara apertamente che l’intento delle sue argomentazioni è giungere alla realtà divina facendo del tutto a meno dell’autorità della sacra scrittura e utilizzando unicamente un procedimento razionale. In questa prospettiva, Anselmo elabora e propone cinque argomentazioni dell’esistenza di Dio, da lui stesso distinte in due generi, corrispondenti a due diverse strategie argomentative, una induttiva e l’altra deuttiva: le prime quattro fanno leva su un singolo aspetto del mondo fisico, attestabile a partire dai sensi, per risalire a Dio come sua origine necessaria: esse successivamente vengono chiamate argomenti o prove “a posteriori” (letteralmente, “da ciò che viene dopo”), in quanto partono da un effetto per inferire la sua causa; la quinta e ultima, invece, muove dall’analisi del concetto di Dio per dedurre da esso l’esistenza di Dio: questa successivamente viene denominata “argomento ontologico” o prova “a priori” (letteralmente “da ciò che viene prima”), perché si impernia su Dio stesso, causa prima di tutto. Le quattro argomentazioni a posteriori, che Anselmo mette a punto rielaborando le precedenti argomentazioni di Agostino, sono le seguenti: a) ogni uomo cerca di procurarsi dei beni (cibo, vestiti, amore, conoscenza, ecc.), cioè delle cose buone; i beni si differenziano per diversi gradi di bontà, maggiori o minori; la scala gerarchica dei beni non potrebbe esistere se non esistesse un bene sommo, metro di misura di tutti gli altri beni a lui inferiori. b) Tutte le cose esistenti (uomini, animali, vegetali, minerali) posseggono diversi gradi di perfezione; le cose possono essere più o meno perfette solo in quanto partecipano, in diversa misura, di una stessa perfezione somma; dunque deve esistere un essere sommamente perfetto. c) Tutte le cose esistenti, a seconda delle loro differenti grandezze qualitative, cioè del loro valore (p.e. un cane ha una maggiore grandezza di un’ortica), compongono una scala gerarchica che va dal meno grande al più grande; poiché sarebbe assurdo un rimando all’infinito, deve esistere un essere dotato della massima grandezza, ovvero del massimo valore. d) Tutto ciò che esiste, può esistere o a causa di qualcosa o a causa di nulla; dal nulla non può derivare niente, dunque una cosa non può esistere a causa del 531 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE nulla; pertanto tutto ciò che esiste, esiste a causa di qualcosa che, essendo causa di tutto, deve essere la massima realtà. L’argomentazione a priori, benchè abbia il suo punto di partenza nell’argomento detto “consensus gentium” di Agostino, è la grande invenzione originale di Anselmo. Essa si dipana in questo modo: Tutti gli uomini hanno il concetto di Dio; infatti anche gli atei (che Anselmo appella insipientes, cioè ignoranti, stolti), in quanto pensano “Dio non esiste”, per negare l’esistenza di Dio devono averne una rappresentazione mentale. Il concetto di Dio consiste in “ciò di cui non si può pensare nulla di più grande”, ovvero in “il massimo”. Dio deve esistere, altrimenti nessun uomo penserebbe “il massimo”; infatti, se io penso “il massimo che non esiste”, io non penso davvero “il massimo”, dal momento che “il massimo che esiste” sarebbe maggiore di esso; in altre parole, se Dio non esistesse, ogni uomo penserebbe come massimo ciò che non è massimo, il che è assurdo per contraddizione; dunque, poiché è certo – in base alle premesse – che ogni mente umana pensa effettivamente il massimo, è necessario che Dio esista. Come si è già accennato, Anselmo presenta le sue argomentazioni come del tutto razionali, cioè indipendenti dalla fede nella rivelazione. In altre parole, secondo lui, esse sono valide e logicamente cogenti per ogni uomo, anche per gli atei. Tuttavia, stando così le cose, sembrerebbe porsi un problema cruciale relativo alla dimensione religiosa: se la ragione è sufficiente ad accertare l’esistenza di Dio, la fede e le sacre scritture non diventano superflue? Per quanto non lo dichiari apertamente, è plausibile ritenere che Anselmo si renda conto di questo problema, dal momento che ribadisce più volte la sua fedeltà alla formula agostiniana del “credere per comprendere”, cioè al primato della fede sulla ragione e, soprattutto, che precisa che le sue argomentazioni razionali dell’esistenza di Dio rendono comprensibile Dio “solo fino a un certo punto”, cioè solo parzialmente. In quest’ultima direzione, Anselmo chiarisce che l’essere “di cui non si può pensare nulla di più grande” non coincide con Dio, perché il Dio cristiano è ancora più grande di qualsiasi pensiero umano e perché i suoi attributi (innanzitutto l’amore, poi l’onniscienza, l’onnipotenza, la giustizia, la misericordia, ecc.) possono essere ricavati solo dalle sacre scritture attraverso la fede. 532 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Ma, al di là della problematica religiosa, è la validità logica stessa dell’argomentazione di Anselmo, in particolare di quello a priori, a venir messa in discussione da alcuni dei suoi stessi confratelli. In particolare, Gaunilone, benedettino dell’abbazia di Marmoutier, contesta il presupposto stesso dell’argomento ontologico, cioè che ciò che è vero a livello logico-mentale sia per forza vero anche a livello della realtà extramentale, o, detto in altri termini, che la necessità logica coincida con la necessità ontologica. Gaunilone, infatti, sostiene che, se l’argomento ontologico fosse valido, allora si dovrebbe ritenere valida anche questa argomentazione: tutti gli uomini hanno il concetto di “Isola perduta”, il concetto di Isola perduta è quello di un’isola mai scoperta ma ugualmente prodiga di tutti i beni possibili immaginabili in misura di gran lunga maggiore di qualsiasi altro luogo terrestre, perfino delle isole Fortunate (le Canarie, dove secondo gli antichi soggiornavano i beati); l’Isola perduta deve esistere, altrimenti il nostro concetto di Isola perduta sarebbe contraddetto. Poiché la conclusione di questa argomentazione, secondo Gaunilone, è palesemente assurda, altrettanto assurda risulta la conclusione dell’argomento ontologico anselmiano. E’ chiaro che il controargomento ontologico di Gaunilone è volutamente ironico. Tuttavia, all’ironia Gaunilone aggiunge una spiegazione più seria: ognuno di noi, se ha il concetto di qualcosa, per esempio di “uomo”, può farsi un’immagine mentale, se non del tutto vera, almeno verosimile, dell’esistenza di un individuo umano anche se non lo ha mai visto, ma solo perché ha visto altri individui appartenenti alla specie umana, ovvero riconducibili allo stesso concetto. Ma Dio non può essere oggetto di una conoscenza sensibile, dunque nessun uomo può possederne il concetto e dedurre da esso l’esistenza di Dio. In parole più nette, secondo Gaunilone, Dio è impensabile per la mente umana e quindi la prima premessa dell’argomento di Anselmo è falsa: “Dio” è solo un insieme di suoni o di segni grafici privo di un effettivo contenuto, ossia senza significato. E’ plausibile ritenere che la confutazione logica di Gaunilone nasconda un movente di tipo religioso: eliminare il rischio che la fede sia relegata in secondo piano dalla ragione e ribadire che la strada verso Dio passa per l’ascolto della sua rivelazione e per la messa in pratica dei comportamenti prescritti da essa, cioè per la vita monastica. 533 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Anselmo non solo non ignora la confutazione di Gaunilone, ma la aggiunge alla sua opera e la controconfuta. Egli ribatte che il concetto di “Isola perduta” non equivale a “ciò di cui non si può pensare nulla di più grande”, poiché l’Isola perduta può essere “la più grande delle isole”, ma non la cosa più grande in assoluto. Pertanto non si può dedurre validamente dal concetto di Isola perduta la necessità della sua esistenza, mentre è legittimo farlo dal concetto di Dio. In altri termini, Anselmo argomenta che la necessità dell’esistenza si può dedurre solo dal massimo assoluto, non da massimi relativi (la massima isola, la massima nuvola, ecc.). 534 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VITA DI UN CAPITANO TOMMASO D’AQUINO Tommaso d’Aquino nacque nel 1225 nel castello di Roccasecca in provincia di Frosinone (Lazio). Suo padre era il conte Landolfo d’Aquino, un grande feudatario laziale, e sua madre una discendente della illustre e potente famiglia aristocratica napoletana dei Caracciolo. Essendo il figlio più piccolo, i genitori, secondo le regole di allora, lo destinarono alla carriera ecclesiastica e di conseguenza a cinque anni lo mandarono come oblato (“offerto”) nella vicina e famosa abbazia di Montecassino (fondata intorno al 529 da Benedetto da Norcia, culla e centro dell’ordine dei monaci benedettini). In quegli anni imperversava lo scontro tra Federico II, imperatore di Germania e re di Napoli e della Sicilia, e papa Gregorio IX. L’abazzia di Montecassino era uno dei tanti oggetti della contesa. Dopo una tregua, dal 1230 al 1236, il conflitto si riaccese e il conte Landolfo preferì trasferire Tommaso all’università di Napoli, fondata da Federico II. Ma a Napoli Tommaso entrò in contatto il convento dei Domenicani e nel 1244, a diciannove anni, vi si fece ordinare frate predicatore. La libera decisione di Tommaso era però in contrasto con le mire della sua famiglia che ambiva a conquistare, grazie a lui, la carica di abate di Montecassino. Così, essendo morto il padre, la madre e i fratelli decisero di catturare Tommaso e di costringerlo a tornare nel castello di Roccasecca, dove cercarono di persuaderlo ad assecondare i loro progetti. Tommaso non cedette e alla fine i fratelli furono a lasciarlo tornare tra i domenicani di Napoli. Trasferito nel convento centrale dei domenicani a Roma, per metterlo al riparo da eventuali ripensamenti della famiglia, Tommaso seguì poi il superiore dell’ordine a Parigi, nella cui università proseguì i suoi studi per tre anni, e dove conobbe il domenicano Alberto Magno, di cui divenne allievo e che seguì nel 1248 collaborando con lui alla fondazione e alla gestione dello studium domenicano di Colonia. Ci è stato tramandato che, durante gli anni dell’apprendistato sotto la guida di Alberto Magno, i suoi compagni di studio soprannominarono Tommaso “bue muto” a causa del suo carattere taciturno. Venutolo a sapere Alberto Magno disse ai suoi allievi: «Ah! Voi lo chiamate il bue muto! Io vi dico, quando questo bue muggirà, i suoi muggiti si udranno da un’estremità all’altra della terra!» Nel 1252, lo stesso Alberto Magno designò Tommaso a succedergli sulla sua cattedra all’università di Parigi, dove Tommaso fu accettato con difficoltà a causa della sua giovane età. Mentre insegnava come baccelliere, in questi anni scrisse L’ente e l’essenza. Nel 1256 ottenne la licentia docendi in Teologia dando avvio al suo insegnamento teologico in concorrenza con Bonaventura da Bagnoregio, l’altro maestro di Teologia, ma francescano, dell’università di Parigi. Dal 1259 al 1268 Tommaso, per disposizione dei suoi superiori, fu trasferito a insegnare nelle scuole di formazione dei domenicani prima a Orvieto e poi a Roma. In questo periodo collaborò con papa Urbano IV e scrisse la Summa contra Gentiles e la Summa Theologiae, le sue due più importanti opere. Nel 1268 Tommaso fu rinviato all’università di Parigi dove 535 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE insegnò Teologia fino al 1272. In questo terzo periodo parigino, Tommaso scrisse numerosissime opere di tutti i generi: la seconda parte della Summa Theologiae, commenti alla Bibbia, altri scritti teologici, testi scientifici, commenti alla filosofia di Aristotele, saggi etici. Richiamato a Roma, gli fu affidato il compito di fondare e dirigere uno studium, che lui stesso scelse di collocare a Napoli. Tuttavia, alla fine del 1273, al termine della celebrazione di una messa, Tommaso improvvisamente dichiarò che non avrebbe più scritto niente e spiegò la sua decisione al confratello e amico Reginaldo dicendogli: “Tutto ciò che ho scritto mi sembra paglia in confronto a quanto ho visto”. Il biografo di Tommaso, Giglielmo di Tocco, ci ha tramandato che Tommaso ebbe un’esperienza di unione mistica con Dio, rispetto alla quale la conoscenza razionale raggiungibile dall’uomo gli apparve insignificante. Poco dopo Tommaso si ammalò ma ricevette dal papa l’ordine di recarsi a Lione per partecipare al concilio. Nel 1274, mentre si era da poco messo in viaggio, la malattia di Tommaso si aggravò e pochi giorni dopo egli spirò nell’abbazia cistercense di Fossanova (provincia di Latina, Lazio). Dopo la sua morte la filosofia di Tommaso fu aspramente criticata da molti francescani e nel 1277 alcune sue tesi vennero dichiarate eretiche dall’arcivescovo di Canterbury, che pure era un domenicano. La situazione si ribaltò nel 1323, allorché Tommaso venne dichiarato santo dalla Chiesa e poi scagionato dalle precedenti accuse di eresie. Da allora la Chiesa cattolica conferì sempre più importanza al tomismo fino a farne il fondamento filosofico della riforma varata nel Concilio di Trento (1545-1563), dopo il quale, nel 1567, papa Pio V proclamò Tommaso dottore della Chiesa, con l’epiteto di doctor angelicus. 536 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 2 TOMMASO: L’ESISTENZA DI DIO SI PUO’ ARGOMENTARE A POSTERIORI Sembra che Dio non esista. E infatti: 1. Se di due contrari uno è infinito, l’altro resta completamente distrutto. Ora, nel nome Dio s’intende affermato un bene infinito. Dunque, se Dio esistesse, non dovrebbe esserci più il male. Viceversa nel mondo c’è il male. Dunque Dio non esiste. 2. Ciò che può essere compiuto da un ristretto numero di cause, non si vede perché debba compiersi da cause più numerose. Ora tutti i fenomeni che avvengono nel mondo possono essere prodotti da altre cause, nella supposizione che Dio non esista: poiché quelli naturali si riportano, come a loro principio, alla natura, quelli volontari, alla ragione o volontà umana. Nessuna necessità, quindi, della esistenza di Dio. In contrario: Nell’Esodo si dice, in persona di Dio: “Io sono colui che è”. Rispondo: Che Dio esista si può provare per cinque vie. La prima e la più evidente è quella che si desume dal moto. E’ certo infatti e consta dai sensi, che in questo mondo alcune cose si muovono. Ora, tutto ciò che si muove è mosso da un altro. Infatti niente si trasmuta che non sia potenziale rispetto al termine del movimento; mentre chi muove, muove in quanto è in atto. Perché muovere non altro significa che trarre qualche cosa dalla potenza all’atto; e niente può essere ridotto dalla potenza all’atto se non mediante un essere che è già in atto. P. es., il fuoco che è caldo attualmente rende caldo in atto il legno, che era caldo soltanto potenzialmente, e così lo muove e lo altera. Ma non è possibile che una stessa cosa sia simultaneamente e sotto lo stesso aspetto in atto ed in potenza: lo può essere soltanto sotto diversi rapporti: così ciò che è caldo in atto non può essere insieme caldo in potenza, ma è insieme freddo in potenza. E’ dunque impossibile che sotto il medesimo aspetto una cosa sia al tempo stesso movente e mossa, cioè che muova se stessa. E’ dunque necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da un altro. Se dunque l’essere che muove è anch’esso soggetto a movimento, bisogna che sia mosso da un altro, e questo da un terzo e così via. Ora, non si può in tal modo procedere all’infinito, perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di conseguenza nessun altro motore, perché i motori intermedi non muovono se non in quanto sono mossi dal primo motore, come il bastone non muove se non in quanto è mosso dalla mano. Dunque è necessario arrivare a un primo motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio. 537 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE La seconda via parte dalla nozione di causa efficiente. Troviamo nel mondo sensibile che vi è un ordine tra le cause efficienti, ma non si trova, ed è impossibile, che una cosa sia causa efficiente di sé medesima; ché, altrimenti sarebbe prima di se stessa, cosa inconcepibile. Ora, un processo all’infinito nelle cause efficienti è assurdo. Perché in tutte le cause efficienti concatenate la prima è causa dell’intermedia, e l’intermedia è causa dell’ultima, siano molte le intermedie o una sola; ora, eliminata la causa è tolto anche l’effetto: se dunque nell’ordine delle cause efficienti non vi fosse una prima causa, non vi sarebbe neppure l’ultima, né l’intermedia. Ma procedere all’infinito nelle cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente; e così non avremo neppure l’effetto ultimo, né le cause intermedie: ciò che evidentemente è falso. Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio. La terza via è presa dal possibile e necessario, ed è questa. Tra le cose noi ne troviamo di quelle che possono essere e non essere; infatti alcune cose nascono e finiscono, il che vuol dire che possono essere e non essere. Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che può non essere, un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose possono non esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. Ma se questo è vero, anche ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste, non comincia a esistere se non per qualche cosa che è. Dunque, se non c’era ente alcuno, è impossibile che qualche cosa cominciasse a esistere, e così anche ora non ci sarebbe niente, il che è evidentemente falso. Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà vi sia qualche cosa di necessario. Ora, tutto ciò che è necessario, o ha la causa della sua necessità in altro essere oppure no. D’altra parte, negli enti necessari che hanno altrove la causa della loro necessità, non si può procedere all’infinito, come neppure nelle cause efficienti secondo che si è dimostrato. Dunque bisogna concludere all’esistenza di un essere che sia di per sé necessario, e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio. La quarta via si prende dai gradi che si riscontrano nelle cose. E’ un fatto che nelle cose si trova il bene, il vero, il nobile e altre simili perfezioni in un grado maggiore o minore. Ma il grado maggiore o minore si attribuisce secondo che si accostano di più o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto; così più caldo è ciò che maggiormente si accosta al sommamente caldo. Vi è dunque un qualche cosa che è vero al sommo, ottimo e nobilissimo, e di conseguenza qualche cosa che è il supremo ente; perché, come dice Aristotele, ciò che è massimo in quanto vero, è tale anche in quanto ente. Ora, ciò che è massimo in un dato genere, è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come il fuoco, caldo al massimo, è cagione di ogni calore, come dice il medesimo 538 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Aristotele. Dunque vi è qualcosa che per tutti gli enti è causa dell’essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio. La quinta via si desume dal governo delle cose. Noi vediamo che alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, cioè i corpi fisici, operano per un fine, come apparisce dal fatto che esse operano sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione: donde appare che, non a caso, ma per una predisposizione raggiungano il loro fine. Ora, ciò che è privo di intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, come la freccia dall’arciere. Vi è dunque un qualche essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: e quest’essere chiamiamo Dio. Soluzione delle difficoltà: 1. Come dice S. Agostino: “Dio, essendo sommamente buono, non permetterebbe in nessun modo che nelle sue opere ci fosse del male, se non fosse tanto potente e tanto buono, da saper trarre il bene anche dal male”. Sicché appartiene all’infinita bontà di Dio il permettere che vi siano dei mali per trarne dei beni. 2. Certo, la natura ha le sue operazioni, ma siccome le compie per un fine determinato sotto la direzione di un agente superiore, è necessario che gli eventi naturali siano attribuiti anche a Dio, come a loro prima causa. Similmente gli atti del libero arbitrio devono essere ricondotti ad una causa più alta della ragione e della volontà umana, perché queste sono mutevoli e defettibili, e tutto ciò che è mutevole e tutto ciò che può venire meno, deve essere ricondotto a una causa prima immutabile e di per sé necessaria, come si è dimostrato. Tommaso d’Aquino, Summa theologica, I Questione 2, articolo 3 Anche Tommaso d’Aquino, come Anselmo d’Aosta, si cimenta nel nuovo genere filosofico della “argomentazione dell’esistenza di Dio”. Egli ritiene, però, che l’argomento a priori di Anselmo non sia logicamente valido in quanto la sua premessa minore (“il concetto di Dio è quello di ciò di cui non si può pensare nulla di più grande”) è falsa. Infatti, secondo Tommaso, che riprende e sviluppa l’argomento confutativo di Gaunilone, l’uomo non può conoscere l’essenza di Dio, in quanto essa è infinita mentre l’intelletto umano è finito. Tommaso, pertanto, si concentra sulle argomentazioni a posteriori, cioè di tipo induttivo, che partono e fanno leva non sul concetto di Dio bensì su alcune caratteristiche del mondo fisico. Egli ne elabora cinque, e le chiama “vie”, volendo così dire che conducono a Dio. Esse sono: 1. Ex motu. Tutti possono osservare molte cose fisiche muoversi (nel senso aristotelico di “mutare”). Ogni movimento (=mutamento) di qualcosa è prodotto da un motore esterno, cioè da qualcos’altro già in movimento (=già mutato). Infatti, tutti i movimenti sono passaggi dalla potenzialità all’attuazione e quindi ciò che ha la 539 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE 2. 3. 4. 5. potenzialità di muoversi (p.e. un ramo di legno che ha la potenzialità di bruciare) può attuarsi, cioè essere messo in movimento, solo da ciò che sta già attuando quel tipo di movimento (p.e. il fuoco). Stando così le cose, ogni moto presuppone un motore, il quale a sua volta è stato messo in moto da un altro motore, e così via di mosso in motore. Ma, afferma Tommaso, non si può rinviare all’infinito la catena di mossi e motori, altrimenti non ci sarebbe alcun motore iniziale e dunque alcun movimento. Pertanto è necessario che vi sia un primo motore, cioè qualcosa che non sia mosso da niente e sia pertanto l’origine della catena di mossi-motori, cioè di tutti i mutamenti naturali. Un tale primo motore si dice Dio. Ex causa. Tutti possono constatare che i fenomeni naturali sono concatenazioni di rapporti di causa ed effetto. (Per esempio, le nevicate causano una valanga che a sua volta causa l’abbattimento di abeti che a sua volta causa la fuga di animali, e così via.) In altra parole, ogni effetto rimanda a una causa esterna che a sua volta, però, è l’effetto di un’altra causa sempre esterna. Infatti, se un fenomeno naturale (p.e. la nascita di un bambino) fosse causa di se stesso allora l’effetto (il neonato) precederebbe la causa (la nascita), cosa assurda. Stando così le cose, la natura è una lunga catena di cause/effetti, che però non può procedere all’infinito, altrimenti non vi sarebbe una causa iniziale e dunque non vi sarebbero effetti, cioè fenomeni naturali. Pertanto è necessario che esista una causa prima, cioè una causa che non sia effetto di un’altra causa, e questa causa prima è Dio. Ex possibili et necessario (detta anche ex contingentia). Tutti possono osservare che tutte le cose fisiche si producono e si distruggono, ossia che sia esistono sia non esistono. Di conseguenza, possiamo immaginare un tempo passato in cui ogni cosa non esisteva. In altre parole, prima del mondo sarebbe dovuto esserci solo il nulla. Ma dal nulla non può prodursi nulla. Dunque anche nel presente il mondo non dovrebbe esistere, il che è assurdo perché, pur essendo contingente (ossia pur potendo anche non esistere), di fatto il mondo esiste. Di conseguenza si deve pensare che esista un essere necessario, ossia che non possa non esistere, il quale ha prodotto il mondo, trasformando in realtà la sua mera possibilità. Un tale essere necessario è detto Dio. Ex gradu. Tutti possono osservare che tutte le cose naturali, a seconda dei loro generi e delle loro specie, posseggono diversi gradi qualitativi, cioè differenti livelli di bene o di verità oppure di bellezza. Così come il calore intermedio di un corpo animale non sarebbe possibile senza il calore massimo del fuoco, la gerarchia qualitativa delle cose naturali non sarebbe possibile se non esistesse un essere qualitativamente sommo, cioè perfetto. Ma un essere perfetto è chiamato Dio. Ex fine. Tutti possono constatare che il cosmo fisico possiede un ordine finalistico. P.e., gli animali carnivori possono esistere grazie all’esistenza degli animali erbivori, questi grazie all’esistenza delle piante e queste grazie all’esistenza del Sole. Un ordine finalistico non può avere un’origine casuale, può essere solo il prodotto di un’azione intelligente. Poiché le cose naturali (minerali, vegetali, animali) non 540 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE posseggono un’intelligenza, la natura non può essere causa del suo ordine finalistico. Pertanto, l’ordine finalistico del cosmo può essere solo il prodotto di un essere che possegga un intelligenza proporzionata alla vastità e alla complessità del cosmo. Un tale essere di superiore intelligenza si dice Dio. Secondo Tommaso, queste cinque argomentazioni obbligano ad ammettere l’esistenza di Dio in modo esclusivamente razionale, anche se non si possiede la fede e non si sono mai lette le sacre scritture. Attenzione, però, perché per Tommaso il Dio che saremmo costretti ad ammettere su un piano razionale non è il Dio della rivelazione e della fede cristiane. Tommaso, infatti, distingue due definizioni del termine “Dio”: una definizione “nominale” – oggi diremmo denotativa – e una definzione “reale” – oggi diremmo connotativa. La prima è la definzione generica di Dio, ovvero “essere superiore”, che si può riferire tanto al Dio cristiano quanto all’Allah islamico quanto allo Zeus greco, quanto al Motore immobile di Aristotele. La seconda, invece, è la definizione specifica di Dio, p.e. quella del Dio cristiano, persona amorevole, onnipotente, onnisciente, eterna, creatore di ogni cosa, uno e trino, ecc. Secondo Tommaso, le cinque vie dimostrano l’esistenza di Dio soltanto nel significato “nominale”, ossia generico, ma non attestano alcunché relativamente al significato reale di Dio, cioè alla sua identità essenziale. Il Dio cristiano, infatti, è qualitativamente infinito e assolutamente trascendente, dunque la sua essenza per Tommaso, come si è già visto, non può essere raggiunta dalla razionalità umana in quanto questa è limitata. Di conseguenza per comprendere qualcosa dell’essenza di Dio, l’uomo, afferma Tommaso, può e deve servirsi unicamente delle sacre scritture e della sua fede in esse. In questo senso, Tommaso distingue nettamente una teologia razionale, frutto della mente umana, e pertanto parziale e inferiore, e una teologia sacra, frutto della rivelazione divina, e quindi completa e superiore. Questa distinzione è, a sua volta, il corollario del nuovo rapporto tra fede e ragione concepito da Tommaso. Fermo restando che per lui, come per tutti i filosofi scolastici precedenti, la ragione è ancilla fidei, cioè è uno strumento della fede, e dunque le è subordinata, Tommaso tuttavia amplia il dominio della ragione e sposta più avanti il confine tra ragione e fede, teologia razionale e teologia divina. Infatti, per Tommaso, la ragione umana: 1) innanzitutto può e deve conoscere le “cause seconde”, cioè le leggi razionali, in base alle quali Dio, la causa prima, ha creato il mondo e lo fa funzionare; 541 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE 2) in secondo luogo, in base alla conoscenza delle “cause seconde”, può risalire a Dio come causa prima, ossia dimostrare l’esistenza di Dio nel suo significato nominale, attestando così che la ragione è in continuità con la rivelazione, ossia con la fede; 3) in terzo luogo, può confutare le confutazioni razionali delle verità rivelate, ovvero argomentare che, se non può dimostrare le verità rivelate (p.e. la Trinità), in quanto esse, riguardando l’infinita essenza divina, non possono che essere misteri, non può nemmeno confutarle, cioè contraddirle; 4) in quarto luogo, benché non possa comprenderle del tutto, può cercare di chiarificare le verità rivelate, ossia l’essenza di Dio, allo scopo di comprenderle parzialmente e soprattutto di acquisire una piena consapevolezza dell’invalicabilità del limite della sua comprensione dell’identità divina, in modo da suscitare nell’uomo il desiderio della conoscenza diretta di Dio di cui i beati potranno godere nella dimensione ultraterrena. Dunque, per Tommaso, la ragione non può e non deve condurre a Dio, ma può e deve condurre alla fede, la quale sola, poi, può condurre a Dio, naturalmente per una via del tutto metarazionale. In questo modo, Tommaso sostiene la continuità tra ragione e fede, ovvero la loro totale intesa. Tuttavia, poiché la fede è il fine e la ragione il mezzo, se e quando vi fosse un contrasto tra una tesi razionale e una verità della fede è certo, secondo Tommaso, che la prima sarebbe falsa e la seconda vera. In altre parole, la ragione per Tommaso non può mai contraddire la fede. Alla luce di questa concezione del rapporto fede/ragione, possiamo plausibilmente ipotizzare che, al di là della motivazione logica, Tommaso non condividesse l’argomentazione a priori di Anselmo per una più profonda motivazione religiosa: pensare che l’uomo possieda il concetto di Dio equivale a pensare che ne conosca completamente la definizione reale, cioè l’essenza. Ma una tale conoscenza presupporrebbe in primo luogo che la ragione umana fosse infinita, ovvero che l’uomo fosse uguale a Dio, e, in secondo luogo, in ogni caso, che la rivelazione e la fede fossero inutili. In altre parole, se l’argomento ontologico d’Anselmo fosse valido e quindi vero, l’intera teologia sarebbe razionale e l’uomo non avrebbe più bisogno delle sacre scritture e della chiesa. Ma questa tesi sarebbe, per Tommaso, clamorosamente eretica. 542 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 3 TOMMASO D’AQUINO: DIO ESISTE PER ESSENZA Si trova nelle sostanze un triplice modo di avere l’essenza. Vi è qualcosa, infatti, come Dio, la cui essenza è lo stesso suo essere; e perciò vi sono alcuni filosofi che dicono che Dio non ha quiddità o essenza, perché la sua essenza non è altro che il suo essere. E da questo segue che egli non sia nel genere, perché tutto ciò che è nel genere bisogna che abbia la quiddità oltre al suo essere […]. Né se diciamo che Dio è soltanto essere, è necessario che cadiamo nell’errore di coloro i quali dissero che Dio è quell’essere universale per cui qualsiasi cosa è formalmente. Perché questo essere che è Dio è tale che nessuna aggiunta può essergli fatta, per cui a causa della sua stessa purezza, è un essere distinto da ogni essere. […] Similmente, benché sia soltanto essere non è necessario che gli manchino le altre perfezioni o nobiltà; anzi, egli possiede tutte le perfezioni che si trovano in tutti i generi, e perciò è chiamato semplicemente perfetto, come il Filosofo13 e il Commentatore14 dicono nel V libro della Metafisica; ma egli le possiede in modo più eccellente di tutti gli altri, perché in lui sono una cosa sola, ma negli altri cose sono diverse. E questo perché tutte quelle perfezioni convengono a lui secondo il suo essere semplice: come se qualcuno con un’unica qualità potesse realizzare le operazioni di tutte le qualità, possederebbe in quell’unica qualità tutte le qualità: così Dio nel suo stesso essere possiede tutte le perfezioni. Tommaso d’Aquino, L’ente e l’essenza, cap. VI Una volta argomentata l’esistenza di Dio in senso nominale, Tommaso, in omaggio alla sua concezione della teologia razionale, cerca di comprendere anche il significato reale di Dio, cioè la sua identità. Lo fa, e non potrebbe farlo altrimenti, partendo dalla sacra scrittura, ovvero dalla rivelazione che Dio ha fatto di se stesso all’uomo. In particolare Tommaso si basa sulla famosa autodefinizione che Dio dà a Mosé, almeno secondo il libro biblico Esodo: “Io sono colui che è”. Secondo Tommaso, l’interpretazione razionale di questo passo biblico stabilisce che l’essenza di Dio è l’essere. Cosa vuol dire? Secondo Tommaso, che anche in questo caso si rifà ad Aristotele, ogni cosa fisica possiede un’essenza (da lui chiamata anche “quiddità”), che ne costituisce la forma, ossia le proprietà razionali fondamentali e, di conseguenza, l’identità specifica. P.e., l’essenza 13 14 Si tratta, naturalmente, di Aristotele, considerato il Filosofo per eccellenza. E’ Averroè (nome latinizzato dell’arabo iberico Ibn Ruschd). 543 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE dell’uomo è la razionalità, quella del cane la fedeltà al suo padrone, quella dell’oro l’inossidabilità, ecc. Poiché tutte le cose fisiche si generano e si dissolvono, cioè sono temporaneamente, l’essenza di nessuna cosa può consistere nell’essere. In altre parole, per tutte le cose, all’infuori di Dio, l’essenza e l’essere sono sempre nettamente distinti. L’essenza infatti è il modo di essere di qualcosa e, come tale, non coincide con il suo essere. In altre parole: un modo d’essere non implica necessariamente che esso esista, potrebbe anche non esistere. Invece, poiché “è colui che è”, Dio, afferma Tommaso, si differenzia da ogni altra cosa perché la sua essenza consiste nell’essere, ovvero perché in lui essere ed essenza coincidono. Che significa? Significa, risponde Tommaso, che la proprietà fondamentale di Dio, quella che ne costituisce l’identità, è l’esistere. In altre parole, Dio non è generato, e quindi non può finire, ossia è eterno, in quanto è l’esistere stesso, ovvero l’essere è la sua identità decisiva, ciò che egli è innanzitutto e soprattutto. Secondo Tommaso, il fatto che Dio è per essenza l’essere implica che egli possiede tutte le qualità al massimo grado, cioè che è perfetto. L’essere, infatti, è co-implicazione di tutte le perfezioni. In questo senso, l’onnipotenza creativa di Dio è una conseguenza immediata del fatto che egli sia ciò che esiste per essenza, ovvero l’essente la cui essenza è essere. Infatti, in quanto possiede l’essere per essenza, Dio può dispensarlo – in gradi diversi a seconda delle diverse dignità – a ciò che è altro da sé, ossia può creare dal nulla, cioè trasformare il non-essere in essere, ciò che non è in una cosa che è. Questo, secondo Tommaso, spiega perché le creature (angeli, uomini, animali, vegetali, minerali), che non hanno l’essere per essenza, purtuttavia esistono: esse ricevono l’essere da Dio e possono esistere solo per questo. E’ evidente il nesso tra questa tesi tomistica e l’argomentazione a posteriori detta “ex possibili et necessario”: in quanto è per essenza essere, Dio è essere necessario, ovvero esiste necessariamente, e quindi è ciò che trasforma in realtà la mera possibilità di esistenza del mondo, cioè di tutte le cose, che altrimenti non esisterebbero. In questo modo, Tommaso chiarifica in modo razionale il mito biblico della creazione: l’essenza di ogni cosa non implica la sua esistenza, quindi se il mondo esiste ciò si spiega solo in base alla creazione divina, che ha fornito l’essere alle essenze, cioè ai diversi modi d’essere, di tutte le cose. Ma se “prima” della creazione le cose non esistevano, le loro essenze, a loro volta, come potevano esistere, ovvero in cosa consistevano? Tommaso risponde che le essenze di tutte le cose erano idee di Dio, ossia i progetti razionali universali di tutte le cose. Come tali le essenze di tutte le cose sono eterne, ma solo come pensieri di Dio, non come creature 544 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE individuali e autonome. Con la creazione le essenze di tutte le cose da idee universali di Dio si trasformano in individui effettivamente esistenti in quanto Dio dona l’essere a ogni essenza. Ma va tenuto ben presente che per Tommaso l’essere che Dio dona alle sue creature non è lo stesso essere che lui è per essenza. Infatti, l’essere di Dio è un possesso originario e quindi necessario, mentre l’essere che Dio dà alle sue creature è un essere derivato e quindi contingente (in quanto Dio avrebbe potuto anche non creare). Per distinguere l’essere di Dio dall’essere delle creature Tommaso denomina “esistenza” l’essere delle creature. In altre parole, Dio è, mentre ogni cosa creata esiste. Per noi “esistere” è un sinonimo di essere che ne esprime ancor più nettamente il significato predicativo (“questo libro è”) rispetto a quello copulativo (“questo libro è pesante”). Per Tommaso, che parlava latino, ex-sistere significava “essere da”, cioè essere per derivazione da qualcos’altro. Questo spiega l’uso tomistico in due significati parzialmente diversi dei termini essere (Dio)esistenza (creature). Ma Tommaso spiega non solo la differenza terminologica di essere ed esistenza ma anche quella ontologica, dicendo che solo per Dio si può parlare di essere in senso proprio, mentre per tutte le cose se ne può parlare solo in senso analogico. In altre parole l’esistere assomiglia all’essere, ma non lo è propriamente, è un similessere, oppure un semiessere. Infatti, solo Dio è perché Dio è l’essere, e quindi lo possiede, e di conseguenza è eterno; le creature, invece, sono solo perché partecipano dell’essere di Dio, per così dire lo ricevono in concessione, e pertanto esse sono o temporanee o al massimo immortali (angeli e anime umane), ma mai eterne. Utilizzando, e al tempo stesso modificando Aristotele, Tommaso aggiunge che le essenze di tutte le creature – a eccezione degli angeli – sono costituite dalla forma e dalla materia propria di ogni specie di cose. Per esempio, l’essenza di tutti gli alberi comprende la loro organizzazione razionale (l’interazione radici, tronco, rami, foglie; la sintesi clorofilliana, ecc.) da una parte; e il legno e la fibra vegetale dall’altra. Poiché non implica l’essere, l’essenza creaturale, composta da forma e materia, costituisce però solo la potenzialità dell’esistenza degli individui di una determinata specie (p.e. un pino, un larice, un pioppo, ecc.). Ma allora come fa la potenzialità ad attuarsi? A differenza che per Aristotele, per Tommaso la potenzialità di esistere dell’essenza non può attuarsi autonomamente e automaticamente. Affinché la potenzialità dell’essenza possa attuarsi, cioè perché l’essenza da virtuale possa diventare reale, occorre l’intervento creativo di Dio. E’ Dio, e solo Dio, secondo Tommaso, che permette il passaggio dalla potenzialità all’attuazione, cioè dall’essenza all’esistenza, di tutte le cose. In questo modo, Tommaso ribadisce che senza l’atto creativo di Dio il mondo non esisterebbe. 545 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 4 TOMMASO: DIO HA CREATO UN MONDO AUTONOMO Tanto il vero quanto il bene, come è stato detto, hanno l’essenza del perfezionamento oppure della perfezione. Tuttavia, l’ordine delle perfezioni può essere inteso in due modi: nel primo dal punto di vista delle perfezioni stesse e nel secondo da quello delle cose perfettibili. Considerando dunque il vero e il bene per se stessi, allora il vero è prima del bene per essenza perché il vero perfeziona qualcosa in conformità alla sua essenza di specie, mentre il bene perfeziona qualcosa non solo in conformità alla sua essenza di specie ma anche in conformità alla sua esistenza come cosa effettiva. E in tal modo l’essenza del bene include molte più qualità dell’essenza del vero e si costituisce, per così dire, addizionandosi a quest’ultima; e così il bene presuppone il vero, mentre il vero presuppone l’uno dal momento che l’essenza del vero è portata a compimento dalla comprensione dell’intelletto e, d’altra parte, qualcosa è conoscibile in tanto in quanto è unità. Chi infatti non conosce l’uno non conosce niente, come dice il Filosofo nel IV della Metafisica. Di conseguenza è tale l’ordine di questi nomi trascendentali, se vengono considerati conformemente a loro stessi, che dopo l’essente viene l’uno, quindi dopo l’uno il vero, e successivamente dopo il vero il bene. Se tuttavia l’ordine tra la verità e il bene è considerato dal punto di vista delle cose perfettibili, allora al contrario il bene viene naturalmente prima del vero […]. Tommaso d’Aquino, Quaestiones Disputatae. De Veritate, Questione 21, articolo 3. In un secondo modo l’essenza si trova nelle sostanze intellettuali create15, nelle quali l’essere è altro dalla loro essenza; benché l’essenza sia senza materia. Perciò il loro essere non è assoluto, ma ricevuto; ma la loro natura o quiddità è assoluta, non ricevuta in alcuna materia. E perciò si dice nel libro De Causis16 che le intelligenze sono infinite inferiormente, e finite superiormente: sono infatti finite quanto al loro essere che ricevono dall’alto; tuttavia non sono finite riguardo all’inferiore, perché le loro forme non sono limitate alla capacità di una materia che le riceve. E perciò in tali sostanze non si trova pluralità di individui in un’unica specie, come si è detto, se non nell’anima umana, a motivo del corpo a cui si unisce. E sebbene la sua individuazione dipenda occasionalmente dal corpo, quanto al 15 16 Si tratta degli angeli. E’ un’opera attribuita ad Aristotele. 546 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE suo inizio, poiché non si acquista da sé l’essere individuato se non nel corpo di cui è atto; tuttavia non è necessario che, sottratto il corpo, abbia a cessare l’individuazione, perché avendo un essere assoluto, dal quale essa ha acquisito l’essere individuato, per il fatto che è diventata forma di questo corpo, quell’essere rimane sempre individuato. […] In un terzo modo l’essenza si trova nelle sostanze composte di materia e forma, nelle quali l’essere è ricevuto e finito per il fatto che hanno l’essere da un altro: e inoltre la loro natura o quiddità è ricevuta nella materia segnata. E perciò sono finite sia superiormente che inferiormente; e in esse già per la divisione della materia segnata è possibile la moltiplicazione degli individui in un’unica specie. Tommaso d’Aquino, L’ente e l’essenza, cap. VIIn un secondo modo l’essenza si trova nelle sostanze intellettuali create17, nelle quali l’essere è altro dalla loro essenza; benché l’essenza sia senza materia. Perciò il loro essere non è assoluto, ma ricevuto; ma la loro natura o quiddità è assoluta, non ricevuta in alcuna materia. E perciò si dice nel libro De Causis18 che le intelligenze sono infinite inferiormente, e finite superiormente: sono infatti finite quanto al loro essere che ricevono dall’alto; tuttavia non sono finite riguardo all’inferiore, perché le loro forme non sono limitate alla capacità di una materia che le riceve. E perciò in tali sostanze non si trova pluralità di individui in un’unica specie, come si è detto, se non nell’anima umana, a motivo del corpo a cui si unisce. E sebbene la sua individuazione dipenda occasionalmente dal corpo, quanto al suo inizio, poiché non si acquista da sé l’essere individuato se non nel corpo di cui è atto; tuttavia non è necessario che, sottratto il corpo, abbia a cessare l’individuazione, perché avendo un essere assoluto, dal quale essa ha acquisito l’essere individuato, per il fatto che è diventata forma di questo corpo, quell’essere rimane sempre individuato. […] In un terzo modo l’essenza si trova nelle sostanze composte di materia e forma, nelle quali l’essere è ricevuto e finito per il fatto che hanno l’essere da un altro: e inoltre la loro natura o quiddità è ricevuta nella materia segnata. E perciò sono finite sia superiormente che inferiormente; e in esse già per la divisione della materia segnata è possibile la moltiplicazione degli individui in un’unica specie. Tommaso d’Aquino, L’ente e l’essenza, cap. VI 17 18 Si tratta degli angeli. E’ un’opera attribuita ad Aristotele. 547 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Condotta a termine la sua indagine razionale dell’essenza di Dio con l’evidenziazione dei suoi insormontabili limiti, Tommaso rivolge la sua attenzione filosofica al creato, cioè al mondo in quanto prodotto dal nulla dall’atto creativo di Dio. Ma il creato presuppone la creazione, dunque preliminarmente si tratta per Tommaso di interpretare razionalmente, nei limiti del possibile, un altro mistero della fede. Al riguardo, sono due i principali problemi posti dalla descrizione biblica della creazione divina: il primo riguarda la possibilità stessa della creazione, in quanto generazione dal nulla; il secondo la temporalità della creazione, cioè il fatto che Dio abbia creato non dall’eternità ma in un certo istante del corso del tempo. Il primo problema, secondo Tommaso può essere risolto del tutto razionalmente, in base alla teoria di Dio come unico essente necessario, ovvero come colui che possiede l’essere per essenza. Il problema della temporalità della creazione, invece, sostiene Tommaso, non può essere risolto razionalmente, è e deve restare un dogma della fede. Infatti, Tommaso argomenta efficacemente, anche in contrasto con Aristotele, che sul piano razionale la questione dell’origine nel tempo o dall’eternità del creato è indecidibile, cioè irrisolvibile. In altre parole, per Tommaso vi sono argomenti razionali tanto a favore della prima quanto a favore della seconda tesi e tra loro equivalenti. Di conseguenza se non si può dimostrare razionalmente che Dio abbia creato il mondo nel tempo, razionalmente non lo si può nemmeno escludere. Pertanto l’indagine razionale della creazione come verità rivelata, secondo Tommaso, conferma che la ragione, da un lato, incontra limiti invalicabili, e dall’altro, e soprattutto, che non contraddice la fede, ovvero che credere non è irrazionale. Naturalmente, anche per Tommaso, come per tutta la filosofia cristiana, la creazione innanzitutto non è un atto necessario ma è un atto volontario di Dio – cioè Dio avrebbe potuto anche non creare – e, in secondo luogo, è un atto d’amore, anzi è l’atto stesso con cui Dio ama ciò che è altro da sé, ossia le sue creature. A partire da questi capisaldi, Tommaso elabora una sua originale interpretazione della creazione imperniata su due elementi, entrambi propri, naturalmente, dell’essenza di Dio: 1) le idee e 2) l’essere. Le idee di Dio contengono le essenze, ovvero le proprietà fondamentali, sia formali sia materiali, di tutti i generi e di tutte le specie delle creature, e perfino di tutti gli individui, benché solamente allo stato di modelli o di progetti, ossia di meri possibili. Da questo punto di vista, Tommaso sostiene che tutte le cose, a livello di pura razionalità, sono composti di una certa forma e una certa materia, ovvero di materia “segnata”. In altre parole, differenziandosi da Aristotele, Tommaso sostiene che la materia non è mai allo stato indifferenziato, ma è sempre specificata e individualizzata in correlazione con una 548 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE certa forma. P.e., data l’ “essenza uomo”, la sua forma è l’anima razionale, cioè l’intelligenza, e la sua materia è il corpo umano che oltretutto assume configurazioni diverse (più o meno alto, con la pelle più o meno chiara, ecc.) a seconda di ogni singolo individuo. Naturalmente, fanno eccezione gli angeli, i quali, pur essendo creature come tutte le altre, hanno uno statuto ontologico superiore, e le cui essenze, dunque, comprendono solo la forma. Le essenze di tutte le creature, tuttavia, sono solo potenzialità di esistere. Perché tale potenzialità possa attuarsi, afferma Tommaso, occorre l’essere, cioè la proprietà di esistere, che solo Dio possiede per essenza e che può e vuole concedere, per amore, alle essenze di tutte le cose, trasformandole così da meri possibili in individui realmente esistenti. La creazione dunque è una compartecipazione parziale al proprio essere concessa gratuitamente da Dio alle essenze da lui stesso pensate. Poiché tutte le cose, una volta create, sono “essenti”, cioè esistono effettivamente, Tommaso afferma che il mondo, in quanto creato da Dio, possiede come ragione fondamentale e universale, ossia come denominatore comune decisivo, l’essere, seppur nel grado minore dell’esistere (in latino ex-sistere). Alla proprietà preliminare e più generale, ma anche più indefinita, dell’essere seguono, secondo Tommaso, altre quattro proprietà, relativamente più definite ma sempre della massima generalità e fondamentalità, in quanto appartengono a tutti gli “essenti” senza alcuna eccezione e connotano la loro esistenza. Queste proprietà supreme sono chiamate da Tommaso “trascendentali”, proprio perché si situano ontologicamente al di là non solo dell’individualità di tutti gli essenti ma anche delle loro specie e dei loro generi. I trascendentali sono: 1. l’Uno: ogni cosa, o essente, esiste e può esistere solo in quanto costituisce un’unità essenziale, ovvero un insieme ordinato inseparabile, tale per cui, se perde una sua parte essenziale, non può esistere più (almeno come quella cosa). P.e., se il cervello di un uomo non è più attivo, benché sia vivo, egli non esiste più come un uomo ma solo come un organismo biologico, dal momento che non può più esercitare la sua intelligenza. 2. Il Vero: ogni essente è tale perché rispecchia in sé l’essenza divina dalla quale è scaturito e, di conseguenza, è aperto alla conoscenza, ovvero può essere completamente conosciuto per ciò che realmente è. 549 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE 3. Il Bene: ogni essente persegue il proprio bene, ma l’essere, cioè l’esistenza, di ogni essente è un benessere e di conseguenza, in quanto bene, ogni essente tende a conservare la propria esistenza. 4. Il Bello: ogni essente, nelle sue forme e nei suoi colori sensibili, manifesta esteticamente la sua origine razionale e divina, ovvero il bello è l’espressione sensibile dell’unità, della verità e del bene propri di ogni cosa. Secondo Tommaso, dai quattro trascendentali discendono, per corrispondenza con le rispettive essenze, i generi (minerale, vegetale, animale) di tutte le cose, dai generi, a loro volta, le specie (metalli, gas, larici, rose, insetti, mammiferi, ecc.) e, infine, dalle specie tutti gli individui, cioè i singoli essenti dei diversi generi e delle diverse specie. Dal punto di vista ontologico, cioè della intensità e della perfezione dell’essere, uno, vero, bene, bello, generi e specie costituiscono una scala gerarchica e, similmente, anche i diversi generi e le diverse specie, e dunque gli individui che appartengono loro, sono gerarchicamente disposti a seconda del loro grado di perfezione relativa. In altre parole, Tommaso propone una configurazione piramidale del cosmo al cui vertice c’è Dio, in quanto essere necessario, da cui discendono, in modo continuativo – per così dire, come uno scivolo senza alcuna incrinatura – tutti gli essenti secondo un preciso ordine gerarchico. Poiché Dio, in quanto essere necessario, e dunque creatore, è la causa prima del creato, Tommaso chiama i trascendentali, i generi e le specie “cause seconde”. Differenziandosi dalla tradizione neoagostiniana, Tommaso sostiene che gli eventi fisici sono causati da Dio indirettamente, cioè attraverso le cause seconde da lui stabilite. Tenendo presente che le cause seconde corrispondono alle diverse proprietà naturali delle cose fisiche, la nuova tesi di Tommaso significa che il mondo fisico possiede delle leggi autonome e stabili, ovvero un proprio ordine razionale voluto da Dio. La ragione umana, dunque, se non può conoscere Dio, se non parzialmente, in quanto infinito, può e deve conoscere il mondo fisico, in quanto finito e in quanto opera di Dio. In altre parole, Tommaso valorizza la ricerca scientifica in campo naturale non solo e non tanto come impresa umana, volta a prevedere e prevenire i fenomeni naturali, ma anche e soprattutto come compito religioso dell’uomo. Per comprendere meglio la differenza tra la posizione neoagostiniana, che negava le cause seconde e sosteneva la volontaria, e quindi imprevedibile, causazione divina diretta di ogni 550 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE evento, e quella tomistica, si può ricorrere a una similitudine: nel primo caso Dio è come un burattinaio che muove e dà voce direttamente ai suoi burattini o alle sue marionette; nel secondo Dio è come un ideatore e costruttore di robot a molla i quali, una volta azionati, si muovono da soli secondo le regole stabilite dal costruttore. In questo senso, sarebbe arduo edificare una scienza dei burattini, dal momento che il burattinaio, pur seguendo un canovaccio, varia continuamente la sua rappresentazione; al contrario, è facile edificare una scienza dei robot, perché i loro movimenti seguono regole precise e invariabili. 551 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 5 TOMMASO: LA VERITA’ E’ ASSIMILAZIONE DELLA MENTE ALLE COSE Come il termine bene esprime ciò verso cui tende la facoltà desiderativa, così il vero esprime ciò verso cui tende l’intelletto. Ma tra la facoltà desiderativa e l’intelligenza, o qualsiasi altra potenza conoscitiva, vi è questo divario, che la conoscenza si ha perché il conoscibile viene a trovarsi nel soggetto conoscente, mentre il desiderio si realizza quando il relativo soggetto si muove verso la cosa desiderata. Per cui il termine della facoltà desiderativa, che è il bene, è nella cosa desiderata, mentre il termine della conoscenza, che è il vero, è nell’intelligenza stessa. Ora, come il bene è nella cosa in quanto questa è relazionata alla facoltà desiderativa, e per tale motivo la nozione di bene proviene alla facoltà desiderativa dall’oggetto, per cui questa è detta buona perché tende al bene, così, essendo il vero nell’intelletto in quanto l’intelletto si adegua alla cosa conosciuta, necessariamente la nozione di vero proviene alla cosa conosciuta dall’intelletto, in maniera che la stessa cosa conosciuta si dice vera per il rapporto che ha con l’intelletto. Ma l’oggetto conosciuto può avere con un intelletto rapporti essenziali o accidentali. E’ relazionato in modo essenziale a quell’intelletto dal quale ontologicamente dipende, accidentalmente invece all’intelletto dal quale può essere conosciuto. Come se dicessimo: la casa comporta una relazione essenziale alla mente dell’architetto, una relazione accidentale invece a un [altro] intelletto da cui non dipende. Ora, una cosa non si giudica in base a ciò che le conviene accidentalmente, ma in base a ciò che le si addice essenzialmente: quindi ogni singola cosa si dice vera assolutamente per il rapporto che ha con l’intelligenza dalla quale dipende. Quindi i prodotti delle arti si dicono veri in ordine al nostro intelletto: vera si dice infatti quella casa che riproduce la forma che è nella mente dell’architetto, e vere le parole che esprimono un pensiero vero. Così le realtà naturali si dicono vere in quanto attuano la somiglianza delle specie che sono nella mente di Dio: si dice infatti vera pietra quella che ha la natura propria della pietra, secondo la concezione preesistente nella mente di Dio. Quindi la verità è principalmente nell’intelletto e secondariamente nelle cose, per la relazione che esse hanno all’intelletto come al loro principio. Per tale ragione la verità è stata definita in diverse maniere. S. Agostino [De vera relig. 36] dice che «la verità è la manifestazione di ciò che è». S. Ilario [De Trin. 5, 14] insegna che «il vero è ciò che dichiara o manifesta l’essere». E queste definizioni riguardano la verità in quanto è nella mente. Definizione invece della verità delle cose in rapporto all’intelletto è questa di S. Agostino [De vera relig. 36]: «La verità è la perfetta somiglianza delle cose con il loro 552 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE principio, senza alcuna dissomiglianza»; e quest’altra di S. Anselmo [De verit. 12]: «La verità è la rettitudine percettibile con la sola mente»: infatti è retto ciò che concorda col suo principio; e anche questa di Avicenna [Met. 8, 6]: «La verità di ciascuna cosa è la proprietà del suo essere, quale le è stato assegnato». — La definizione poi: «La verità è l’adeguazione tra la cosa e l’intelletto» [cfr. a. 2, ob. 2] si può riferire ai due aspetti della verità. Tommaso d’Aquino, Somma teologica, I, Questione 16, articolo 1 Dal momento che per lui l’uomo ha non solo la possibilità scientifica ma anche il dovere religioso di scoprire le cause seconde del cosmo fisico, ossia le leggi razionali del mondo naturale, nell’esporre la sua teoria della conoscenza, Tommaso indica, innanzitutto, la regola fondamentale dell’attività conoscitiva. Essa consiste in una formula tanto breve quanto chiara: “adaequatio intellectus ad rem”, la corrispondenza (o l’assimilazione, o anche l’adesione) dell’intelletto alla cosa. In altre parole se vogliamo conoscere in modo veritiero e completo qualcosa, il nostro intelletto deve slanciarsi verso (ad) l’oggetto da conoscere fino a rendersi uguale ad esso (aequatio), cioè fino ad aderirvi del tutto. Ma qual è il fondamento razionale di questa regola prima della scienza? È il trascendentale Vero, in base al quale, come abbiamo visto, ogni essente possiede la proprietà di rispecchiare la propria essenza divina e di conseguenza risulta conoscitivamente accessibile in modo esatto e totale. In questo senso, Tommaso incardina la regola suprema della conoscenza umana sulla seguente argomentazione: poiché tutte le cose, in quanto “vere”, rispecchiano le essenze divine, cioè le idee di Dio (“adaequatio rei ad intellectum divinum”); quando l’intelletto umano si assimila alle cose (“adaequatio intellectus humani ad rem”); allora l’intelletto umano si assimila all’intelletto divino (“adaequatio intellectus humani ad intellectum divinum”); ma l’intelletto divino è la verità; pertanto, l’uomo consegue la verità. In altre parole, la regola fondamentale della conoscenza è la corrispondenza della mente umana agli oggetti della conoscenza perché solo così la mente umana può rispecchiare le loro essenze divine e in tal modo conseguire la loro verità totale e certa. Due sono le più importanti implicazioni della concezione tomistica della verità scientifica come corrispondenza tra l’intelletto umano e le cose: 553 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE 1. il criterio fondamentale della verità scientifica non è soggettivo, cioè non è un criterio della mente umana, ma è oggettivo, ossia fa parte della costituzione ontologica delle cose; 2. l’uomo, se non può conoscere l’essenza di Dio, può conoscere in modo esaustivo le essenze di tutte le cose fisiche e dell’intero cosmo in modo del tutto certo, in quanto garantito da Dio stesso. In questo modo, Tommaso dà un contributo decisivo allo sviluppo della scienza, in quanto, a differenza dei filosofi antichi, teorizza che la ragione umana non incontra limiti di principio nella conoscenza del mondo fisico, ovvero che il mondo fisico è pienamente conoscibile. Non si può fare a meno di notare come questa posizione epistemologica sia un risvolto della teoria della creazione: poiché il mondo è prodotto unicamente da un principio del tutto razionale, esso possiede un ordine razionale ben più esteso e profondo di quello pensato dai filosofi antichi e dunque è conoscibile razionalmente in modo completo. Stabilito il sommo criterio della conoscenza, Tommaso, seguendo le orme di Aristotele, delinea il procedimento conoscitivo, scandendolo nei suoi passaggi fondamentali. Secondo Tommaso, la conoscenza se vuole essere scientifica, ovvero conseguire la verità completa, deve necessariamente partire dalla sensazione, meglio da ripetute sensazioni dell’oggetto che si vuole conoscere, ossia dall’esperienza sensibile. E’ chiaro che questo avvio empirico del processo conoscitivo è un corollario della regola fondamentale della conoscenza: se per conoscere la verità di una cosa, il nostro intelletto deve assimilarsi alla cosa stessa, ne segue che innanzitutto deve averne una conoscenza sensibile. Ma la conoscenza sensibile, benché necessaria, non è sufficiente. Essa deve essere superata e sviluppata dalla conoscenza razionale, in quanto l’assimilazione completa dell’intelletto alla cosa, per Tommaso, non può limitarsi all’assimilazione alle sue proprietà sensibili, bensì deve raggiungere la sua essenza, ossia la sua organizzazione razionale complessiva. Il conseguimento di questo ulteriore e completo livello di assimilazione alla cosa non può essere compito dei sensi, ma solo dell’intelletto. A sua volta, secondo Tommaso, l’intelletto umano può assolvere questo compito solo perché è articolato in due parti: l’intelletto potenziale, che coincide con la nostra coscienza, e l’intelletto agente (o attuato), che invece originariamente è inconscio e può diventare cosciente solo gradualmente e solo in base all’ampliamento dell’esperienza sensibile. Grazie alla conoscenza sensibile, l’intelletto potenziale riceve e riproduce in sé l’immagine sensibile dell’oggetto esperito. Stimolato dall’intelletto potenziale, l’intelletto agente, che conosce le essenze razionali (o intellegibili) di tutte le cose, ma di cui non siamo coscienti, 554 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE fornisce, per così dire, l’essenza della cosa esperita all’intelletto potenziale e in questo modo fa attuare l’intelletto potenziale, cioè gli permette di conseguire la conoscenza razionale (benché limitatamente alla cosa esperita). Così, grazie alla conoscenza razionale, cioè alla conoscenza delle essenze delle cose, il processo conoscitivo può giungere a compimento, cioè conseguire l’assimilazione completa dell’intelletto alla cosa. Tommaso, insomma, teorizza che la conoscenza razionale consiste in un procedimento di astrazione, ossia nell’eliminare le proprietà accidentali per isolare evidenziare quelle essenziali, cioè quelle che costituiscono la reale identità di qualcosa. Sulla base della sua teoria della conoscenza, Tommaso definisce la sua posizione nella disputa sugli universali. Secondo lui, gli universali esistono realmente: sia ante rem (prima e indipendentemente dagli essenti fisici), in quanto idee di Dio; sia in re (negli essenti fisici singolari) in quanto forme razionali comuni a tutti i membri di ogni specie; sia post rem (come effetto della conoscenza sensibile), come concetti della mente umana, ovvero come rappresentazioni mentali delle forme razionali delle cose e delle idee di Dio. Dunque Tommaso è un realista: i termini universali per lui corrispondono a essenti reali, cioè designano realtà universali effettivamente esistenti. La teoria tomistica della conoscenza, in particolare per ciò che concerne il duplice intelletto dell’uomo, è strettamente legata alla teoria tomistica dell’anima, ossia alla psicologia tomistica. L’uomo, infatti, per Tommaso, è l’unico essente fisico che possiede un’anima razionale (articolata in intelletto agente e intelletto potenziale) la quale è la forma (cioè l’ordinamento) del corpo, ovvero il principio della vita del corpo e delle sue funzioni fisiologiche, quella vegetativa (nutrimento) e quella sensitiva (movimento e sensibilità). Di conseguenza, l’anima umana, quando svolge le funzioni vegetativa e sensitiva, interagisce, e quindi comunica, con il corpo, venendone così parzialmente configurata; dall’altro lato, quando svolge la funzione conoscitiva, rimane separata da corpo, cioè si mantiene puramente razionale, potendo così conseguire la conoscenza degli intellegibili. Tuttavia, la separatezza dell’anima razionale (sia come intelletto agente sia come intelletto potenziale) non comporta che essa sia unica e universale per tutti gli uomini, e che dunque l’anima individuale, quella vegetativo-sensitiva, si dissolva insieme al corpo, come aveva sostenuto l’autorevole interprete di Aristotele Ibn Ruschd (Averroè) e come sostenevano – cadendo per Tommaso nell’eresia – alcuni filosofi scolastici, come Sigieri di Brabante. Infatti, secondo Tommaso, ogni intelletto umano (sia potenziale sia agente) è individualizzato e pertanto, alla morte del corpo, l’anima individuale di ogni uomo non si 555 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE dissolve insieme al suo corpo ma perdura, dal momento che, essendo razionale, è immortale. Così argomentata l’immortalità dell’anima umana, Tommaso aggiunge che, anche se divisa dal corpo in seguito alla morte, essa conserva l’impronta del corpo di cui era stata forma. Questa tesi tomistica è correlata al “mistero” cristiano della resurrezione dei corpi alla fine dei tempi, ovvero il giorno del giudizio universale, quando, cioè, tutti i corpi dei morti saranno ricostituiti e si riuniranno alle loro anime. In altre parole, poiché in base alla rivelazione, ogni corpo è indissolubilmente legato a un’anima razionale, secondo Tommaso, non solo l’anima razionale deve essere originariamente individuale ma deve essere ulteriormente individualizzata dal corpo e dalle sue azioni. Questa individualizzazione è il fondamento, per Tommaso, della responsabilità morale di ogni uomo, cioè è ciò che fa sì che un uomo acquisisca dei meriti o dei demeriti agli occhi di Dio. In altre parole che sia dichiarato giusto, e quindi destinato alla vita beata, oppure sia bollato come ingiusto, e condannato alla dannazione. 556 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 6 TOMMASO: LA FELICITA’ E’ LA CONTEMPLAZIONE DI DIO La beatitudine è il sommo bene. Ma è proprio di Dio essere il sommo bene. Non essendoci quindi più sommi beni, è evidente che la beatitudine si identifica con Dio. La beatitudine è l’ultimo fine, al quale tende per natura la volontà umana. Ma la volontà non deve avere come fine un oggetto diverso da Dio: poiché di lui soltanto dobbiamo fruire, secondo l’espressione di S. Agostino [De doctr. christ. 1, cc. 5, 22]. Quindi la beatitudine è Dio stesso. […] La felicità ultima e perfetta non può trovarsi che nella visione dell’essenza divina. Per averne la dimostrazione bisogna considerare due cose. La prima è che l’uomo non è perfettamente felice fino a che gli rimane qualcosa da desiderare e da cercare. La seconda è che la perfezione di ciascuna potenza è determinata dalla natura del suo oggetto. Ora l’intelletto, come insegna Aristotele [De anima 3, 6], ha per oggetto la quiddità o essenza delle cose. Quindi la perfezione di un intelletto si misura dal suo modo di conoscere l’essenza di una cosa. Per cui se un intelletto viene a conoscere l’essenza di un effetto partendo dalla quale però non è possibile conoscere l’essenza o quiddità della causa, non si dirà che l’intelletto può raggiungere senz’altro la causa, sebbene possa conoscerne l’esistenza mediante gli effetti. Quando dunque l’uomo nel conoscere gli effetti arriva a comprendere che essi hanno una causa, conserva il desiderio naturale di conoscere la quiddità della causa. E si tratta di un desiderio dovuto alla meraviglia, come dice Aristotele [Met. 1, 2], che stimola la ricerca. Come chi osserva le eclissi del sole capisce la loro dipendenza da una causa, la cui natura però gli sfugge: e allora si meraviglia, e mosso dalla meraviglia si pone alla ricerca. Ricerca che non cessa finché non giunge a conoscere la natura della causa. Ora, dal momento che l’intelletto umano, conoscendo la natura di un effetto creato, arriva a conoscere solo l’esistenza di Dio, la perfezione da esso conseguita non è tale da raggiungere veramente la causa prima, ma rimane ancora il desiderio naturale di indagarne la natura. Quindi l’uomo non è perfettamente felice. Per la felicità perfetta si richiede dunque che l’intelletto raggiunga l’essenza stessa della causa prima. E così esso avrà la sua perfezione unendosi a Dio come al suo oggetto, nella qual cosa soltanto si trova la felicità dell’uomo, come si è visto sopra. […] In questa vita si può avere una certa partecipazione della felicità, ma non la vera e perfetta beatitudine. E ciò può essere confermato da due 557 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE argomentazioni. Primo, partendo dalla nozione stessa universale di felicità. Infatti la beatitudine, essendo «un bene perfetto ed esauriente», esclude ogni male e appaga ogni desiderio. Ma in questa vita è impossibile escludere ogni male. Infatti la vita presente soggiace a molti mali inevitabili: all’ignoranza dell’intelletto, agli affetti disordinati dell’appetito, ai molteplici malanni del corpo, come S. Agostino espone con diligenza nel De Civitate Dei [19, 4 ss.]. E così pure nella vita presente non può essere saziato il desiderio del bene. Infatti per natura l’uomo desidera il perdurare del bene che possiede, e invece i beni di questa vita sono transitori: poiché è transitoria la vita stessa, che per natura desideriamo e che vorremmo far durare in perpetuo, avendo l’uomo un orrore istintivo della morte. Quindi è impossibile il possesso della beatitudine nella vita presente. Secondo, considerando ciò in cui specialmente consiste la beatitudine, cioè la visione dell’essenza divina: visione che l’uomo non può conseguire in questa vita, come si è dimostrato nella Prima Parte [q. 12, a. 2]. Per cui risulta evidente che nessuno in questa vita può acquistare la vera e perfetta beatitudine. […] L’uomo può acquistare la beatitudine imperfetta, raggiungibile nella vita presente, come può acquistare le virtù, negli atti delle quali consiste tale beatitudine, come vedremo in seguito [q. 63]. Ma la perfetta beatitudine dell’uomo consiste, e lo abbiamo già visto [q. 3, a. 8], nella visione dell’essenza divina. Ora, vedere Dio per essenza è al disopra della natura non soltanto dell’uomo, ma di qualsiasi creatura, come fu già dimostrato nella Prima Parte [q. 12, a. 4]. Infatti la conoscenza naturale di una qualsiasi creatura segue il modo della sua sostanza, come il De Causis [8] dice a proposito dell‘Intelligenza [angelica]: «Conosce le cose che sono al disopra e quelle che sono al disotto di sé secondo il modo della propria sostanza». Ora, qualsiasi conoscenza che segua il modo di una sostanza creata è inadeguata alla visione dell’essenza divina, che sorpassa all’infinito ogni sostanza creata. Quindi né l‘uomo né qualsiasi altra creatura può conseguire l’ultima beatitudine con le sue capacità naturali. […] Come si è detto nella Seconda Parte [I-II, q. 110, aa. 3, 4], la grazia considerata in se stessa perfeziona l’essenza dell’anima, in quanto le comunica una certa somiglianza con l’essere divino. E come dall’essenza dell’anima derivano le potenze, così dalla grazia derivano alle potenze dell’anima alcune perfezioni che vengono dette virtù e doni, e che completano le potenze stesse in ordine ai loro atti. Ora, i sacramenti sono ordinati a certi effetti speciali, necessari alla vita cristiana: p. es. il battesimo è destinato a una specie di rigenerazione spirituale, per cui l’uomo muore ai vizi e diventa membro di Cristo; il quale effetto è qualcosa di speciale, distinto dagli atti delle potenze dell’anima. E lo 558 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE stesso si dica degli altri sacramenti. Come dunque le virtù e i doni aggiungono alla grazia in genere un perfezionamento delle potenze in ordine ai loro atti, così la grazia sacramentale aggiunge, sia alla grazia in genere che alle virtù e ai doni, uno specifico aiuto divino per conseguire il fine del sacramento. E in questo modo la grazia sacramentale aggiunge qualcosa alla grazia delle virtù e dei doni. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, questione 3, articoli 1 e 8; questione 5, artt. 3 e 5; questione 62, art. 2. Come la teoria della conoscenza tomistica si fonda sul trascendentale del “vero”, così l’etica tomistica si incardina sul trascendentale del “bene”. Come abbiamo visto ( Tappa 3), che ogni essente abbia la proprietà fondamentale del “bene” significa che ogni essente tende al proprio bene, ovvero a conservare e perfezionare, ossia accrescere, il proprio benessere e quindi la propria felicità. Ma il bene – e quindi la felicità – di ogni essente varia a seconda del suo grado ontologico, cioè del genere e della specie cui appartiene. A differenza di tutti gli altri essenti fisici, che perseguono il proprio bene in base alla determinazione delle loro “cause seconde” – p.e. esempio un uccello costruisce il proprio nido o migra in base all’istinto – l’uomo possiede la “volontà”, cioè la capacità di autodeterminare coscientemente e liberamente il proprio agire. La volontà, che dunque include il libero arbitrio, è infatti il correlato pratico dell’intelligenza, l’altra faccia della conoscenza teorica. In altre parole, la razionalità dell’uomo si manifesta, secondo Tommaso, sia come capacità di conoscere (intelletto) sia come capacità di decidere il proprio comportamento corporeo (volontà). In questo quadro, l’etica ha il compito di chiarire qual è il bene proprio dell’uomo e in che modo ogni individuo umano può conservarlo e perfezionarlo. Il che equivale a dire che per Tommaso l’etica è la scienza che permette all’uomo di essere davvero libero, stante che per lui la libertà non è la semplice volontà, che potrebbe anche scegliere il male, ma solo la volontà che sceglie il bene. In altre parole, la volontà, ossia il libero arbitrio, è condizione necessaria ma non sufficiente della libertà in senso proprio, che è sempre e solo volere il perfezionamento del proprio bene e agire di conseguenza. Ma allora qual è il bene che l’uomo deve perseguire? Nella nostra vita, afferma Tommaso, abbiamo e vogliamo molti e diversi beni a ognuno dei quali associamo un maggior o minor grado di felicità. Tutti questi beni sono collegati da rapporti di mezzo/fine. In altre parole, i beni minori sono mezzi per raggiungere beni maggiori, ossia appunto per accrescere il proprio benessere/felicità. P.e., mangiare cibi sostanziosi può essere finalizzato a 559 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE sviluppare le proprie capacità fisiche, lo sviluppo delle proprie capacità fisica a vincere delle gare sportive, vincere delle gare sportive a diventare famosi e magari anche ricchi, e così via. Ma se ogni bene è mezzo per raggiungere un bene maggiore, deve esserci un bene massimo, capace di garantirci la massima felicità, altrimenti il nostro agire sarebbe privo di un fine ultimo e dunque sarebbe in realtà privo di uno scopo effettivo, cioè senza senso, se non altro perché non potremmo mai accontentarci e quindi provare un reale e completo benessere/felicità. Per Tommaso, di conseguenza, deve esistere un bene sommo, capace di farci godere la massima felicità, e che, come tale, deve essere il fine ultimo dell’agire umano. Questo bene sommo è la beatitudine celeste, che scaturisce dalla contemplazione di Dio nella vita ultraterrena successiva alla morte fisica. Tuttavia, afferma Tommaso, oltre alla beatitudine celeste, superiore e perfetta, l’uomo ha anche la possibilità di godere di una beatitudine terrena, imperfetta e inferiore, ma pur sempre fonte della massima felicità possibile all’interno della dimensione terrena, ossia durante la vita fisica. Queste due beatitudini non solo non si escludono, ma la seconda, quella terrena, è condizione e pregustazione della prima, quella celeste. Pertanto, secondo Tommaso, l’etica è la scienza che ci dice come possiamo raggiungere la beatitudine terrena, prima, e la beatitudine celeste poi. Usando una metafora, possiamo dire che per Tommaso l’etica costituisce innanzitutto una bussola, cioè è lo strumento capace di indicarci con precisione e certezza la direzione – ovvero la “retta via” – da seguire per raggiungere la nostra meta finale, cioè la beatitudine; ma, in secondo luogo, sviluppando la stessa metafora, l’etica consiste anche nella individuazione di altri strumenti di viaggio, p.e. scarpe da cammino piuttosto che, quando necessario, l’attrezzatura per scalare la parete di un monte. Fuor di metafora, questi ulteriori strumenti sono le virtù. Secondo Tommaso, le virtù ci permettono di volere sempre i beni autentici, cioè di avanzare sempre, senza mai retrocedere o deviare, lungo la retta via che conduce alla beatitudine. In particolare, per Tommaso, vi sono sette virtù fondamentali, cioè più importanti di tutte le altre, di cui tutte le altre sono, per così dire, corollari. Queste virtù supreme sono: le 4 virtù cardinali, che mirano alla beatitudine terrena, ma sono al tempo stesso condizione necessaria di quella ultraterrena; 560 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE le 3 virtù teologali, che si riferiscono alla beatitudine ultraterrena ma sono al tempo stesso indispensabili alla beatitudine terrena, e dunque, come tali, sono le virtù superiori. Le 4 virtù cardinali, mezzi per raggiungere la beatitudine, sono: 1. la giustizia, cioè la capacità di essere giusti con gli altri – p.e. nella divisione dei lavori e dei redditi – capacità che presuppone considerare gli altri uomini uguali; 2. la prudenza (o saggezza), cioè la capacità di ponderare razionalmente la scelta dei beni, tenendo conto di tutti i pro e i contro di una scelta, ovvero la capacità di evitare le decisioni affrettate e impulsive; 3. la fortezza (o coraggio), cioè la capacità di tener ferma la scelta di un bene anche se essa comporta il rischio di subire dei danni psicofisici (p.e. un lavoratore che denuncia l’inquinamento prodotto dall’azienda per cui lavora sapendo che questo può comportare il suo licenziamento); 4. la temperanza (o moderazione), cioè la capacità di limitare il soddisfacimento dei propri bisogni e dei propri desideri materiali (p.e. bere non più di due bicchieri di vino al giorno, oppure non guardare la televisione più di due ore al giorno). Le 3 virtù teologali sono: 1. la carità, cioè la capacità di amare gli altri e, quindi, di agire, in modo disinteressato, per il loro bene; 2. la speranza, cioè la fiducia nella possibilità di raggiungere la beatitudine celeste perfetta e dunque anche quella terrena imperfetta; 3. la fede, cioè la fiducia nella rivelazione e dunque nell’esistenza di Dio, senza il quale nessun uomo potrebbe raggiungere la beatitudine celeste, dal momento che questa consiste nella visione di Dio, e dunque nemmeno quella terrena. Tra le superiori virtù teologali, la fede è a sua volta la superiore delle virtù, in quanto senza la fede verrebbe meno il fine ultimo e quindi il senso di tutte le altre. Ma la fede, per Tommaso, include la sapienza, cioè l’esercizio della razionalità conoscitiva. Infatti, come abbiamo visto ( Tappa 1), la ragione, in quanto ancilla fidei, è uno strumento indispensabile di rafforzamento della fede. Di conseguenza, l’attività conoscitiva secondo Tommaso, è eticamente superiore all’attività pratica, ovvero la vita teoretica è superiore alla vita attiva. Ciò significa che, per raggiungere la beatitudine, innanzitutto quella terrena, l’uomo deve dedicare più tempo 561 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE all’attività conoscitiva piuttosto che a quella pratica. Il che, naturalmente, non esclude la necessità di agire anche praticamente, in particolare di praticare la carità. Oltre a indicare il fine ultimo e gli strumenti per raggiungerlo, l’etica tomistica asserisce anche che ogni uomo è dotato di “sinderesi” cioè della coscienza intuitiva dei principi etici, ossia le virtù, e quindi della capacità di distinguere il bene dal male. Così stando le cose, sembrerebbe che l’uomo non possa che compiere il bene. Ma allora come mai in realtà gli uomini spesso compiono il male? La risposta di Tommaso segue la teoria del male di Agostino. Il male non esiste come tale, cioè come male assoluto, ma solo come privazione del bene, cioè come male relativo. Il bene può avere gradi maggiori e minori, corrispondenti a livelli maggiori o minori di esistenza, perché solo così è possibile la vita di una molteplicità di creature e la loro armonia complessiva, ovvero il maggior livello totale di bene. Se dunque nel mondo fisico c’è un alto livello di male, cioè una consistente privazione di bene, ciò è soltanto colpa dell’uomo, sia per il peccato originale di Adamo ed Eva, che ha incrudelito la natura affinché punisse l’uomo per il suo primo peccato, sia per i successivi peccati di tutti gli altri uomini, che sono causa di dolore. E l’uomo ha la possibilità di peccare, da un lato, perché Dio ha voluto che fosse libero, e dall’altro perché può scegliere come fine del suo agire un bene inferiore a quello proprio della sua dignità ontologica. Poiché, per Tommaso, il peccato originale ha guastato la “sinderesi”, esso ha indebolito la volontà del bene, cosicché l’uomo può scegliere il male. Per questo, secondo Tommaso, il cammino etico verso il traguardo della beatitudine può essere percorso dall’uomo solo se egli è aiutato dalla grazia divina. A differenza di Agostino, però, Tommaso attribuisce a Dio la prescienza ma non la predestinazione: Dio, essendo fuori del tempo e onnisciente, conosce le libere scelte di ogni uomo ma in alcun modo le determina. Inoltre per Tommaso l’uomo, nonostante il peccato originale, ovvero benché la sua sinderesi sia danneggiata, può comunque farne uso e agire parzialmente bene e anzi riuscire ad agire sempre meglio. Pertanto, è in grado di acquisire dei meriti per le sue buone azioni e tali meriti favoriscono l’aiuto della grazia divina. Dunque, secondo Tommaso, la salvezza dell’uomo è prodotta da una cooperazione tra il suo merito e la grazia divina. 562 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 7 TOMMASO: LO STATO MIGLIORE E’ UNA REPUBBLICA PRESIDENZIALE Come abbiamo già visto, la legge non è che il dettame della ragione pratica esistente nel principe che governa una società, o comunità perfetta. Ora, una volta dimostrato […] che il mondo è retto dalla divina provvidenza, è chiaro che tutta la comunità dell’universo è governata dalla ragione divina. Perciò il piano stesso col quale Dio, come principe dell’universo, governa le cose ha natura di legge. E poiché la mente divina non conosce niente nel tempo, essendo il suo pensiero eterno, come insegna la Scrittura, codesta legge dev’essere eterna. […] Ora, poiché tutte le cose soggette alla divina provvidenza sono regolate e misurate, come abbiamo visto, dalla legge eterna, è chiaro che tutte partecipano più o meno della legge eterna, perché dal suo influsso ricevono un’inclinazione ai propri atti e ai propri fini. Ebbene, tra tutti gli altri esseri la creatura ragionevole è soggetta in maniera più eccellente alla divina provvidenza, perché ne partecipa col provvedere a se stessa e ad altri. Perciò in essa si ha una partecipazione della ragione eterna, da cui deriva un’inclinazione naturale verso l’atto e il fine dovuto. E codesta partecipazione della legge eterna nella creatura ragionevole si denomina “legge naturale”. […] Come abbiamo spiegato, la legge è un dettame della ragione pratica. Ora, nella ragione pratica e in quella teoretica si riscontrano procedimenti analoghi: infatti l’una e l’altra, come abbiamo visto, partendo da alcuni principi arrivano a delle conclusioni. Perciò, stando a questa analogia, come in campo teoretico dal primi principi indimostrabili, naturalmente conosciuti, si producono in noi le conclusioni delle varie scienze, di cui non abbiamo una conoscenza innata; così è necessario che la tagione umana, dai precetti della legge naturale, come da principi universali e indimostrabili, arrivi a disporre delle cose in manierapiù particolareggiata. E queste particolari disposizioni, elaborate dalla ragione umana, si chiamano leggi umane […]. Per l’orientamento della nostra vita era necessaria, oltre la legge naturale e quella umana, una legge divina. E questo per quattro motivi. Primo, perché l’uomo mediante la legge viene guidato nei suoi atti in ordine all’ultimo fine. Se egli infatti fosse ordinato solo ad un fine che non supera la capacità delle facoltà umane, non sarebbe necessario che avesse un orientamento d’ordine razionale superiore alla legge naturale e alla legge umana positiva che ne consegue. Ma essendo l’uomo ordinato al fine della beatitudine eterna, la quale sorpassa, come abbiamo visto sopra, le capacità naturali dell’uomo, era necessario che egli fosse diretto al suo fine, al di sopra della legge naturale ed umana, da una legge data espressamente da Dio. 563 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Secondo, perché a proposito degli atti umani ci sono troppo diversità di valutazione, data l’incertezza dell’umano giudizio, specialmente riguardo ai fatti contingenti e particolari: e da ciò procedono anche leggi diverse e contrarie. Perciò, affinché l’uomo potesse sapere senza alcun dubbio quello che deve fare, od evitare, era necessario che nei suoi atti fosse guidato da una legge rivelta da Dio, in cui non può esserci errore. Terzo, perché l’uomo si limita a legiferare su quello che può giudicare. Ora, l’uomo non puà giudicare degli atti interni, che sono nascosti, ma solo di quelli esterni e visibili. E tuttavia la perfezione della virtù richiede che l’uomo sia retto negli uni e negli altri. Quindi la legge umana non poteva reprimere, o comandare efficacemente gli atti interiori, ma per questo era necessario l’intervento della legge divina. Quarto, come nota S. Agostino, la legge umana non è capace di punire e di proibire tutte le azioni malvagie: poiché se volesse colpirle tutte, verrebbero eliminati molti beni e sarebbe compromesso il bene comune, necessario all’umano consorzio. Perciò, affinché nessuna colpa rimanesse impunita, era necessario l’intervento della legge divina, che proibisce tutti i peccati. Tommaso d’Aquino, Somma teologica, I-II, Questione 91, articoli 1, 2, 3, 4 Secondo Tommaso, la comunità politica degli uomini, cioè lo Stato, è lo strumento esteriore dell’etica, cioè della pratica delle virtù finalizzata al raggiungimento della beatitudine celeste. Come tale, lo Stato si fonda sulla “legge umana”, ossia su un insieme di regole di comportamento di tipo coercitivo, in quanto basate sulla punizione fisica dei trasgressori. La “legge umana” (in seguito chiamata “diritto positivo”) è stabilita dalle diverse comunità umane e pertanto può variare da Stato a Stato e a seconda delle epoche storiche. Tuttavia, affinché ogni Stato svolga la sua funzione essenziale, cioè garantire le migliori condizioni materiali per l’esercizio delle virtù, per Tommaso è necessario che tutte le differenti “leggi umane” tengano conto di altri tre tipi di leggi di origine divina: 1. la “legge eterna”, che comprende le regole generali in base alle quali Dio ha creato l’intero mondo fisico – e dunque include i trascendentali e tutte le cause seconde –, e che coincide con la provvidenza divina, la quale finalizza tutti gli essenti e tutti gli eventi al raggiungimento del massimo bene; 2. la “legge naturale”, cioè quella parte della legge eterna che riguarda l’agire terreno dell’uomo, che Dio ha immesso nella ragione umana e che costituisce il fondamento 564 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE della sinderesi ( Tappa 5): essa pertanto comprende i principi naturali dell’etica umana, ossia le virtù cardinali, finalizzati alla beatitudine terrena; 3. la “legge divina”, che comprende i dieci comandamenti dell’antico testamento e i due comandamenti evangelici (amare Dio e amare gli altri), costituisce un supplemento di regole etiche relative alla vita ultraterrena – le virtù teologali – cioè finalizzate alla beatitudine celeste. La legge umana, afferma Tommaso, deve rispecchiare il più possibile la legge naturale, adattandola alle diverse situazioni sociali, e, in particolare, deve attuare due principi fondamentali della legge naturale: quello della natura collettivistica della specie umana, in virtù del quale l’uomo è un “animale comunitario”, sia in senso sociale sia in senso politico-statale, e pertanto non può e non deve vivere in solitudine ma deve convivere con altri uomini; quello consequenziale della reciprocità, per il quale ogni individuo umano deve stabilire con i suoi simili delle relazioni pacifiche e collaborative. Solo incardinandosi sul principio della reciprocità, infatti, la legge umana può assolvere al suo compito generale – garantire le migliori condizioni fisiche di vita per favorire l’esercizio etico – che a sua volta si specifica in tre funzioni complementari: promuovere la cooperazione tra gli individui al fine di proteggersi dalle avversità naturali, di sviluppare l’economia e di conseguire il benessere materiale; impedire che le azioni malvagie di alcuni danneggino anche chi non le compie, ovvero proteggere gli uomini che seguono il cammino etico dai crimini degli uomini che non lo seguono; aiutare i criminali a ravvedersi e quindi a intraprendere il cammino del bene. Inoltre, secondo Tommaso, per svolgere questa triplice funzione, lo Stato non deve contraddire ma nemmeno ricalcare la legge divina. Non la deve contraddire sia perché alcuni comandamenti divini (p.e. “non ammazzare”) coincidono con i principi della legge morale sia nel senso che non deve impedire la pratica dei comandamenti religiosi (p.e. “ricordati di santificare le feste”), ovvero più in generale del culto religioso. Tuttavia, per Tommaso, lo Stato non deve vietare i comportamenti immorali che danneggiano solo chi li compie ma non gli altri (p.e. ubriacarsi in solitudine). In tal caso, infatti, verrebbe annullata la libertà etica, cioè la libera scelta del bene, e dunque la possibilità stessa del cammino etico. Per lo stesso motivo la legge umana non 565 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE può prescrivere agli uomini i comportamenti religiosi, perché se questi non fossero liberamente scelti, non produrrebbero alcun merito agli occhi di Dio e dunque non favorirebbero la salvezza. Dunque, Tommaso sostiene non solo la separazione tra legge umana e legge divina, ma anche quella consequenziale tra Stato e Chiesa, ossia tra potere temporale e potere spirituale, che, dunque, devono essere tra loro autonomi. Tuttavia, poiché lo Stato deve essere uno strumento del perfezionamento etico-religioso dell’uomo, e quindi il potere temporale è subordinato a quello spirituale, Tommaso attribuisce alla Chiesa una sorta di potere di supervisione e controllo sulla condotta etico-religiosa delle autorità statali e, in caso di gravi trasgressioni, anche il potere di rimuoverle e cambiarle. Così chiarita la sua concezione generale dello Stato, Tommaso entra nel merito della sua configurazione specifica, ovvero affronta il problema di quale sia la migliore costituzione politica. Innanzitutto, secondo Tommaso, i governanti, cioè i detentori del potere statale, devono governare avendo come unico fine il bene comune di tutti i membri dello Stato e dunque sulla base del loro consenso. In secondo luogo, una volta garantito questo criterio fondamentale, per Tommaso sono forme di governo ugualmente valide sia la monarchia, sia l’aristocrazia, sia la democrazia, e l’adozione dell’una o dell’altra deve basarsi sulla loro funzionalità rispetto alle caratteristiche specifiche della popolazione dello Stato. Tuttavia, benché in un’opera affermi di prediligere la monarchia, perlopiù Tommaso accorda la propria preferenza, riferendosi implicitamente al contesto europeo del suo secolo, a una costituzione mista, cioè basata sulla coesistenza e la correlazione di monarchia, aristocrazia e democrazia. Ciò significa che, secondo Tommaso, la costituzione statale migliore è quella che prevede: 1. un organo istituzionale monocratico, cioè individuale, detentore del supremo potere decisionale; 2. un organo istituzionale collegiale ristretto, cioè formato dagli uomini più competenti ed esperti, detentore del potere esecutivo particolare, cioè di attuazione specifica delle decisioni; 3. il potere del popolo di eleggere tutte le autorità istituzionali e il diritto di ogni membro del popolo di candidarsi (ma ancora con l’esclusione delle donne). In altre parole, Tommaso si avvicina molto a quella che oggi chiamiamo una repubblica democratica presidenziale. Non solo. Tommaso teorizza anche il diritto alla rivoluzione del 566 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE popolo contro i governanti in tutti i casi in cui essi infrangano la legge naturale, o contraddicano la legge divina, o ancora impongano un regime tirannico, cioè volto al loro bene particolare e quindi privo del consenso popolare. Tuttavia, sostiene Tommaso, il diritto alla rivoluzione, cioè al rovesciamento violento dei governanti, deve essere praticato con prudenza, ossia solo se è certo che dalla rivoluzione non scaturisca un male peggiore di quello che la rivoluzione eliminerebbe. 567 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LO SCRIGNO GERALD SCHROEDER: LA NATURA POSSIEDE UN’INTELLIGENZA Una sola coscienza, un’intelligenza che tutto avvolge, pervade l’universo. Le ricerche scientifiche, quelle che investigano la natura subatomica della materia, quelle che esplorano la complessità molecolare della biologia e quelle che indagano il rapporto cervello/mente, ci hanno portato sulla soglia di una folgorante rivelazione: tutto ciò che esiste è espressione di questa intelligenza. Nei laboratori la sperimentiamo come informazione che prima si articola a livello fisico come energia e poi si condensa sotto forma di materia. Ogni particella, ogni essere, dall’atomo all’essere umano, sembra contenere al suo interno un livello di informazione, di intelligenza consapevole. Il dilemma che intendo affrontare in questo libro è: da dove proviene questa intelligenza? G.L. Schroeder, L’universo sapiente, il Saggiatore, 2002 (2001), p. 9 568 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VITA DI UN CAPITANO JOHANNES “MEISTER” ECKHART Johannes (Giovanni) Eckhart, in seguito encomiasticamente chiamato Meister (maestro) Eckhart, nacque a Hochheim, vicino a Gotha, nel 1260, figlio di un piccolo nobile. Adolescente entrò nel convento dei domenicani di Erfurt e in seguito prese i voti e studiò a Strasburgo e nello studio domenicano di Colonia, dove ebbe come insegnante Alberto Magno, poco prima della sua morte nel 1280. Dal 1294 frequentò l’università di Parigi, dove, nel 1302, conseguì la docenza in Teologia e la esercitò, una prima volta, fino al 1304 e, una seconda volta, dal 1311 al 1313. Tra il 1298 e il 1311 Eckhart scrisse la sua opera di teologia più organica e complessiva, l’Opera in tre parti o Trittico, rimasta incompiuta. Dal 1304 al 1311 fu priore dei domenicani della provincia della Sassonia, nel 1314 divenne rettore della scuola teologica di Strasburgo e nel 1320 maestro dello studio domenicano di Colonia dove da giovane aveva seguito le lezioni di Alberto Magno. Durante la permanenza in Germania dal 1314 al 1326, Eckhart si dedicò alla diffusione della sua filosofia pronunciando numerose prediche, poi trascritte in Prediche, e scrivendo i Trattati, opere entrambe in volgare tedesco. Nel 1326 l’arcivescovo di Colonia avviò contro di lui un processo inquisitoriale accusandolo di eresia e affidando a due francescani il compito di documentare e argomentare l’accusa. Gli accusatori francescani gli contestarono come eretiche ben 60 proposizioni tratte dai suoi scritti. Eckhart, dapprima, replicò loro nello Scritto di difesa, argomentando l’ortodossia di tutte le tesi contestate; quindi, nel 1327 si recò ad Avignone, dove risiedeva la curia papale, e si appellò al papa Giovanni XXII. Questi istituì una commissione giudicatrice che nel 1329 emise la sentenza di condanna di 17 proposizioni, in quanto effettivamente eretiche, e di altre 11, in quanto sospette di eresia. Tra le prime, l’eternità del mondo, la nullità delle creature e dell’uomo e la possibilità dell’uomo di identificarsi con Dio. Per sua fortuna Eckhart era spirato nel 1328, sottraendosi a un tempo alla lunga attesa della sentenza, a una possibile ritrattazione e alla pena comunque certa. 569 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 8 ECKHART: DIO E’ “QUIETE DESERTA”, OVVERO IL NULLA Queste tre parole indicano tre guise di conoscenza. La prima è la conoscenza sensibile: l’occhio vede lontano le cose che sono fuori di lui. La seconda, quella dell’intelletto, è molto più alta. Con la terza, si intende una nobile potenza dell’anima, tanto alta e nobile da cogliere Dio nella nudità della sua essenza. Questa potenza non ha niente di comune con alcunché; dal nulla essa fa il qualcosa, ed il tutto. Essa non sa nulla dell’ieri né dell’avantieri, del domani o del dopodomani, giacché nell’eternità non v’è né ieri né domani, ma solo l’istante presente: ciò che è stato mille anni fa e ciò che sarà tra mille anni, è presente, e nello stesso modo lo è quello che sta dall’altra parte del mare. Questa potenza coglie Dio nella sua nudità. Un testo dice: In lui, con lui, attraverso lui. In lui, ovvero nel Padre; con lui, ovvero nel Figlio; attraverso lui, ovvero nello Spirito santo. Eckhart, Il tempo di Elisabetta si compì La beatitudine aprì la sua bocca di saggezza e disse: “Beati sono i poveri nello spirito, loro è il regno dei cieli”. Tutti gli angeli, e tutti i santi, e tutto ciò che è nato, deve tacere quando parla questa eterna sapienza del Padre, perché tutta la sapienza degli angeli e di tutte le creature è un puro nulla di fronte all’abisso senza fondo della sapienza di Dio. Essa ha detto che i poveri sono beati. La povertà è di due tipi. V’è una povertà esteriore, che è buona e molto da lodare nell’uomo che la prende su di sé volontariamente, per amore di nostro Signore Gesù Cristo, perché egli stesso l’ha praticata sulla terra. Di questa povertà non voglio dire altro. C’è però un’altra povertà, una povertà interiore, che è da comprendere in quella parola di nostro Signore che dice: “Beati sono i poveri nello spirito”. Ora vi prego di essere poveri in tal modo, per poter capire questo discorso, perché – ve lo dico nella eterna verità – non mi comprenderete se non vi rendete uguali a questa verità di cui ora vogliamo parlare. […] Se ora uno mi chiedesse cosa dunque è un uomo povero che niente vuole, risponderei così: finché l’uomo ha questo in sé, che è suo volere voler compiere la dolcissima volontà di Dio, un tale uomo non ha la povertà di cui vogliamo parlare; infatti egli ha ancora un volere, con cui vuol soddisfare la volontà di Dio, e questa non è la vera povertà. Se l’uomo deve avere vera povertà, deve essere così vuoto della propria volontà creata come lo era quando non esisteva. Perciò io vi dico nella verità eterna: finché avete la volontà di compiere il volere di Dio, e avete il desiderio dell’eternità e di Dio, 570 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE voi non siete davvero poveri. Infatti è un vero povero soltanto colui che niente vuole e niente desidera. Quando ero nella mia causa prima, non avevo alcun Dio, e là ero causa di me stesso. Nulla volevo, nulla desideravo, perché ero un puro essere, che conosceva se stesso nella gioia della verità. Allora volevo me stesso e niente altro; ciò che volevo lo ero, e ciò che ero, lo volevo, e là stavo libero da Dio e da tutte le cose. Ma quando, per libera decisione, uscii e presi il mio essere creato, allora ebbi un Dio; infatti, prima che le creature fossero, Dio non era Dio, ma era quello che era. Quando le creature furono e ricevettero il loro essere creato, Dio non era Dio in se stesso, ma era Dio nelle creature. […] Tutto quello che è mai venuto da Dio è fatto per un puro operare. L’operare proprio dell’uomo è l’amare e il conoscere. Si pone ora la grossa questione: in che cosa risiede essenzialmente la beatitudine? Alcuni maestri hanno detto che essa sta nella conoscenza, altri che sta nell’amore; altri dicono che sta nella conoscenza e nell’amore e questi dicono meglio. Noi però diciamo che non sta né nella conoscenza né nell’amore; piuttosto v’è qualcosa nell’anima da cui fluiscono la conoscenza e l’amore, e questo qualcosa non conosce e non ama, come invece fanno le potenze dell’anima. Chi conosce questo qualcosa, sa dove risiede la beatitudine. Esso non ha né un prima né un poi, non attende nulla che gli capiti, perché non può guadagnare né perdere. Perciò questo qualcosa è privato anche del sapere che Dio opera in esso; piuttosto esso gode in se stesso, come fa Dio. Io dico perciò che l’uomo deve stare così libero e vuoto, da non sapere né conoscere che Dio opera in lui, ed in questo modo può possedere la povertà. I maestri dicono che Dio è un essere, un essere dotato di intelletto, che tutto conosce. Ma io dico: Dio non è né essere né essere dotato di intelletto, e neppure conosce questo o quello. Perciò Dio è privo di tutte le cose, e perciò è tutte le cose. Chi deve essere povero nello spirito, deve essere povero in ogni sapere proprio, in modo da non sapere niente, né di Dio, né delle creature, né di se stesso. Perciò è necessario che l’uomo desideri di non sapere o conoscere niente delle opere di Dio. In questo modo l’uomo può essere povero nel proprio sapere. Eckhart, Beati i poveri di spirito, perché il regno dei cieli appartiene loro La filosofia di Eckhart si basa sulle sacre scritture cristiane ma le interpreta attraverso la tradizione filosofica, in particolare quella neoplatonica, ritenuta anch’essa depositaria di una conoscenza teologica. In questo senso il suo cardine è la tesi dell’infinitezza e quindi della trascendenza assoluta di ciò che si denomina – ma impropriamente – Dio. 571 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Consequenzialmente a questa impostazione, Eckhart si richiama al passo dell’Esodo in cui Dio si rivela a Mosé dichiarando: “Io sono colui che sono”. Secondo Eckhart quest’affermazione non significa che Dio è l’essere, ma che di Dio non si può dire e pensare niente, ovvero che non può essere definito, e quindi denominato, in alcun modo. In altre parole, Eckhart interpreta la famosa frase biblica come un’intenzionale tautologia volta a negare qualsiasi possibilità di connotare razionalmente l’effettiva identità di Dio, tanto da arrivare ad affermare che Dio non è Dio, in quanto il Dio che noi uomini possiamo concepire e nominare è il Dio di noi creature finite, non il Dio in sé che invece è inconcepibile e innominabile e che, come tale, sarebbe meno improprio appellare genericamente “divino”. In questo modo, Eckhart si riallaccia alla tradizione della “teologia negativa” (o “via apofatica”) e la sviluppa in modo radicale. Egli sostiene, innanzitutto, che Dio è negazione di qualsiasi determinazione, ovvero che di lui si può dire solo ciò che non è, p.e. non che è buono ma che non è buono, visto che “è buono” si può dire solo di un essente finito. Ma, in secondo luogo e soprattutto, Dio è “negazione della negazione” (“negatio negationis”), cioè anche negazione di ciò che diciamo che non è; ovvero di lui si deve dire, a rigore, che non è nemmeno ciò che non è. Infatti, affermando che Dio non è x, si affermerebbe implicitamente che è tutto il resto, cioè k, y, z…, mentre Dio non è nemmeno nessun’altra cosa. Ciò significa che per Eckhart Dio è la negazione di qualsiasi cosa o caratteristica. Eckhart giunge così a una conclusione sorprendente: il modo migliore per concepire Dio è pensare che egli sia il nulla – ovvero, in linguaggio analogico, “quiete deserta” – in quanto Dio non è niente di tutto ciò che possiamo conoscere. Di conseguenza, Eckhart nega che Dio sia identificabile con l’essere. Per lui l’essere è proprio delle creature, cioè di ciò che deriva da Dio e che dunque Dio non è. Tuttavia, afferma Eckhart, Dio è sì nulla, ma un “nulla superessente”. Con questa espressione volutamente paradossale, Eckhart vuol dire che Dio per noi è un nulla perché in realtà in sé è l’infinito tutto. In altre parole, Dio è nulla perché non è né alcuna cosa e caratteristica finita e nemmeno la totalità delle cose e delle caratteristiche finite. Però, benché trascenda tutte le cose e le caratteristiche finite, Dio per Eckhart le include tutte. Il che significa che se è vero che Dio non è essere, e però vero che l’essere è Dio, cioè che Dio è l’origine dell’essere, ossia di tutte le cose finite in quanto sue creature. In questo senso, metaforicamente, Eckhart afferma che Dio è la “purezza dell’essere”, ossia la pura potenza di tutto ciò che esiste. Ma in cosa consiste questa “purezza dell’essere” e come scaturisce il creato da essa? La risposta di Eckhart è legata a un ulteriore significato da lui attribuito alla sentenza biblica “Io sono colui che sono”. Essa, secondo Eckhart, significa anche che Dio è pensiero di se 572 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE stesso, cioè autocoscienza. Questa interpretazione dell’identità di Dio, sostiene Eckhart, è ribadita e confermata dalla proposizione iniziale del Vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo (in greco Lògos)”. In altri termini, Dio per Eckhart è intelletto. Questa tesi non è in contrasto con quella dell’inconoscibilità di Dio in sé, in quanto Dio è pur sempre un intelletto infinito e come tale in sé indeterminato, ovvero per noi un nulla. D’altra parte il pensiero infinito contiene necessariamente il finito, cioè include molteplici determinazioni, ovvero tutte le creature e le loro proprietà. In questo senso, Eckhart afferma che l’essere scaturisce dall’intelletto divino, ovvero che la creazione consiste nel pensiero divino delle creature, cioè nelle idee divine di tutte le cose. Da ciò discendono la coeternità e la coappartenenza del mondo con Dio: se il creato coincide con una parte della mente divina, da un lato, il mondo non può che essere eterno come Dio, dall’altro il mondo non è fuori di Dio ma in Dio stesso. Il questo modo il pensiero di Eckhart mette capo al “teopantismo”: il mondo è Dio – ovvero tutte le cose sono in Dio e Dio è in tutte le cose – ma Dio non è il mondo, in quanto Dio è infinitamente di più del mondo. A questo punto, la concezione ekhartiana del nulla si ribalta: se dal nostro punto di vista, ovvero dal punto di vista del finito, Dio è il nulla, in realtà il vero nulla è il creato, in quanto esso esiste solo perché Dio lo ha tratto dal non-essere, non solo portandolo all’essere ma anche continuando a mantenerlo nell’essere. In altre parole, di per sé tutte le creature, uomo compreso, sono niente, in quanto esistono solo perché sono in Dio e Dio è in loro, ovvero solo perché Dio in ogni istante decide di continuare a prestare loro l’esistenza. La creazione dunque è permanente, ossia eterna, in quanto non solo non ha un inizio ma nemmeno una fine. A sua volta, per Eckhart l’eternità della creazione di Dio si fonda sulla sua essenza amorevole. Infatti Dio, per Eckhart, in quanto è pensiero è amore e in quanto amore è pensiero, cioè creatività. L’amore – inteso a rigore come superamore, cioè come amore infinito e quindi inconcepibile – è l’identità di Dio. Dunque la creazione divina è sia volontaria sia necessaria e né volontaria né necessaria, coerentemente con la tesi eckhartiana secondo cui Dio può essere concepito solo come “negazione della negazione”. Nell’ambito del creato, tutte le creature, in quanto esistono solo in Dio, sono altrettante sue immagini. Eckhart sostiene però che la creatura umana è l’immagine migliore di Dio. Infatti, sebbene, come tutte le creature, di per sé sia un nulla, l’uomo, per Eckhart, è la creatura più simile a Dio in quanto Dio lo ha dotato dell’intelletto, ovvero di un’anima razionale, cioè capace di pensiero autocosciente. L’intelletto umano, naturalmente, è inferiore a quello divino, in quanto è finito, ovvero è solo una parte dell’infinito intelletto che Dio è. Tuttavia, secondo Eckhart, poiché intelletto umano e intelletto divino sono 573 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE consustanziali, cioè condividono la stessa sostanza ovvero sono la stessa cosa, l’intelletto umano ha la possibilità di coincidere con l’intelletto divino, cioè di infinitizzarsi. In questo senso, Cristo, Dio che si è fatto uomo, è interpretato da Eckhart come la rivelazione della possibilità dell’unione dell’uomo e di Dio. In altre parole, l’uomo per Eckhart può “deificarsi”, cioè farsi Dio. In questo senso si può denominare la filosofia eckhartiana “antropoteismo” – Dio coincide con l’umanità – o meglio ancora “psicoteismo” – Dio coincide con l’anima, ossia con l’intelletto, degli uomini. Ma in che modo l’uomo può giungere alla deificazione? La strada della deificazione, afferma Eckhart, è un percorso interiore e mistico. Dio infatti è il “fondo” della stessa anima umana e dunque l’uomo può cercare e avvicinare Dio solo sprofondandosi nella propria anima, ossia nel proprio intelletto. Ciò significa che per Eckhart Dio è la nostra stessa più profonda identità e che dunque la ricerca di se stessi e la ricerca di Dio sono l’una l’altra faccia dell’altra. Ma per arrivare al fondo di noi stessi, cioè a Dio, secondo Eckhart, occorre un lungo e difficile cammino. Esso può essere intrapreso e condotto a termine solo seguendo due indicazioni cruciali: il distacco, cioè la povertà esteriore, materiale; e lo svuotamento, cioè la povertà interiore, spirituale. Per distacco Eckhart intende l’abbandono di ogni possesso e del desiderio stesso del possesso di beni materiali, di poteri politici e di successi sociali (la fama artistica, la gloria militare, ecc.). Tuttavia, Eckhart distingue tra desiderio di possesso e fruizione e non propugna l’ascetismo, ovvero ammette la possibilità di usufruire in modo misurato dei beni materiali essenziali. L’importante per lui è che l’uomo non si attacchi ai beni materiali, ossia che non se ne renda dipendente, in modo tale da non essere soggetto ad ansie, angosce, affanni e patimenti, del tutto insensati perché relativi a beni e ad aspettative che non realizzano l’essenza dell’uomo e quindi non lo rendono davvero felice. Per svuotamento, invece, Eckhart intende il raggiungimento della piena consapevolezza dei limiti del nostro io, cioè della nostra stessa conoscenza e delle nostre stesse virtù etiche, e quindi lo spogliarsi del nostro stesso io, di tutte le nostre presunte doti interiori, a favore di una totale nudità spirituale. In tal senso il culmine dello svuotamento, secondo Eckhart, è la rinuncia allo stesso desiderio di possesso di Dio, cioè alla nostra volontà di unirci a lui. Infatti, afferma Eckhart, il processo di deificazione non è un volere qualcosa, e nemmeno un volere la volontà di Dio, ma un lasciarsi andare a Dio, un non-volere la sua volontà. In altre parole, svuotarsi significa abbandonare ogni volere autonomo per abbandonarsi all’inconcepibile volere divino. 574 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE L’uomo che segue il cammino che porta alla deificazione, secondo Eckhart, diventa sempre più uno “spirito libero”, cioè sceglie e agisce sempre più in modo davvero libero. Ma la vera libertà coincide con la giustizia, per cui lo spirito libero è anche il giusto, l’uomo che agisce veramente bene, in quanto sempre più non è lui che agisce ma è la volontà divina che agisce in lui e lui diventa sempre più parte della giustizia divina stessa. In questo senso, per Eckhart le azioni buone che l’uomo può compiere sono solo quelle che Dio stesso compie attraverso di lui e dunque le uniche e fondamentali azioni buone per l’uomo sono il distacco e lo svuotamento. Grazie a queste due azioni, lo spirito libero per Eckhart può arrivare alla beatitudine perfetta già su questa terra. Egli, infatti, giunto all’apice del suo cammino di deificazione, si unisce misticamente con Dio e dunque si autocontempla come Dio godendo della sua stessa infinita beatitudine. Ma allora per Eckhart l’uomo diventa uguale a Dio? La risposta è no, in quanto, proprio perché basato sull’abbandono a Dio, il cammino mistico della deificazione per Eckhart è un’azione di Dio stesso. In altre parole, l’uomo può unire la scintilla del suo intelletto al fuoco dell’intelletto divino solo perché usufruisce della grazia di Dio. E’ Dio, e solo Dio, che gli permette di deificarsi. In questo senso, secondo Eckhart, rimane una distinzione ontologica intrascendibile tra Dio e l’uomo: Dio è tale per se stesso, l’uomo può diventare Dio solo per la volontà e l’azione di Dio. 575 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VITA DI UN CAPITANO WILLIAM OF OCKHAM William of Ockham, ovvero Guglielmo d’Ockham, nacque tra il 1280 e il 1290 ad Ockham, oggi Guildford, città inglese del Surrey, non molti chilometri a sud-ovest di Londra. Entrò giovanissimo nell’ordine francescano e studiò ad Oxford fino al conseguimento della licentia docendi in Teologia. Tuttavia, a causa delle sue idee innovative, esposte nel suo Commento ai quattro libri di Sentenze di Pietro Lombardo, fu osteggiato dalle autorità universitarie e non riuscì a ottenere una cattedra. Forse fu per questo che Ockham venne chiamato Venerabilis Interceptor, “venerabile iniziatore”, in quanto aveva potuto solo iniziare la carriera universitaria ma non proseguirla. Di certo, l’appellativo in seguito fu usato come riconoscimento dell’originalità della sua filosofia. D’altra parte, Ockham si guadagnò anche l’epiteto di Doctor Invincibilis, in omaggio alla sua capacità argomentativa. Se i cattedratici di Oxford fossero anche stati disponibili a chiudere un occhio sulle idee di Ockham, sicuramente non gli poterono perdonare di essere dialetticamente più valente di loro. Però, nonostante l’emarginazione universitaria, Ockham non si diede per vinto e si dedicò alla scrittura di molte altre opere (Questioni relative ai libri dei fisici, sette Quodlibeta, un Commento alla Fisica di Aristotele, Expositio aurea super artem veterem) e soprattutto iniziò il suo lavoro più importante, la Summa totius logicae. Ma, intorno al 1323, il cancelliere dell’Università di Oxford, John Lutterell, che già si era opposto all’assegnazione di una cattedra a Ockham, lo denunciò per eresia al papa Giovanni XXII. In seguito alla denuncia, Ockham fu convocato dal papa ad Avignone, dove dal 1309 risiedeva la curia pontificia, e dove gli furono contestate 56 proposizioni eretiche. Benché sottoposto a un processo inquisitoriale, che durò tre anni, Ockham finì di scrivere la Summa totius logicae e compose alcune opere teologiche, tra cui spicca il Trattato della predestinazione e della prescienza divina. Ad Avignone, Ockham conobbe Michele da Cesena, il superiore dell’ordine francescano, anch’egli convocato dal Papa perché sospettato di eresia. L’ultimo capitolo generale dell’ordine, infatti, aveva stabilito che i francescani, in ossequio alla regola evangelica della povertà, non dovevano accettare, né come singoli né come associazione, la proprietà di alcun bene. Il papato, invece, considerava eretica la tesi che il Vangelo imponesse la povertà al clero. Data la convergenza delle loro idee, Ockham e Michele da Cesena strinsero una salda amicizia e, nel 1328, quando la commissione papale emise la sentenza di condanna per eresia ai danni di Ockham, insieme organizzarono e attuarono la fuga da Avignone per mettersi sotto la protezione dell’imperatore Ludovico il Bavaro, in lotta con il papato. Ockham trascorse, così, l’ultima parte della sua vita a Monaco di Baviera, dove continuò la sua battaglia contro il tentativo di Giovanni XXII di normalizzare l’ordine francescano e scrisse le sue opere politiche: Otto questioni circa il potere del papa, Breve discorso sul 576 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE governo tirannico, Dialogo, Trattato sul potere degli imperatori e del papa. Queste opere sarebbero state una delle fonti della formazione di Martin Lutero e avrebbero fortemente contribuito alla teoria luterana della separazione tra Stato e Chiesa e della superiorità dello Stato rispetto alla Chiesa per tutto ciò che concerne l’organizzazione della vita terrena. Morì tra il 1347 e il 1349, vittima della pandemia di peste che falcidiò circa un terzo della popolazione europea e segnò l’inizio della fine della civiltà medievale. Nel 1349 il nuovo papa Clemente VI revocò la condanna di eresia contro Ockham. 577 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 9 OCKHAM: C’E’ UN ABISSO TRA DIO E IL MONDO Ci si domanda se Dio può fare alcune cose che non fa né farà. […] Circa la presente questione si deve anzitutto supporre che Dio è causa efficiente delle cose; in secondo luogo, si deve stabilire se con la ragione naturale si può dimostrare che Dio è causa efficiente libera e non è causa naturale; in terzo luogo si deve vedere se questa sia una verità di fede; in quarto luogo, in base alle precedenti soluzioni, si risponderà alla questione. […] Riguardo a questo articolo, affermo che non si può dimostrare con la ragione naturale che Dio è una causa libera delle cose, perché non si può escludere la validità dell’argomentazione che rileva che, come dalla perfezione del sole naturalmente derivano molteplici effetti, così dalla perfezione dell’entità divina derivano molteplici entità che non potrebbero essere diversamente. Riguardo al secondo articolo, affermo che si deve ammettere per fede che Dio è causa che opera liberamente, perché si deve credere che Dio può causare in modo immediato e totale tutte le realtà producibili. Qualora Dio fosse una causa naturale, o produrrebbe tutte le cose simultaneamente o non ne produrrebbe nessuna; entrambe queste soluzioni risultano false in base all’evidenza. E’ perciò evidentemente falso che Dio sia causa naturale delle realtà che sono da lui distinte. Da queste risposte consegue la soluzione della questione: Dio può fare alcune cose che non fa, perché la causa libera che agisce in modo contingente può operare diversamente da come opera; siccome Dio è una causa siffatta, dunque ecc. Parimenti: Dio può produrre anime all’infinito, perché non si deve mai arrestare a un certo numero; tuttavia non produrrà anime all’infinito, bensì secondo un numero determinato. […] Circa la distinzione 44, domando se Dio possa fare un mondo migliore del mondo attuale. […] Riguardo a tale questione, in primo luogo si deve vedere che cosa si intende con il termine “mondo”; in secondo luogo che cosa si intende con il termine “migliore”; in terzo luogo si risponderà alla questione. Circa il primo punto dico che “mondo” può avere due accezioni: talora mondo è preso per significare tutto l’insieme delle diverse cose create, si tratti di sostanze oppure di accidenti; altre volte mondo è preso per significare un intero composto o aggregato di molte cose contenute sotto un unico corpo, compreso questo corpo contenente. Ciò può avvenire o in riferimento puntuale alle parti che sono le sostanze, oppure indifferentemente in riferimento alle sostanze e agli accidenti. 578 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Nella presente questione “mondo” va preso in modo puntuale, come un unico universo quasi che risultasse dalla composizione di parti che sono le sostanze, e non includendo gli accidenti delle sostanze. Circa il secondo punto dico che una cosa può essere migliore di un’altra o per la bontà essenziale e sostanziale, o per la bontà accidentale. Riguardo alla questione, occorre in primo luogo vedere se Dio può fare un mondo migliore di questo nella bontà essenziale o sostanziale, distinto specificamente dal mondo attuale; in secondo luogo, occorre vedere se Dio può fare un mondo migliore distinto solo numericamente dall’attuale; in terzo luogo, se Dio può fare un mondo migliore nella bontà accidentale. Riguardo al primo problema, è controversa la soluzione da abbracciare. Infatti, se si sostiene la tesi per cui Dio può creare una sostanza più perfetta di qualsiasi sostanza creata, e ciò all’infinito, così come può aumentare una qualità che riceve all’infinito, in modo che non si debba fissare un limite, si deve anche sostenere di conseguenza che Dio può fare un mondo migliore specificamente distinto, perché può creare altre sostanze individuali specificamente distinte, migliori di quelle che sono attualmente create. Qualora invece si sostenga che ci si deve arrestare in questo ordine, in modo che si conceda il darsi della sostanza più perfetta che Dio può creare, è più difficile dare una risposta esente da dubbi. […] Riguardo al secondo problema, affermo che Dio può fare un mondo migliore di quello attuale, distinto da questo solo numericamente. La ragione di ciò sta nella possibilità che Dio ha di produrre un numero infinito di individui della stessa specie di quelli attualmente esistenti. Di conseguenza Dio può produrre un numero di individui corrispondente al numero degli individui attualmente prodotti ed anche un numero superiore a quello attuale e a quello delle loro specie. Siccome Dio non è costretto a produrli in questo mondo, dunque li potrebbe produrre al di fuori da questo mondo e mediante tali individui formare un mondo diverso, esattamente come mediante quelli già creati ha formato il mondo attuale. Ockham, Commento ai quattro libri di Sentenze - Ordinatio, distinzioni 43-44 Il movente della filosofia occamista è la distruzione della metafisica tomistica. Pur salvaguardando la trascendenza e l’inconoscibilità di Dio in quanto essere infinito, Tommaso aveva sostenuto la conoscibilità di Dio in quanto causa prima del cosmo fisico e la connessione necessaria, in base a una scala gerarchica, tra la razionalità di Dio, le cause seconde (trascendentali, generi, specie) e tutti i singoli essenti. Di conseguenza, per Tommaso, l’ordine razionale del mondo rispecchia fedelmente la razionalità divina. Il che 579 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE significa che Dio ha creato solo questo mondo e che avrebbe potuto crearlo solo in base all’ordine razionale che esso effettivamente ha. Secondo Ockham, invece, esistono solo Dio, da un lato, e i singoli essenti, dall’altro. In altre parole, Ockham nega l’esistenza delle cause seconde, cioè dei trascendentali (uno, vero, bene, bello), dei generi e delle specie. Tra Dio e il mondo, per Ockham, si spalanca l’abisso della differenza ontologica infinita tra l’essere (il creatore) e gli esistenti (le creature). Di conseguenza non sussiste alcuna connessione necessaria tra la razionalità divina e l’ordine del mondo, ovvero Dio potrebbe aver creato altri mondi con differenti ordini razionali in quanto l’ordine razionale del nostro mondo non rispecchia l’intera razionalità divina, la quale, in quanto infinita, è inesauribile. Ma qual è l’argomento razionale che sostiene questa dirompente tesi di Ockham? Dai filosofi successivi esso fu metaforicamente chiamato il “rasoio di Ockham” per enfatizzarne la tagliente efficacia. Fuor di metafora, l’argomento razionale di Ockham è da lui stesso così formulato: “Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem”, ossia “non si devono accrescere gli essenti oltre lo stretto necessario”. Questa proposizione significa che ogni spiegazione della realtà che pretenda di essere razionale deve far ricorso al minor numero di concetti possibile. In altri termini, secondo Ockham, la conoscenza razionale della realtà, in quanto riconduzione della molteplicità all’unità, deve rispettare necessariamente il requisito della semplicità. In questo senso, Ockham sostiene anche che nemmeno nel pensiero divino sussistono le essenze generali – cioè i generi e le specie – delle cose, ma solo infiniti modelli razionali individuali di ogni singola cosa. Dio pertanto ha creato solo essenti individuali, dando direttamente l’esistenza a ognuno dei singoli modelli razionali da lui pensati. Così armato del suo “rasoio”, Ockham taglia ed elimina trascendentali, generi e specie, in quanto, a suo parere, il mondo fisico si spiega altrettanto razionalmente, e anzi ancora meglio, senza ricorrere ad essi. Tuttavia, il taglio della metafisica tomistica, operato da Ockham, ha un’ulteriore motivazione, forse ancor più importante della prima, una motivazione squisitamente teologica: esaltare la trascendenza e l’inconoscibilità di Dio per evitare la sua riduzione alla razionalità dell’uomo. Riallacciandosi alla tradizione neoplatonica, Ockham sostiene, infatti, che Dio è sì razionale, ma che la sua è una razionalità infinita, che dunque non può essere tradotta nei concetti limitati della ragione umana. In questo senso, ogni pretesa filosofica di conoscere e definire la razionalità divina sfocia nel suo travisamento. Pertanto, secondo Ockham, Dio deve essere concepito solo come volontà onnipotente e assolutamente libera non vincolata ad alcun criterio della nostra razionalità. In altri 580 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE termini, per Ockham non è vero che Dio vuole (solo) ciò che è razionale, al contrario è vero che (tutto) ciò che Dio vuole è razionale. Qual è la differenza? Enorme: nel primo caso la razionalità vincola la volontà, e dunque l’azione, di Dio, quasi come fosse una legge superiore allo stesso Dio; nel secondo caso, la volontà, e dunque l’azione, di Dio non ha alcun vincolo, è totalmente arbitraria, e la superiorità di Dio è assoluta. E’ chiaro che questa concezione teologica ha una conseguenza dirompente sul rapporto tra fede e ragione: tra di esse, infatti, per Ockham si spalanca lo stesso abisso che esiste tra Dio e il mondo fisico. In altre parole, la fede è del tutto indipendente dalla ragione e viceversa. Infatti, se Dio è volontà assoluta, ovvero se la razionalità divina, in quanto infinita, è inattingibile all’uomo, la ragione non può in alcun modo conoscere Dio. E nemmeno potrà risalire dal mondo a Dio in quanto causa prima, perché identificare, seppur parzialmente, Dio con la causa prima del mondo significa comunque ridurre e quindi deformare la razionalità divina, ovvero negare la libertà assoluta di Dio. In questa prospettiva, Ockham ammette la validità dell’argomentazione a posteriori che risale dal mondo alla necessità dell’esistenza di una causa prima. Tuttavia, secondo lui, l’esistenza di una causa prima del mondo non ha nulla a che vedere con l’esistenza di Dio, perché Dio non si può ridurre a una “causa prima”. Ciò significa che la ragione non può argomentare in alcun modo l’esistenza di Dio, né con argomenti a priori né con argomenti a posteriori. Pertanto, asserisce Ockham, a Dio si può giungere solo in base alla fede, ovvero alla lettura e alla meditazione della sacra scrittura e soprattutto alla messa in pratica dei suoi precetti morali e religiosi. E la ragione allora come deve essere usata? Ockham risponde che la ragione è uno strumento che Dio ha dato all’uomo per conoscere la realtà naturale nella sua contingenza allo scopo pratico di rendere più confortevole la sua condizione materiale. Riguardo a Dio, tutto quello che la ragione può attestare è che alcune delle caratteristiche divine che la rivelazione svela, per esempio l’onnipotenza, sono possibili, data la mancanza di prove contrarie e di ragionamenti che le confutino. Ma argomentare razionalmente che non si può escludere che Dio sia onnipotente non significa argomentare che egli sia onnipotente. Da questa concezione del rapporto fede/ragione discende una rivoluzionaria conseguenza. Data la completa separazione dei loro rispettivi oggetti, cioè Dio e la natura, la fede non può e non deve interferire con la conoscenza razionale e viceversa, ovvero la teologia non può contraddire, e quindi proibire, nessuna tesi filosofica e, a sua volta, la filosofia non può contestare alcuna tesi teologica. In questo modo Ockham ritiene di aver raggiunto due obiettivi fondamentali: 1. ristabilire la superiorità della fede nell’ambito della vita religiosa; 581 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE 2. liberare la ricerca scientifica da ogni vincolo e limite di tipo religioso. E’ evidente che così Ockham tronca il presupposto non solo della Scolastica, ma anche della Patristica, ossia della filosofia cristiana. Questa, infatti, si impernia sulla tesi agostiniana secondo cui la ragione può corroborare la fede, cioè confermare razionalmente almeno alcune verità rivelate. Ma se la ragione non ha nulla a che vedere con la fede è chiaro che viene meno la possibilità stessa di una filosofia cristiana. 582 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 10 OCKHAM: GLI UNIVERSALI SONO SEGNI MENTALI E LINGUISTICI Riguardo a un incomplesso19 ci può essere una duplice conoscenza: una può essere detta astrattiva, l’altra intuitiva. […] Si deve tuttavia sapere che la conoscenza astrattiva è di due tipi: c’è una conoscenza astrattiva in rapporto a qualche cosa di astratto da molte cose singolari, e la conoscenza astrattiva così intesa coincide con la conoscenza di un universale, che si può astrarre da più cose, di cui si parlerà in seguito […]. C’è un altro tipo di conoscenza astrattiva, quella che prescinde dall’esistenza e dalla non esistenza e dalle altre condizioni che si accompagnano come accidenti contingenti di una cosa o che di essa si predicano. Non si verifica che con la conoscenza intuitiva sia colto qualcosa che non è conosciuto con quella astrattiva, ma la stessa identica cosa è colta interamente e sotto ogni medesimo rispetto da entrambe le conoscenze. La distinzione fra di esse è la seguente: la conoscenza intuitiva di una cosa è quella conoscenza in virtù della quale si può sapere se una cosa esiste o non esiste, di modo che, se una cosa esiste, subito l’intelletto la giudica esistente e conosce con evidenza che essa è, a meno che non ne sia impedito dall’imperfezione di quella conoscenza. Allo stesso modo se si desse una conoscenza intuitiva perfetta, che per virtù dell’onnipotenza di Dio si conserva anche quando la cosa non esiste, in forza di quella conoscenza incomplessa l’intelletto saprebbe con evidenza che quella cosa non esiste. Parimenti, la conoscenza intuitiva è tale che, quando si conoscono due cose di cui l’una inerisca all’altra, o dista dall’altra spazialmente, o ha qualche relazione con l’altra, in forza di tale conoscenza incomplessa di quelle cose si sa immediatamente se la cosa inerisce o non inerisce, se dista o non dista, e lo stesso circa le altre verità contingenti (a meno che quella conoscenza non sia troppo debole o non ci siano altri impedimenti). Per esempio: se Socrate è realmente bianco, è chiamata conoscenza intuitiva quella conoscenza di Socrate e della bianchezza in virtù della quale io so con evidenza che Socrate è bianco. E in generale si chiama conoscenza intuitiva ogni conoscenza incomplessa del termine o dei termini (oppure: della cosa o delle cose) in virtù della quale si può conoscere una qualche verità contingente, soprattutto riguardante il presente. Si chiama invece astrattiva quella conoscenza in virtù della quale non si può sapere con evidenza di una cosa contingente se esiste o non esiste. In questo senso, la conoscenza astrattiva prescinde dall’esistenza e dalla non esistenza, 19 Una parola singola, ovvero un singolo concetto, al di fuori di una proposizione. P.e., “cane”. 583 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE poiché per mezzo di essa non si può sapere con evidenza di una cosa esistente che esiste, né di una cosa non esistente che non esiste, in opposto alla conoscenza intuitiva. Similmente, mediante la conoscenza astrattiva non si conosce nessuna verità contingente, soprattutto circa il presente. Questo si può chiaramente desumere dal fatto che quando in loro assenza si conoscono Socrate e la bianchezza, in virtù di tale notizia incomplessa non si può conoscere che Socrate esiste o non esiste, né che è bianco o che non è bianco, né che dista o meno da un certo luogo, e così a proposito delle altre verità contingenti. Ockham, Commento ai quattro libri di Sentenze - Ordinatio, Prologo, Questione 1, articolo 1 “Singolare” può avere due accezioni: in una prima accezione, singolare significa tutto ciò che è una cosa sola e non è più cose. […] Nella seconda accezione, singolare è ciò che è una cosa sola e non più cose, né è atto a significare più cose. In questo senso nessun universale è singolare, dal momento che ogni universale è per natura segno di più cose. […] Si deve pertanto dire che qualsiasi universale è una cosa singolare, ed è universale solo riguardo al suo significato, in quanto è segno di più cose. […] Allo stesso modo il concetto mentale è detto universale perché è un segno che si predica di più cose, mentre è detto singolare in quanto è una cosa sola e non più cose. In verità si deve sapere che l’universale è duplice: c’è un universale per natura, ossia che per sua natura è un segno predicabile di più cose, allo stesso modo in cui il fumo per sua natura significa il fuoco, il lamento dell’ammalato il dolore e il riso la gioia interiore. In questo senso solo un concetto della mente può essere universale, mentre nessuna sostanza o accidente extramentali sono degli universali cosiffatti. Nella mia trattazione intenderò l’universale secondo questa accezione. Il secondo tipo di universale è quello che deriva da un’istituzione convenzionale: in questo modo un termine proferito oralmente, pur essendo una qualità numericamente una è universale, perché è un segno istituito convenzionalmente per significare più cose. Come una parola può essere detta comune, così può essere detta universale: questo non le deriva però dalla sua natura, ma dalla convenzione di coloro che l’hanno istituita. Ockham, Summa totius logicae, I, 14 Come abbiamo visto, per Ockham Dio ha creato solo cose individuali. In altre parole, esistono solo cose singole, mai cose collettive. Sulla base di questa ontologia rigorosamente individualistica, Ockham suddivide la conoscenza umana in due tipi: 584 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE 1. la conoscenza intuitiva; 2. la conoscenza astrattiva. La conoscenza intuitiva è la denominazione che Ockham dà alla conoscenza sensibile per evidenziare che una sensazione è un’intuizione, cioè il rispecchiamento immediato, e quindi dotato di evidenza veritativa, di un oggetto reale, cioè esterno alla mente. Tuttavia, la conoscenza intuitiva non è solo ricettiva, in quanto presuppone l’attenzione, cioè una disposizione attiva della coscienza, ad afferrare l’oggetto. In questo senso, la sensibilità, per Ockham, non è separata dall’intelletto, il quale anzi partecipa all’intuizione sensibile e la giudica, decretando l’esistenza dell’oggetto sentito. Poiché esistono solo individui, la conoscenza intuitiva è sempre singolare – cioè conosce sempre e unicamente qualcosa di unico e irripetibile – ed è il solo tipo di conoscenza che ci permette di accertare l’esistenza di qualcosa, cioè di un essente e delle sue proprietà. P.e., è unicamente in base alla conoscenza intuitiva che io posso sapere che esiste il Monte Bianco, che è alto 4810 metri, che sta tra la Valle d’Aosta e l’Alta Savoia, che la sua cima è innevata, ecc. La conoscenza astrattiva è, invece, il nome con cui Ockham designa la conoscenza razionale (o intellettiva) per rimarcare che essa deriva da quella intuitiva e che i suoi oggetti non sono reali ma solamente mentali, cioè interni alla mente. La conoscenza razionale, infatti, conosce gli oggetti reali astraendo dalla loro esistenza, cioè ne studia le proprietà e i rapporti indipendentemente dal fatto che esistano. Gli oggetti mentali della conoscenza razionale possono essere: singolari, ovvero immagini di sensazioni passate che l’intelletto è in grado di conservare con la memoria e di “rivedere” dentro di sé; universali, ovvero concetti e termini generali – p.e. “metalli” o “formiche” – che l’intelletto usa per organizzare le sensazioni in modo economico e funzionale, p.e. giudicando che “il Monte Bianco è un monte di natura granitica”. Ma, se gli oggetti della conoscenza razionale sono puramente mentali, come possono avere un valore conoscitivo? La risposta è semplice nel caso degli oggetti razionali singolari, in quanto sono copie degli oggetti reali. Più complessa, ma ben più interessante, la risposta che Ockham dà, invece, a proposito degli oggetti universali, a maggior ragione perché costituiscono una parte fondamentale della conoscenza. Secondo Ockham, gli universali non possono essere copie degli oggetti reali, dal momento che esistono solo essenti singolari, ovvero che non esiste alcun essente generale (p.e. la specie umana). Tuttavia, gli universali sono segni di un certo insieme di oggetti reali, cioè non sono qualcosa in se stessi, ma meri rappresentanti di qualcos’altro che differisce da loro, cioè gli essenti individuali. 585 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE In questo senso Ockham chiama gli universali “intenzioni” (dal latino in-tendere, cioè tendere verso, rimandare a, riferirsi a), per significare che il loro contenuto conoscitivo consiste esclusivamente nel loro rinviare agli oggetti reali individuali, cioè appunto nella loro “intenzionalità”. Egli, inoltre, distingue le intenzioni in: intenzioni prime, quando sono segni diretti di oggetti reali, p.e. “uomo”, “ferro”, “aquila”; intenzioni seconde, quando sono segni di segni, cioè segni indiretti degli oggetti reali, p.e. “mammifero”, “metalli”, “animali”, “viventi”, ma anche “genere”, “specie”, “sostantivo”, “contraddizione”. Per chiarire ancor meglio il valore conoscitivo degli universali, Ockham li definisce anche “supposizioni” (dal latino sub-ponere, cioè porre sopra, mettere una cosa al posto di un’altra, stare per qualcos’altro) per ribadire che gli universali rappresentano qualcosa di diverso da loro, cioè degli essenti individuali. A questo proposito, Ockham distingue anche tre modalità di supposizione: 1. la supposizione “personale”, che si ha quando l’universale “suppone”, cioè rappresenta, gli oggetti cui è intenzionato, come nella proposizione “ogni uomo è un animale”, in cui “uomo” si riferisce a tutti i singoli uomini; 2. la supposizione “semplice”, che si ha quando l’universale suppone la propria funzione logica, come nell’asserto “l’uomo è una specie”, in cui “uomo” sta per “il concetto di uomo”; 3. la supposizione “materiale”, che si ha quando l’universale suppone la propria funzione linguistica, come nell’enunciato “uomo ha quattro lettere”, in cui “uomo” intenziona “la parola uomo”. Ma qual è il rapporto che connette gli universali come segni agli oggetti individuali che rappresentano? Ockham risponde distinguendo: segni logici, cioè i concetti in quanto contenuti del pensiero; segni linguistici, cioè i termini in quanto insiemi di suoni (se detti) o di tratti grafici (se scritti). Gli universali, secondo Ockham, sono in primo luogo concetti, cioè rappresentazioni mentali di insiemi di essenti singolari, come il concetto di “cane”, che intenziona tutti i singoli cani delle diverse razze, dagli alani ai chihuahua. I concetti, per Ockham, sono segni “naturali”, in quanto si formano spontaneamente nel nostro intelletto in seguito alla conoscenza intuitiva. Più precisamente, i concetti sono la registrazione mentale della somiglianza che intercorre tra alcuni oggetti reali. In altre parole, gli essenti individuali intenzionati da un concetto sono simili tra loro – per esempio Socrate, Aspasia, Ipazia, Giulio Cesare, Anita Garibaldi, Mario Rossi, ecc., in riferimento al concetto di “uomo”. A 586 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE differenza delle sensazioni, però, i concetti non rispecchiano la realtà esterna, ma intrattengono un rapporto di corrispondenza biunivoca con essa. Essi, afferma Ockham, si relazionano agli individui reali allo stesso modo in cui il fumo si rapporta al fuoco, il lamento dell’ammalato al suo dolore e il riso alla gioia. In questo senso i concetti sono universali anche nel senso che sono comuni a tutti gli uomini; ovvero per Ockham tutti gli uomini condividono gli stessi segni logici, pensano in un medesimo linguaggio mentale. In secondo luogo, gli universali, continua Ockham, sono segni linguistici, cioè parole (orali o scritte), come p.e. il termine “cane” o il termine “uomo”. In quanto tali, i segni linguistici sono strettamente collegati ai rispettivi concetti – p.e. la parola “cane” al concetto di cane – ma a differenza dei concetti la loro origine non è naturale ma convenzionale e dunque essi non sono uguali per tutti gli uomini. Ciò significa che, secondo Ockham, i termini del linguaggio sono stati forgiati artificialmente e in modo arbitrario da diversi gruppi umani, tanto è vero che esistono diverse lingue, e dunque diversi segni linguistici per lo stesso concetto, p.e. “dog”, “chien”, “hund”, “cane”, ecc., per il concetto di cane. Pertanto, tra i segni linguistici e i rispettivi oggetti individuali reali vi è una corrispondenza univoca e non necessaria, in quanto i segni linguistici sono fungibili, cioè sostituibili a piacere. In questo modo, nell’ambito della disputa sugli universali, Ockham si schiera decisamente a favore dei nominalisti. Egli, infatti, come si è visto, esclude con nettezza che gli universali abbiano un qualsiasi genere di esistenza reale. Tuttavia, egli afferma che sono “flatus vocis” solo in quanto segni linguistici, mentre come segni logici ne asserisce l’esistenza mentale. In tal senso Ockham è classificabile più precisamente come un nominalista concettualista. Sia come segni logici sia come segni linguistici, comunque, la corrispondenza degli universali alle cose reali, secondo Ockham, è funzionale alla conoscenza. In altre parole il senso dei segni logici e linguistici è quello di fungere da strumenti conoscitivi. In che modo? Che funzioni svolgono? Essi hanno, innanzitutto, una funzione abbreviativa e semplificativa. In questo senso potremmo paragonare gli universali alle sigle: così come pensare/dire “ONU” mi risparmia la fatica e il tempo di pensare/dire “Organizzazione delle Nazioni Unite”, allo stesso modo pensare/dire “uomo” mi risparmia la fatica – ben più pesante – e il tempo – assai più lungo – di pensare/dire tutti i singoli uomini (quantomeno tutti quelli che conosco). A sua volta, la funzione abbreviativo-semplificativa rende possibile un’ulteriore funzione, quella di relazionamento degli essenti individuali, volta a cercare e a delineare un possibile ordine complessivo della realtà. 587 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE In conclusione appare chiaro e netto che la teoria della conoscenza di Ockham si caratterizza come un radicale empirismo. Infatti, secondo lui, possiamo conoscere solo il contenuto delle nostre sensazioni: o ciò che osserviamo direttamente con i nostri sensi (conoscenza intuitiva); o ciò che si riferisce indirettamente a ciò che osserviamo direttamente con i sensi (conoscenza astrattiva). 588 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 11 OCKHAM: LA SCIENZA DEVE ESSERE PROBABILISTICA E PLURALISTICA L’età passata ha prodotto e allevato moltissimi filosofi, insigni per sapienza, che rischiarano come fulgidi luminari con lo splendore della scienza coloro che sono accecati dalla caligine dell’ignoranza. Ma fra gli altri filosofi il più dotto appare Aristotele, famosissimo per la sua non piccola né disprezzabile dottrina, il quale, avendo esplorato quasi con occhi di lince, i più profondi segreti della natura, rivelò ai posteri le recondite verità della filosofia naturale. […] Certamente, quantunque quest’uomo abbia trovato molte e grandi cose con l’aiuto di Dio, tuttavia mescolò, impedito dalla condizione umana, alcuni errori alla verità. Perciò nessuno mi ascriva le opinioni che debbo esporre, poiché non mi propongo di riferire ciò che io penso secondo la verità cattolica, ma ciò che ritengo che questo filosofo abbia pensato o avrebbe dovuto pensare, a mio parere, secondo i suoi principi. E’ lecito, senza pericolo alcuno dell’anima, avere opinioni diverse e contrarie attorno al pensiero di qualcuno, purché non sia un autore della Sacra Scrittura. E in questo caso un errore non è una colpa. Ché, anzi, in un tale giudizio, è riservata a ciascuno libertà di giudizio senza pericolo alcuno. Ockham, Esposizione degli otto libri della Fisica, Prologo, in Il problema della scienza, a cura di A. Siclari, Padova, 1969 Aristotele usa infine il termine-concetto di scientia in una quinta accezione, assumendo e definendo scientia come insieme (collectio) di innumeri atti di conoscenza distinti di natura e aventi tutti riferimento o ad un unico oggetto o a vari oggetti fra loro connessi in un ordine sistematico. E’ in questa (quinta) accezione che si dice che la Fisica è (una) scientia; che la Matematica è (una) scientia; che la Metafisica è (una) scientia. Da tutto quanto si è detto fin qui si impongono alcune conclusioni. La prima conclusione è questa: la s c i e n t i a Metafisica (o la scientia Matematica o la scientia Fisica) nella accezione aristotelica, alla luce di quanto detto non costituisce una scientia nel senso in cui u n a è questa bianchezza, e nel senso in cui uno è – e uno si dice – questo uomo o questo asino; e dopo quanto si è detto non è difficile mostrare che propriamente non esiste unità (organica) né di quella che viene chiamata la scientia Metafisica, né di quella che viene chiamata la scientia Matematica, né di quella che viene chiamata la scientia Fisica. Mostriamolo con una prima considerazione. Quel che viene chiamata la scienza Metafisica è in effetti un insieme (collectio) di molte proposizioni. Ora, esiste un rapporto di autonomia tale fra 589 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE di esse che, nello stesso momento, posso essere in errore a riguardo di una di esse (chiamiamola A) e invece nella verità a riguardo di un’altra (che chiameremo B). Orbene, l’errore riguardo ad A e, per contro, la contemporanea conoscenza scientifica di B non sono fra loro incompatibili: tant’è vero che si possono dare nello stesso momento. Questo significa anche che la conoscenza scientifica di A e la conoscenza scientifica di B non sono connesse e in relazione l’una con l’altra e non sono nemmeno della stessa natura o tipo o strato di scientia. Ma se è così non sono una scientia, non realizzano una unità di scientia, essendo appunto due distinti e non-connessi tipi o strati di scientia. Almeno per un caso siffatto la Metafisica non è e non ha unità-di-Scientia. Ma lo stesso si può mostrare per la Fisica e la Matematica. Ockham, Esposizione degli otto libri della Fisica, in Il problema della scienza, a cura di A. Siclari, Padova, 1969 La concezione della scienza naturale (cioè della fisica) di Ockham poggia su tre presupposti, tutti conseguenti alla sua concezione di Dio come volontà infinita: 1. la contingenza del mondo fisico, ossia il fatto che esso, in quanto creato da Dio, è così, ma sarebbe potuto e in ogni momento potrebbe essere diverso da com’è; 2. la rasatura, cioè l’eliminazione degli universali metafisici (trascendentali, generi, specie) operata dal principio di economicità conoscitiva detto “rasoio di Okham” (“è superfluo fare con molte cose ciò che si può fare con poche”); 3. una teoria della conoscenza di stampo radicalmente empirista, cioè basata sulla tesi che gli oggetti reali della conoscenza sono solo individui conoscibili soltanto attraverso le sensazioni. Da questi tre presupposti, per Ockham, derivano altrettanti caratteri fondamentali della scienza: la scienza deve essere osservativa (experimentalis, in latino), cioè fondarsi sull’esperienza sensibile; la scienza deve essere innanzitutto e soprattutto descrittiva, cioè deve registrare fedelmente le proprietà delle cose naturali e lo svolgimento dei fenomeni naturali; la scienza deve essere anche e secondariamente esplicativa ma in modo pluralistico e possibilistico, cioè deve cercare di spiegare i fenomeni naturali in base a leggi generali fermo restando, però, che esse non sono necessarie ma solo possibili e che dunque sono ammissibili più teorie esplicative non solo della natura nella sua totalità ma anche anche di uno stesso singolo fenomeno naturale (p.e. la pioggia). 590 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Quali sono le motivazioni e le implicazioni di questi tre requisiti fondamentali della scienza? Riguardo al primo, Ockham risponde che la scienza è conoscenza vera e che la verità è la corrispondenza tra le proposizioni – orali o scritte – che costituiscono la conoscenza astrattiva (o razionale), e le singole sensazioni che costituiscono la conoscenza intuitiva (o sensibile). P.e., “Socrate è un uomo” è una conoscenza vera se, e solo se, la conoscenza intuitiva ha accertato che esiste un individuo di nome Socrate e che tale individuo ha le proprietà tipiche degli altri individui umani, cioè somiglia agli altri uomini. Per quanto riguarda il secondo requisito, il carattere descrittivo della scienza per Ockham deriva da un altro fondamentale “taglio” operato dal suo affilato “rasoio”, quello della concezione aristotelica della sostanza (o essenza) fatta propria dal tomismo. Aristotele aveva distinto tra “sostanze prime” – ossia i singoli essenti individuali – e le “sostanze seconde”, cioè le forme universali (animale, mammifero, roditore, ecc.). Ockham recidendo le “sostanze seconde”, cioè i generi e le specie, pur usando il termine “sostanza” per indicare una cosa singolare realmente esistente, priva tale termine di ogni implicazione essenzialistico-metafisica. In altre parole, per Ockham non è possibile accertare che gli essenti posseggano un’essenza puramente razionale, e quindi non percepibile dai sensi. Egli, infatti, argomenta che noi possiamo conoscere le singole cose solo come insiemi di molteplici proprietà non come qualcosa di unitario che starebbe al di là delle loro proprietà e ne costituirebbe il fondamento. P.e., noi conosciamo il colore, il peso, l’odore, la lunghezza, ecc., di una rosa, dunque conosciamo una serie di caratteristiche, ma non conosciamo la rosa intesa come una cosa unitaria. Possiamo supporre, secondo Ockham, che quelle caratteristiche appartengano a una cosa unitaria, ma di questa cosa unitaria non abbiamo alcuna conoscenza intuitiva, quindi non abbiamo alcuna certezza che esista. Da questa argomentazione occamiana derivano due conseguenze fondamentali per la scienza: 1. la conoscenza degli oggetti e dei fenomeni naturali è sempre parziale, incompleta; 2. la scienza non deve cercare cosa sono le cose in sé, ossia le essenze delle cose, ma deve descrivere il mondo naturale come appare, cioè mettere a fuoco quali proprietà hanno gli essenti e come si svolgono gli eventi. 591 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Per ciò che concerne il terzo requisito, quello della spiegazione scientifica, Ockham usa ancora una volta il suo rasoio – cioè la sua tecnica confutativa basata sul principio di economicità – per abbattere altri due principi metafisici aristotelico-tomistici che costituivano il fondamento della conoscibilità dell’ordine razionale del mondo, ovvero delle leggi universali e necessarie della natura: la causalità efficiente e la causalità finalistica. Ockham nega, innanzitutto, che il rapporto di causa ed effetto sia conoscitivamente certo. Infatti, ciò che chiamamo causa e ciò che chiamiamo effetto sono in realtà due fenomeni singolari, separati e differenti, che come tali non mostrano alcun collegamento necessario e univoco tra loro. In questo senso è impossibile dedurre un effetto da una causa o indurre una causa da un effetto. Tuttavia, è possibile constatare intuitivamente, cioè sulla base dell’esperienza sensibile, che una certa cosa agisce su un’altra, p.e. che un fuoco brucia un ciocco di legno. Ma questo rapporto causale è pur sempre un evento singolare, che possiamo conoscere solo in base a una sensazione diretta e non possiamo estendere in modo certo a ciò che non constatiamo direttamente. Tanto è vero, argomenta Ockham, che spesso lo stesso evento è prodotto da cause diverse, p.e. un incendio può essere prodotto dal calore solare, o da un fulmine o dalle scintille di due pietre focaie. In secondo luogo, quanto alla causalità finale, ovvero all’ordine finalistico del mondo, Ockham argomenta che essa è assurda e inutile. Assurda, perché è indefinibile quale sia il presunto fine di un evento – p.e. di un incendio che bruci un bosco; inutile perché ogni evento si spiega in modo esauriente in base alla osservazione della sua causa effettiva, p.e. un fulmine. Dunque, come non è possibile stabilire conoscitivamente dei legami causali necessari tra tutte le cose, ovvero un ordine causale globale del mondo, per ragioni analoghe è impossibile dimostrare in modo certo un legame finalistico tra tutte le cose, ovvero un ordine finalistico complessivo del mondo. Ma se, in base all’esperienza, non è possibile accertare rapporti universali né di causa ed effetto né di mezzo e fine, ovvero se la conoscenza umana non è in grado di rinvenire con certezza un ordine necessario del mondo, allora come può la scienza costruire teorie esplicative della natura, ossia spiegare i fenomeni naturali in base a leggi razionali? La risposta di Ockham è che può riuscirvi, seppur in modo parziale e relativo, a patto che rinunci alla pretesa metafisica di elaborare una teoria unica e assoluta. In altre parole, afferma Ockham, nessuna scienza – né la metafisica, né la matematica, né la fisica – può costituirsi come un sistema ipotetico-deduttivo, cioè elaborare una teoria basata su un principio unico dal quale sono deducibili in modo consequenziale le leggi universali e necessarie del mondo. In alternativa, la scienza può e deve essere anche un insieme parzialmente correlato di una pluralità di principi e leggi, strettamente connessi all’esperienza sensibile e dunque sempre particolari e solo possibili. In questo senso, la scienza può comprendere più teorie di spiegazione della realtà, alternative e concorrenti. 592 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE In base a queste sue concezioni, possiamo definire quella di Ockham un’epistemologia della modestia, cioè una filosofia della scienza basata sulla consapevolezza dei limiti della conoscenza scientifica e della portata unicamente possibilistica delle sue teorie. Coerentemente con la sua epistemologia della modestia, Ockham irrompe nel dibattito scientifico della sua epoca e confuta l’univocità e la certezza delle principali tesi scientifiche di matrice tomistica: 1) l’unicità e la finitezza del cosmo, 2) la sua origine nel tempo, 3) la sua bipartizione in regione celeste e regione terrestre; 4) la causazione esterna del moto. A proposito della tesi dell’unicità del cosmo, Ockham, in primo luogo, smonta l’argomento aristotelico – secondo cui, poiché il centro dello spazio non può che essere unico, le “Terre” di altri mondi non potrebbero che coincidere con la nostra Terra –, argomentando che possono esistere molti spazi diversi, con caratteristiche e centri propri, comprendenti altri e differenti astri; in secondo luogo, consequenzialmente, confuta la finitezza del cosmo, argomentando che è plausibile che Dio, essendo infinito e onnipotente, abbia creato una quantità infinita di materia e di conseguenza uno spazio infinito e infiniti mondi. Riguardo la tesi dell’origine del mondo nel tempo, Ockham confuta l’argomento tomistico – secondo cui, se il mondo fosse eterno, ossia non avesse un inizio temporale, il numero delle rivoluzioni dei pianeti sarebbe un infinito attuale, ovvero un concetto assurdo perché impensabile – asserendo che, poiché alle precedenti si aggiunge sempre una nuova rivoluzione, in realtà il numero di tutte le rivoluzioni compiute in un dato istante è un infinito potenziale, cioè un numero finito che però continua a crescere illimitatamente. Per ciò che concerne la tesi della divisione del cosmo in due regioni, quella celeste incorruttibile e quella terrestre corruttibile, caratterizzate da elementi e caratteristiche differenti, Ockham argomenta che niente di fisico è davvero incorruttibile, poiché Dio potrebbe annientarlo in qualsiasi momento; inoltre, egli brandisce ancora una volta il suo “rasoio”, sostenendo che i quattro elementi terrestri (terra, aria, acqua, fuoco) sono più che sufficienti a spiegare anche i fenomeni celesti, senza bisogno di dover introdurre un quinto elemento, cioè l’etere. Infine, in relazione alla teoria del moto, Ockham confuta l’assolutezza della spiegazione aristotelica, secondo cui la causa del moto di un corpo è sempre esterna al corpo stesso, sostenendo che l’anima umana e gli angeli sono causa interna dei propri moti e ugualmente i corpi in caduta, dal momento che il loro moto è dovuto al loro peso. Inoltre, Ockham mette anche in dubbio la spiegazione aristotelico-tomistica dei moti dei 593 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE “proiettili”, cioè dei corpi lanciati in aria dalla forza umana o da qualche macchina (una balestra o una catapulta). Secondo Aristotele, i proiettili non cadono subito verso il basso non appena si separano dalla loro causa motrice (il braccio umano o una macchina) perché sono “rimbalzati” dall’aria; Ockham afferma, invece, che questo accade perché la causa motrice conferisce al proiettile un impulso interno che esso conserva per un certo tempo. Va tenuto ben presente che Ockham, in omaggio alla epistemologia della modestia, non pretende affatto che la sua confutazione delle tesi avversarie equivalga a una dimostrazione dell’unicità e della necessità delle proprie (cadendo così nella fallacia ad ignorantiam). Ockham è consapevole, e lo dichiara apertamente, di aver argomentato soltanto che le tesi della fisica aristotelico-tomistica non sono dimostrabili in modo necessario, cioè che non sono certe, ma solo possibili, e di conseguenza che non si può escludere che tesi alternative siano vere, anche se, ugualmente, non è certo che lo siano. Cionondimeno, le argomentazioni scientifiche di Ockham – che sintetizzano e ottimizzano le critiche alla fisica aristotelica di molti filosofi cristiani precedenti a partire da Filopono ( L’orizzonte scientifico del Medioevo) – ebbero un effetto rivoluzionario sulla scienza tardomedievale e diedero un notevole contributo alla formazione delle condizioni culturali che resero possibile la nascita della scienza moderna. 594 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 12 OCKHAM: LA CHIESA DEVE ESSERE COMUNITARIA E POVERA Sappiate dunque (e sappiano tutti i cristiani) che rimasi quasi quattro interi anni ad Avignone prima di conoscere che colui che ivi presiedeva20 era in corso nella eretica pravità. Perché nn volendo con leggerezza credere che una persona costituita in sì grande ufficio potesse definire che le eresie sono da ammettersi, non mi curai né di leggere né di avere le sue costituzioni ereticali. Ma poi offertasi l’occasione, poiché il superiore lo comandava, lessi e studiai con diligenza le tre Costituzioni o piuttosto eretiche destituzioni, ossia Ad conditorem, Cum inter e Quia quorundam. Nelle quali trovai palesemente molte cose eretiche, erronee, stolte, ridicole, fantastiche, insane e diffamatorie, contrarie ed avverse alla fede ortodossa, ai buoni costumi, alla ragione naturale, alla certa esperienza ed alla carità fraterna, delle quali cose ho stimato di inserirne alcune in questa lettera. Quindi il primo errore che bisogna notare, contenuto nella costituzione Ad conditorem, è: che l’espropriazione dei frati, con la quale col voto di povertà si spogliano dei beni, non ha alcun valore per la perfezione se rimane la stessa sollecitudine per le cose temporali che esisteva prima. Donde segue con evidenza che, se i frati dopo la professione sono ugualmente solleciti dei beni temporali come lo furono al tempo del noviziato, il loro voto di povertà non può giovare in nulla alla perfezione. E così sembra che questi manifestamente cada nell’errore di coloro che dicono che l’opera buona fatta col voto non è più meritoria di quella fatta senza voto […]. La seconda asserzione ivi contenuta è: che i frati per la mancanza della proprietà riservata alla Chiesa romana non sono più poveri di quanto lo sarebbero se avessero gli stessi beni con quel dominio di cui dicono di essere privi. Da ciò sembra seguire che l’Ordine invano ed inutilmente ha rinunziato al dominio di tutti i beni temporali riservato alla Chiesa romana. E tuttavia questa asserzione è contraria alla divina scrittura ed alla ragione naturale, come in più opere si dimostra con evidenza. […] La quarta asserzione è: che l’uso di fatto dei beni, consumabili con l’uso, non può essere separato dalla proprietà o dal dominio, donde segue che i frati tutte le volte che si servono di beni consumabili con l’uso hanno la proprietà o il dominio degli stessi, almeno in comune. Questa asserzione ripugna apertamente alla divina scrittura, alla ragione naturale ed alla esperienza. 20 Papa Giovanni XXII. 595 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Infatti vediamo i ladri e gli assassini e altri servirsi di questi beni senza dominio e proprietà; benché alcuni lecitamente e altri illecitamente. Ockham, Lettera ai frati minori, in G. Ockham, Filosofia, teologia e politica, a cura di A. Coccia, Andò, Palermo La legge cristiana non è così oppressiva come era la legge mosaica. Ma se il papa per comando e ordinazione di Cristo avesse una pienezza di potere tale che gli fosse lecito di diritto, senza alcuna eccezione, tanto nelle cose temporali quanto nelle spirituali, tutto ciò che non è contrario alla legge divina e al diritto naturale, allora la legge di Cristo sarebbe spaventosamente e incomparabilmente più oppressiva della legge antica. Tutti i cristiani, infatti, tanto gli imperatori e i re quanto gli altri a loro soggetti, sarebbero servi del papa secondo la più stretta accezione del termine “servo”, perché mai vi fu alcuno, né vi sarà, che di diritto possa avere maggior potere su ogni uomo di chi può su di esso ogni cosa che non è contraria al diritto naturale e al diritto divino. Il papa dunque potrebbe di diritto privare il re di Francia o qualunque altro re del suo regno, senza una colpa o una ragione, così come un signore, senza ragione e senza colpa, può togliere a un suo servo una cosa che gli aveva concesso; il che è assurdo. Se avesse tale pienezza di potere tanto nelle cose temporali quanto nelle spirituali, il papa potrebbe anche imporre ai cristiani riti esteriori più numerosi e gravosi di quelli della legge antica; pertanto in nessun modo la legge evangelica sarebbe legge di libertà, bensì di insopportabile servitù. Ockham, Breve discorso sul governo tirannico, libro II, cap. 3 Benché […] Dio si serva della mediazione del papa per l’istituzione di molte autorità ecclesiastiche, quelle secolari – vale a dire l’autorità imperiale, quella del re e dei principi – sono stabilite da Lui senza che intervenga il pontefice, ma solo attraverso il potere elettivo degli uomini, conferito loro da Dio e non dal papa. Ad assegnare il potere regale non è pertanto il pontefice, bensì Dio, attraverso il popolo, il quale riceve da Lui la facoltà di scegliersi un sovrano che governi avendo come fine il bene comune. Ockham, Può un principe, cap. IV L’etica e la politica di Ockham sono incardinate sul primato della libertà individuale. A livello etico, Okham sostiene che l’agire umano dipende unicamente dalla volontà di ogni individuo, la quale è del tutto autonoma dall’intelletto. In altre parole, secondo Ockham, la volontà può tanto seguire le indicazioni della ragione umana quanto contraddirle, il che 596 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE significa che la libertà pratica dell’uomo è assoluta. Essa per Ockham è attestata in modo evidente dall’esperienza immediata che ogni uomo ha di se stesso ogni volta che prende una decisione. Da questo volontarismo etico Ockham trae l’impossibilità di un’etica razionale. A suo parere, infatti, il fine ultimo dell’agire umano – cioè la felicità intesa come bene massimo – non è un principio naturale insito nell’uomo, come è comprovato dal fatto che molti uomini non perseguono il bene massimo, sia perché non ritengono possa esistere sia perché si accontentano di gradi inferiori di bene. Così argomentata l’impossibilità di un’etica razionale, Ockham sostiene che l’unica etica possibile è quella cristiana, ossia l’etica fondata sulla fede nei comandamenti e nelle altre prescrizioni pratiche che Dio ha rivelato agli uomini nella sacra scrittura biblica. In questo senso, per Ockham, il principio fondamentale dell’etica è l’amore per Dio e il fine ultimo dell’agire umano il bene infinito, cioè la visione beatifica di Dio. Ma se l’etica deriva da Dio, è chiaro che il criterio dell’etica – cioè il bene – non può che travalicare la ragione umana. Infatti, afferma provocatoriamente Ockham, Dio avrebbe anche potuto comandarci di odiarlo e in quel caso odiare Dio sarebbe stato agire bene. Insomma, per Ockham non è vero che Dio vuole e fa il bene, bensì è vero che ciò che Dio vuole e fa è bene, solo in quanto è lui a volerlo e a farlo. In altri termini, il bene è stabilito dalla assoluta volontà divina, incomprensibile per la ragione umana. Ma soprattutto Ockham, richiamandosi al Vangelo di Giovanni (“La verità vi farà liberi”), afferma che l’etica cristiana, in quanto è fondata sulla fede, cioè su un atto di volontà, non può essere coercitiva, bensì può essere solamente il frutto di una libera scelta individuale. Tuttavia, secondo Ockham, se il suo principio e il suo fine ultimo non possono essere razionalmente fondati, l’etica cristiana può e deve far uso della razionalità per definire i modi di attuazione del primo e i mezzi per il raggiungimento del secondo. In altre parole, l’intelletto umano deve essere uno strumento dell’etica cristiana, ovvero deve dedurre dai suoi principi generali le regole specifiche per la loro attuazione. Se in tal modo Ockham valorizza, ai fini della salvezza, le opere buone e quindi il merito dell’uomo, egli attribuisce comunque alla grazia divina il ruolo preponderante per la salvazione individuale. D’altra parte, anche in questo caso, Ockham afferma con forza che i criteri in base ai quali Dio assegna la sua grazia sono imperscrutabili e dunque nessuno può escludere che Dio salvi anche chi non segue l’etica cristiana ma si limita a rispettare le regole della ragione naturale, ovvero rispetta gli altri uomini. 597 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Anche sul piano politico, Ockham si fa assertore della libertà individuale. Premesso che lo Stato è una necessità imposta dall’incattivimento degli uomini dovuto al peccato originale, e che ha il compito di garantire una pacifica convivenza tra gli uomini, Ockham, richiamandosi a Paolo da Tarso (Epistola ai romani), afferma che le autorità politiche sono volute da Dio. D’altra parte egli sostiene anche che la volontà di Dio in campo politico si manifesta attraverso il popolo. In altre parole, secondo Ockham, i governi statali devono basarsi sul consenso dei governati, devono rispettare il loro diritto naturale alla libertà individuale e possono quindi essere legittimamente rovesciati dai governati se non lo fanno. Su queste basi, Ockham si pronuncia a favore della separazione tra lo Stato e la Chiesa, a ragione della differenza delle loro funzioni, l’una terrena e l’altra ultraterrena. Ockham, di conseguenza, confuta la tesi ierocratica della “pienezza dei poteri” del papa, ossia della supremazia del papato sull’imperatore e su ogni altra autorità politica. Egli argomenta che l’impero medievale, in quanto erede dell’impero romano, ovvero dello Stato per antonomasia, è nato, per volontà divina, prima della Chiesa e del tutto indipendentemente da essa e che pertanto non le è in alcun modo subordinato. Semmai è la Chiesa che deve sottostare alle leggi dello Stato, sempre che lo Stato sia legittimo, cioè sia basato sul consenso popolare e rispetti i diritti individuali. Inoltre, argomenta ancora Ockham, il Vangelo attesta che Cristo ha rifiutato ogni potere politico per dedicarsi unicamente alla sua missione spirituale e pertanto, come suo vicario, il papa non può esercitare alcun potere politico ma deve svolgere unicamente una fuzione spirituale. Ma soprattutto Ockham confuta la legittimità del potere monarchico papale all’interno della Chiesa stessa e, di conseguenza, ribalta l’intera concezione medievale della Chiesa come istituzione gerarchica. Secondo Ockham, infatti, in base al Nuovo Testamento, la chiesa deve essere concepita e vissuta semplicemente come la comunità paritetica di tutti i cristiani, passati e presenti, e il Papa e i vescovi devono essere considerati autorità unicamente culturali e organizzative. Infatti solo la chiesa come comunità storica dei credenti, in perenne discussione e in continua evoluzione, è infallibile, in quanto incarnazione dello Spirito Santo, mentre non sono infallibili né il Papa né il concilio dei vescovi, i quali, pertanto, non hanno alcun titolo per imporre tesi dottrinali o precetti comportamentali, ma possono solo proporli. Insomma, continua Ockham, le autorità eccclesiastiche, a differenza dello Stato, devono 598 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE svolgere solo una funzione di istruzione ed educazione e dunque non possono disporre di alcun potere costrittivo, ovvero non possono obbligare con la forza gli uomini, fedeli e non, a obbedire alla legge divina, che deve essere seguita invece solo per libera scelta individuale. In questa prospettiva, Ockham non esita ad accusare di eresia papa e vescovi che si arrogano ed esercitano un potere coercitivo e a denunciare il tradimento della sua missione da parte della Chiesa istituzionalizzata. In alternativa egli propugna un ritorno alla chiesa originaria dei primi secoli dopo Cristo, una chiesa “perfetta” perché era appunto una libera comunità di fedeli del tutto priva di poteri e anche di beni materiali. In questo senso, per Ockham la vera chiesa deve essere anche povera, ossia deve rinunciare a qualsiasi proprietà, così come indicato dall’esempio di Cristo e dei suoi discepoli nel Vangelo. Poiché il papa aveva dichiarato eretica questa tesi, argomentando che Dio aveva dato ad Adamo ed Eva, e quindi a tutti gli uomini, la proprietà della Terra, Ockham elabora una teoria della proprietà destinata a esercitare una forte influenza sulla filosofia politica successiva. Egli sostiene che nell’Eden, prima del peccato originale, Dio ha concesso ad Adamo ed Eva solo l’usufrutto in comune della Terra, mentre il diritto alla proprietà privata è una regola della ragione naturale che Dio ha conferito all’umanità dopo la cacciata dall’Eden per difendere gli uomini retti dalla smania di possesso e di dominio dei malvagi. Dunque, il diritto alla proprietà privata non rientra nella legge divina, bensì solo nella legge umana e, pertanto, rinunciarvi per Ockham non solo non è in contrasto con l’etica cristiana ma anzi ne costituisce il coronamento. 599