L`ORIZZONTE MEDIOEVALE - Message in the Bottom

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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
L’ORIZZONTE MEDIOEVALE
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XI VIAGGIO
LA REALTA’ COME COSTRUZIONE RAZIONALE DI DIO
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Cannocchiale su…
L’ORIZZONTE STORICO DELL’ETA’ MEDIEVALE (476 d.C.-1453 d.C.)
La formazione dei regni romano-germanici nell’Europa occidentale
A partire dall’inverno del 406-407 d.C., in più ondate successive che si esaurirono solo nel
X secolo, numerosi popoli nomadi, per lo più di etnia germanica, ma anche ugro-finnica e
turco-mongola, oltrepassarono il confine orientale dell’impero romano d’Occidente e vi si
stabilirono come nuovi dominatori, appropriandosi delle proprietà terriere, fondendosi in
parte con la popolazione romana e dando vita ai cosiddetti regni romano-germanici.
Le istituzioni statali romane vennero meno e con esse l’esistenza stessa di uno Stato
centralizzato. I popoli germanici, infatti, avevano un’organizzazione tribale, cioè erano
privi di istituzioni centrali formalmente definite. I loro regni, dunque, non esigevano
imposte, ma nemmeno si occupavano di lavori pubblici, di amministrazione della giustizia,
di assistenza sociale, insomma non svolgevano alcuna funzione statale centrale se non
quella della difesa militare e dell’imposizione di comandi, cioè di leggi non scritte.
La chiesa cristiana di Roma, che già all’interno dell’impero si era organizzata sempre più
efficacemente ed aveva acquisito sempre maggiori funzioni statali, emerse così come
l’unico elemento di centralizzazione politica, di omogeneizzazione delle diverse
popolazioni, di disciplinamento della vita collettiva, di assistenza sociale. Essa poteva
svolgere queste funzioni perché era l’unica organizzazione esistente in grado di riscuotere
imposte (le decime) che in parte servivano a finanziare le diocesi, in parte affluivano al
papato romano. Inoltre solo i chierici sapevano leggere e scrivere, nonché comunicare
nell’unica lingua europea comune: il latino. In altre parole, la chiesa diventò l’unico Stato
effettivo, cioè l’unica organizzazione dotata di autorità, funzionari, strutture, poteri diffusi
uniformemente su tutti i territori dell’ex impero romano d’Occidente.
La depressione economico-demografica e la nascità di una civiltà rurale
L’economia e la demografia dell’impero romano erano già in fase di recessione a partire dal
III secolo a.C., quando alle carestie si erano aggiunte, aggravandole, le continue guerre
civili per il potere imperiale e vaste epidemie di malattie infettive.
Le invasioni germaniche provocarono a lungo nuove guerre, razzie e saccheggi, il crollo
delle istituzioni, il venir meno della stessa tutela dell’ordine pubblico, in altre parole una
situazione di anarchia, deprimendo ulteriormente l’economia e riducendo drasticamente la
popolazione che dai circa 40 milioni del II secolo passò ai circa 20 milioni del VII.
L’industria sparì, il commercio si ridusse a pochi scambi locali e di conseguenza le città
diminuirono e le poche che sopravvissero, le più grandi, si contrassero enormemente.
Roma, che aveva avuto nell’età augustea un milione di abitanti, scese sotto i 30mila
abitanti. Le strade romane, che innervavano i diversi territori dell’impero, unendoli,
caddero in disuso e, prive di manutenzione, si disfecero.
In questo modo, la nuova popolazione europea si ruralizzò e si passò da una civiltà urbana
e dinamica a una civiltà agricola e sedentaria. Ma la stessa produzione agricola subì una
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forte contrazione a causa del crollo demografico e della drastica riduzione degli spazi
coltivati, dovuta alla riforestazione spontanea di gran parte delle terre. L’agricoltura fu
sempre più basata sull’assegnazione in usufrutto dei campi coltivabili a famiglie di
contadini-coloni, formalmente liberi ma di fatto in una condizione servile, da parte dei
grandi proprietari fondiari in cambio di un canone in prodotti agricoli e di prestazioni
gratuite di lavoro (corvées). La piccola proprietà terriera e i contadini effettivamente liberi
si ridussero ai minimi termini. Le carestie erano frequenti e la fame endemica.
L’impero romano d’Oriente e il suo tentativo di riconquista dell’Occidente
Mentre l’impero romano occidentale soccombeva sotto l’assalto dei germani, quello
orientale riusciva non solo a difendersi ma anche a rafforzarsi a tal punto da riuscire, nel
VI secolo, sotto l’imperatore Giustiniano, a riconquistare l’Africa settentrionale e la
penisola italiana, abbattendo il regno dei vandali e quello degli ostrogoti.
Si trattava, tuttavia, di una riconquista effimera, perché già alla fine del VI secolo, l’Italia
settentrionale fu invasa da una nuova popolazione germanica, i Longobardi, e nella I metà
del VII secolo il Medio oriente e l’Africa settentrionale furono conquistati dagli arabi
islamici.
La formazione dell’impero arabo e la nascita dell’Europa
A partire dalla penisola arabica, galvanizzati dalla religione islamica di Maometto, i
nomadi arabi conquistarono, nell’arco di un secolo, un vasto impero che si estendeva
dall’Indo ai Pirenei, occupando tutto il Sud del bacino del Mediterraneo, che così si divise
longitudinalmente in due parti nettamente differenziate per religione e civiltà: il Nord
cristiano e il Sud musulmano.
Di conseguenza, il Mediterraneo settentrionale divenne progressivamente un nuovo
continente: l’Europa. Questo nuovo continente, però, presentava a sua volta una divisione
longitudinale tra est ed ovest, cioè tra Europa orientale, sede dell’impero romano
d’Oriente, detto anche impero bizantino; e Europa occidentale, dove si instaurarono
dapprima i regni germanici e poi il sacro romano impero, o impero carolingio. Pur
condividendo la stessa religione cristiana, le due parti dell’Europa si differenziarono
sempre più: mentre l’Europa orientale rimase legata alla tradizione romana, in quella
occidentale si sviluppò una nuova civiltà nata dalla fusione della cultura romana con le
culture dei popoli invasori. Ciò alimentò la sempre più accentuata divergenza tra chiesa
cristiana occidentale e chiesa cristiana orientale.
La nascita del sacro romano impero (o impero carolingio)
Dal V all’VIII secolo, grazie al rafforzamento reciproco della sua attività religiosa e della
sua funzione statale, la chiesa romana estese enormemente la sua influenza ideologica e al
tempo stesso incrementò sempre più il suo potere politico sull’intera popolazione europea.
In altri termini, la chiesa romana, abbinando il potere spirituale al potere temporale,
diventò sia istituzione religiosa sia istituzione politica. Ma, mentre esercitò direttamente il
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proprio potere religioso, preferì esercitare direttamente quello politico solo quanto bastava
a garantirle una cintura territoriale protettiva, mentre, sul resto d’Europa, si propose di
esercitarlo indirettamente, cioè attraverso autorità e istituzioni laiche da essa stessa scelte.
Per realizzare questa strategia, nell’VIII secolo, la chiesa romana dapprima stipulò un patto
con la famiglia franca dei Pipinidi (o Carolingi), legittimando la sua ascesa al trono e
ricevendo in cambio i territori dell’Italia centrale, che vennero a costituire lo Stato della
chiesa; poi favorì la conquista, nell’Italia settentrionale, del regno longobardo da parte di
Carlo Magno e lo incoronò imperatore del Sacro romano impero, cioè di un nuovo Stato
imperiale occidentale di natura esplicitamente religiosa (definito res publica christiana).
Data la nuova situazione del Mediterraneo, il baricentro geopolitico dell’Europa
occidentale non poteva più essere la penisola italiana, bensì l’area compresa tra l’attuale
Francia centro-orientale e l’attuale Germania centro-occidentale. Ossia proprio l’area in cui
sorse l’impero carolingio. Inoltre, tra l’VIII e il IX secolo, gli arabi riuscirono a occupare
una parte dell’Europa occidentale: prima la penisola iberica e poi la Sicilia. Di
conseguenza, da un lato, l’intera Europa occidentale era minacciata dall’invasione islamica,
dall’altro il regno franco era l’unico regno romano-germanico in grado di impedirla. Da
qui, un’ulteriore motivazione della scelta della chiesa romana di sostenere i carolingi e
spingerli a costituire il sacro romano impero.
Lo sfaldamento dell’impero carolingio e il primo feudalesimo
L’impero carolingio assolse la funzione di impedire l’invasione islamica dell’Europa
occidentale e di assimilarne, sotto l’egida del cristianesimo romano, le diverse popolazioni,
garantendo circa un secolo di relativa stabilizzazione e parziale ripresa. Ciò fu possibile
perché Carlo Magno, e i suoi successori, ristabilirono un minimo di centralizzazione
politica, istituendo il vassallaggio e affidando l’amministrazione dei territori imperiali ai
loro compagni d’armi (comites, da cui conti), in qualità di vassalli dell’imperatore.
Ma si trattava di una centralizzazione per delega fiduciaria, e perciò fragile, e già a metà del
IX secolo, l’impero carolingio cominciò a disgregarsi, a causa sia della tradizione
germanica, che prevedeva la spartizione del regno tra tutti i figli del re, sia di una nuova
ondata di invasioni/incursioni di popolazioni nomadi. Il sacro romano impero si trovò
nella morsa degli attacchi simultanei e ricorrenti dei normanni da nord, dei saraceni da
sud e degli ungari da est. Gli eserciti carolingi, indeboliti dalle lotte intestine, e comunque
militarmente inadeguati a fronteggiare la guerriglia predatoria dei nuovi invasori, si
dimostrò incapace di difendere la popolazione europea.
Furono i potenti locali, laici (signori rurali) ed ecclesiastici (vescovi e abati), a organizzare
la difesa, imperniandola sulla costruzione di castelli all’interno dei quali la popolazione
poteva trovare rifugio. Nacque così il primo feudalesimo, un’organizzazione politica basata
sul frazionamento dello Stato centrale in tanti microstati locali (feudi), di dimensioni
disparate, che facevano capo all’autorità suprema dei signori feudali, laici o ecclesiastici.
Questi feudatari, però, pur essendo sovrani nel proprio feudo, non erano indipendenti gli
uni dagli altri ma intessevano tra loro fitte reti di rapporti personali di subordinazione
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gerarchica, ma anche di sostegno reciproco, incardinate sull’istituto giuridico del
vassallaggio. I reticoli vassallatici, molteplici, spesso sovrapposti e comunque variabili, da
un lato servivano a incrementare le capacità difensive dei singoli feudatari contro le
scorrerie dall’esterno e a limitare i conflitti interni; ma, dall’altro, divennero lo strumento
per condurre guerre interne per la supremazia. In tal senso, non è inappropriata la
definizione di “anarchia feudale”, almeno per il secolo compreso tra la metà del IX e la
metà del X secolo.
La società dei tre ordini: preganti, guerrieri, lavoratori
La società feudale era costituita per il 99% da contadini, in maggioranza in condizione
servile (i servi della gleba), da una nuova nobilità di sangue, formata dalle famiglie dei
signori feudali, e dal clero. Su queste basi reali, gli unici intellettuali dell’epoca, i chierici,
elaborarono una rappresentazione socio-politica della società feudale, dividendola in tre
“ordini” – cioè gruppi sociali definiti giuridicamente – cui corrispondevano tre funzioni
esclusive: il primo e più importante era naturalmente costituito dai “preganti” (orantes),
cioè dal clero stesso, cui spettava la funzione considerata superiore, cioè il culto religioso; il
secondo, dai “guerrieri” (bellatores), cui spettava il compito della difesa militare e del
governo politico; il terzo, dai lavoratori (laboratores), cioè dai contadini che avevano il
compito di produrre, cioè di sostentare se stessi, ma soprattutto clero e nobiltà.
Si trattava di una rappresentazione ideologica in quanto finalizzata a giustificare una
gerarchia socio-politica imperniata sul dominio del clero (ierocrazia) e, a un livello
subordinato, della nobiltà (aristocrazia), e sulla soggezione totale della stragrande
maggioranza della popolazione. In tal senso, essa corrispondeva solo parzialmente
all’effettiva differenziazione economico-sociale e politica della popolazione altomedievale.
Non solo i laboratores comprendevano un piccolo strato di contadini liberi agiati, ma
soprattutto vi era una netta diversità tra la grande e la piccola nobilità e tra l’alto (vescovi,
abati) e il basso (parroci, monaci) clero. Inoltre sempre più la grande nobiltà e l’alto clero
finirono per costituire una classe unica, in quanto le alte cariche ecclesiastiche divennero
monopolio delle maggiori famiglie aristocratiche.
Crisi e rinascita della chiesa romana e nascita dell’impero germanico
La chiesa romana, che inizialmente aveva cercato di arginare la conflittualità feudale
istituendo la cavalleria, ovvero tentando di incanalare la bellicosità dei guerrieri medievali
verso fini di giustizia sociale, subì anch’essa un processo di feudalizzazione che fece
crollare il livello morale medio del clero e ne minò la centralizzazione.
La chiesa fu salvata dalla completa disgregazione grazie alla reazione morale della parte
migliore della sua componente più spirituale, i monaci. Nel corso del X secolo, la regola
benedettina, che ormai la maggior parte dei monasteri non rispettava più, fu ripristinata
da nuovi ordini monacali, per primi dai cluniacensi, poi dai cisterciensi, dai certosini, dai
camaldolesi e altri ancora. Contemporaneamente, in Germania, area non romanizzata e di
recente civilizzazione carolingia, i duchi di Sassonia riuscirono a imporre un parziale
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potere monarchico centrale nominando come propri vassalli soprattutto dei vescovi (i
“vescovi-conti”). Grazie a questa organizzazione, Ottone I conquistò l’Italia settentrionale e
sconfisse gli ungheresi, ponendo fine alle loro incursioni.
Papa Giovanni XII decise di incoronarlo imperatore, per ricostituire così il sacro romano
impero. Si trattava in realtà di un nuovo impero, l’impero germanico, basato su rapporti di
forza completamente diversi tra impero e chiesa. Il papato, infatti, nel corso del X secolo,
era diventato ostaggio delle famiglie nobili romane, che si contendevano la nomina papale
con continui intrighi, conflitti violenti e crimini efferati. Forte della fedeltà dei suoi vassalli,
Ottone I poté imporre la propria tutela sulla chiesa romana, attribuendosi il potere della
ratifica dell’elezione del papa. Così, i rapporti di forza tra impero e chiesa si rovesciarono a
favore dell’impero germanico. Si trattò di una situazione di breve durata, perché l’impero
germanico non riuscì nemmeno a conquistare l’intera penisola italiana e tanto meno il
resto dell’Europa occidentale. Il suo superiore potere universale era dunque solo teorico,
mentre quello della chiesa era ancora effettivo grazie alla sua diffusione capillare sull’intero
territorio europeo.
La ripresa economico-demografica dell’Europa e il secondo feudalesimo
Tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo, le cicliche ondate di invasioni nomadiche
cominciate nel V secolo si esaurirono, il pericolo di un’invasione araba era venuto meno e
l’Europa poté godere di una relativa stabilità interna.
Ciò stimolò la ripresa economico-demografica che si sviluppò nei tre secoli successivi, cioè
fino alla fine del XIII secolo. Grazie al circolo virtuoso tra incremento demografico e
incremento della produzione agricola, non solo la popolazione raggiunse i 75-80 milioni
ma si ebbe un surplus sufficiente a permettere la ripresa del commercio e dell’industria
nonché la nascita delle banche.
Di conseguenza l’Europa occidentale tornò a urbanizzarsi: le poche città rimaste
gradualmente cominciarono a crescere e nacquero molte nuove città. Accanto alla
popolazione rurale, che tuttavia per molto tempo ancora continuò a costituire oltre il 90%
del totale, crebbe così una nuova popolazione urbana, minoritaria ma consistente e
influente, costituita da mercanti, artigiani, nobili inurbati, professionisti (medici, notai,
esperti di diritto), operai, vagabondi, mendicanti, ladruncoli e prostitute.
Anche l’agricoltura, però, grazie allo stimolo della domanda di prodotti alimentari da parte
delle città, si trasformò, sia per l’adozione di nuovi rapporti di produzione – nuovi contratti
(p.e. la mezzadria) ed espansione della piccola proprietà dei contadini liberi – che
incentivavano il lavoro contadino, sia per la diffusione di nuove tecniche (aratro pesante,
rotazione triennale, collare rigido per gli animali da traino, mulini ad acqua e a vento) che
ne aumentarono la produttività.
L’anno Mille è pertanto convenzionalmente considerato lo spartiacque cronologico tra
l’Alto Medioevo, o età del primo feudalesimo, e il Basso Medioevo, o età del secondo
feudalesimo. Politicamente il Basso Medioevo fu caratterizzato dalla coesistenza di due
poteri continentali superiori – uno effettivo, la chiesa romana, l’altro virtuale, l’impero
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germanico – e di una miriade di poteri locali inferiori, costituiti ora non più solo dai feudi
maggiori (ducati e contee) e minori, ma anche da nuovi Stati: i comuni e le monarchie
feudali.
La riforma monarchica della chiesa romana e lo scontro impero/papato
Nella I metà dell’XI secolo l’impero germanico, sempre più basato sui vescovi-conti e
pertanto interessato alla qualità del clero, promosse la riforma morale della chiesa
favorendo l’ascesa ai vertici della curia papale dei monaci dei nuovi ordini riformati, i
quali, a loro volta, approfittarono della morte precoce di Enrico III e della minore età del
futuro Enrico IV per varare una riforma della Chiesa che la rendesse indipendente da
qualsiasi potere laico.
Il nucleo di tale riforma fu l’elezione del papa da parte del collegio dei cardinali (conclave)
e l’attribuzione al papa di un potere sovrano all’interno della chiesa. La riforma della chiesa
provocò la definitiva rottura in due della cristianità tra chiesa cattolica romana e chiesa
ortodossa greca, la quale si rifiutò di riconoscere la suprema autorità del vescovo di Roma,
e lo scontro tra il papato e l’impero germanico. La prima fase di questo scontro epocale
terminò nel 1122, con il Concordato di Worms, un compromesso alla pari, che però sanciva
l’emancipazione della chiesa romana dalla subordinazione all’impero.
La nascita dei comuni e delle monarchie feudali
Sull’onda della crescita economico-demografica, favoriti dallo scontro tra chiesa e impero,
nel corso dell’XI secolo nacquero e si svilupparono due nuovi tipi di attori politici, ovvero
di Stati: i comuni e le monarchie feudali.
I comuni erano delle repubbliche cittadine, inizialmente aristocratiche, poi oligarchiche,
infine, benché in pochi casi, semidemocratiche (donne, stranieri e nullatenenti erano
esclusi dal potere politico). Essi si formarono nelle rinate città per iniziativa dei nuovi ceti
emergenti borghesi, inizialmente egemonizzati dai nobili inurbati. Benché di natura e
interessi diversi e spesso antitetici, i comuni si affiancarono alle signorie feudali,
inserendosi nella tendenza feudale al frazionamento locale del potere e contribuendo così
al rinnovamento ma anche al rafforzamento del feudalesimo. Tuttavia, il fenomeno
comunale non fu generalizzato, ma limitato ad alcune aree europee, nell’insieme di gran
lunga inferiori per estensione a quelle rurali controllate dai signori feudali.
Contemporaneamente, nacquero e cominciarono a svilupparsi, in Francia, in Inghilterra,
in Spagna, ma anche in Ungheria e Polonia, le monarchie feudali. Inizialmente i re di
questi Paesi erano dei conti o duchi molto potenti, ma spesso meno potenti di altri duchi, e
dunque il loro “regno” non si differenziava dagli altri ducati o contee. Col tempo, però, si
rafforzarono progressivamente, aumentando le loro estensioni territoriali, riaggregando e
unificando i poteri locali (feudi e comuni) e reintroducendo istituzioni centralizzate.
Il processo di crescita delle monarchie feudali fu favorito dal sostegno della chiesa, che
diede una legittimazione teocratica al potere regale, in funzione antimperiale; e dal
consenso della borghesia urbana e anche del popolo contadino, che volevano così limitare
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lo strapotere dei signori feudali. Tenendo conto, però, che le monarchie feudali, fino al XV
secolo, si basarono prevalentemente sulla delega del potere amministrativo ai vassalli e che
il loro territorio raggiunse dimensioni solo pluriregionali, anch’esse per il momento non
ribaltarono il feudalesimo ma ne costituirono un ulteriore elemento di frammentazione,
pur segnando l’inizio di una controtendenza, cioè di una nuova tendenza all’accentramento
statale.
Le guerre della croce e il potenziamento della chiesa romana
Nel pieno della prima fase dello scontro con l’impero, la chiesa romana, assecondando e al
contempo suscitando la spinta espansionistica della popolazione europea in forte crescita,
bandì le guerre della croce, cioè invitò i cristiani europei, in primo luogo i cavalieri nobili, a
combattere contro gli infedeli per acquisire al cristianesimo cattolico nuovi territori e
convertire alla fede cristiana nuove popolazioni.
Le guerre della croce ebbero come teatri principali la penisola iberica, la Sicilia, la
Palestina, territori islamici, ma anche l’Europa baltica e le locali popolazioni germaniche di
religione politeistica. Mentre la Palestina, l’obiettivo prioritario, fu conquistata solo
precariamente e temporaneamente, tutte le altre aree furono acquisite alla cristianità
occidentale, rafforzando il prestigio e il potere del papato, che se ne servì per indebolire
l’impero ed estendere la propria egemonia sui nuovi Stati feudali: le monarchie e i comuni.
Il trionfo della ierocrazia cattolica
Nella seconda metà del XII secolo, dopo aver attraversato un nuovo lungo periodo di crisi
dinastica e di guerre intestine, con Federico I Barbarossa l’impero germanico tentò di
restaurare la sua supremazia riassoggettando i comuni italiani, ormai resisi del tutto
indipendenti, e puntando, in questo modo, a ristabilire i precedenti rapporti di forza con la
chiesa, che nel frattempo si era ulteriormente rafforzata. Il tentativo di Federico I si
infranse contro l’alleanza tra comuni e chiesa che utilizzò anche l’arma dell’obbligo
religioso dell’imperatore di partecipare alla III crociata in Palestina.
All’inzio del XIII secolo, il papa Innocenzo III, tutore del nipote di Federico I, poté
infergere un nuovo colpo all’impero germanico, alleandosi con il re di Francia, Filippo II
Augusto, sconfiggendo l’imperatore Ottone IV e sostituendolo con Federico II. In questo
modo Innocenzo III impose la supremazia del potere religioso della chiesa romana su tutti
i poteri politici laici. Alla sua morte, Federico II, cercò di realizzare il progetto del nonno
ma anche lui fu sconfitto dall’alleanza comuni-chiesa.
Così, dalla seconda metà del XIII secolo, l’impero germanico era ormai definitivamente
sconfitto e col giubileo del 1300 la chiesa romana potè celebrare, sotto papa Bonifacio VIII,
il trionfo della ierocrazia cattolica.
La crisi della Chiesa romana e la fine della ierocrazia cattolica
Già tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, la supremazia della Chiesa romana era stata
minacciata, proprio sul suo terreno, cioè quello religioso, dall’emergere di nuove chiese
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cristiane (i catari, i valdesi) che criticavano l’arricchimento, l’acquisizione di funzioni e
poteri politici e la nuova degenerazione morale del clero, in particolare dei vescovi e degli
abati. La chiesa riuscì a sventare questa minaccia sia con la violenza – i catari furono
sterminati dai tribunali dell’inquisizione e dall’indizione di una guerra della croce contro di
loro – sia con l’accettazione e la promozione di due nuovi ordini religiosi: domenicani e
francescani.
All’inizio del XIV secolo, mentre cominciava la recessione economico-demografica, Filippo
IV il Bello, re di Francia, per rafforzare ulteriormente la sua monarchia feudale, rigettò
l’ordine papale di non tassare i vescovi francesi, e in seguito proibì l’afflusso delle decime
francesi a Roma. Con questa decisione, Filippo IV negava la superiorità del potere della
chiesa romana. Bonifacio lo scomunicò ma Filippo IV mantenne il suo potere e riuscì a far
arrestare, seppur temporaneamente, il papa. L’episodio attestava che le monarchie feduali
si erano ormai potenziate a tal punto da poter fare a meno della tutela papale e da rendersi
del tutto indipendenti sia dal potere imperiale sia dal potere ecclesiastico.
La catastrofe economico-demografica del XIV secolo
Lo sviluppo economico-demografico europeo si bloccò alla fine del XIII secolo e nella
prima metà del XIV ripetute carestie provocarono l’avvio del calo demografico e segnarono
l’inizio della recessione economica. A causa dello scarso aumento della produttività, a sua
volta dovuto alla mancanza di innovazioni tecniche, si era prodotta una situazione di
sovrappopolamento: la crescita della popolazione era avvenuta a ritmi molto maggiori di
quella del prodotto agricolo.
In questa situazione economica già compromessa, il contagio della peste nera, portato dalle
navi che commerciavano con l’India e la Cina, provocò una catastrofe demografica: in soli
4 anni (1348-1351) la popolazione calò da 75-80 a 50 milioni, diminuendo di circa un terzo.
Dal sovrappopolamento si passò fulmineamente al sottopopolamento: la carenza di forzalavoro agricola e industriale e il crollo della domanda di beni provocarono una lunga
depressione economica.
La satellizzazione francese e lo scisma della Chiesa romana
Nel 1305, il conclave dei cardinali elesse papa Clemente V, un vescovo francese, ritenuto
capace di ricucire il conflitto tra chiesa e regno di Francia e di evitare il rischio di uno
scisma della chiesa francese. Di conseguenza, il papato si trasferì in territorio francese, dal
1309 ad Avignone, e negli anni successivi furono eletti altri 6 papi francesi. Pur
mantenendo l’indipendenza, la chiesa, in questo periodo, subì il condizionamento della
monarchia francese.
Nel 1378, l’ultimo papa francese, Gregorio XI, riportò la curia pontificia a Roma, ma alla
sua morte i cardinali si spaccarono in due ed elessero due papi contrapposti, un italiano e
un francese. Il Regno d’Inghilterra appoggiò il primo, il regno di Francia il secondo e anche
gli altri Stati europei si divisero tra le due fazioni.
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La crisi della chiesa fu aggravata dal riemergere di nuove chiese alternative – i lollardi in
Inghilterra e gli hussiti in Boemia – che riproponevano la critica alla ricchezza, al potere e
alla corruzione morale del clero e propugnavano un nuovo modello di chiesa, basato sulla
povertà, l’abbandono di ogni funzione politica e l’uguaglianza dei fedeli. Con l’aiuto degli
Stati, la chiesa riuscì però a soffocare nel sangue anche queste nuove chiese alternative, ma
contraendo un pesante debito con i poteri laici.
La spaccatura della chiesa cattolica fu del tutto superata solo nel 1445, ma a prezzo della
concessione dell’autonomia alle chiese nazionali, ovvero a favore di una maggiore
indipendenza dei regni. In altre parole, il potere di influenza politica della chiesa si ridusse
notevolmente, a beneficio delle monarchie laiche. La teocrazia monarchica aveva vinto
sulla ierocrazia papale.
La guerra dei Cent’anni e l’emergere delle monarchie nazionali
La crisi economica e la peste aumentarono le conflittualità sociali e politiche, tra cui anche
lo scisma ecclesiastico, che però non può essere compreso senza tener conto che esso si
svolse contemporaneamente alla guerra dei Cent’anni (1337-1453).
Questa lunga guerra vide lo scontro tra regno d’Inghilterra e regno di Francia a causa
dell’incompatibilità tra i tradizionali legami vassallatici e la tendenza delle due principali
monarchie feudali a espandersi e ad acquisire una piena sovranità sui rispettivi territori. Le
due principali monarchie feudali europee, che già si erano notevolmente sviluppate, nel
corso della guerra dei Cent’anni si rafforzarono militarmente e amministrativamente,
centralizzando sempre di più il loro controllo sui rispettivi territori. Così alla fine della
guerra, non solo giunsero a dare una conformazione nazionale ai loro territori, ma anche a
amministrarli prevalentemente in modo diretto con funzionari alle dipendenze del re. In
questo senso, convenzionalmente la guerra dei Cent’anni segna la trasformazione delle
monarchie feudali in monarchie nazionali, destinate a dominare la scena politica europea
nei secoli successivi, relegando la chiesa romana sempre più in una posizione di secondo
piano.
La formazione dell’impero ottomano e la fine dell’impero bizantino
Già nel corso del XIV secolo, un popolo nomade turco, gli ottomani, di religione islamica, si
insediò nella penisola anatolica e da lì cominciò a espandersi verso est, impossessandosi
dell’impero islamico di origine araba, e verso ovest, invadendo la penisola balcanica,
espugnando Bisanzio nel 1453 e provocando il crollo dell’impero bizantino, l’ex impero
romano d’Occidente, ovvero l’ultimo elemento di continuità con l’antica civiltà grecoromana.
Considerando che nel 1453, come si è visto, abbiamo la concomitanza di due cambiamenti
epocali, e che intorno a quello stesso anno il tipografo tedesco Gutenberg mise a punto la
tecnica della stampa meccanica, destinata a rivoluzionare la civiltà europea, non è
immotivato utilizzare questa data come quella convenzionalmente più indicativa della fine
del Medioevo e dell’inizio dell’età moderna.
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L’ORIZZONTE TECNICO-SCIENTIFICO DELL’ETA’ MEDIEVALE
La situazione culturale europea
Nel 529 d.C. l’imperatore Giustiniano, che già progettava la riconquista dell’Europa
occidentale, emanò un editto con il quale impose la chiusura di tutte le scuole “pagane”,
cioè di tutte le istituzioni culturali non cristiane. L’editto segnò la fine violenta della
filosofia e, più in generale, della cultura antica legata alla tradizione religiosa politeistica.
Così, dal 529, la cultura, in Europa, divenne monopolio del clero cristiano.
Nello stesso anno, infatti, o intorno ad esso, Benedetto da Norcia fondò il famoso
monastero di Montecassino e, con esso, l’ordine monacale benedettino. Il monachesimo
cristiano era già nato secoli prima in Oriente e già nel V secolo aveva attecchito in
Occidente, a partire dall’Irlanda. Ma, grazie alla sua regula (“ora et labora”), Benedetto da
Norcia lo istituzionalizzò e dal VI secolo il monachesimo occidentale divenne
prevalentemente benedettino. I monasteri benedettini divennero le arche in cui si salvò
quanto restava del patrimonio librario, e quindi della cultura, dell’età antica.
Gli sconvolgimenti storico-politici dei secoli della decadenza e della dissoluzione
dell’impero romano, infatti, avevano portato alla distruzione di gran parte dei testi (rotoli
di papiri o di pergamene) prodotti dalla cultura antica. L’esempio più emblematico è quello
della famosa biblioteca del Museo di Alessandria, che ospitava circa 500.000 testi,
distrutta da incendi parzialmente nel III d.C., a causa della guerra tra romani e Zenobia di
Palmira; completamente nel VII, con la conquista araba. Ma ciò che vale in grande per la
biblioteca alessandrina, vale in misura minore, ma non meno significativa anche per quasi
tutte le altre biblioteche antiche, a cominciare da quella di Pergamo, seconda solo a quella
di Alessandria.
In Europa occidentale, i pochi libri che si salvarono furono quelli presi in custodia,
restaurati e ricopiati dai monaci nei monasteri. I monaci, infatti, e l’alto clero secolare (i
vescovi) erano diventati gli unici uomini capaci di leggere e scrivere. I monasteri, dunque, e
le cattedrali, cioè le chiese vescovili, costituivano le uniche istituzioni culturali, ovvero le
uniche scuole. Se è vero che il clero, in tal senso, salvò una parte della cultura antica dal
naufragio altomedievale, non bisogna dimenticare che si trattò di un salvataggio selettivo: i
monaci e chierici conservarono solo le opere che giudicavano compatibili con il
cristianesimo, distruggendo o non ricopiando le altre (p.e. i testi di Democrito o di
Epicuro). Inoltre, nell’Europa occidentale, si perse la conoscenza del greco e pertanto
furono ricopiate solo le opere scritte in latino. In questo senso, il libro per eccellenza
dell’Alto Medioevo, la Bibbia, quello naturalmente più diffuso e letto, ma unicamente dai
membri del clero, circolava solo nella traduzione latina eseguita da Sofronio Eusebio
Girolamo alla fine del IV secolo e che prese il nome di Vulgata.
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Dunque, durante l’Alto Medioevo, la situazione culturale europea era caratterizzata
innanzitutto e soprattutto dall’analfabetismo di massa: solo l’élite del clero sapeva leggere
e scrivere, i laici di tutte le classi, non solo i contadini ma anche i nobili, e perfino le
massime autorità politiche erano analfabeti. Di conseguenza la cultura popolare
altomedioevale fu una cultura unicamente orale, gestuale e iconica (affreschi, quadri e
statue delle chiese). Il popolo conosceva la Bibbia solo in base alle sue raffigurazioni
iconiche presenti nelle chiese e alle esposizioni orali in volgare da parte dei sacerdoti, gli
unici che sapevano leggere ma anche gli unici che, secondo le prescrizioni ecclesiastiche,
avevano il permesso di leggere il testo sacro.
La cultura dell’élite intellettuale clericale, inoltre, si differenziava da quella popolare non
solo perché era anche una cultura scritta, ma anche e soprattutto perché la lingua, sia
scritta sia parlata, usata dai chierici era il latino, che in questo senso costituiva la lingua
europea, la lingua grazie alla quale i chierici di tutti i Paesi europei erano in grado di
comunicare. Dunque, tra laici e clero sussisteva anche un’altra fondamentale differenza:
mentre il clero parlava anche latino, i laici parlavano esclusivamente i diversi “volgari”, le
nuove lingue emerse dalla fusione dei romani e dei germani, diverse da paese a paese, ma
spesso da regione a regione e perfino da villaggio a villaggio.
La nuova cosmologia: la problematizzazione del geocentrismo tolemaico
Come si è già visto (L’orizzonte storico-culturale dell’età romana), gli intellettuali
cristiani, che sempre più nel corso dell’Alto Medioevo coincisero con i membri del clero, fin
dal II secolo d.C. si divisero, con varie sfumature intermedie, in quelli che consideravano la
cultura greco-romana incompatibile col cristianesimo e quelli che invece la consideravano
conciliabile. Anche per questi ultimi, tuttavia, la compatibilità tra cristianesimo e cultura
classica era solamente parziale e dunque anche per loro era necessario vagliare le opere
antiche per separare ciò che poteva essere accettato, e quindi utilizzato, e ciò che invece era
da modificare o da scartare.
Questo atteggiamento, da un lato, provocò la perdita di libri interi e la censura o l’oblio di
nozioni e teorie scientificamente rilevanti; dall’altro, però, almeno in alcuni casi, promosse
una revisione critica delle teorie scientifiche classiche e l’ideazione di nuove teorie che
posero le premesse della rivoluzione scientifica moderna che si sarebbe avviata nel XVI
secolo.
In questa prospettiva, nell’ambito della cosmologia e dell’astronomia, per esempio, la
teoria cristiana della creazione – fissata da Agostino – divenne la principale motivazione
che spinse gli intellettuali cristiani a criticare e a rivedere non solo le teorie dell’ateo
Democrito, riprese e diffuse da Epicuro e dagli epicurei, ma anche quelle di Aristotele e di
Tolomeo.
Soprattutto inizialmente, questa revisione ebbe esiti scientificamente regressivi: p.e.,
Lattanzio (240-320 d.C.), retore afroromano convertitosi al cristianesimo, negò la sfericità
della Terra riproponendo la tesi – che era stata di Talete nel VI secolo a.C. – della sua
forma piatta; Basilio (330-379 d.C.), vescovo bizantino, confutò anche la sfericità del cielo,
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ossia del cosmo; Diodoro (330-394), vescovo di Tarso, come molti altri successivamente,
sostenne la teoria di un cosmo a forma di tabernacolo, cioè di parallelepipedo, in cui la
Terra occupa il fondo e non vi sono sfere cristalline (quelle che per l’astronomia
aristotelico-tolemaica muovevano i pianeti) ma solo due cieli a volta; Cosma (VI secolo),
mercante egizio poi dedicatosi a una vita ascetica, sostenne che anche la Terra è un
tabernacolo con un fondo piatto su cui sorge un’alta montagna, e che i pianeti e le stelle
fisse sono mossi dagli angeli.
Va, però, tenuto ben presente che queste teorie scientifiche regressive non furono fatte
proprie dalla maggioranza degli intellettuali cristiani, come attesta Isidoro (560-636),
vescovo di Siviglia, che invece continuò a sostenere la sfericità della Terra. In seguito, il
monaco benedettino inglese Beda il Venerabile (673-735) rilanciò e impose la teoria
geocentrica di Tolomeo nell’ambito degli intellettuali cristiani, tanto che dal IX secolo
nessuno mise più in discussione la sfericità della Terra né l’importanza della matematica
per la conoscenza dei fenomeni naturali.
La nuova fisica: le premesse della fisica moderna
Altri intellettuali cristiani, però, elaborarono delle teorie scientificamente progressive, non
solo a livello astronomico ma anche della fisica terrestre. E’ il caso Giovanni Filòpono di
Alessandria (VI secolo) che partì dalla confutazione della teoria aristotelica dell’eternità del
cosmo – argomentando che implicherebbe l’esistenza di un’infinità di anni e individui e
dunque dell’infinito attuale che Aristotele stesso aveva confutato – per confutare anche
l’esistenza dell’etere – e dunque la differenza tra corpi celesti (astri) e corpi terrestri –, la
proporzionalità tra peso e velocità di caduta di un corpo (argomentando che se si lasciano
cadere dall’alto due oggetti di peso diverso giungono a terra insieme), la tesi che il moto di
proiettili, p.e. un freccia scoccata, sia sostenuto e trasmesso dall’aria – teorizzando invece
l’azione di una forza cinetica incorporea impressa nel proiettile da ciò che lo ha scagliato.
Più avanti, cioè nel Basso Medioevo, l’inglese Thomas Bradwardine (1290-1349),
arcivescovo di Canterbury, e il vescovo tedesco Alberto di Sassonia (1316-1390)
confermarono che due corpi omogenei, p.e. due pezzi di legno, cadono nel vuoto con la
stessa velocità anche se hanno volume e peso differenti, confutando anch’essi la teoria
aristotelica. Ma il contributo più innovativo venne dal canonico francese Giovanni
Buridano (1290-1358) che elaborò la teoria dell’impetus, intesa come la forza impressa a
un corpo (p.e. un sasso) da un motore (p.e. una fionda azionata da un uomo). Egli sostenne
che un corpo dotato di impetus, in assenza di resistenza del mezzo (p.e. l’aria) e della
deviazione gravitazionale verso il basso, lo conserva sempre, e quindi si muove all’infinito.
In tal senso, secondo Buridano gli astri, che non subiscono resistenza del mezzo né cadono
verso il basso, si muovono perennemente per l’impetus loro conferito da Dio all’atto della
creazione. Buridano elaborò anche una nuova teoria dell’accelerazione dei gravi in caduta.
Mentre Aristotele aveva sostenuto che l’accelerazione dei corpi che cadono dipende dal
fatto che avvicinandosi al loro luogo naturale il loro peso aumenta, Buridano sostenne che
l’accelerazione deriva dal fatto che la gravità incrementa continuamente l’impetus del
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corpo cadente, in quanto la velocità iniziale dovuta alla gravità naturale produce un
impetus che aumenta la velocità iniziale stessa, a sua volta l’aumento della velocità produce
un aumento di impetus che genera un ulteriore aumento di velocità e così via.
Nel XIV secolo gli studiosi della scuola del Merton College di Oxford posero le basi della
meccanica, distinguendo tra dinamica (studio delle cause del moto) e cinematica (studio
delle proprietà spaziotemporali del moto), individuando il concetto di velocità istantanea,
definendo il moto uniformemente accelerato come quello che acquista incrementi uguali di
velocità in uguali intervalli di tempo e, infine, dimostrando il teorema della velocità media.
Sempre a livello di ricerca fisica, sulla base di quanto aveva teorizzato Averroè, il canonico
inglese Walter Burley (1275-1345) e Giovanni Buridano sostennero la costituzione
corpuscolare della materia, benché sulla base di una concezione qualitativa dei “minima
naturalia”, ovvero delle parti più piccole e non riducibili della materia. Nel XIII
l’alchimista Paolo di Taranto, frate francescano, affermò che le trasformazioni chimiche
sono combinazioni di parti minime degli elementi fondamentali (terra, acqua, aria, fuoco)
che danno luogo allo zolfo e al mercurio che a loro volta, combinandosi, producono i
metalli.
Nell’ambito della fisica astronomica, nel XIII secolo astronomi islamici sostituirono
l’equante di Tolomeo con un sistema di piccoli epicicli molto simile a quello che Copernico
avrebbe utilizzato tre secoli dopo per spiegare i supposti moti circolari uniformi dei pianeti
intorno al Sole. Addirittura, nell’università di Padova, a partire dal XIII secolo, si cominciò
a mettere in dubbio l’esistenza delle sfere cristalline, degli epicicli e perfino l’immobilità e
la centralità della Terra. In questa direzione, il contributo scientifico più radicale del
medioevo si deve al francese Nicola Oresme (1323-1382), probabile discepolo di
Buridano, certamente docente universitario e in seguito vescovo di Lisieux. Oresme trasse
le estreme conseguenze della millenaria critica cristiana alla cosmologia pagana a partire
da Filopono: in primo luogo teorizzò la relatività dell’osservazione dei moti deducendone
che un osservatore terrestre vede muoversi le stelle sia nel caso la Terra sia ferma e siano
effettivamente le stelle a muoversi (come voleva l’astronomia aristotelico-tolemaica) sia nel
caso le stelle siano ferme e sia la Terra a girare su se stessa, e pertanto non possiamo
escludere questa seconda ipotesi; in secondo luogo, confutò l’argomento tolemaico
secondo cui se la Terra si muovesse da ovest verso est una freccia lanciata
perpendicolarmente alla superficie terrestre dovrebbe cadere più ad ovest rispetto al punto
da cui è stata scoccata, ma ciò non si verifica, argomentando che ciò potrebbe accadere
perché il moto rotatorio della Terra coinvolge l’atmosfera terrestre e tutto quello che vi si
trova sospeso. Tuttavia, benché così Oresme dichiari che sul piano scientifico non si può
stabilire con certezza se la Terra si muova oppure no, egli si sottomette all’autorità della
Bibbia – che in alcuni passi parla del moto del Sole e dell’immobilità della Terra – e
afferma che per fede bisogna credere che la Terra non si muova, così evidenziando
l’ambiguità scientifica della sacra scrittura cristiana che forniva, da un lato, argomenti per
confutare e abbandonare la cosmologia aristotelico-tolemaica e, dall’altro, argomenti per
difenderla e conservarla.
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Il progresso tecnico
Anche per quanto riguarda la conoscenza e l’arte meccanica, e più in generale tutte le
tecniche (considerate arti manuali), la religione cristiana medievale giocò un ruolo
innovativo. Nell’età greca classica l’arte meccanica era stata giudicata inferiore alla vera
scienza, in età ellenistica alcune arti erano state accettate come onorevoli, altre rigettate
come disonorevoli, in epoca romana Cicerone nel De officiis aveva condannato come
degradante ogni attività manuale, e quindi tutte le arti, a eccezione dell’architettura e
dell’agricoltura.
Al contrario, nell’Alto Medioevo la regola monastica rivalutò il lavoro manuale
attribuendogli un significato religioso. Inoltre, la vita monastica presupponeva
l’autosufficienza materiale delle comunità monacali. Di conseguenza, il monachesimo
promosse la conservazione, la copiatura e lo studio delle opere tecnico-scientifiche di
Plinio il Vecchio, Vitruvio, Galeno, Tolomeo, l’apprendimento delle conoscenze
meccaniche, e più in generale delle tecniche, dell’antichità, ma anche il loro sviluppo
innovativo.
Ma la riabilitazione delle tecniche fu portata avanti anche da intellettuali cristiani, laici o
appartenenti al clero secolare: il monaco Cassiodoro (490-583) attribuì alle arti
meccaniche un valore scientifico ed esaltò le abilità del meccanico; il vescovo Isidoro di
Siviglia (560-636) considerò la meccanica, insieme all’astrologia e alla medicina, una
branca legittima della scienza fisica; l’abate tedesco Rabano Mauro (780-856) esaltò la
meccanica soprattutto come capacità di lavorare la pietra, il metallo e il legno.
All’inizio del Basso Medioevo, fu in particolare il nuovo ordine monacale dei cistercensi a
promuovere l’istruzione tecnica e l’attività tecnica, in particolare relativamente alla
metallurgia del ferro, il metallo utilizzato nella costruzione sia dei nuovi aratri pesanti sia
delle cattedrali gotiche.
Gli apporti delle civiltà islamica, indiana e cinese
I progressi scientifici e tecnici dell’Europa medioevale dovettero molto agli sviluppi
tecnico-scientifici compiuti dalla civiltà islamica. Data la posizione e l’estensione
dell’impero arabo (che però comprendeva molte altre nazioni islamizzate, p.e. la Persia), i
filosofi, gli scienziati e i tecnici islamici potevano attingere al patrimonio librario della
Grecia classica, conservato dai bizantini, ma anche ai patrimoni tecnico-scientifici della
Persia (dove dal IV secolo si era rifugiata una comunità di intellettuali Greci nestoriani e di
filosofi neoplatonici messi fuorilegge), dell’India e della Cina. Queste antiche tradizioni
tecnico-scientifiche, almeno in parte, furono anche originalmente sviluppate e arricchite
dagli stessi islamici.
Nel corso del Medioevo, più intensamente durante il Basso Medioevo, la civiltà islamica
trasmise alla civiltà europea testi antichi e nuove conoscenze tecnico-scientifiche,
soprattutto nei campi medico e farmaceutico, della tessitura, della tintura, della
costruzione di strumenti di misura e osservazione (p.e. l’astrolabio), dell’editoria (prima la
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carta e poi la stampa, scoperte e usate dai cinesi già nell’VIII secolo), della meccanica
(fontane zampillanti, valvola conica, manovella a gomito, orologi ad acqua, automi),
dell’arte bellica (polvere da sparo, inventata e usata fin dal IX secolo dai cinesi), della
tessitura (l’arcolaio).
Frutto anche di questa trasmissione, fu la Schedula diversarum artium (XII sec.), un
trattato tecnico scritto da Theophilus, pseudonimo di un monaco-artigiano di Colonia, il
quale vi esaltò il valore religioso del lavoro manuale, sostenendo che l’opera dell’artigiano è
simile all’attività creatrice di Dio. Nel suo trattato, Theophilus descrisse dettagliatamente
strumenti e operazioni tecniche negli ambiti della pittura, della vetreria, della ceramica,
della costruzione di mosaici, della metallurgia. Sempre nel XII secolo, il cardinale francese
Ugo di San Vittore rivalutò la scienza della natura come mezzo per arrivare a Dio e
classificò, accanto alle sette arti liberali, attribuendo loro uguale dignità culturale, sette arti
meccaniche: tessitura, armamento (che includeva l’architettura), metallurgia, agricoltura,
caccia e pesca, medicina e arti scenico-teatrali.
Per comprendere il progresso e la valorizzazione delle tecniche nel Basso Medioevo
europeo, occorre tener presente anche il notevole sviluppo economico che si registrò in
Europa nei primi tre secoli del secondo millennio e che fu al tempo stesso causa ed effetto
dello sviluppo tecnico. A livello agricolo le principali innovazioni tecniche furono la
rotazione triennale, nuove modalità di irrigazione, l’aratro pesante col vomere a versoio, il
collare rigido per i cavalli; a livello industrial-artigianale il mulino ad acqua, il mulino a
vento, l’albero a camme (che trasformava il movimento rotatorio in movimento rettilineo
su/giù, l’arcolaio, importato dalla Cina); a livello marittimo-commerciale la bussola
(importata dalla Cina); a livello militare, la polvere da sparo, archibugi e cannoni, il
trabucco (anch’essi di origine cinese). Ma il più stupefacente effetto-causa dello sviluppo
economico e tecnico bassomedievale furono le cattedrali gotiche che si diffusero in tutta
Europa e comportarono innovazioni architettoniche e tecniche di grande rilievo. La
costruzione delle cattedrali, insieme all’industria bellica e a quella degli attrezzi agricoli,
aumentò la domanda di ferro e stimolò la meccanizzazione delle miniere, in particolare nel
drenaggio dell’acqua, e dell’industria metallurgica che cominciò a servirsi di magli e
mantici azionati dalla forza idraulica e di nuovi tipi di forni che permettevano di far
assorbire al ferro una maggiore quantità di carbonio, e producevano così la ghisa, più dura
del ferro.
Altre invenzioni e innovazioni furono la manovella, a partire dal XIV secolo, il pedale (fine
XII), telai a pedale, la molla, il filatoio con trasmissione a cinghia, la carriola, la gru
girevole, l’orologio meccanico a scappamento (che fu collocato sulle cattedrali), gli occhiali.
Gli sviluppi della matematica
In campo matematico, la cultura monastica fu meno esigente e si limitò a conservare,
ricopiare e tramandare versioni ridotte e semplificate delle grandi opere dell’età ellenistica.
Da questo punto di vista, grande importanza ebbe il romano Severino Boezio (480-525),
il quale, oltre a tradurre in latino alcune opere di Aristotele, sintetizzò la matematica greca,
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in particolare la geometria di Euclide e l’astronomia di Tolomeo. A sua volta, rifacendosi a
Varrone (116-27 a.C.) e a Marziano Capella (410-439), Isidoro di Siviglia (VII secolo)
nelle Etymologiae canonizzò la suddivisione delle discipline conoscitive (dette arti liberali)
nella tre scienze letterarie del trivio (grammatica, retorica, dialettica) e nelle quattro
scienze matematiche del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica).
Negli ultimi secoli dell’Alto Medioevo, le scienze matematiche acquisirono sempre più
importanza nel mondo cristiano e nel X secolo la spiegazione matematica dei fenomeni
naturali prese il sopravvento sulla spiegazione morale sostenuta dai primi padri della
Chiesa. Emblema di questa svolta fu la nomina a papa, col nome di Silvestro II, di un
grande matematico e astronomo dell’epoca, Gerberto d’Aurillac. Fin da allora l’interesse
della Chiesa romana per la matematica fu strettamente associato alle necessità del calcolo
del tempo, ovvero alla elaborazione dei calendari, che guidavano e ordinavano sia il lavoro
agricolo sia la liturgia religiosa
Nel Basso Medioevo, l’Europa poté avvalersi degli importanti sviluppi della matematica
realizzati dagli islamici durante l’Alto Medioevo, in particolare dopo l’istituzione a Bagdad,
all’inizio del IX secolo, della Casa della Sapienza, che ambiva a essere l’equivalente del
Museo e della Biblioteca di Alessandria dell’età ellenistica. Al-Khuwarizmi (780-850)
espose e adottò il sistema di notazione numerica e di calcolo usato dagli indiani – dando
origine agli appellativi “numeri arabi” e “algoritmo” – e scrisse un trattato originale,
intitolato Al-jabr wa’l muqabalah (“completamento e riduzione”), che ne fece il “padre
dell’algebra”. Altri matematici islamici scoprirono soluzioni alternative più chiare dei
teoremi dei matematici Greci ed elaborarono tavole più precise e aggiornate di quelle di
Tolomeo per il calcolo delle posizioni dei pianeti. I matematici e astronomi del X secolo alBattani e Abu al-Wafa introdussero in astronomia l’uso del calcolo trigonometrico
inventato dagli indiani.
Il grande matematico Leonardo Fibonacci (1170-1240), allievo di un matematico
islamico, utilizzando il patrimonio matematico islamico, fece compiere un notevole passo
in avanti alla tecnica di numerazione e ai metodi di calcolo. Egli scoprì le famose serie
numeriche che portano il suo nome e che utilizzò per trovare le soluzioni di problemi
algebrici connessi alla ricorsività (p.e., quante coppie di conigli derivano per riproduzione,
in un determinato periodo, da una coppia di conigli?)
Gli sviluppi dell’ottica
Gli arabi contribuirono anche al progresso dell’ottica. In particolare, ibn al-Haytham
confutò la tesi, sostenuta sia da Euclide sia da Tolomeo, secondo cui il raggio visuale esce
dall’occhio per colpire e così far vedere gli oggetti, e argomentò che, al contrario, l’occhio
riceve i raggi luminosi riflessi dagli oggetti producendone così al suo interno le immagini.
Nel Basso Medioevo cominciano a diffondersi in Europa le lenti sferiche, di cui il vescovo
inglese Roberto Grossatesta (1175-1253) spiegò il funzionamento sulla base della teoria
della doppia rifrazione. In seguito furono costruiti e si diffusero i primi occhiali utilizzando
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lenti convesse delle cui proprietà si occupò il frate francescano inglese Roger Bacon (12191292).
L’islamico Al-Farisi (1267-1320) scoprì la scomposizione cromatica della luce e spiegò
l’arcobaleno come l’effetto del passaggio della luce nelle particelle di pioggia sospese
nell’atmosfera.
Gli sviluppi della medicina
Per quanto riguarda la medicina, inizialmente, e anche in seguito nelle sue correnti
fondamentaliste, il cristianesimo contrastò il suo sviluppo. La malattia, infatti, per lo più
era ritenuta dai primi cristiani una conseguenza inevitabile del peccato originale, una
punizione da accettare come banco di prova, se non addirittura da abbracciare come un
martirio, cioè come la più alta testimonianza della propria fede. In caso contrario, ovvero
quando desideravano la guarigione, i cristiani confidavano nei miracoli. Ma, in un secondo
tempo, e a partire dall’area orientale, il cristianesimo accolse la scienza e la cura mediche
in quanto strumenti della carità, cioè dell’impegno evangelico di assistenza verso il
prossimo, tanto da giungere ad assimilare il medico alla figura del Salvatore, cioè di Cristo.
Per questo, le opere di Ippocrate e Galeno furono accettate e valorizzate anche dai Padri
della Chiesa.
In particolare, a partire dal VI secolo nell’impero bizantino, si devono al cristianesimo
l’invenzione e la diffusione dell’ospedale, ovvero un edificio adibito a fornire assistenza
diagnostica e terapeutica e perfino a permettere degenze prolungate. Ma anche in Europa
occidentale a partire dal IX secolo si diffusero nei monasteri le “farmacie” e gli “ospizi” (da
hospitalia) costituiti da spazi riservati a medici, ai farmaci, ai bagni (a fini terapeutici) e ai
salassi, ma anche alla copiatura e alla scrittura di manuali di medicina, farmacologia e
botanica.
Anche per gli sviluppi bassomedievali della medicina europea fu decisiva l’attività di
raccolta, rielaborazione e trasmissione di opere e tradizioni mediche e farmaceutiche
grecoantiche, persiane, indiane e cinesi svolta dalla cultura araba nell’Alto Medioevo. P.e.,
lo zucchero di canna (quello di barbabietola si cominciò a usare nel XIX secolo), coltivato
in Persia, a partire dall’XI secolo fu venduto dai mercanti arabi a quelli genovesi e
veneziani (che lo chiamarono “sale arabo”!) e arrivò così in Europa, diventando una
componente preziosa della farmacopea poiché serviva a prolungare la durata dei preparati.
Uno sviluppo originale di notevole importanza nella farmaceutica si ebbe grazie al
matematico islamico al-Kindi (IX secolo) che studiò il rapporto tra la geometria delle
sostanze medicinali e i loro effetti terapeutici. In seguito anche Ibn Rushd (1126-1198),
latinizzato in Averroè, dimostrò con i suoi studi l’importanza di una valutazione
quantitativa e di un dosaggio preciso dei farmaci al fine della loro efficacia. Inoltre nel IX
secolo anche a Bagdad fu costruito un ospedale e in seguito se ne diffusero altri nell’intero
impero islamico. Gli ospedali islamici, oltre ad accogliere e curare i malati, erano anche
scuole di istruzione medica imperniate sull’insegnamento in base all’esempio e al tirocinio.
Altri progressi arabi si ebbero nella patologia, con l’identificazione della scabbia, del vaiolo
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e del morbillo. Gli arabi invece, pur praticandola, non fecero progressi nella chirurgia e
soprattutto nell’anatomia, a causa della proibizione religiosa della dissezione dei cadaveri
umani. Fu araba, tuttavia, la scoperta, dovuta a Ibn al-Nafis (1213-1288), della
circolazione polmonare, benché solo teorica, ossia non dettagliata da osservazioni
empiriche. Più in generale, grande importanza ebbe l’opera del persiano al-Razi (864925) poiché egli evidenziò i limiti della medicina di Galeno e sostenne la necessità di
sviluppare ulteriormente la teoria medica superando la tradizionale impostazione galenica.
Anche grazie all’apporto della medicina araba, a partire dal X secolo nacque e si sviluppò la
scuola medica di Salerno, che fu la prima scuola di medicina dell’Occidente medievale. Nel
Basso Medioevo Salerno perse importanza a favore delle università di Parma, Bologna e
Padova. Gli sviluppi teorici della medicina medievale sono legati alla contrapposizione tra
la tradizione aristotelica e quella ippocratico-galenica, in particolare riguardo a due
questioni: la gerarchia degli organi vitali e la riproduzione. Quanto alla prima, Aristotele
aveva sostenuto il primato del cuore, mentre Galeno aveva dato la preminenza al cervello;
quanto alla seconda, Aristotele aveva teorizzato che è solo il seme maschile a determinare
la forma, cioè le caratteristiche, dell’embrione e quindi dei figli, mentre per Galeno le
caratteristiche dei figli dipendono sia dal seme maschile sia da quello femminile. Nel
Trecento prevalse l’impostazione galenica, ma essa fu notevolmente rielaborata.
Gli sviluppi dell’alchimia
Nell’Europa medievale, un’altra importante ricerca di stampo scientifico, se non altro in
quanto preparò il terreno alla futura scienza chimica, fu l’alchimia, ossia la teoria e la
pratica della trasmutazione dei metalli. L’alchimia si basava sulla convinzione
dell’esistenza e della possibilità di produrre artificialmente, attraverso la distillazione, la
calcinazione e la sublimazione di minerali, la materia prima – chiamata “elisir” o anche
“pietra filosofale” – di cui sarebbero fatti tutti i minerali e con la quale, dunque, sarebbe
possibile generare qualsiasi minerale a piacere: oro, argento, pietre preziose, ma anche
farmaci taumaturgici. Allo stesso tempo, però, la trasformazione dei minerali aveva per gli
alchimisti anche il significato simbolico di un percorso di purificazione e perfezionamento
umano.
La culla medievale dell’alchimia è la civiltà bizantina la quale trasmise il sapere alchemico
a quella islamica, che a sua volta lo fece giungere a quella europea. Tra i vari studiosi arabi
che si occuparono di alchimia, un posto a parte spetta al persiano Ibn Sina (980-1037),
noto come Avicenna, il quale teorizzò che i minerali nascono dalla combinazione del
mercurio e dello zolfo ma confutò, in base ad accurate esperienze, la possibilità umana di
trasmutare un minerale in un altro. La posizione di Avicenna, tuttavia, non impedì lo
sviluppo della tradizione alchemica nei secoli successivi, sia nel mondo islamico sia in
quello cristiano-europeo.
Nel Basso Medioevo, il domenicano tedesco Alberto Magno (1200-1280) fece propria la
tradizione alchemica araba considerandola un’integrazione della filosofia naturale di
Aristotele. Il francescano inglese Roger Bacon (1214-1294) giunse a sostenere che l’oro
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artificiale, prodotto dagli alchimisti, è migliore di quello naturale e che, se ingerito nella
forma di “oro potabile”, è in grado di prolungare la vita umana. In questo modo Bacon
concepì l’alchimia non solo come una scienza dei metalli ma anche come una scienza
farmacologica, capace cioè di produrre sostanze curative per l’uomo. Paolo di Taranto a
sua volte sostenne che l’alchimia è la scienza che permette all’uomo di intervenire nei
processi naturali modificandoli a suo piacere, tesi decisiva perché costituisce uno dei
presupposti fondamentali della scienza moderna. Il francescano francese Giovanni da
Rupescissa (1310-1365) teorizzò che l’elisir (detta anche “quintessenza”), da lui
identificato nell’alcol, è una sostanza incorruttibile, che coincide con l’etere celeste, e che
quindi ha il potere di contrastare la corruzione dei corpi terrestri. Questa tesi alchemica
ebbe conseguenze a livello della scienza astronomica, in quanto mise in dubbio la
separazione e la differenza tra sfera celeste e sfera terrestre.
Nel 1317 una bolla papale proibì l’alchimia e in seguito gli alchimisti furono perseguitati
come eretici in quanto accusati di pensare che l’uomo, potendo agire sui processi naturali,
possa sostituirsi a Dio.
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Cannocchiale su…
L’ORIZZONTE FILOSOFICO DELL’ETA’ MEDIEVALE
L’Alto Medioevo: ultimi sviluppi ed esaurimento della Patristica
Dopo la chiusura della scuola neoplatonica di Atene nel 529 d.C. per decreto imperiale di
Giustiniano, la scuola neoplatonica di Alessandria sopravvisse fino alla conquista araba del
642, senza tuttavia alcun sviluppo originale.
Nella nuova situazione storico-culturale, caratterizzata dall’acquisizione del monopolio
dell’istruzione e della produzione culturale da parte della chiesa cristiana, la prima opera
filosofica innovativa fu un corpus di quattro trattati (I nomi divini, La gerarchia celeste,
La gerarchia ecclesiastica, La teologia mistica), che cominciò a circolare a Bisanzio a
partire dal 532, attribuiti a Dionigi, il giudice dell’Areopago ateniese che, secondo gli Atti
degli apostoli, si sarebbe convertito al cristianesimo dopo aver ascoltato l’apostolo Paolo e
che dunque avrebbe vissuto nel I secolo d.C. I successivi accertamenti filologici hanno
stabilito che si tratta di un apocrifo, per cui l’autore è stato convenzionalmente chiamato
“pseudo-Dionigi l’Areopagita”. Questo ignoto filosofo cristiano bizantino del V-VI
secolo forgiò una versione cristiana del tardo neoplatonismo di Proclo (412-485)
imperniata sulla distinzione tra “teologia affermativa”, quella che studia gli attributi biblici
di Dio, e “teologia negativa” (o “apofatica”), quella, cioè, che cerca di comprendere Dio
negando che possieda qualsiasi proprietà conoscibile dalla mente umana, benché questo
non significhi che sia privo di qualcosa, perché Dio è al di là della privazione e
dell’abbondanza, in quanto egli è coincidenza degli opposti. L’obiettivo di questa doppia
teologia è l’ “ignoranza assoluta”, cioè la consapevolezza dell’impossibilità umana di
comprendere pienamente Dio, presupposto della “teologia mistica”, cioè dell’estasi
religiosa, della possibilità del credente di unirsi a Dio annullandosi in lui. Ma il Corpus
dello pseudo-Dionigi è importante anche perché propone una versione della creazione
come “prosecuzione” (proòdos) di Dio scandita in precisi gradi gerarchici decrescenti:
prima i nove “cori” angelici (angeli, arcangeli, principati, potestà, virtù, dominazioni, troni,
cherubini e serafini), poi i tre livelli del clero cristiano (vescovi, sacerdoti, diaconi) e infine
i tre livelli dei laici (purificati, illuminati, perfetti). L’opera dello pseudo-Dionigi si diffuse
in Europa occidentale a partire dal IX secolo e fu una delle fonti del Paradiso di Dante
Alighieri.
Nei secoli VI, VII e VIII, i filosofi europei occidentali sono accomunati dall’obiettivo di
elaborare delle sintesi enciclopediche delle filosofie e, più in generale, dei saperi della
civiltà greco-romana. I più importanti autori di questo periodo furono: il romano
Severino Boezio (480-524), collaboratore del re ostrogoto Teodorico, da cui fu però
condannato a morte come traditore, traduttore di Aristotele e Porfirio e autore di La
consolazione della filosofia; il romano Cassiodoro (490-583), anch’egli funzionario del
regno ostrogoto, poi monaco in Calabria, autore di Istituzioni delle lettere divine ed
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umane; l’iberico Isidoro (560-636), divenuto vescovo di Siviglia, che scrisse Etimologie; il
monaco britannico Beda il Venerabile (673-735), autore di La natura delle cose.
Attraverso questi quattro autori si venne definendo il canone dell’istruzione medievale,
articolato nelle sette arti liberali e nella teologia. Le arti liberali, a loro volta, erano distinte
nelle arti del trivio (o “sermocinali”, cioè della parola): grammatica, retorica, dialettica
(cioè logica); e nelle arti del quadrivio (o “reali”): aritmetica, geometria, musica,
astronomia. Le arti liberali furono intese e praticate come preparazione alla teologia,
ovvero allo studio della rivelazione divina nella sacra scrittura, che era considerata la
conoscenza di più alto livello. Gli unici centri di insegnamento e attività culturali dell’Alto
Medioevo – i monasteri e le poche “scuole cattedratiche” delle poche città sopravvissute –
organizzarono l’istruzione sulla base di questo schema.
La breve rinascita carolingia
Tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo, la cultura europea fu rilanciata dalla fondazione
ad Aquisgrana, per volontà di Carlo Magno, della Schola palatina diretta dal monaco
irlandese Alcuino di York (735-804). Su questa base, fu un altro monaco irlandese,
Giovanni Scoto Eriugena (810-877), maestro di arti liberali a Parigi nell’851, a
produrre un nuovo sviluppo originale in ambito filosofico. Avvalendosi anche dei trattati
dello Pseudo-Dionigi Areopagita, pervenuti da Bisanzio, e da lui tradotti in latino, Scoto
Eriugena scrisse Sulla natura. L’originalità di quest’opera consiste nell’interpretazione
della natura come un ordine gerarchico basato su quattro specie: “quella che crea e non è
creata”, cioè Dio, trascendente e ineffabile, causa prima di tutte le cose; “quella che è creata
e crea”, cioè Gesù Cristo, il Verbo, ovvero l’insieme dei criteri razionali che sono le cause
primarie particolari della natura; “quella che è creata e non crea”, cioè tutti gli enti
naturali; “quella che non crea e non è creata”, cioè Dio come causa finale a cui tutte le cose
tendono e in cui tutte le cose sono destinate a rifluire. In questo senso, anche per Scoto, il
fine della vita umana è unirsi a Dio annullandosi in Lui. Nel 1255 papa Onorio III proibì la
lettura dell’opera di Scoto, bollandola di eresia panteistica.
Il Basso Medioevo: la “disputa sugli universali” e la nascita della Scolastica
Tra la fine del IX e l’inizio del X secolo, la disgregazione dell’impero carolingio, le nuove
invasioni barbariche e l’incastellamento feudale congelarono la rinascita culturale europea.
Dopo due secoli di stasi, nell’XI secolo si ebbe una ripresa della creatività filosofica grazie
alle due opere – Monologio (1076) e Proslogio (1077-8) – frutto dell’ingegno del monaco
Anselmo d’Aosta (1033-1109), che fu il primo filosofo cristiano a dedicarsi
all’elaborazione sistematica e rigorosa di argomentazioni razionali dell’esistenza di Dio
(Vedi più avanti: Rotta su… La scolastica, Tappa 1).
Ma Anselmo d’Aosta è importante nella storia della filosofia medievale anche per aver dato
il via, insieme al monaco francese Roscellino di Compiègne (1050-1120), alla “disputa
sugli universali”, che per la sua lunga durata fu chiamata vexata quaestio (“problema
tartassato”). Roscellino, maestro di logica, sosteneva che gli universali – cioè i nomi
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“collettivi” dei generi e delle specie come “animale”, “cane”, “marrone”, ecc. – fossero solo
delle etichette verbali o grafiche, dei flatus vocis, delle mere emissioni di suoni, prive di
corrispondenza con le cose reali, in quanto queste sono tutte “individui”, cioè sono tutte
differenti le une dalle altre. Il corollario di questa posizione logica era l’interpretazione
religiosa della Trinità come relazione di tre individui separati. Contro questa
interpretazione, da lui considerata eretica, Anselmo si scagliò con foga riaffermando sia il
dogma dell’unità della Trinità sia il fondamento reale degli universali, i quali, secondo lui,
designavano le idee divine – sommamente reali – in base alle quali è avvenuta la creazione
dei generi e delle specie.
Mentre si accendeva così la polemica sugli universali, a partire dalla seconda metà dell’XI
secolo cominciarono a circolare in Europa occidentale le prime traduzioni latine delle
traduzioni arabe di opere dell’antichità classica salvate e conservate da intellettuali arabi, a
cominciare da quelle scientifiche di Ippocrate, Galeno, Euclide. In seguito, di decennio in
decennio, le traduzioni si moltiplicarono, fornendo anche nuovi testi filosofici, soprattutto
di Aristotele, che rivoluzionarono il contesto culturale europeo.
Effetto, ma anche causa, di questo arricchimento del patrimonio filosofico europeo fu un
sempre maggior interesse filosofico per la natura. La filosofia cristiana del secondo
millennio acquisì così una nuova fisionomia rispetto alla Patristica del primo millennio e,
per questo, è stata chiamata “Scolastica”, dal nome che veniva dato ai filosofi-maestri
bassomedievali: scholastici, ossia insegnanti. Mentre la Patristica aveva relegato in
secondo piano la natura, considerandone i fenomeni solo come manifestazioni immediate
e contingenti della volontà di Dio, i filosofi scolastici distinguono tra Dio, come causa
prima della natura, e le “cause seconde”, cioè le forze/leggi naturali, certo create da Dio,
ma autonome e permanenti, e dunque meritevoli di essere studiate in modo indipendente
dalla teologia. In altre parole, mentre prima la filosofia della natura, comprendente le
scienze naturali, era considerata parte della teologia, dal XII secolo diventò sempre più una
conoscenza autonoma, basata su testi propri, ovvero sempre meno dipendente dalla
Bibbia.
Il rafforzamento della Scolastica e la riorganizzazione dell’istruzione
La valorizzazione della natura, e della ricerca naturalistica, si abbinò a una nuova
consapevolezza storica, da parte dei filosofi dell’epoca, del loro ruolo e della loro statura
nella storia della filosofia. Al francese Bernardo di Chartres (XI-XII secolo), maestro in
una delle più importanti scuole cattedrali europee, quella di Chartres appunto, si
attribuisce la paternità di una sentenza emblematica, che verrà poi continuamente ripresa
nel corso della Basso Medioevo e anche in seguito: “Siamo nani sulle spalle di giganti”.
Questa sentenza, esprime il riconoscimento da parte dei filosofi bassomedievali della
propria inferiorità rispetto ai grandi filosofi classici, ma anche la coscienza di essere
arrivati, grazie al proprio originale apporto, più in alto di loro. In altre parole, la filosofia
cristiana bassomedievale si liberò del complesso di inferiorità nei confronti della filosofia
antica. O, quantomeno, cominciò a farlo.
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Sempre nel corso del XII secolo, nelle scuole dei monasteri e delle cattedrali, si venne a
definire un comune metodo didattico incentrato sulla lettura dei testi e scandito in tre
gradi: 1) comprensione della “lettera”, cioè la struttura semantica e sintattica; 2)
comprensione del “senso”, cioè il significato superficiale; 3) comprensione della
“sentenza”, cioè il significato più profondo. La sentenza era integrata dal “commento” del
maestro, che, se si ampliava a un’intera opera, prendeva il nome di “glossa”. Inoltre nacque
e si diffuse un nuovo tipo di scuola, quello dei “canonici regolari”, una comunità di chiericimaestri che vivevano insieme in città in base a una regola, alla maniera dei monaci, pur
non essendo monaci.
Ma una novità ancora più rivoluzionaria fu quella sancita dal maestro canonico francese
Ugo di San Vittore (1096-1141), ovvero l’introduzione, come oggetto degli studi, a fianco
delle arti liberali, delle arti meccaniche, fissate anch’esse nel numero di sette: arte della
lana, architettura (comprendente l’arte militare), navigazione, agricoltura, caccia e pesca,
medicina, teatro. Queste, secondo Ugo di San Vittore, pur essendo inferiori alle arti
liberali, dovevavo avere piena dignità conoscitiva perché miglioravano la vita materiale
dell’uomo permettendogli di dedicarsi meglio e con più tempo a Dio. Naturalmente, rimase
sempre fermo per Ugo di San Vittore, che la regina di tutte le discipline conoscitive era la
teologia, fine ultimo sia dello studio delle arti liberali sia dello studio delle arti meccaniche.
La prima reazione della tradizione patristica
Nel XII secolo, la nascita di nuovi ordini benedettini, animati dalla volontà di tornare al
rigore morale originario della regola benedettina, come quelli dei certosini e dei
cistercensi, da un lato portò alla conferma della valorizzazione del lavoro manuale e delle
arti meccaniche, dall’altro, a livello propriamente filosofico, innescò una reazione contro la
nuova tendenza alla ricerca naturalistica, e alla valorizzazione della ragione, e a favore
invece della tradizionale visione della natura come espressione della imperscrutabile, e
quindi mai definitiva, volontà di Dio, e quindi del primato della fede anche in ambito
naturale. Esponente di spicco di questa reazione fu il monaco cistercense francese
Bernardo di Clairvaux (1091-1153), soprannominato “doctor mellifluus”. Egli sostenne
che autentica conoscenza è solo quella che permette all’uomo di ottenere la salvezza e che
dunque la scienza della natura è solo vana curiositas e presunzione. Più in generale,
Bernardo negò che la ragione potesse servire per dimostrare l’esistenza di Dio e
comprenderne l’identità, e sostenne l’uso della ragione unicamente come strumento
interpretativo della sacra scrittura, ovvero come mezzo di potenziamento della fede. E’ solo
la fede, in tal senso, che, secondo Bernardo, ci porta a Dio, non nella modalità razionale
della sua conoscenza teoretica, ma nella modalità estatica dell’unione mistica con lui.
L’indirizzo innovativo della Scolastica, basato sulla rivalutazione della ragione come
strumento di indagine autonomo dalla fede, fu rilanciato dall’antagonista di Bernardo di
Clairvaux sulla scena filosofica della prima metà del XII secolo, il chierico, prima, e poi
monaco francese Pietro Abelardo (1079-1142), discepolo di Roscellino di Compiègne ma
anche del maestro canonico parigino Guglielmo di Champeaux, il quale, nella disputa sugli
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universali, si era contrapposto al “nominalista” Roscellino, e si era schierato al fianco del
“realista” Anselmo d’Aosta, affermando l’esistenza reale degli universali come idee di Dio.
Abelardo pur aderendo al nominalismo, ne elaborò una versione più moderata di quella di
Roscellino, sostenendo che gli universali, benché non significhino alcunché di reale, non
sono nemmeno solo delle emissioni di suoni o delle composizioni grafiche, ma designano
dei concetti, cioè dei contenuti mentali che la mente umana produce artificialmente
associando “individui” simili. Per esempio, l’universale “cane”, per Abelardo non designa
l’insieme reale dei cani fisici – che non può esistere perché ogni cane è diverso da ogni
altro – ma l’insieme razionale dei cani prodotto dalla mente umana facendo astrazione
dalle loro differenze individuali e isolando le loro proprietà comuni. Per distinguerli, in
seguito il nominalismo radicale di Roscellino fu chiamato “vocalismo”, quello moderato di
Abelardo “concettualismo”.
Ma, soprattutto, Abelardo sostiene che la logica, chiamata allora “dialettica”, doveva essere
posta a fondamento dell’interpretazione della stessa Bibbia, dal momento che le autorità
intellettuali della Chiesa, cioè i filosofi patristici, avevano spesso dato interpretazioni tra
loro discordanti, mentre l’interpretazione della verità divina non può che essere univoca.
Proprio per questo le opere di Abelardo furono più volte accusate di eresia ed egli stesso
dovette bruciare una di esse, la Teologia del sommo bene, in seguito alla condanna del
concilio di Soissons (1121).
La filosofia di Abelardo, però, è innovativa anche in ambito etico. Abelardo, infatti,
argomentò efficacemente che il peccato, cioè l’agire immorale, non consiste nel
comportamento fisico esteriore, ma nell’intenzione e nei sentimenti interiori: p.e., nel caso
del peccato di lussuria, il peccato non consiste nel cedere effettivamente al desiderio
carnale, ma nel provare questo desiderio stesso e nel voler soddisfarlo, anche se poi non ci
si riuscisse.
La fioritura della Scolastica: “università”, francescani e domenicani
A partire dalla seconda metà del XII secolo, la situazione culturale europea fu
ulteriormente innovata dalla nascita dei primi “studi” (Salerno, Bologna, Parigi, Oxford) e
dalla loro moltiplicazione, soprattutto nel corso del XIII secolo, nella forma giuridicoorganizzativa di corporazioni di docenti e discenti, che presero il nome di universitas
magistrorum et scholarium. L’iter scolastico era organizzato in quattro facoltà: a un livello
inferiore la facoltà delle sette arti liberali, a livello superiore Medicina, Diritto e infine
Teologia, che era considerata la facoltà di massimo livello. L’attività didattica era
imperniata sulla lectio (la lezione), la lettura commentata di un libro, e la disputatio, la
discussione che era impostata e avviata da una quaestio, cioè dalla formulazione di un
problema relativo a una tesi del libro letto. Da questa nuova attività nacquero i
“commenti”, decisamente più originali e ampi di quelli dei maestri delle scuole monastiche
o cattedrali, e che spesso consistevano in raccolte di “questioni”, che venivano titolate
“somme” quando si consideravano esaustive dello scibile di una disciplina.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
La diffusione delle “università” fu il sintomo di un processo ancora più importante: la
graduale laicizzazione degli studenti ma anche degli insegnanti (soprattutto in Italia), e
quindi dell’attività e della produzione culturale. In questo senso, le università nacquero
dall’esigenza di una maggiore autonomia culturale di nuovi insegnanti e nuovi studenti
rispetto al controllo esercitato dalle autorità locali, in particolare dai vescovi. Dato il potere
di questi ultimi, le università riuscirono ad affermarsi soprattutto grazie all’appoggio del
Papato, che a sua volta era impegnato in un processo di centralizzazione a proprio favore di
ogni potere religioso e politico europeo. Da questo punto di vista, furono emblematici
l’istituzione, intorno al 1160, da parte del papa Alessandro III della licentia docendi, che
concludeva (a mo’ della nostra attuale laurea) l’iter degli studi universitari conferendo
l’autorizzazione a insegnare; e l’emanazione da parte di Gregorio IX della bolla Parens
scientiarum (1231) che sancì l’indipendenza delle università rispetto ai vescovi.
Un ulteriore cambiamento nel cambiamento fu, sempre dall’inizio del XIII secolo, la
costituzione dei due nuovi ordini dei francescani e dei domenicani, molti dei quali
divennero col tempo maestri universitari, acquistando sempre più importanza e
impremendo, soprattutto i domenicani, un indirizzo innovativo alla ricerca filosofica.
L’irruzione delle opere di Aristotele e lo scontro tra aristotelici e
antiaristotelici
Ma il fiorire della Scolastica nel XIII fu favorito, o quantomeno radicalizzato, dall’afflusso
sempre più massiccio, nel medesimo periodo, delle traduzioni delle opere di Aristotele, in
gran parte sconosciute in Europa, cui si aggiunsero i commentari delle opere aristoteliche
dei filosofi islamici Ibn Sina (latinizzato in Avicenna) e Ibn Ruschd (latinizzato in Averroè).
Nella prima metà del 1200, l’uso dei testi aristotelici fu avversato e limitato da vescovi e
abati tradizionalisti – fino ad allora la filosofia di riferimento della Chiesa era stata quella
di Agostino, di impianto neoplatonico – ma anche dai papi, che ammettevano lo studio
delle opere aristoteliche nella facoltà inferiore delle Arti ma erano contrari al loro uso in
ambito teologico. In altre parole, la razionalità aristotelica era accettata se riferita al
mondo terreno, ma rigettata nella sua pretesa di parlare di Dio. In ogni caso, a partire
all’incirca dalla metà del 1200 i divieti di studio dei testi aristotelici nelle facoltà delle Arti
caddero e anzi essi vennero inseriti nel curriculum obbligatorio di studio.
Al di là dei divieti delle autorità ecclesiastiche, la circolazione dei testi aristotelici scatenò
una vera e propria guerra filosofica tra i maestri universitari. La filosofia di Aristotele,
infatti, contiene almeno tre tesi incompatibili con la dottrina cristiana: 1) l’eternità del
cosmo; 2) la mortalità dell’intelletto potenziale, cioè dell’anima razionale individuale; 3) la
possibilità per l’uomo di raggiungere una piena felicità nella dimensione terrena in base a
una vita dedita alla conoscenza. Nello scontro dialettico intorno a questi tre temi, i maestri
tradizionalisti sostennero l’impossibilità di conciliare Aristotele con la fede e quindi la
necessità di rigettarne gli scritti; i maestri innovativi, invece, perorarono la causa della
conciliabilità, sulla base di alcune revisioni parziali del pensiero aristotelico, e sostennero
quindi l’esigenza di accogliere la filosofia aristotelica e anzi di farne il nuovo fondamento
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razionale della fede, in quanto più efficace di quello agostiniano-neoplatonico tradizionale.
Da questo punto di vista, più in generale, sostituire l’impianto agostiniano-neoplatonico
con un nuovo impianto aristotelico significava rinunciare alla concezione dei fenomeni
naturali come semplici segni della volontà divina a favore di una concezione della natura
come un ordine razionale dotato di proprie leggi, certo così creato da Dio, ma autonomo da
lui.
Nel corso del XIII secolo, la contrapposizione tra tradizionalisti antiaristotelici e innovatori
aristotelici sempre più venne a coincidere con quella tra francescani e domenicani. Furono
infatti soprattutto i maestri del nuovo ordine domenicano ad accogliere le opere
aristoteliche e a utilizzarle per elaborare una nuova dottrina cattolica della natura e di Dio.
E furono invece i maestri del pur altrettanto nuovo ordine francescano a contestare questa
nuova dottrina e non solo a difendere la tradizionale dottrina agostiniano-neoplatonica
della natura e di Dio ma anche a rilanciarla, rielaborandola originalmente e perfino
utilizzando a tal fine spunti aristotelici. In questo senso, anche i francescani, benché
difensori della tradizione, furono in realtà degli innovatori. La polemica
domenicani/francescani aveva comunque la sua radice nel diverso modo di concepire il
rapporto ragione/fede: mentre i domenicani tendevano a dare più peso alla ragione, i
francescani rivendicavano la superiorità della fede, valorizzando maggiormente la facoltà
pratica della volontà connessa con il sentimento dell’amore.
Il primo promotore ed elaboratore della cristianizzazione della filosofia aristotelica fu il
domenicano tedesco Alberto di Lauingen (12oo-1280), detto Alberto Magno per la
superiorità delle sue capacità intellettive. Per difendersi dal sospetto di eresia, Alberto
Magno fondò la sua riabilitazione di Aristotele sul presupposto di una netta distinzione tra
la filosofia, che ha come compito la conoscenza razionale delle leggi della natura, e quindi
può e deve avvalersi della scienza aristotelica; e la teologia, il cui fine è la conoscenza di Dio
basata sulla comprensione della sua rivelazione nelle sacre scritture, per la quale la
filosofia aristotelica non ha alcun valore. Su questa base, in particolare, Alberto Magno
reinterpretò originalmente la teoria aristotelica dell’anima razionale, sostenendo la
possibilità, grazie a una vita sempre più dedita alla conoscenza, che l’intelletto potenziale si
assimili all’intelletto agente fino a coincidere con esso. E, poiché l’intelletto agente è
l’ordine razionale con cui Dio ha creato il mondo, il filosofo, per Alberto Magno, può
rendersi simile a Dio e conseguire la massima felicità terrena, fermo restando che questa
rimane inferiore a quella celeste.
Il principale avversario dell’aristotelismo, e quindi di Alberto Magno, fu il francescano
laziale Bonaventura da Bagnoregio (1217-1274), il cui nome deriva dalla guarigione da
una grave malattia infantile ottenuta in seguito al tocco della mano di Francesco d’Assisi,
che poi gli augurò una “buona sorte”. Va però evidenziato che Bonaventura, come gli altri
filosofi francescani, non rigettò la filosofia di Aristotele come tale, di cui anzi in parte
anche lui si avvalse, ma l’abuso che, secondo lui, ne facevano i filosofi domenicani e che
finiva per ridurre e deformare la fede a tutto vantaggio di una superba sopravvalutazione
della capacità della ragione teoretica dell’uomo.
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Secondo Bonaventura, le arti meccaniche e quelle liberali, cioè le scienze terrene, vanno
apprese ma solo in quanto mezzi per arrivare ad acquisire la teologia, e questa, a sua volta,
deve essere appresa solo in quanto una scienza pratica finalizzata alla comprensione della
“sapienza perfetta”, cioè delle sacre scritture. Lo studio delle sacre scritture deve
comprenderne i quattro sensi: 1) quello letterale, 2) quello allegorico, che svela le verità
ultraterrene, 3) quello morale, che ci indica come comportarci; 4) e, infine, il più
importante, quello anagogico, che eleva l’anima umana a Dio rendendola sempre più
simile a lui, e che dunque rappresenta il massimo livello e il fine ultimo della conoscenza.
Seguendo questo iter conoscitivo, si giunge a comprendere, secondo Bonaventura, che Dio
ha creato il mondo dal nulla; non ab aeterno, ma nel tempo; senza ricorrere a potenze
angeliche intermedie, ma solo al Verbo, cioè alla sua seconda persona, ossia sempre a se
stesso; e “come un’opera d’arte”, cioè come un libero prodotto della sua volontà
onnipotente, ovvero senza sottostare a leggi naturali di qualsiasi genere. La materia creata
da Dio, per Bonaventura, è originariamente luce, e può assumere due forme: la materia
spirituale, inestesa e incorruttibile, propria degli angeli e delle anime umane, e la materia
corporea, estesa e corruttibile, propria dei corpi umani e di tutte le cose fisiche. La capacità
della materia di assumere diverse forme razionali deriva sia dalla luce, cioè da Dio, sia dai
semi razionali di ogni cosa che Dio ha posto in essa. La materia non è dunque solo passiva
e potenziale, ma anche parzialmente attiva. In questo senso, le “cause seconde”, cioè le
leggi naturali, non sono l’unica causa dei fenomeni naturali, in quanto esse producono
effetti solo grazie alla loro connessione con i semi razionali immessi nella materia da Dio.
Quanto all’uomo, Bonaventura afferma che il corpo umano possiede già una sua forma, che
gli dà la vita, cui si aggiunge l’anima individuale, una sostanza separata dal corpo, a sua
volta composta da materia spirituale che assume la forma vegetativa, quella sensitiva e
infine quella razionale. L’intelletto passivo e quello agente appartengono entrambi
all’anima individuale che, come tale, è immortale.
Ma l’opera più significativa di Bonaventura, Itinerario della mente in Dio (1259), è
dedicata alla descrizione del cammino di ascesa che l’uomo può compiere fino a
raggiungere Dio già durante la vita terrena. Tale cammino si basa sull’acquisizione
progressiva di sei facoltà conoscitive cui corrispondono altrettanti livelli di realtà: 1) il
senso, che scopre nelle cose fisiche le impronte di Dio in quanto loro creatore; 2)
l’immaginazione, con la quale le sensazioni si depositano nell’anima, e che, unita al senso,
produce la “contuizione”, cioè la conoscenza di Dio in quanto presente nel mondo fisico; 3)
la conoscenza dell’impronta divina nell’anima umana, che è trina come Dio: la memoria,
corrispondente alla persona trinitaria del Padre; l’intelletto, corrispondente al FiglioVerbo; la volontà di amare, corrispondente allo Spirito Santo; 4) la conoscenza di Dio in
quanto presente nelle tre supreme virtù dell’anima: fede, speranza, carità; 5) la conoscenza
di Dio trascendente in quanto essere; 6) la conoscenza di Dio trascendente in quanto bene;
7) l’estasi d’amore, cioè l’unione mistica con Dio che presuppone l’abbandono di ogni
razionalità (“la luce”) a favore del puro slancio amoroso (“il fuoco”).
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Un altro importante filosofo francescano del XIII secolo fu l’inglese R o b e r t o
Grossatesta (1168-1253), il quale elaborò una teoria della luce come prima forma data da
Dio alla materia e quindi come prima e fondamentale causa naturale della costituzione del
cosmo fisico. Qust’ultimo, infatti, secondo Grossatesta, nacque dall’espansione della luce in
tutte le direzioni che produsse la conformazione sferica del cosmo e i dieci cieli in cui è
suddiviso in base a dieci diversi gradi di rarefazione della materia ad opera della luce: il
decimo e ultimo cielo, quello del firmamento, è il più rarefatto, mentre la regione sotto il
primo cielo, quello della Luna, cioè la regione terrena, è costituita dalla massima
condensazione della materia. In questo modo Grossatesta conciliò la narrazione biblica
della creazione con la fisica aristotelica, riproponendo la divisione del cosmo in due
regioni: quella celeste, priva di divenire, e quella terrestre, in cui domina il divenire.
Tuttavia, per un altro decisivo aspetto, Grossatesta si rifece alla tradizione pitagoricoplatonica, sostenendo che, poiché la luce si muove in linea retta secondo leggi otticogeometriche, il cosmo ha un ordine di tipo matematico e quindi le scienze della natura
devono essere matematiche.
Seguace e continuatore di Grossatesta, fu il francescano inglese Ruggero Bacone (12101292), la cui ricerca filosofica fu ispirata all’idea che fosse interesse e compito della Chiesa
promuovere lo sviluppo scientifico e tecnico della cristianità. Fondendo Agostino e
Aristotele interpretato da Avicenna, Bacone teorizzò che l’intelletto umano si divide in un
intelletto potenziale, che fa parte dell’anima individuale, e in un intelletto agente, che è
esterno all’anima individuale, in quanto è lo stesso intelletto divino. Attraverso il suo
intelletto agente, Dio, secondo Bacone, illuminò i Patriarchi biblici (Abramo, Mosè, ecc.)
non solo relativamente alle verità trascendenti ma anche riguardo alla verità naturale,
dando così origine alla filosofia. Questa poi sarebbe stata trasmessa dagli ebrei ai Greci e,
successivamente, dai Greci agli arabi per arrivare infine alla cristianità europea. Di
conseguenza, per Bacone, i nuovi testi di Aristotele e dei suoi commentatori arabi erano del
tutto compatibili con il cristianesimo in quanto provenienti da Dio. Più in generale,
secondo Bacone, la ricerca filosofica, cioè l’indagine razionale della natura, era voluta e
ispirata da Dio e quindi era un’attività doverosa per ogni intellettuale cristiano. In questo
senso, sulle orme di Grossatesta, Bacone sostenne che la ricerca scientifica deve avvalersi
della matematica, ma al contempo deva anche basarsi sempre sulla verifica dell’esperienza.
D’altra parte, anche per Bacone il fine ultimo della filosofia come conoscenza della natura
doveva essere la filosofia morale, la quale ha il compito di rendere l’uomo buono e quindi
meritevole della salvezza ultraterrena. Benché, dunque, Bacone non mettesse in
discussione il primato della dimensione trascendente, e quindi della teologia e della fede,
nel 1277 fu imprigionato e poi incarcerato per una decina di anni, con l’accusa di
stregoneria ed eresia.
La versione di maggior successo dell’aristotelismo cristiano: il tomismo
Il filosofo che interpretò con maggiore ampiezza, profondità e potenza argomentativa la
svolta aristotelica della filosofia cristiana bassomedievale fu il domenicano laziale e
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maestro di teologia dell’università di Parigi Tommaso d’Aquino (1224-1274), il quale
diede origine a un nuovo indirizzo filosofico, il “tomismo”, ancor oggi seguito e attualizzato
da molti filosofi cristiani. Come Agostino aveva reinterpretato la tradizione neoplatonica,
trasformandola nel fondamento filosofico della fede cristiana, così Tommaso, pur
avvalendosi anche di elementi agostiniano-platonici, reinterpetò la filosofia aristotelica,
depurandola di tutte le tesi antitetiche ai dogmi cristiani e ponendola così al servizio della
dottrina cattolica. Rispetto alla tradizione agostiniana-neoplatonica, il tomismo valorizzò
maggiormente la razionalità teoretica sia relativamente all’uomo sia in riferimento a Dio e
alla natura da lui creata. Tommaso infatti sostenne che Dio ha creato il mondo in base a
criteri razionali unici e insostituibili e che pertanto i fenomeni naturali dipendono solo da
leggi naturali razionalmente conoscibili. In questo modo il tomismo si poneva in aperta
concorrenza con la tradizione patristica, rielaborata e rilanciata soprattutto, come si è
visto, dai filosofi francescani. Non a caso la filosofia tomistica, per tutta la seconda metà
del XIII secolo, fu fortemente avversata da maestri universitari e vescovi, e addirittura nel
1277, tre anni dopo la morte di Tommaso d’Aquino, alcune sue tesi furono condannate
ufficialmente dall’arcivescovo di Canterbury, che pure era un domenicano. Tuttavia, nel
1323 Tommaso d’Aquino fu dichiarato santo dalla chiesa cattolica e due anni dopo furono
revocate tutte le condanne delle sue tesi. Questo rovesciamento della posizione delle alte
gerarchie ecclesiastiche segnò la vittoria del tomismo che in seguito egemonizzò sempre
più ampiamente la filosofia cristiana. (Vedi più avanti: Rotta su… La scolastica, Tappe da 2
a 6.)
L’aristotelismo radicale e la sua condanna ufficiale per eresia
Tommaso d’Aquino non fu l’unico è tantomeno il più radicale aristotelico della sua epoca.
Nella seconda metà del 1200, infatti, la filosofia di Aristotele fu esaltata e promossa nella
sua integralità, ovvero senza espunzioni e revisioni che la conciliassero con la dottrina
teologica cristiana, da due grandi “maestri delle Arti” dell’università di Parigi, cioè docenti
universitari che insegnavano le sette discipline “liberali”, il laico fiammingo Sigieri di
Brabante (1235-1284) e il danese Boezio di Dacia (le date di nascita e di morte sono
ignote) che dopo la condanna delle sue tesi nel 1277 entrò nell’ordine domenicano.
Sigieri di Brabante fu assertore dell’interpretazione averroistica della filosofia aristotelica,
in particolare per quanto riguarda l’anima dell’uomo: a differenza di Tommaso, che aveva
affermato l’unità dell’intelletto e del corpo, secondo Sigieri, la parte razionale dell’anima,
cioè l’intelletto (sia potenziale sia attuale), essendo immateriale, è del tutto separata dal
corpo e dunque non è individuale, ma universale. In altre parole, Sigieri sostenne che
esiste un unico intelletto per tutti gli uomini. Questa tesi era in palese contrasto con la
dottrina cattolica dell’individualità, ovvero della personalità, dell’anima razionale,
fondamento sia della responsabilità morale sia dell’immortalità dell’anima di ogni singolo
uomo. Sigieri, tuttavia, teorizzava che, a livello filosofico, ossia scientifico, si poteva e si
doveva accettare una tesi razionale, anche se in contrasto con la rivelazione, salvo
riconoscere che l’unica verità è quella che scaturisce dalla fede, e che è depositata nella
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
dottrina teologica cristiana, e quindi alla fine giudicare false tutte le tesi filosofiche in
contrasto con la rivelazione. In altre parole, per Sigieri la filosofia, cioè la conoscenza
razionale dell’uomo riferita alla dimensione terrena, deve essere autonoma dalla teologia,
cioè dalla conoscenza ispirata da Dio del mondo ultraterreno, ma non può e non deve
essere considerata certa, ma soltanto probabile, e quindi deve essere subordinata alla
verità certa della teologia. Dunque, anche per Sigieri l’ultima parola spetta alla fede.
Tuttavia, la sua filosofia fu duramente attaccata dallo stesso Tommaso d’Aquino e gli costò
un processo inquisitoriale per eresia, alla cui condanna si sottrasse solo perché morì prima
della sua conclusione.
L’aristotelismo radicale di Boezio di Dacia è, invece, incentrato sulla tesi dell’eternità del
cosmo. Boezio argomentò che la filosofia, basata sulla conoscenza razionale del mondo
naturale, non può che arrivare alla conclusione che dall’eternità devono esistere
necessariamente un primo motore immobile e la materia. Ma la rivelazione, depositaria
della verità, attesta che il cosmo è nato dalla creazione volontaria di Dio, e dunque che non
è eterno. Ora, la filosofia, cioè la ragione umana, non può confutare la rivelazione perché
non sa nulla su come Dio abbia voluto creare il primo motore immobile e la materia, in
quanto tutto ciò che concerne Dio trascende il mondo fisico. Dunque la filosofia, secondo
Boezio, non può dimostrare né che Dio ha creato il mondo ab aeterno né che l’ha creato in
un certo istante nel tempo. In altre parole, per Boezio la questione se il mondo sia eterno o
temporaneo è irrisolvibile a livello di razionalità filosofica. Non rimane pertanto che
affidarsi alla rivelazione, cioè credere per fede che il mondo non sia eterno, rinunciando
però alla pretesa di voler corroborare razionalmente questa tesi e ammettendo che, a
livello puramente razionale, cioè considerando solo le cause naturali del mondo, si deve
concludere che esso è eterno. La commissione inquisitoriale istituita dal vescovo di Parigi
nel 1277 accusò per questo Boezio di sostenere due verità in contraddizione tra loro e ne
condannò come eretiche le tesi. Alla base della condanna ci fu però anche la volontà di
colpire la presunzione dei maestri delle Arti, ovvero dei filosofi, i quali sostenevano anche
che i filosofi erano gli unici uomini in grado di raggiungere la felicità già nella dimensione
terrena, finendo, almeno agli occhi delle autorità ecclesiastiche, per considerarsi migliori
dei santi e dei teologi.
La nuova controffensiva antiaristotelica dei francescani tra XIII e XIV secolo
In connessione con le condanne ufficiali, che culminano nel 1277 con quelle del vescovo di
Parigi e del vescovo di Oxford, ma anche autonomamente da esse, fu sferrata una vera e
propria controffensiva filosofica contro il tomismo da parte soprattutto dei francescani. In
altre parole, durante i secoli XIII e XIV, quelli della sua maggiore fioritura, la scolastica si
sviluppò grazie allo scontro tra tomismo domenicano, ovvero un neoaristotelismo
cristiano, e neoagostinismo francescano, ovvero un neoplatonismo cristiano. Va però
ribadito che entrambi gli schieramenti contaminarono tesi e argomenti l’uno dell’altro:
così come i tomisti utilizzarono anche ingredienti agostiniano-neoplatonici, i
neoagostiniani fecero uso di elementi aristotelici. In entrambi i casi, però, gli uni e gli altri
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poterono avvalersi di tesi e argomenti mutuati dall’armamentario filosofico avverso solo
interpretandoli in modo coerente con il proprio: i tomisti interpretando aristotelicamente
tesi e argomenti agostiniano-neoplatonici; i neoagostiniani interpretando
neoplatonicamente tesi e argomenti aristotelici.
A maggior ragione, è importante definire chiaramente le divergenze fondamentali tra i
tomisti e i neoagostiani: 1) i primi davano più peso all’intelletto, e quindi alla conoscenza
teoretica, i secondi alla volontà e quindi alla conoscenza pratico-morale; 2) quelli
valorizzavano l’autonomia naturale della capacità conoscitiva dell’uomo, questi la
subordinavano all’illuminazione divina; 3) gli uni enfatizzavano le cause seconde del
mondo e quindi l’indipendenza e il carattere necessario delle leggi della natura; gli altri Dio
come causa prima ed unica e quindi la contingenza della natura, cioè la sua dipendenza
dall’imprevedibile volontà divina; 4) i primi consideravano la teologia una scienza
speculativa, cioè che ha come scopo la conoscenza di Dio, i secondi una scienza pratica,
cioè che ha come scopo amare Dio; 5) i tomisti ritenevano possibile raggiungere una
beatitudine terrena grazie alla conoscenza, i neoagostiniani che il peccato originale
impedisse all’uomo di conseguire una beatitudine terrena e che dunque l’uomo dovesse
confidare solo nella grazia divina e sperare, come unica beatitudine possibile, in quella
ultraterrena.
Nell’ultimo scorcio del XIII secolo, il più significativo esponente della reazione
neoagostiniana al tomismo fu il francescano scozzese Giovanni Duns Scoto (12661308), detto “dottor sottile” in onore della sua capacità argomentativa. Duns Scoto
sostenne, innanzitutto, una netta distinzione tra teologia e filosofia: essendo la prima
basata sulla rivelazione divina e la seconda sulla ragione, nessuna delle due può confutare
l’altra ma nemmeno supportarla. In secondo luogo, Duns Scoto suddivise la teologia in
“teologia in sé”, riguardante l’inconoscibile essenza di Dio, e la “teologia nostra”,
riguardante le caratteristiche divine che Dio ci ha rivelato nelle sacre scritture e che
dunque siamo in grado di comprendere. In ogni caso, il fine della teologia è farci amare Dio
per ottenere la salvezza e in tal senso la teologia è una scienza pratica, che non ha nulla a
che vedere con la scienza teorica della natura, cioè la filosofia.
Tuttavia, Duns Scoto ammise ed elaborò una forma di filosofia “metafisica” come scienza
dell’essente in quanto essente, complementare alla teologia. La scienza metafisica non deve
basarsi, come per Aristotele, sull’esperienza sensibile, ma sul ragionamento puro a partire
dal concetto di essente, ovvero di essere, il più generale e indeterminato. All’essere devono
essere attribuite tre proprietà fondamentali: la causalità, il finalismo, la perfezione; da
ognuna di esse Duns Scoto deduce l’esistenza di un essere primo, semplice, cioè di un’unica
sostanza razionale priva di parti, dotato di intelletto e volontà, infinito. In questo modo la
metafisica giunge a risultati che si accordano con la teologia, ma senza esaurirla. Infatti
l’essere dimostrato dalla metafisica si avvicina al Dio della rivelazione cristiana, tuttavia
Dio è molto di più. Per esempio, all’essere primo non possono venire razionalmente
attribuiti l’onnipotenza, l’ubiquità, l’onniscienza proprie del Dio cristiano e ricavabili solo
dalle sacre scritture. In questo senso, se la filosofia argomenta l’esistenza di “cause
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seconde” autonome della natura, la teologia afferma che Dio avrebbe potuto creare anche
altri tipi di cause seconde, oppure avrebbe anche potuto non crearle. Insomma, Dio, per
Duns Scoto, non è minimamente vincolato ai criteri razionali che egli stesso ha scelto
liberamente e può dunque cambiarli quando e come vuole. L’unico suo limite è che non
può contraddirsi.
Un’importante scelta creativa di Dio è stata, secondo Duns Scoto, quella di attribuire a tutti
gli essenti l’individualità, cioè quella che Duns Scoto chiama heacceitas (da haec, questo),
letteralmente “questità”. In altre parole, ogni cosa possiede una forma individuale che la
differenzia da tutte le altre. Gli universali (generi e specie) sono solo delle astrazioni
mentali, ma sono tutt’altro che prive di significato conoscitivo, perché possiamo conoscere
gli individui solo per differenza rispetto alla specie e al genere in cui li includiamo.
Dalla “metafisica della luce” alla “mistica della luce”
Tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV ebbe un ulteriore sviluppo un indirizzo
scolastico che si può denominare “metafisica della luce”. Iniziato da Alberto Magno e
ripreso da Roberto Grossatesta, fu poi rilanciato dal domenicano tedesco Ulrico di
Strasburgo (1220-1267), allievo di Alberto Magno, il quale sostenne l’identità di luce,
essere e intelligenza, e rielaborato dal domenicano tedesco Teodorico di Vriberg (12501310), il quale si avvalse anche della filosofia tardo-neoplatonica di Proclo, tradotto in
latino a partire dal 1260, e coniugò i contenuti metafisici e teologici platonico-agostiniani e
aristotelici con il metodo scientifico teorizzato e usato da Grossatesta e Bacone. Teodorico,
in particolare, argomentò che l’intelletto individuale è intelletto agente e, come tale, può
arrivare alla conoscenza di tutte le cose.
La “metafisica della luce” fu ulteriormente sviluppata in una “mistica della luce” da un
altro domenicano tedesco, Johannes Eckhart, detto Meister Eckhart (1260-1327), che
sostenne che Dio crea l’essere ma non è essere, è del tutto irraggiungibile razionalmente e
dunque attingibile solo abbandonando ogni cosa finita, e lo stesso io, fino a trovarlo nel
fondo della propria anima. (Vedi più avanti: Rotta su… La scolastica, Tappa 7.)
La confutazione del tomismo e l’inizio della fine della Scolastica
Nella prima metà del 1300, la filosofia di Duns Scoto fu ripresa e sviluppata in modo tanto
originale quanto radicale dal francescano inglese Guglielmo di Ockham (1280-1349) il
quale sostenne la completa indipendenza della filosofia e della teologia, e il carattere
assolutamente arbitrario e irriducibile alla ragione umana della creazione divina,
propugnando così la superiorità e l’irrazionalità della fede, ma anche l’autonomia e il
valore della conoscenza scientifica della natura, del tutto priva di significati religiosi.
Ockham confutò così la metafisica tomistica e mise in dubbio le tesi scientifico-metafisiche
tradizionali (il geocentrismo, la temporalità, l’unicità e la finitezza del cosmo) aprendo le
porte alla filosofia rinascimentale e alla rivoluzione scientifica moderna. (Vedi più avanti:
Rotta su… La scolastica, Tappe da 8 a 11.)
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
La filosofia politica del XIV secolo
Nella prima metà del XIV secolo emerse invece un filone di pensiero tendente ad attribuire
un’autonomia alla filosofia politica e a contrapporsi alla ierocrazia cattolica. Il grande
poeta, ma anche filosofo, fiorentino Dante Alighieri (1265-1321), in Monarchia, teorizzò
che l’uomo ha due fini pratici: la felicità nella vita terrena, simboleggiata dal paradiso
terrestre, e perseguibile con la ragione umana, ovvero con la filosofia; la beatitudine nella
vita ultraterrena, simboleggiata dal paradiso celeste, e raggiungibile con la grazia divina
propiziata dalla fede. Da questa distinzione conseguiva per Dante la netta separazione tra
Impero e Chiesa e la superiorità dell’Impero per tutto ciò che attiene l’organizzazione
sociale nella dimensione terrena. Il maestro delle arti, ma anche funzionario politico e
medico, Marsilio da Padova (1275-1343) nel Difensore della pace (1324) sostenne che
l’esercizio del potere politico da parte della Chiesa è contrario al piano provvidenziale di
Dio e che lo Stato non si fonda su principi religiosi ma sulla volontà dei cittadini che si
traduce nel “diritto positivo”, cioè nelle leggi che storicamente vengono stabilite e
applicate. Marsilio argomentò anche che la monarchia elettiva è la migliore forma di
governo e che la validità ed efficacia delle leggi deve basarsi su una scrupolosa procedura
includente molti passaggi affidati a diversi gruppi di esperti. Infine il teologo inglese John
Wyclif (1324-1384) teorizzò che la Chiesa deve essere radicalmente povera e dedita
unicamente alla sua missione spirituale. Tuttavia, poiché gli uomini che compongono la
Chiesa sono soggetti al peccato, essa può corrompersi e per questo occorre che lo Stato
eserciti un controllo su di essa. Dunque la Chiesa deve essere sottomessa allo Stato.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA
Alcuni confratelli mi pregarono ripetutamente e con insistenza di scrivere per
loro, come esempio di meditazione, le cose che avevo loro esposto, parlando
con linguaggio usuale, intorno all’essenza di Dio e ad alcuni altri argomenti
connessi con questa meditazione. E, badando più al loro desiderio che alla
difficoltà della cosa o alla mia possibilità, mi prescrissero questo metodo nello
scrivere la meditazione: che nulla vi fosse persuaso con l’autorità della
Scrittura, ma tutto ciò che si concludesse in ogni singola investigazione fosse
dimostrato brevemente con argomenti necessari e manifestato apertamente
dalla luce della verità; e tutto ciò con stile piano e argomenti accessibili a tutti
e con semplice discussione. Vollero pure che non trascurassi di risolvere le
obiezioni che si potessero presentare, anche le più semplici e apparentemente
sciocche.
Anselmo d’Aosta, Monologion, Prologo, in Monologio e Proslogio, Bompiani, 2002
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ROTTA SU…
LA SCOLASTICA
Nel 999, l’imperatore Ottone III impose l’elezione a pontefice, col nome di Silvestro II,
dell’abate francese Gerberto d’Aurillac (950-1003), grande matematico e astronomo
formatosi in Spagna sui testi filosofici e scientifici conservati e prodotti dalla civiltà
islamica. Il pontificato di Silvestro II fu effetto e causa di una maggiore valorizzazione da
parte della Chiesa cattolica della conoscenza razionale e in questo senso l’elezione di
Silvestro II può essere convenzionalmente assunta come l’inizio di una nuova fase della
filosofia cristiana medievale, quella della filosofia scolastica. In questo senso,
schematizzando, si può dividere il pensiero cristiano medievale in due indirizzi, la
Patristica, che si sviluppò nella tarda età romana e nell’Alto Medioevo, e la Scolastica,
che fiorì nel corso del Basso Medioevo.
Il nome “Scolastica” deriva dalle “scuole” per la formazione del clero, quelle dei monasteri
per il clero regolare e quelle delle chiese cattedrali per il clero secolare, cui si aggiunsero
dalla seconda metà del XII secolo le università. I monaci e i chierici che insegnavano
venivano chiamati “scolastici” e, poiché tutti i nuovi filosofi cristiani erano insegnanti, la
nuova filosofia cristiana fu chiamata Scolastica.
Il pilastro della filosofia scolastica fu la convinzione che fede e ragione potessero essere
complementari, ovvero che non fossero solo compatibili ma anzi reciprocamente solidali,
capaci di potenziarsi vicendevolmente. Di conseguenza il problema centrale della
Scolastica, intorno a cui ruotarono tutte le sue altre tesi, fu quello del dosaggio di fede e
ragione, ossia del peso relativo dell’una e dell’altra. La ricerca della migliore soluzione a
questo problema diede vita a contrapposizioni e discussioni accanite per non dire furiose.
In questo senso, benché basata sulle stesse sacre scritture cristiane e legata alla sola
Chiesa cattolica, la filosofia scolastica fu tutt’altro che omogenea e unitaria, e meno che
mai monotona. Al contrario l’intero suo svolgimento fu caratterizzato dal divampare
delle polemiche spesso accompagnate da reciproche accuse di eresia (che, oltretutto, in
taluni casi si tradussero in veri e propri processi inquisitoriali). Vi si possono evidenziare
due orientamenti contrapposti: quello neoaristotelico, nato proprio nel Basso Medioevo,
che tendeva a valorizzare maggiormente la razionalità della creazione divina e, di
conseguenza, la ragione umana, intesa come efficace strumento per scoprire le leggi del
mondo fisico, dimostrare l’esistenza di Dio e raggiungere la felicità nella dimensione
terrena; e quello neoagostiniano-platonico, che si rifaceva maggiormente alla tradizione
patristica e tendeva a enfatizzare l’imperscrutabilità dei criteri della creazione divina e,
quindi, a ridimensionare le capacità della ragione umana, a favore della fede e della
rivelazione, e a prospettare come unica felicità possibile quella donata da Dio ai giusti
nella dimensione ultraterrena.
La contrapposizione tra questi due indirizzi, che innervano lo svolgimento della
Scolastica, non va però assolutizzata, sia nel senso che i neoagostiniani non furono meno
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
innovativi dei neoaristolelici; sia nel senso che entrambi gli schieramenti utilizzarono,
adattandole alla loro impostazione generale, dottrine particolari proprie del patrimonio
filosofico degli avversari; sia, infine, nel senso che le singole personalità filosofiche,
soprattutto quelle di maggior levatura, tutt’altro che poche, diedero alle loro filosofie
un’impronta peculiare che esorbita dal filone cui appartengono.
La filosofia scolastica esaurì la sua energia creativa nel corso della seconda metà del
Trecento, in particolare in seguito alla confutazione della complementarità di fede e
ragione operata da William of Ockham, che, in tal senso, rappresenta il filosofo di
confine, ovvero il crinale filosofico, tra la filosofia medievale e la filosofia rinascimentale.
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VITA DI UN CAPITANO
ANSELMO D’AOSTA
Nacque ad Aosta nel 1033 da una famiglia dell’alta aristocrazia. Grazie al profondo
rapporto con la madre, fervida credente, fin da ragazzo si sviluppò in lui una spiccata
sensibilità religiosa e, al contempo, conoscitiva. Affidato a un precettore severo e incapace
di comprenderne le capacità, Anselmo fu vittima di una sindrome depressiva che superò
grazie alle cure e all’amore della madre che poi lo fece studiare nel monastero benedettino
d’Aosta.
Ormai quindicenne, manifestò la sua intenzione di farsi monaco ma la scelta gli fu proibita
dal padre il quale voleva, invece, che Anselmo lo affiancasse nella sua attività politicomilitare e che ereditasse il suo feudo. Anselmo subì l’autorità paterna e visse alcuni anni
lasciandosi andare alle passioni e ai piaceri fisici. Rimase così nella casa familiare fino alla
morte della madre, poi, a 23 anni, fuggì in Francia alla ricerca di un monastero dove
proseguire e approfondire i suoi studi.
Nel 1059 scelse di seguire le lezioni di Lanfranco di Pavia, priore dell’abbazia benedettina
di Notre-Dame du Bec in Normandia, con il quale Anselmo entrò in sintonia tanto da
decidere di farsi monaco. Grazie alle sue doti intellettive, nel 1063 divenne priore e
maestro di arti liberali e nel 1078 poi abate di Bec, dove visse fino al 1092 accrescendo il
prestigio culturale e religioso dell’abbazia.
Durante la sua permanenza nell’abbazia del Bec, Anselmo scrisse numerose opere, tra le
quali spiccano il Monologion (“monologo, discorso tra sé e sé”) e il Proslogion (“dialogo,
discorso rivolto ad altri”), pubblicati il primo nel 1076 (un anno dopo il dictatus papae di
Gregorio VII) e il secondo nel 1078.
Nel 1093, Anselmo fu nominato arcivescovo di Canterbury. Come tale si scontrò con i re
inglesi Guglielmo II ed Enrico I che volevano acquisire il potere di nomina dei vescovi
inglesi per controllare la chiesa inglese. Esiliato per due volte, soggiornò in entrambi i casi
a Roma, collaborando prima con Urbano II e poi con Pasquale II. Potè tornare a
Canterbury nel 1106 quando Enrico I rinunciò al potere di nomina dei vescovi,
accontentandosi di un omaggio formale.
Anselmo morì nel 1109 a Canterbury.
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TAPPA 1
ANSELMO: L’ESISTENZA DI DIO SI PUO’ ARGOMENTARE A PRIORI
Dunque, o Signore, tu che dai l’intelligenza alla fede, concedimi di
comprendere, per quanto sai che mi possa giovare, che tu esisti come
crediamo e che sei quello che noi crediamo.
E davvero noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non si possa pensare nulla
di più grande. O forse non vi è una tale natura, perché «disse l’insipiente in
cuor suo: Dio non esiste».
Ma certamente quel medesimo insipiente, quando ascolta ciò che dico, cioè
«qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande», comprende ciò che
ode; e ciò che comprende è nel suo intelletto, anche se egli non intende che
quella cosa esista.
Altro, infatti, è che una cosa sia nell’intelletto, e altro è intendere che quella
cosa esista. Quando il pittore infatti, prima pensa a ciò che sta per fare, ha
certamente nell’intelletto ciò che ancora non ha fatto, ma non intende ancora
che questo esista. Quando invece lo ha già dipinto, non solo ha nell’intelletto
ciò che ha già fatto, ma intende anche che esso esista.
Anche l’insipiente, dunque, deve convenire che, almeno nell’intelletto, vi sia
qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande, perché quando sente
questa espressione la intende, e tutto ciò che si intende è nell’intelletto.
Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande non può
essere nel solo intelletto. Se infatti è almeno nel solo intelletto, si può pensare
che esista anche nella realtà, il che è maggiore. Se dunque ciò di cui non si può
pensare il maggiore è nel solo intelletto, quello stesso di cui non si può
pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Ma evidentemente
questo non può essere. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore
esiste, senza dubbio, sia nell’intelletto sia nella realtà.
Tutto ciò è talmente vero, che non si può neppure pensare che Dio non esista.
Infatti si può pensare che vi sia qualcosa di cui non si possa pensare che non
esiste; e questo è maggiore di ciò che si può pensare non esistente. Quindi, se
ciò di cui non si può pensare il maggiore può essere pensato non esistente,
quello stesso di cui non si può pensare il maggiore non è ciò di cui non si può
pensare il maggiore; ma questo è contraddittorio.
Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste così veramente che
non si può neppure pensare non esistente.
E questo sei tu, Signore Dio nostro. Dunque tu esisti così veramente, Signore
Dio mio, che non puoi neppure essere pensato non esistente. E giustamente.
Se infatti una qualche mente potesse pensare qualcosa migliore di te, la
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creatura si eleverebbe al di sopra del Creatore e sarebbe giudice del Creatore;
il che sarebbe grandemente assurdo.
In verità, di tutto ciò che è, all’infuori di te solo, si può pensare che non sia. Tu
solo dunque hai l’essere nel modo più vero, e perciò massimo, rispetto a tutte
le cose, perché qualsiasi altra cosa non è in modo così vero e, quindi, ha un
essere minore. Perché dunque «l’insipiente ha detto in cuor suo: Dio non
esiste», quando è così evidente ad una mente razionale che tu sei più di tutte
le cose? Per quale motivo, se non perché è stolto e insipiente?
Ma in quale modo l’insipiente ha detto in cuor suo ciò che non ha potuto
pensare, o in che modo non ha potuto pensare ciò che ha detto in cuor suo,
dato che è la stessa cosa dire nel cuore e pensare? Se poi veramente, anzi
poiché veramente sia lo pensò perché lo disse in cuor suo, sia non lo disse in
cuor suo perché non poteva pensarlo, non in un modo soltanto si dice nel
cuore o si pensa qualcosa.
In un modo, infatti, una cosa è pensata quando si pensa la parola che la
significa; in un altro modo, quando si comprende ciò che la cosa è. Nel primo
modo, pertanto, si può pensare che Dio non sia, ma nel secondo
assolutamente no. Perciò nessuno, il quale comprenda ciò che Dio è, può
pensare che Dio non esista, sebbene dica in cuor suo queste parole, non
dando loro alcun significato o dandogliene uno estraneo. Dio, infatti, è ciò di
cui non si può pensare il maggiore. Chi comprende bene questo, comprende
certamente che egli esiste in modo tale che neppure nel pensiero può non
essere. Chi dunque comprende che Dio è così, non può pensare che egli non
esista.
Ti ringrazio, buon Signore, ti ringrazio perché ciò che prima ho creduto per
un tuo dono, ora per la tua illuminazione lo comprendo in modo tale che, se
non volessi credere che tu esisti, non potrei non comprenderlo.
Anselmo d’Aosta, Proslogion, in Monologio e Proslogio, Bompiani, 2002, pp. 317-321
Il genere filosofico dell’argomentazione dell’esistenza di uno o più esseri divini trae la sua
origine da Socrate. Agostino lo pratica in modo marginale, abbozzando tre argomentazioni
dell’esistenza di Dio, senza attribuire loro un rilievo strategico, dal momento che per lui la
strada maestra per accertarsi dell’esistenza di Dio è la conoscenza della propria anima
basata su quella della sacra scrittura.
L’innovazione filosofica di Anselmo d’Aosta consiste, dunque, innanzitutto nell’aver dato
all’argomentazione dell’esistenza di Dio un posto d’onore nell’ambito della filosofia
cristiana. In questo modo, rispetto alla tradizione patristica, Anselmo conferisce alla
ragione dell’uomo una maggiore dignità e una maggiore autonomia, non solo e tanto come
capacità di conoscere la natura ma anche e soprattutto come strumento per giungere a Dio
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
indipendentemente dalla rivelazione. Anselmo, infatti, dichiara apertamente che l’intento
delle sue argomentazioni è giungere alla realtà divina facendo del tutto a meno
dell’autorità della sacra scrittura e utilizzando unicamente un procedimento razionale.
In questa prospettiva, Anselmo elabora e propone cinque argomentazioni dell’esistenza di
Dio, da lui stesso distinte in due generi, corrispondenti a due diverse strategie
argomentative, una induttiva e l’altra deuttiva:
 le prime quattro fanno leva su un singolo aspetto del mondo fisico, attestabile a
partire dai sensi, per risalire a Dio come sua origine necessaria: esse
successivamente vengono chiamate argomenti o prove “a posteriori” (letteralmente,
“da ciò che viene dopo”), in quanto partono da un effetto per inferire la sua causa;
 la quinta e ultima, invece, muove dall’analisi del concetto di Dio per dedurre da esso
l’esistenza di Dio: questa successivamente viene denominata “argomento
ontologico” o prova “a priori” (letteralmente “da ciò che viene prima”), perché si
impernia su Dio stesso, causa prima di tutto.
Le quattro argomentazioni a posteriori, che Anselmo mette a punto rielaborando le
precedenti argomentazioni di Agostino, sono le seguenti:
a) ogni uomo cerca di procurarsi dei beni (cibo, vestiti, amore, conoscenza,
ecc.), cioè delle cose buone; i beni si differenziano per diversi gradi di bontà,
maggiori o minori; la scala gerarchica dei beni non potrebbe esistere se non
esistesse un bene sommo, metro di misura di tutti gli altri beni a lui inferiori.
b) Tutte le cose esistenti (uomini, animali, vegetali, minerali) posseggono
diversi gradi di perfezione; le cose possono essere più o meno perfette solo in
quanto partecipano, in diversa misura, di una stessa perfezione somma;
dunque deve esistere un essere sommamente perfetto.
c) Tutte le cose esistenti, a seconda delle loro differenti grandezze qualitative,
cioè del loro valore (p.e. un cane ha una maggiore grandezza di un’ortica),
compongono una scala gerarchica che va dal meno grande al più grande;
poiché sarebbe assurdo un rimando all’infinito, deve esistere un essere
dotato della massima grandezza, ovvero del massimo valore.
d) Tutto ciò che esiste, può esistere o a causa di qualcosa o a causa di nulla; dal
nulla non può derivare niente, dunque una cosa non può esistere a causa del
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
nulla; pertanto tutto ciò che esiste, esiste a causa di qualcosa che, essendo
causa di tutto, deve essere la massima realtà.
L’argomentazione a priori, benchè abbia il suo punto di partenza nell’argomento detto
“consensus gentium” di Agostino, è la grande invenzione originale di Anselmo. Essa si
dipana in questo modo:
 Tutti gli uomini hanno il concetto di Dio; infatti anche gli atei (che Anselmo appella
insipientes, cioè ignoranti, stolti), in quanto pensano “Dio non esiste”, per negare
l’esistenza di Dio devono averne una rappresentazione mentale.
 Il concetto di Dio consiste in “ciò di cui non si può pensare nulla di più grande”,
ovvero in “il massimo”.
 Dio deve esistere, altrimenti nessun uomo penserebbe “il massimo”; infatti, se io
penso “il massimo che non esiste”, io non penso davvero “il massimo”, dal momento
che “il massimo che esiste” sarebbe maggiore di esso; in altre parole, se Dio non
esistesse, ogni uomo penserebbe come massimo ciò che non è massimo, il che è
assurdo per contraddizione; dunque, poiché è certo – in base alle premesse – che
ogni mente umana pensa effettivamente il massimo, è necessario che Dio esista.
Come si è già accennato, Anselmo presenta le sue argomentazioni come del tutto razionali,
cioè indipendenti dalla fede nella rivelazione. In altre parole, secondo lui, esse sono valide
e logicamente cogenti per ogni uomo, anche per gli atei. Tuttavia, stando così le cose,
sembrerebbe porsi un problema cruciale relativo alla dimensione religiosa: se la ragione è
sufficiente ad accertare l’esistenza di Dio, la fede e le sacre scritture non diventano
superflue?
Per quanto non lo dichiari apertamente, è plausibile ritenere che Anselmo si renda conto di
questo problema, dal momento che ribadisce più volte la sua fedeltà alla formula
agostiniana del “credere per comprendere”, cioè al primato della fede sulla ragione e,
soprattutto, che precisa che le sue argomentazioni razionali dell’esistenza di Dio rendono
comprensibile Dio “solo fino a un certo punto”, cioè solo parzialmente. In quest’ultima
direzione, Anselmo chiarisce che l’essere “di cui non si può pensare nulla di più grande”
non coincide con Dio, perché il Dio cristiano è ancora più grande di qualsiasi pensiero
umano e perché i suoi attributi (innanzitutto l’amore, poi l’onniscienza, l’onnipotenza, la
giustizia, la misericordia, ecc.) possono essere ricavati solo dalle sacre scritture attraverso
la fede.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Ma, al di là della problematica religiosa, è la validità logica stessa dell’argomentazione di
Anselmo, in particolare di quello a priori, a venir messa in discussione da alcuni dei suoi
stessi confratelli. In particolare, Gaunilone, benedettino dell’abbazia di Marmoutier,
contesta il presupposto stesso dell’argomento ontologico, cioè che ciò che è vero a livello
logico-mentale sia per forza vero anche a livello della realtà extramentale, o, detto in altri
termini, che la necessità logica coincida con la necessità ontologica. Gaunilone, infatti,
sostiene che, se l’argomento ontologico fosse valido, allora si dovrebbe ritenere valida
anche questa argomentazione:
 tutti gli uomini hanno il concetto di “Isola perduta”,
 il concetto di Isola perduta è quello di un’isola mai scoperta ma ugualmente prodiga di
tutti i beni possibili immaginabili in misura di gran lunga maggiore di qualsiasi altro
luogo terrestre, perfino delle isole Fortunate (le Canarie, dove secondo gli antichi
soggiornavano i beati);
 l’Isola perduta deve esistere, altrimenti il nostro concetto di Isola perduta sarebbe
contraddetto.
Poiché la conclusione di questa argomentazione, secondo Gaunilone, è palesemente
assurda, altrettanto assurda risulta la conclusione dell’argomento ontologico anselmiano.
E’ chiaro che il controargomento ontologico di Gaunilone è volutamente ironico. Tuttavia,
all’ironia Gaunilone aggiunge una spiegazione più seria: ognuno di noi, se ha il concetto di
qualcosa, per esempio di “uomo”, può farsi un’immagine mentale, se non del tutto vera,
almeno verosimile, dell’esistenza di un individuo umano anche se non lo ha mai visto, ma
solo perché ha visto altri individui appartenenti alla specie umana, ovvero riconducibili
allo stesso concetto.
Ma Dio non può essere oggetto di una conoscenza sensibile, dunque nessun uomo può
possederne il concetto e dedurre da esso l’esistenza di Dio. In parole più nette, secondo
Gaunilone, Dio è impensabile per la mente umana e quindi la prima premessa
dell’argomento di Anselmo è falsa: “Dio” è solo un insieme di suoni o di segni grafici privo
di un effettivo contenuto, ossia senza significato.
E’ plausibile ritenere che la confutazione logica di Gaunilone nasconda un movente di tipo
religioso: eliminare il rischio che la fede sia relegata in secondo piano dalla ragione e
ribadire che la strada verso Dio passa per l’ascolto della sua rivelazione e per la messa in
pratica dei comportamenti prescritti da essa, cioè per la vita monastica.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Anselmo non solo non ignora la confutazione di Gaunilone, ma la aggiunge alla sua opera e
la controconfuta. Egli ribatte che il concetto di “Isola perduta” non equivale a “ciò di cui
non si può pensare nulla di più grande”, poiché l’Isola perduta può essere “la più grande
delle isole”, ma non la cosa più grande in assoluto. Pertanto non si può dedurre
validamente dal concetto di Isola perduta la necessità della sua esistenza, mentre è
legittimo farlo dal concetto di Dio. In altri termini, Anselmo argomenta che la necessità
dell’esistenza si può dedurre solo dal massimo assoluto, non da massimi relativi (la
massima isola, la massima nuvola, ecc.).
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VITA DI UN CAPITANO
TOMMASO D’AQUINO
Tommaso d’Aquino nacque nel 1225 nel castello di Roccasecca in provincia di Frosinone
(Lazio). Suo padre era il conte Landolfo d’Aquino, un grande feudatario laziale, e sua
madre una discendente della illustre e potente famiglia aristocratica napoletana dei
Caracciolo. Essendo il figlio più piccolo, i genitori, secondo le regole di allora, lo
destinarono alla carriera ecclesiastica e di conseguenza a cinque anni lo mandarono come
oblato (“offerto”) nella vicina e famosa abbazia di Montecassino (fondata intorno al 529 da
Benedetto da Norcia, culla e centro dell’ordine dei monaci benedettini).
In quegli anni imperversava lo scontro tra Federico II, imperatore di Germania e re di
Napoli e della Sicilia, e papa Gregorio IX. L’abazzia di Montecassino era uno dei tanti
oggetti della contesa. Dopo una tregua, dal 1230 al 1236, il conflitto si riaccese e il conte
Landolfo preferì trasferire Tommaso all’università di Napoli, fondata da Federico II. Ma a
Napoli Tommaso entrò in contatto il convento dei Domenicani e nel 1244, a diciannove
anni, vi si fece ordinare frate predicatore. La libera decisione di Tommaso era però in
contrasto con le mire della sua famiglia che ambiva a conquistare, grazie a lui, la carica di
abate di Montecassino.
Così, essendo morto il padre, la madre e i fratelli decisero di catturare Tommaso e di
costringerlo a tornare nel castello di Roccasecca, dove cercarono di persuaderlo ad
assecondare i loro progetti. Tommaso non cedette e alla fine i fratelli furono a lasciarlo
tornare tra i domenicani di Napoli. Trasferito nel convento centrale dei domenicani a
Roma, per metterlo al riparo da eventuali ripensamenti della famiglia, Tommaso seguì poi
il superiore dell’ordine a Parigi, nella cui università proseguì i suoi studi per tre anni, e
dove conobbe il domenicano Alberto Magno, di cui divenne allievo e che seguì nel 1248
collaborando con lui alla fondazione e alla gestione dello studium domenicano di Colonia.
Ci è stato tramandato che, durante gli anni dell’apprendistato sotto la guida di Alberto
Magno, i suoi compagni di studio soprannominarono Tommaso “bue muto” a causa del suo
carattere taciturno. Venutolo a sapere Alberto Magno disse ai suoi allievi: «Ah! Voi lo
chiamate il bue muto! Io vi dico, quando questo bue muggirà, i suoi muggiti si udranno da
un’estremità all’altra della terra!»
Nel 1252, lo stesso Alberto Magno designò Tommaso a succedergli sulla sua cattedra
all’università di Parigi, dove Tommaso fu accettato con difficoltà a causa della sua giovane
età. Mentre insegnava come baccelliere, in questi anni scrisse L’ente e l’essenza. Nel 1256
ottenne la licentia docendi in Teologia dando avvio al suo insegnamento teologico in
concorrenza con Bonaventura da Bagnoregio, l’altro maestro di Teologia, ma francescano,
dell’università di Parigi.
Dal 1259 al 1268 Tommaso, per disposizione dei suoi superiori, fu trasferito a insegnare
nelle scuole di formazione dei domenicani prima a Orvieto e poi a Roma. In questo periodo
collaborò con papa Urbano IV e scrisse la Summa contra Gentiles e la Summa Theologiae,
le sue due più importanti opere. Nel 1268 Tommaso fu rinviato all’università di Parigi dove
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
insegnò Teologia fino al 1272. In questo terzo periodo parigino, Tommaso scrisse
numerosissime opere di tutti i generi: la seconda parte della Summa Theologiae,
commenti alla Bibbia, altri scritti teologici, testi scientifici, commenti alla filosofia di
Aristotele, saggi etici. Richiamato a Roma, gli fu affidato il compito di fondare e dirigere
uno studium, che lui stesso scelse di collocare a Napoli.
Tuttavia, alla fine del 1273, al termine della celebrazione di una messa, Tommaso
improvvisamente dichiarò che non avrebbe più scritto niente e spiegò la sua decisione al
confratello e amico Reginaldo dicendogli: “Tutto ciò che ho scritto mi sembra paglia in
confronto a quanto ho visto”. Il biografo di Tommaso, Giglielmo di Tocco, ci ha
tramandato che Tommaso ebbe un’esperienza di unione mistica con Dio, rispetto alla
quale la conoscenza razionale raggiungibile dall’uomo gli apparve insignificante. Poco
dopo Tommaso si ammalò ma ricevette dal papa l’ordine di recarsi a Lione per partecipare
al concilio. Nel 1274, mentre si era da poco messo in viaggio, la malattia di Tommaso si
aggravò e pochi giorni dopo egli spirò nell’abbazia cistercense di Fossanova (provincia di
Latina, Lazio).
Dopo la sua morte la filosofia di Tommaso fu aspramente criticata da molti francescani e
nel 1277 alcune sue tesi vennero dichiarate eretiche dall’arcivescovo di Canterbury, che
pure era un domenicano. La situazione si ribaltò nel 1323, allorché Tommaso venne
dichiarato santo dalla Chiesa e poi scagionato dalle precedenti accuse di eresie. Da allora la
Chiesa cattolica conferì sempre più importanza al tomismo fino a farne il fondamento
filosofico della riforma varata nel Concilio di Trento (1545-1563), dopo il quale, nel 1567,
papa Pio V proclamò Tommaso dottore della Chiesa, con l’epiteto di doctor angelicus.
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TAPPA 2
TOMMASO: L’ESISTENZA DI DIO SI PUO’ ARGOMENTARE A POSTERIORI
Sembra che Dio non esista. E infatti:
1. Se di due contrari uno è infinito, l’altro resta completamente distrutto.
Ora, nel nome Dio s’intende affermato un bene infinito. Dunque, se Dio
esistesse, non dovrebbe esserci più il male. Viceversa nel mondo c’è il
male. Dunque Dio non esiste.
2. Ciò che può essere compiuto da un ristretto numero di cause, non si
vede perché debba compiersi da cause più numerose. Ora tutti i
fenomeni che avvengono nel mondo possono essere prodotti da altre
cause, nella supposizione che Dio non esista: poiché quelli naturali si
riportano, come a loro principio, alla natura, quelli volontari, alla
ragione o volontà umana. Nessuna necessità, quindi, della esistenza di
Dio.
In contrario: Nell’Esodo si dice, in persona di Dio: “Io sono colui che è”.
Rispondo: Che Dio esista si può provare per cinque vie. La prima e la più
evidente è quella che si desume dal moto. E’ certo infatti e consta dai sensi,
che in questo mondo alcune cose si muovono. Ora, tutto ciò che si muove è
mosso da un altro. Infatti niente si trasmuta che non sia potenziale rispetto al
termine del movimento; mentre chi muove, muove in quanto è in atto. Perché
muovere non altro significa che trarre qualche cosa dalla potenza all’atto; e
niente può essere ridotto dalla potenza all’atto se non mediante un essere che
è già in atto. P. es., il fuoco che è caldo attualmente rende caldo in atto il
legno, che era caldo soltanto potenzialmente, e così lo muove e lo altera. Ma
non è possibile che una stessa cosa sia simultaneamente e sotto lo stesso
aspetto in atto ed in potenza: lo può essere soltanto sotto diversi rapporti: così
ciò che è caldo in atto non può essere insieme caldo in potenza, ma è insieme
freddo in potenza. E’ dunque impossibile che sotto il medesimo aspetto una
cosa sia al tempo stesso movente e mossa, cioè che muova se stessa. E’ dunque
necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da un altro. Se dunque
l’essere che muove è anch’esso soggetto a movimento, bisogna che sia mosso
da un altro, e questo da un terzo e così via. Ora, non si può in tal modo
procedere all’infinito, perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di
conseguenza nessun altro motore, perché i motori intermedi non muovono se
non in quanto sono mossi dal primo motore, come il bastone non muove se
non in quanto è mosso dalla mano. Dunque è necessario arrivare a un primo
motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
La seconda via parte dalla nozione di causa efficiente. Troviamo nel mondo
sensibile che vi è un ordine tra le cause efficienti, ma non si trova, ed è
impossibile, che una cosa sia causa efficiente di sé medesima; ché, altrimenti
sarebbe prima di se stessa, cosa inconcepibile. Ora, un processo all’infinito
nelle cause efficienti è assurdo. Perché in tutte le cause efficienti concatenate
la prima è causa dell’intermedia, e l’intermedia è causa dell’ultima, siano
molte le intermedie o una sola; ora, eliminata la causa è tolto anche l’effetto:
se dunque nell’ordine delle cause efficienti non vi fosse una prima causa, non
vi sarebbe neppure l’ultima, né l’intermedia. Ma procedere all’infinito nelle
cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente; e così non
avremo neppure l’effetto ultimo, né le cause intermedie: ciò che
evidentemente è falso. Dunque bisogna ammettere una prima causa
efficiente, che tutti chiamano Dio.
La terza via è presa dal possibile e necessario, ed è questa. Tra le cose noi ne
troviamo di quelle che possono essere e non essere; infatti alcune cose
nascono e finiscono, il che vuol dire che possono essere e non essere. Ora, è
impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che
può non essere, un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose possono non
esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. Ma se questo è vero,
anche ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste, non comincia a
esistere se non per qualche cosa che è. Dunque, se non c’era ente alcuno, è
impossibile che qualche cosa cominciasse a esistere, e così anche ora non ci
sarebbe niente, il che è evidentemente falso. Dunque non tutti gli esseri sono
contingenti, ma bisogna che nella realtà vi sia qualche cosa di necessario. Ora,
tutto ciò che è necessario, o ha la causa della sua necessità in altro essere
oppure no. D’altra parte, negli enti necessari che hanno altrove la causa della
loro necessità, non si può procedere all’infinito, come neppure nelle cause
efficienti secondo che si è dimostrato. Dunque bisogna concludere
all’esistenza di un essere che sia di per sé necessario, e non tragga da altri la
propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo tutti dicono
Dio.
La quarta via si prende dai gradi che si riscontrano nelle cose. E’ un fatto che
nelle cose si trova il bene, il vero, il nobile e altre simili perfezioni in un grado
maggiore o minore. Ma il grado maggiore o minore si attribuisce secondo che
si accostano di più o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto; così più
caldo è ciò che maggiormente si accosta al sommamente caldo. Vi è dunque
un qualche cosa che è vero al sommo, ottimo e nobilissimo, e di conseguenza
qualche cosa che è il supremo ente; perché, come dice Aristotele, ciò che è
massimo in quanto vero, è tale anche in quanto ente. Ora, ciò che è massimo
in un dato genere, è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come il
fuoco, caldo al massimo, è cagione di ogni calore, come dice il medesimo
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Aristotele. Dunque vi è qualcosa che per tutti gli enti è causa dell’essere, della
bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio.
La quinta via si desume dal governo delle cose. Noi vediamo che alcune cose,
le quali sono prive di conoscenza, cioè i corpi fisici, operano per un fine, come
apparisce dal fatto che esse operano sempre o quasi sempre allo stesso modo
per conseguire la perfezione: donde appare che, non a caso, ma per una
predisposizione raggiungano il loro fine. Ora, ciò che è privo di intelligenza
non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e
intelligente, come la freccia dall’arciere. Vi è dunque un qualche essere
intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: e
quest’essere chiamiamo Dio.
Soluzione delle difficoltà:
1. Come dice S. Agostino: “Dio, essendo sommamente buono, non
permetterebbe in nessun modo che nelle sue opere ci fosse del male, se
non fosse tanto potente e tanto buono, da saper trarre il bene anche dal
male”. Sicché appartiene all’infinita bontà di Dio il permettere che vi siano
dei mali per trarne dei beni.
2. Certo, la natura ha le sue operazioni, ma siccome le compie per un fine
determinato sotto la direzione di un agente superiore, è necessario che gli
eventi naturali siano attribuiti anche a Dio, come a loro prima causa.
Similmente gli atti del libero arbitrio devono essere ricondotti ad una
causa più alta della ragione e della volontà umana, perché queste sono
mutevoli e defettibili, e tutto ciò che è mutevole e tutto ciò che può venire
meno, deve essere ricondotto a una causa prima immutabile e di per sé
necessaria, come si è dimostrato.
Tommaso d’Aquino, Summa theologica, I Questione 2, articolo 3
Anche Tommaso d’Aquino, come Anselmo d’Aosta, si cimenta nel nuovo genere filosofico
della “argomentazione dell’esistenza di Dio”. Egli ritiene, però, che l’argomento a priori di
Anselmo non sia logicamente valido in quanto la sua premessa minore (“il concetto di Dio
è quello di ciò di cui non si può pensare nulla di più grande”) è falsa. Infatti, secondo
Tommaso, che riprende e sviluppa l’argomento confutativo di Gaunilone, l’uomo non può
conoscere l’essenza di Dio, in quanto essa è infinita mentre l’intelletto umano è finito.
Tommaso, pertanto, si concentra sulle argomentazioni a posteriori, cioè di tipo induttivo,
che partono e fanno leva non sul concetto di Dio bensì su alcune caratteristiche del mondo
fisico. Egli ne elabora cinque, e le chiama “vie”, volendo così dire che conducono a Dio.
Esse sono:
1. Ex motu. Tutti possono osservare molte cose fisiche muoversi (nel senso aristotelico
di “mutare”). Ogni movimento (=mutamento) di qualcosa è prodotto da un motore
esterno, cioè da qualcos’altro già in movimento (=già mutato). Infatti, tutti i
movimenti sono passaggi dalla potenzialità all’attuazione e quindi ciò che ha la
539
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
2.
3.
4.
5.
potenzialità di muoversi (p.e. un ramo di legno che ha la potenzialità di bruciare)
può attuarsi, cioè essere messo in movimento, solo da ciò che sta già attuando quel
tipo di movimento (p.e. il fuoco). Stando così le cose, ogni moto presuppone un
motore, il quale a sua volta è stato messo in moto da un altro motore, e così via di
mosso in motore. Ma, afferma Tommaso, non si può rinviare all’infinito la catena di
mossi e motori, altrimenti non ci sarebbe alcun motore iniziale e dunque alcun
movimento. Pertanto è necessario che vi sia un primo motore, cioè qualcosa che non
sia mosso da niente e sia pertanto l’origine della catena di mossi-motori, cioè di tutti
i mutamenti naturali. Un tale primo motore si dice Dio.
Ex causa. Tutti possono constatare che i fenomeni naturali sono concatenazioni di
rapporti di causa ed effetto. (Per esempio, le nevicate causano una valanga che a sua
volta causa l’abbattimento di abeti che a sua volta causa la fuga di animali, e così
via.) In altra parole, ogni effetto rimanda a una causa esterna che a sua volta, però, è
l’effetto di un’altra causa sempre esterna. Infatti, se un fenomeno naturale (p.e. la
nascita di un bambino) fosse causa di se stesso allora l’effetto (il neonato)
precederebbe la causa (la nascita), cosa assurda. Stando così le cose, la natura è una
lunga catena di cause/effetti, che però non può procedere all’infinito, altrimenti non
vi sarebbe una causa iniziale e dunque non vi sarebbero effetti, cioè fenomeni
naturali. Pertanto è necessario che esista una causa prima, cioè una causa che non
sia effetto di un’altra causa, e questa causa prima è Dio.
Ex possibili et necessario (detta anche ex contingentia). Tutti possono osservare che
tutte le cose fisiche si producono e si distruggono, ossia che sia esistono sia non
esistono. Di conseguenza, possiamo immaginare un tempo passato in cui ogni cosa
non esisteva. In altre parole, prima del mondo sarebbe dovuto esserci solo il nulla.
Ma dal nulla non può prodursi nulla. Dunque anche nel presente il mondo non
dovrebbe esistere, il che è assurdo perché, pur essendo contingente (ossia pur
potendo anche non esistere), di fatto il mondo esiste. Di conseguenza si deve
pensare che esista un essere necessario, ossia che non possa non esistere, il quale ha
prodotto il mondo, trasformando in realtà la sua mera possibilità. Un tale essere
necessario è detto Dio.
Ex gradu. Tutti possono osservare che tutte le cose naturali, a seconda dei loro
generi e delle loro specie, posseggono diversi gradi qualitativi, cioè differenti livelli
di bene o di verità oppure di bellezza. Così come il calore intermedio di un corpo
animale non sarebbe possibile senza il calore massimo del fuoco, la gerarchia
qualitativa delle cose naturali non sarebbe possibile se non esistesse un essere
qualitativamente sommo, cioè perfetto. Ma un essere perfetto è chiamato Dio.
Ex fine. Tutti possono constatare che il cosmo fisico possiede un ordine finalistico.
P.e., gli animali carnivori possono esistere grazie all’esistenza degli animali erbivori,
questi grazie all’esistenza delle piante e queste grazie all’esistenza del Sole. Un
ordine finalistico non può avere un’origine casuale, può essere solo il prodotto di
un’azione intelligente. Poiché le cose naturali (minerali, vegetali, animali) non
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
posseggono un’intelligenza, la natura non può essere causa del suo ordine
finalistico. Pertanto, l’ordine finalistico del cosmo può essere solo il prodotto di un
essere che possegga un intelligenza proporzionata alla vastità e alla complessità del
cosmo. Un tale essere di superiore intelligenza si dice Dio.
Secondo Tommaso, queste cinque argomentazioni obbligano ad ammettere l’esistenza di
Dio in modo esclusivamente razionale, anche se non si possiede la fede e non si sono mai
lette le sacre scritture. Attenzione, però, perché per Tommaso il Dio che saremmo costretti
ad ammettere su un piano razionale non è il Dio della rivelazione e della fede cristiane.
Tommaso, infatti, distingue due definizioni del termine “Dio”: una definizione “nominale”
– oggi diremmo denotativa – e una definzione “reale” – oggi diremmo connotativa. La
prima è la definzione generica di Dio, ovvero “essere superiore”, che si può riferire tanto al
Dio cristiano quanto all’Allah islamico quanto allo Zeus greco, quanto al Motore immobile
di Aristotele. La seconda, invece, è la definizione specifica di Dio, p.e. quella del Dio
cristiano, persona amorevole, onnipotente, onnisciente, eterna, creatore di ogni cosa, uno e
trino, ecc.
Secondo Tommaso, le cinque vie dimostrano l’esistenza di Dio soltanto nel significato
“nominale”, ossia generico, ma non attestano alcunché relativamente al significato reale di
Dio, cioè alla sua identità essenziale. Il Dio cristiano, infatti, è qualitativamente infinito e
assolutamente trascendente, dunque la sua essenza per Tommaso, come si è già visto, non
può essere raggiunta dalla razionalità umana in quanto questa è limitata. Di conseguenza
per comprendere qualcosa dell’essenza di Dio, l’uomo, afferma Tommaso, può e deve
servirsi unicamente delle sacre scritture e della sua fede in esse.
In questo senso, Tommaso distingue nettamente una teologia razionale, frutto della mente
umana, e pertanto parziale e inferiore, e una teologia sacra, frutto della rivelazione divina,
e quindi completa e superiore. Questa distinzione è, a sua volta, il corollario del nuovo
rapporto tra fede e ragione concepito da Tommaso. Fermo restando che per lui, come per
tutti i filosofi scolastici precedenti, la ragione è ancilla fidei, cioè è uno strumento della
fede, e dunque le è subordinata, Tommaso tuttavia amplia il dominio della ragione e sposta
più avanti il confine tra ragione e fede, teologia razionale e teologia divina. Infatti, per
Tommaso, la ragione umana:
1) innanzitutto può e deve conoscere le “cause seconde”, cioè le leggi razionali, in base alle
quali Dio, la causa prima, ha creato il mondo e lo fa funzionare;
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2) in secondo luogo, in base alla conoscenza delle “cause seconde”, può risalire a Dio come
causa prima, ossia dimostrare l’esistenza di Dio nel suo significato nominale, attestando
così che la ragione è in continuità con la rivelazione, ossia con la fede;
3) in terzo luogo, può confutare le confutazioni razionali delle verità rivelate, ovvero
argomentare che, se non può dimostrare le verità rivelate (p.e. la Trinità), in quanto esse,
riguardando l’infinita essenza divina, non possono che essere misteri, non può nemmeno
confutarle, cioè contraddirle;
4) in quarto luogo, benché non possa comprenderle del tutto, può cercare di chiarificare le
verità rivelate, ossia l’essenza di Dio, allo scopo di comprenderle parzialmente e
soprattutto di acquisire una piena consapevolezza dell’invalicabilità del limite della sua
comprensione dell’identità divina, in modo da suscitare nell’uomo il desiderio della
conoscenza diretta di Dio di cui i beati potranno godere nella dimensione ultraterrena.
Dunque, per Tommaso, la ragione non può e non deve condurre a Dio, ma può e deve
condurre alla fede, la quale sola, poi, può condurre a Dio, naturalmente per una via del
tutto metarazionale. In questo modo, Tommaso sostiene la continuità tra ragione e fede,
ovvero la loro totale intesa. Tuttavia, poiché la fede è il fine e la ragione il mezzo, se e
quando vi fosse un contrasto tra una tesi razionale e una verità della fede è certo, secondo
Tommaso, che la prima sarebbe falsa e la seconda vera. In altre parole, la ragione per
Tommaso non può mai contraddire la fede.
Alla luce di questa concezione del rapporto fede/ragione, possiamo plausibilmente
ipotizzare che, al di là della motivazione logica, Tommaso non condividesse
l’argomentazione a priori di Anselmo per una più profonda motivazione religiosa: pensare
che l’uomo possieda il concetto di Dio equivale a pensare che ne conosca completamente la
definizione reale, cioè l’essenza. Ma una tale conoscenza presupporrebbe in primo luogo
che la ragione umana fosse infinita, ovvero che l’uomo fosse uguale a Dio, e, in secondo
luogo, in ogni caso, che la rivelazione e la fede fossero inutili. In altre parole, se
l’argomento ontologico d’Anselmo fosse valido e quindi vero, l’intera teologia sarebbe
razionale e l’uomo non avrebbe più bisogno delle sacre scritture e della chiesa. Ma questa
tesi sarebbe, per Tommaso, clamorosamente eretica.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 3
TOMMASO D’AQUINO: DIO ESISTE PER ESSENZA
Si trova nelle sostanze un triplice modo di avere l’essenza. Vi è qualcosa,
infatti, come Dio, la cui essenza è lo stesso suo essere; e perciò vi sono alcuni
filosofi che dicono che Dio non ha quiddità o essenza, perché la sua essenza
non è altro che il suo essere. E da questo segue che egli non sia nel genere,
perché tutto ciò che è nel genere bisogna che abbia la quiddità oltre al suo
essere […].
Né se diciamo che Dio è soltanto essere, è necessario che cadiamo nell’errore
di coloro i quali dissero che Dio è quell’essere universale per cui qualsiasi
cosa è formalmente. Perché questo essere che è Dio è tale che nessuna
aggiunta può essergli fatta, per cui a causa della sua stessa purezza, è un
essere distinto da ogni essere. […]
Similmente, benché sia soltanto essere non è necessario che gli manchino le
altre perfezioni o nobiltà; anzi, egli possiede tutte le perfezioni che si trovano
in tutti i generi, e perciò è chiamato semplicemente perfetto, come il Filosofo13
e il Commentatore14 dicono nel V libro della Metafisica; ma egli le possiede in
modo più eccellente di tutti gli altri, perché in lui sono una cosa sola, ma negli
altri cose sono diverse. E questo perché tutte quelle perfezioni convengono a
lui secondo il suo essere semplice: come se qualcuno con un’unica qualità
potesse realizzare le operazioni di tutte le qualità, possederebbe in quell’unica
qualità tutte le qualità: così Dio nel suo stesso essere possiede tutte le
perfezioni.
Tommaso d’Aquino, L’ente e l’essenza, cap. VI
Una volta argomentata l’esistenza di Dio in senso nominale, Tommaso, in omaggio alla sua
concezione della teologia razionale, cerca di comprendere anche il significato reale di Dio,
cioè la sua identità. Lo fa, e non potrebbe farlo altrimenti, partendo dalla sacra scrittura,
ovvero dalla rivelazione che Dio ha fatto di se stesso all’uomo. In particolare Tommaso si
basa sulla famosa autodefinizione che Dio dà a Mosé, almeno secondo il libro biblico
Esodo: “Io sono colui che è”. Secondo Tommaso, l’interpretazione razionale di questo
passo biblico stabilisce che l’essenza di Dio è l’essere. Cosa vuol dire?
Secondo Tommaso, che anche in questo caso si rifà ad Aristotele, ogni cosa fisica possiede
un’essenza (da lui chiamata anche “quiddità”), che ne costituisce la forma, ossia le
proprietà razionali fondamentali e, di conseguenza, l’identità specifica. P.e., l’essenza
13
14
Si tratta, naturalmente, di Aristotele, considerato il Filosofo per eccellenza.
E’ Averroè (nome latinizzato dell’arabo iberico Ibn Ruschd).
543
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
dell’uomo è la razionalità, quella del cane la fedeltà al suo padrone, quella dell’oro
l’inossidabilità, ecc. Poiché tutte le cose fisiche si generano e si dissolvono, cioè sono
temporaneamente, l’essenza di nessuna cosa può consistere nell’essere. In altre parole, per
tutte le cose, all’infuori di Dio, l’essenza e l’essere sono sempre nettamente distinti.
L’essenza infatti è il modo di essere di qualcosa e, come tale, non coincide con il suo essere.
In altre parole: un modo d’essere non implica necessariamente che esso esista, potrebbe
anche non esistere.
Invece, poiché “è colui che è”, Dio, afferma Tommaso, si differenzia da ogni altra cosa
perché la sua essenza consiste nell’essere, ovvero perché in lui essere ed essenza
coincidono. Che significa? Significa, risponde Tommaso, che la proprietà fondamentale di
Dio, quella che ne costituisce l’identità, è l’esistere. In altre parole, Dio non è generato, e
quindi non può finire, ossia è eterno, in quanto è l’esistere stesso, ovvero l’essere è la sua
identità decisiva, ciò che egli è innanzitutto e soprattutto.
Secondo Tommaso, il fatto che Dio è per essenza l’essere implica che egli possiede tutte le
qualità al massimo grado, cioè che è perfetto. L’essere, infatti, è co-implicazione di tutte le
perfezioni. In questo senso, l’onnipotenza creativa di Dio è una conseguenza immediata del
fatto che egli sia ciò che esiste per essenza, ovvero l’essente la cui essenza è essere. Infatti,
in quanto possiede l’essere per essenza, Dio può dispensarlo – in gradi diversi a seconda
delle diverse dignità – a ciò che è altro da sé, ossia può creare dal nulla, cioè trasformare il
non-essere in essere, ciò che non è in una cosa che è. Questo, secondo Tommaso, spiega
perché le creature (angeli, uomini, animali, vegetali, minerali), che non hanno l’essere per
essenza, purtuttavia esistono: esse ricevono l’essere da Dio e possono esistere solo per
questo.
E’ evidente il nesso tra questa tesi tomistica e l’argomentazione a posteriori detta “ex
possibili et necessario”: in quanto è per essenza essere, Dio è essere necessario, ovvero
esiste necessariamente, e quindi è ciò che trasforma in realtà la mera possibilità di
esistenza del mondo, cioè di tutte le cose, che altrimenti non esisterebbero. In questo
modo, Tommaso chiarifica in modo razionale il mito biblico della creazione: l’essenza di
ogni cosa non implica la sua esistenza, quindi se il mondo esiste ciò si spiega solo in base
alla creazione divina, che ha fornito l’essere alle essenze, cioè ai diversi modi d’essere, di
tutte le cose.
Ma se “prima” della creazione le cose non esistevano, le loro essenze, a loro volta, come
potevano esistere, ovvero in cosa consistevano? Tommaso risponde che le essenze di tutte
le cose erano idee di Dio, ossia i progetti razionali universali di tutte le cose. Come tali le
essenze di tutte le cose sono eterne, ma solo come pensieri di Dio, non come creature
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
individuali e autonome. Con la creazione le essenze di tutte le cose da idee universali di Dio
si trasformano in individui effettivamente esistenti in quanto Dio dona l’essere a ogni
essenza.
Ma va tenuto ben presente che per Tommaso l’essere che Dio dona alle sue creature non è
lo stesso essere che lui è per essenza. Infatti, l’essere di Dio è un possesso originario e
quindi necessario, mentre l’essere che Dio dà alle sue creature è un essere derivato e quindi
contingente (in quanto Dio avrebbe potuto anche non creare). Per distinguere l’essere di
Dio dall’essere delle creature Tommaso denomina “esistenza” l’essere delle creature. In
altre parole, Dio è, mentre ogni cosa creata esiste. Per noi “esistere” è un sinonimo di
essere che ne esprime ancor più nettamente il significato predicativo (“questo libro è”)
rispetto a quello copulativo (“questo libro è pesante”). Per Tommaso, che parlava latino,
ex-sistere significava “essere da”, cioè essere per derivazione da qualcos’altro. Questo
spiega l’uso tomistico in due significati parzialmente diversi dei termini essere (Dio)esistenza (creature).
Ma Tommaso spiega non solo la differenza terminologica di essere ed esistenza ma anche
quella ontologica, dicendo che solo per Dio si può parlare di essere in senso proprio,
mentre per tutte le cose se ne può parlare solo in senso analogico. In altre parole l’esistere
assomiglia all’essere, ma non lo è propriamente, è un similessere, oppure un semiessere.
Infatti, solo Dio è perché Dio è l’essere, e quindi lo possiede, e di conseguenza è eterno; le
creature, invece, sono solo perché partecipano dell’essere di Dio, per così dire lo ricevono
in concessione, e pertanto esse sono o temporanee o al massimo immortali (angeli e anime
umane), ma mai eterne.
Utilizzando, e al tempo stesso modificando Aristotele, Tommaso aggiunge che le essenze di
tutte le creature – a eccezione degli angeli – sono costituite dalla forma e dalla materia
propria di ogni specie di cose. Per esempio, l’essenza di tutti gli alberi comprende la loro
organizzazione razionale (l’interazione radici, tronco, rami, foglie; la sintesi clorofilliana,
ecc.) da una parte; e il legno e la fibra vegetale dall’altra.
Poiché non implica l’essere, l’essenza creaturale, composta da forma e materia, costituisce
però solo la potenzialità dell’esistenza degli individui di una determinata specie (p.e. un
pino, un larice, un pioppo, ecc.). Ma allora come fa la potenzialità ad attuarsi? A differenza
che per Aristotele, per Tommaso la potenzialità di esistere dell’essenza non può attuarsi
autonomamente e automaticamente. Affinché la potenzialità dell’essenza possa attuarsi,
cioè perché l’essenza da virtuale possa diventare reale, occorre l’intervento creativo di Dio.
E’ Dio, e solo Dio, secondo Tommaso, che permette il passaggio dalla potenzialità
all’attuazione, cioè dall’essenza all’esistenza, di tutte le cose. In questo modo, Tommaso
ribadisce che senza l’atto creativo di Dio il mondo non esisterebbe.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 4
TOMMASO: DIO HA CREATO UN MONDO AUTONOMO
Tanto il vero quanto il bene, come è stato detto, hanno l’essenza del
perfezionamento oppure della perfezione. Tuttavia, l’ordine delle perfezioni
può essere inteso in due modi: nel primo dal punto di vista delle perfezioni
stesse e nel secondo da quello delle cose perfettibili.
Considerando dunque il vero e il bene per se stessi, allora il vero è prima del
bene per essenza perché il vero perfeziona qualcosa in conformità alla sua
essenza di specie, mentre il bene perfeziona qualcosa non solo in conformità
alla sua essenza di specie ma anche in conformità alla sua esistenza come cosa
effettiva.
E in tal modo l’essenza del bene include molte più qualità dell’essenza del vero
e si costituisce, per così dire, addizionandosi a quest’ultima; e così il bene
presuppone il vero, mentre il vero presuppone l’uno dal momento che
l’essenza del vero è portata a compimento dalla comprensione dell’intelletto
e, d’altra parte, qualcosa è conoscibile in tanto in quanto è unità. Chi infatti
non conosce l’uno non conosce niente, come dice il Filosofo nel IV della
Metafisica.
Di conseguenza è tale l’ordine di questi nomi trascendentali, se vengono
considerati conformemente a loro stessi, che dopo l’essente viene l’uno,
quindi dopo l’uno il vero, e successivamente dopo il vero il bene.
Se tuttavia l’ordine tra la verità e il bene è considerato dal punto di vista delle
cose perfettibili, allora al contrario il bene viene naturalmente prima del vero
[…].
Tommaso d’Aquino, Quaestiones Disputatae. De Veritate, Questione 21, articolo 3.
In un secondo modo l’essenza si trova nelle sostanze intellettuali create15,
nelle quali l’essere è altro dalla loro essenza; benché l’essenza sia senza
materia. Perciò il loro essere non è assoluto, ma ricevuto; ma la loro natura o
quiddità è assoluta, non ricevuta in alcuna materia. E perciò si dice nel libro
De Causis16 che le intelligenze sono infinite inferiormente, e finite
superiormente: sono infatti finite quanto al loro essere che ricevono dall’alto;
tuttavia non sono finite riguardo all’inferiore, perché le loro forme non sono
limitate alla capacità di una materia che le riceve.
E perciò in tali sostanze non si trova pluralità di individui in un’unica specie,
come si è detto, se non nell’anima umana, a motivo del corpo a cui si unisce. E
sebbene la sua individuazione dipenda occasionalmente dal corpo, quanto al
15
16
Si tratta degli angeli.
E’ un’opera attribuita ad Aristotele.
546
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
suo inizio, poiché non si acquista da sé l’essere individuato se non nel corpo di
cui è atto; tuttavia non è necessario che, sottratto il corpo, abbia a cessare
l’individuazione, perché avendo un essere assoluto, dal quale essa ha
acquisito l’essere individuato, per il fatto che è diventata forma di questo
corpo, quell’essere rimane sempre individuato. […]
In un terzo modo l’essenza si trova nelle sostanze composte di materia e
forma, nelle quali l’essere è ricevuto e finito per il fatto che hanno l’essere da
un altro: e inoltre la loro natura o quiddità è ricevuta nella materia segnata. E
perciò sono finite sia superiormente che inferiormente; e in esse già per la
divisione della materia segnata è possibile la moltiplicazione degli individui in
un’unica specie.
Tommaso d’Aquino, L’ente e l’essenza, cap. VIIn un secondo modo l’essenza si trova
nelle sostanze intellettuali create17, nelle quali l’essere è altro dalla loro
essenza; benché l’essenza sia senza materia. Perciò il loro essere non è
assoluto, ma ricevuto; ma la loro natura o quiddità è assoluta, non ricevuta in
alcuna materia. E perciò si dice nel libro De Causis18 che le intelligenze sono
infinite inferiormente, e finite superiormente: sono infatti finite quanto al
loro essere che ricevono dall’alto; tuttavia non sono finite riguardo
all’inferiore, perché le loro forme non sono limitate alla capacità di una
materia che le riceve.
E perciò in tali sostanze non si trova pluralità di individui in un’unica specie,
come si è detto, se non nell’anima umana, a motivo del corpo a cui si unisce. E
sebbene la sua individuazione dipenda occasionalmente dal corpo, quanto al
suo inizio, poiché non si acquista da sé l’essere individuato se non nel corpo di
cui è atto; tuttavia non è necessario che, sottratto il corpo, abbia a cessare
l’individuazione, perché avendo un essere assoluto, dal quale essa ha
acquisito l’essere individuato, per il fatto che è diventata forma di questo
corpo, quell’essere rimane sempre individuato. […]
In un terzo modo l’essenza si trova nelle sostanze composte di materia e
forma, nelle quali l’essere è ricevuto e finito per il fatto che hanno l’essere da
un altro: e inoltre la loro natura o quiddità è ricevuta nella materia segnata. E
perciò sono finite sia superiormente che inferiormente; e in esse già per la
divisione della materia segnata è possibile la moltiplicazione degli individui in
un’unica specie.
Tommaso d’Aquino, L’ente e l’essenza, cap. VI
17
18
Si tratta degli angeli.
E’ un’opera attribuita ad Aristotele.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Condotta a termine la sua indagine razionale dell’essenza di Dio con l’evidenziazione dei
suoi insormontabili limiti, Tommaso rivolge la sua attenzione filosofica al creato, cioè al
mondo in quanto prodotto dal nulla dall’atto creativo di Dio.
Ma il creato presuppone la creazione, dunque preliminarmente si tratta per Tommaso di
interpretare razionalmente, nei limiti del possibile, un altro mistero della fede. Al riguardo,
sono due i principali problemi posti dalla descrizione biblica della creazione divina: il
primo riguarda la possibilità stessa della creazione, in quanto generazione dal nulla; il
secondo la temporalità della creazione, cioè il fatto che Dio abbia creato non dall’eternità
ma in un certo istante del corso del tempo. Il primo problema, secondo Tommaso può
essere risolto del tutto razionalmente, in base alla teoria di Dio come unico essente
necessario, ovvero come colui che possiede l’essere per essenza.
Il problema della temporalità della creazione, invece, sostiene Tommaso, non può essere
risolto razionalmente, è e deve restare un dogma della fede. Infatti, Tommaso argomenta
efficacemente, anche in contrasto con Aristotele, che sul piano razionale la questione
dell’origine nel tempo o dall’eternità del creato è indecidibile, cioè irrisolvibile. In altre
parole, per Tommaso vi sono argomenti razionali tanto a favore della prima quanto a
favore della seconda tesi e tra loro equivalenti. Di conseguenza se non si può dimostrare
razionalmente che Dio abbia creato il mondo nel tempo, razionalmente non lo si può
nemmeno escludere. Pertanto l’indagine razionale della creazione come verità rivelata,
secondo Tommaso, conferma che la ragione, da un lato, incontra limiti invalicabili, e
dall’altro, e soprattutto, che non contraddice la fede, ovvero che credere non è irrazionale.
Naturalmente, anche per Tommaso, come per tutta la filosofia cristiana, la creazione
innanzitutto non è un atto necessario ma è un atto volontario di Dio – cioè Dio avrebbe
potuto anche non creare – e, in secondo luogo, è un atto d’amore, anzi è l’atto stesso con
cui Dio ama ciò che è altro da sé, ossia le sue creature. A partire da questi capisaldi,
Tommaso elabora una sua originale interpretazione della creazione imperniata su due
elementi, entrambi propri, naturalmente, dell’essenza di Dio: 1) le idee e 2) l’essere.
Le idee di Dio contengono le essenze, ovvero le proprietà fondamentali, sia formali sia
materiali, di tutti i generi e di tutte le specie delle creature, e perfino di tutti gli individui,
benché solamente allo stato di modelli o di progetti, ossia di meri possibili. Da questo
punto di vista, Tommaso sostiene che tutte le cose, a livello di pura razionalità, sono
composti di una certa forma e una certa materia, ovvero di materia “segnata”. In altre
parole, differenziandosi da Aristotele, Tommaso sostiene che la materia non è mai allo
stato indifferenziato, ma è sempre specificata e individualizzata in correlazione con una
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
certa forma. P.e., data l’ “essenza uomo”, la sua forma è l’anima razionale, cioè
l’intelligenza, e la sua materia è il corpo umano che oltretutto assume configurazioni
diverse (più o meno alto, con la pelle più o meno chiara, ecc.) a seconda di ogni singolo
individuo. Naturalmente, fanno eccezione gli angeli, i quali, pur essendo creature come
tutte le altre, hanno uno statuto ontologico superiore, e le cui essenze, dunque,
comprendono solo la forma.
Le essenze di tutte le creature, tuttavia, sono solo potenzialità di esistere. Perché tale
potenzialità possa attuarsi, afferma Tommaso, occorre l’essere, cioè la proprietà di esistere,
che solo Dio possiede per essenza e che può e vuole concedere, per amore, alle essenze di
tutte le cose, trasformandole così da meri possibili in individui realmente esistenti. La
creazione dunque è una compartecipazione parziale al proprio essere concessa
gratuitamente da Dio alle essenze da lui stesso pensate.
Poiché tutte le cose, una volta create, sono “essenti”, cioè esistono effettivamente,
Tommaso afferma che il mondo, in quanto creato da Dio, possiede come ragione
fondamentale e universale, ossia come denominatore comune decisivo, l’essere, seppur nel
grado minore dell’esistere (in latino ex-sistere).
Alla proprietà preliminare e più generale, ma anche più indefinita, dell’essere seguono,
secondo Tommaso, altre quattro proprietà, relativamente più definite ma sempre della
massima generalità e fondamentalità, in quanto appartengono a tutti gli “essenti” senza
alcuna eccezione e connotano la loro esistenza. Queste proprietà supreme sono chiamate
da Tommaso “trascendentali”, proprio perché si situano ontologicamente al di là non solo
dell’individualità di tutti gli essenti ma anche delle loro specie e dei loro generi. I
trascendentali sono:
1. l’Uno: ogni cosa, o essente, esiste e può esistere solo in quanto costituisce un’unità
essenziale, ovvero un insieme ordinato inseparabile, tale per cui, se perde una sua
parte essenziale, non può esistere più (almeno come quella cosa). P.e., se il cervello di
un uomo non è più attivo, benché sia vivo, egli non esiste più come un uomo ma solo
come un organismo biologico, dal momento che non può più esercitare la sua
intelligenza.
2. Il Vero: ogni essente è tale perché rispecchia in sé l’essenza divina dalla quale è
scaturito e, di conseguenza, è aperto alla conoscenza, ovvero può essere
completamente conosciuto per ciò che realmente è.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
3. Il Bene: ogni essente persegue il proprio bene, ma l’essere, cioè l’esistenza, di ogni
essente è un benessere e di conseguenza, in quanto bene, ogni essente tende a
conservare la propria esistenza.
4. Il Bello: ogni essente, nelle sue forme e nei suoi colori sensibili, manifesta
esteticamente la sua origine razionale e divina, ovvero il bello è l’espressione sensibile
dell’unità, della verità e del bene propri di ogni cosa.
Secondo Tommaso, dai quattro trascendentali discendono, per corrispondenza con le
rispettive essenze, i generi (minerale, vegetale, animale) di tutte le cose, dai generi, a loro
volta, le specie (metalli, gas, larici, rose, insetti, mammiferi, ecc.) e, infine, dalle specie tutti
gli individui, cioè i singoli essenti dei diversi generi e delle diverse specie. Dal punto di
vista ontologico, cioè della intensità e della perfezione dell’essere, uno, vero, bene, bello,
generi e specie costituiscono una scala gerarchica e, similmente, anche i diversi generi e le
diverse specie, e dunque gli individui che appartengono loro, sono gerarchicamente
disposti a seconda del loro grado di perfezione relativa.
In altre parole, Tommaso propone una configurazione piramidale del cosmo al cui vertice
c’è Dio, in quanto essere necessario, da cui discendono, in modo continuativo – per così
dire, come uno scivolo senza alcuna incrinatura – tutti gli essenti secondo un preciso
ordine gerarchico.
Poiché Dio, in quanto essere necessario, e dunque creatore, è la causa prima del creato,
Tommaso chiama i trascendentali, i generi e le specie “cause seconde”. Differenziandosi
dalla tradizione neoagostiniana, Tommaso sostiene che gli eventi fisici sono causati da Dio
indirettamente, cioè attraverso le cause seconde da lui stabilite. Tenendo presente che le
cause seconde corrispondono alle diverse proprietà naturali delle cose fisiche, la nuova tesi
di Tommaso significa che il mondo fisico possiede delle leggi autonome e stabili, ovvero un
proprio ordine razionale voluto da Dio.
La ragione umana, dunque, se non può conoscere Dio, se non parzialmente, in quanto
infinito, può e deve conoscere il mondo fisico, in quanto finito e in quanto opera di Dio. In
altre parole, Tommaso valorizza la ricerca scientifica in campo naturale non solo e non
tanto come impresa umana, volta a prevedere e prevenire i fenomeni naturali, ma anche e
soprattutto come compito religioso dell’uomo.
Per comprendere meglio la differenza tra la posizione neoagostiniana, che negava le cause
seconde e sosteneva la volontaria, e quindi imprevedibile, causazione divina diretta di ogni
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
evento, e quella tomistica, si può ricorrere a una similitudine: nel primo caso Dio è come
un burattinaio che muove e dà voce direttamente ai suoi burattini o alle sue marionette;
nel secondo Dio è come un ideatore e costruttore di robot a molla i quali, una volta
azionati, si muovono da soli secondo le regole stabilite dal costruttore.
In questo senso, sarebbe arduo edificare una scienza dei burattini, dal momento che il
burattinaio, pur seguendo un canovaccio, varia continuamente la sua rappresentazione; al
contrario, è facile edificare una scienza dei robot, perché i loro movimenti seguono regole
precise e invariabili.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 5
TOMMASO: LA VERITA’ E’ ASSIMILAZIONE DELLA MENTE ALLE COSE
Come il termine bene esprime ciò verso cui tende la facoltà desiderativa, così
il vero esprime ciò verso cui tende l’intelletto. Ma tra la facoltà desiderativa e
l’intelligenza, o qualsiasi altra potenza conoscitiva, vi è questo divario, che la
conoscenza si ha perché il conoscibile viene a trovarsi nel soggetto
conoscente, mentre il desiderio si realizza quando il relativo soggetto si
muove verso la cosa desiderata. Per cui il termine della facoltà desiderativa,
che è il bene, è nella cosa desiderata, mentre il termine della conoscenza, che
è il vero, è nell’intelligenza stessa.
Ora, come il bene è nella cosa in quanto questa è relazionata alla facoltà
desiderativa, e per tale motivo la nozione di bene proviene alla facoltà
desiderativa dall’oggetto, per cui questa è detta buona perché tende al bene,
così, essendo il vero nell’intelletto in quanto l’intelletto si adegua alla cosa
conosciuta, necessariamente la nozione di vero proviene alla cosa conosciuta
dall’intelletto, in maniera che la stessa cosa conosciuta si dice vera per il
rapporto che ha con l’intelletto.
Ma l’oggetto conosciuto può avere con un intelletto rapporti essenziali o
accidentali. E’ relazionato in modo essenziale a quell’intelletto dal quale
ontologicamente dipende, accidentalmente invece all’intelletto dal quale può
essere conosciuto. Come se dicessimo: la casa comporta una relazione
essenziale alla mente dell’architetto, una relazione accidentale invece a un
[altro] intelletto da cui non dipende. Ora, una cosa non si giudica in base a ciò
che le conviene accidentalmente, ma in base a ciò che le si addice
essenzialmente: quindi ogni singola cosa si dice vera assolutamente per il
rapporto che ha con l’intelligenza dalla quale dipende. Quindi i prodotti delle
arti si dicono veri in ordine al nostro intelletto: vera si dice infatti quella casa
che riproduce la forma che è nella mente dell’architetto, e vere le parole che
esprimono un pensiero vero. Così le realtà naturali si dicono vere in quanto
attuano la somiglianza delle specie che sono nella mente di Dio: si dice infatti
vera pietra quella che ha la natura propria della pietra, secondo la concezione
preesistente nella mente di Dio. Quindi la verità è principalmente
nell’intelletto e secondariamente nelle cose, per la relazione che esse hanno
all’intelletto come al loro principio.
Per tale ragione la verità è stata definita in diverse maniere. S. Agostino [De
vera relig. 36] dice che «la verità è la manifestazione di ciò che è». S. Ilario [De
Trin. 5, 14] insegna che «il vero è ciò che dichiara o manifesta l’essere». E
queste definizioni riguardano la verità in quanto è nella mente. Definizione
invece della verità delle cose in rapporto all’intelletto è questa di S. Agostino
[De vera relig. 36]: «La verità è la perfetta somiglianza delle cose con il loro
552
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
principio, senza alcuna dissomiglianza»; e quest’altra di S. Anselmo [De verit.
12]: «La verità è la rettitudine percettibile con la sola mente»: infatti è retto
ciò che concorda col suo principio; e anche questa di Avicenna [Met. 8, 6]: «La
verità di ciascuna cosa è la proprietà del suo essere, quale le è stato
assegnato». — La definizione poi: «La verità è l’adeguazione tra la cosa e
l’intelletto» [cfr. a. 2, ob. 2] si può riferire ai due aspetti della verità.
Tommaso d’Aquino, Somma teologica, I, Questione 16, articolo 1
Dal momento che per lui l’uomo ha non solo la possibilità scientifica ma anche il dovere
religioso di scoprire le cause seconde del cosmo fisico, ossia le leggi razionali del mondo
naturale, nell’esporre la sua teoria della conoscenza, Tommaso indica, innanzitutto, la
regola fondamentale dell’attività conoscitiva. Essa consiste in una formula tanto breve
quanto chiara: “adaequatio intellectus ad rem”, la corrispondenza (o l’assimilazione, o
anche l’adesione) dell’intelletto alla cosa. In altre parole se vogliamo conoscere in modo
veritiero e completo qualcosa, il nostro intelletto deve slanciarsi verso (ad) l’oggetto da
conoscere fino a rendersi uguale ad esso (aequatio), cioè fino ad aderirvi del tutto.
Ma qual è il fondamento razionale di questa regola prima della scienza? È il trascendentale
Vero, in base al quale, come abbiamo visto, ogni essente possiede la proprietà di
rispecchiare la propria essenza divina e di conseguenza risulta conoscitivamente
accessibile in modo esatto e totale.
In questo senso, Tommaso incardina la regola suprema della conoscenza umana sulla
seguente argomentazione:
 poiché tutte le cose, in quanto “vere”, rispecchiano le essenze divine, cioè le idee di
Dio (“adaequatio rei ad intellectum divinum”);
 quando l’intelletto umano si assimila alle cose (“adaequatio intellectus humani ad
rem”);
 allora l’intelletto umano si assimila all’intelletto divino (“adaequatio intellectus
humani ad intellectum divinum”);
 ma l’intelletto divino è la verità;
 pertanto, l’uomo consegue la verità.
In altre parole, la regola fondamentale della conoscenza è la corrispondenza della mente
umana agli oggetti della conoscenza perché solo così la mente umana può rispecchiare le
loro essenze divine e in tal modo conseguire la loro verità totale e certa.
Due sono le più importanti implicazioni della concezione tomistica della verità scientifica
come corrispondenza tra l’intelletto umano e le cose:
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
1. il criterio fondamentale della verità scientifica non è soggettivo, cioè non è un
criterio della mente umana, ma è oggettivo, ossia fa parte della costituzione
ontologica delle cose;
2. l’uomo, se non può conoscere l’essenza di Dio, può conoscere in modo esaustivo le
essenze di tutte le cose fisiche e dell’intero cosmo in modo del tutto certo, in quanto
garantito da Dio stesso.
In questo modo, Tommaso dà un contributo decisivo allo sviluppo della scienza, in quanto,
a differenza dei filosofi antichi, teorizza che la ragione umana non incontra limiti di
principio nella conoscenza del mondo fisico, ovvero che il mondo fisico è pienamente
conoscibile. Non si può fare a meno di notare come questa posizione epistemologica sia un
risvolto della teoria della creazione: poiché il mondo è prodotto unicamente da un
principio del tutto razionale, esso possiede un ordine razionale ben più esteso e profondo
di quello pensato dai filosofi antichi e dunque è conoscibile razionalmente in modo
completo.
Stabilito il sommo criterio della conoscenza, Tommaso, seguendo le orme di Aristotele,
delinea il procedimento conoscitivo, scandendolo nei suoi passaggi fondamentali. Secondo
Tommaso, la conoscenza se vuole essere scientifica, ovvero conseguire la verità completa,
deve necessariamente partire dalla sensazione, meglio da ripetute sensazioni dell’oggetto
che si vuole conoscere, ossia dall’esperienza sensibile.
E’ chiaro che questo avvio empirico del processo conoscitivo è un corollario della regola
fondamentale della conoscenza: se per conoscere la verità di una cosa, il nostro intelletto
deve assimilarsi alla cosa stessa, ne segue che innanzitutto deve averne una conoscenza
sensibile. Ma la conoscenza sensibile, benché necessaria, non è sufficiente. Essa deve
essere superata e sviluppata dalla conoscenza razionale, in quanto l’assimilazione completa
dell’intelletto alla cosa, per Tommaso, non può limitarsi all’assimilazione alle sue proprietà
sensibili, bensì deve raggiungere la sua essenza, ossia la sua organizzazione razionale
complessiva. Il conseguimento di questo ulteriore e completo livello di assimilazione alla
cosa non può essere compito dei sensi, ma solo dell’intelletto.
A sua volta, secondo Tommaso, l’intelletto umano può assolvere questo compito solo
perché è articolato in due parti: l’intelletto potenziale, che coincide con la nostra coscienza,
e l’intelletto agente (o attuato), che invece originariamente è inconscio e può diventare
cosciente solo gradualmente e solo in base all’ampliamento dell’esperienza sensibile.
Grazie alla conoscenza sensibile, l’intelletto potenziale riceve e riproduce in sé l’immagine
sensibile dell’oggetto esperito. Stimolato dall’intelletto potenziale, l’intelletto agente, che
conosce le essenze razionali (o intellegibili) di tutte le cose, ma di cui non siamo coscienti,
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
fornisce, per così dire, l’essenza della cosa esperita all’intelletto potenziale e in questo
modo fa attuare l’intelletto potenziale, cioè gli permette di conseguire la conoscenza
razionale (benché limitatamente alla cosa esperita). Così, grazie alla conoscenza razionale,
cioè alla conoscenza delle essenze delle cose, il processo conoscitivo può giungere a
compimento, cioè conseguire l’assimilazione completa dell’intelletto alla cosa. Tommaso,
insomma, teorizza che la conoscenza razionale consiste in un procedimento di astrazione,
ossia nell’eliminare le proprietà accidentali per isolare evidenziare quelle essenziali, cioè
quelle che costituiscono la reale identità di qualcosa.
Sulla base della sua teoria della conoscenza, Tommaso definisce la sua posizione nella
disputa sugli universali. Secondo lui, gli universali esistono realmente:
 sia ante rem (prima e indipendentemente dagli essenti fisici), in quanto idee di Dio;
 sia in re (negli essenti fisici singolari) in quanto forme razionali comuni a tutti i
membri di ogni specie;
 sia post rem (come effetto della conoscenza sensibile), come concetti della mente
umana, ovvero come rappresentazioni mentali delle forme razionali delle cose e
delle idee di Dio.
Dunque Tommaso è un realista: i termini universali per lui corrispondono a essenti reali,
cioè designano realtà universali effettivamente esistenti.
La teoria tomistica della conoscenza, in particolare per ciò che concerne il duplice intelletto
dell’uomo, è strettamente legata alla teoria tomistica dell’anima, ossia alla psicologia
tomistica. L’uomo, infatti, per Tommaso, è l’unico essente fisico che possiede un’anima
razionale (articolata in intelletto agente e intelletto potenziale) la quale è la forma (cioè
l’ordinamento) del corpo, ovvero il principio della vita del corpo e delle sue funzioni
fisiologiche, quella vegetativa (nutrimento) e quella sensitiva (movimento e sensibilità). Di
conseguenza, l’anima umana, quando svolge le funzioni vegetativa e sensitiva, interagisce,
e quindi comunica, con il corpo, venendone così parzialmente configurata; dall’altro lato,
quando svolge la funzione conoscitiva, rimane separata da corpo, cioè si mantiene
puramente razionale, potendo così conseguire la conoscenza degli intellegibili.
Tuttavia, la separatezza dell’anima razionale (sia come intelletto agente sia come intelletto
potenziale) non comporta che essa sia unica e universale per tutti gli uomini, e che dunque
l’anima individuale, quella vegetativo-sensitiva, si dissolva insieme al corpo, come aveva
sostenuto l’autorevole interprete di Aristotele Ibn Ruschd (Averroè) e come sostenevano –
cadendo per Tommaso nell’eresia – alcuni filosofi scolastici, come Sigieri di Brabante.
Infatti, secondo Tommaso, ogni intelletto umano (sia potenziale sia agente) è
individualizzato e pertanto, alla morte del corpo, l’anima individuale di ogni uomo non si
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
dissolve insieme al suo corpo ma perdura, dal momento che, essendo razionale, è
immortale.
Così argomentata l’immortalità dell’anima umana, Tommaso aggiunge che, anche se divisa
dal corpo in seguito alla morte, essa conserva l’impronta del corpo di cui era stata forma.
Questa tesi tomistica è correlata al “mistero” cristiano della resurrezione dei corpi alla fine
dei tempi, ovvero il giorno del giudizio universale, quando, cioè, tutti i corpi dei morti
saranno ricostituiti e si riuniranno alle loro anime.
In altre parole, poiché in base alla rivelazione, ogni corpo è indissolubilmente legato a
un’anima razionale, secondo Tommaso, non solo l’anima razionale deve essere
originariamente individuale ma deve essere ulteriormente individualizzata dal corpo e
dalle sue azioni. Questa individualizzazione è il fondamento, per Tommaso, della
responsabilità morale di ogni uomo, cioè è ciò che fa sì che un uomo acquisisca dei meriti o
dei demeriti agli occhi di Dio. In altre parole che sia dichiarato giusto, e quindi destinato
alla vita beata, oppure sia bollato come ingiusto, e condannato alla dannazione.
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TAPPA 6
TOMMASO: LA FELICITA’ E’ LA CONTEMPLAZIONE DI DIO
La beatitudine è il sommo bene. Ma è proprio di Dio essere il sommo bene.
Non essendoci quindi più sommi beni, è evidente che la beatitudine si
identifica con Dio.
La beatitudine è l’ultimo fine, al quale tende per natura la volontà umana. Ma
la volontà non deve avere come fine un oggetto diverso da Dio: poiché di lui
soltanto dobbiamo fruire, secondo l’espressione di S. Agostino [De doctr.
christ. 1, cc. 5, 22]. Quindi la beatitudine è Dio stesso. […]
La felicità ultima e perfetta non può trovarsi che nella visione dell’essenza
divina. Per averne la dimostrazione bisogna considerare due cose. La prima è
che l’uomo non è perfettamente felice fino a che gli rimane qualcosa da
desiderare e da cercare. La seconda è che la perfezione di ciascuna potenza è
determinata dalla natura del suo oggetto. Ora l’intelletto, come insegna
Aristotele [De anima 3, 6], ha per oggetto la quiddità o essenza delle cose.
Quindi la perfezione di un intelletto si misura dal suo modo di conoscere
l’essenza di una cosa. Per cui se un intelletto viene a conoscere l’essenza di un
effetto partendo dalla quale però non è possibile conoscere l’essenza o
quiddità della causa, non si dirà che l’intelletto può raggiungere senz’altro la
causa, sebbene possa conoscerne l’esistenza mediante gli effetti. Quando
dunque l’uomo nel conoscere gli effetti arriva a comprendere che essi hanno
una causa, conserva il desiderio naturale di conoscere la quiddità della causa.
E si tratta di un desiderio dovuto alla meraviglia, come dice Aristotele [Met. 1,
2], che stimola la ricerca. Come chi osserva le eclissi del sole capisce la loro
dipendenza da una causa, la cui natura però gli sfugge: e allora si meraviglia,
e mosso dalla meraviglia si pone alla ricerca. Ricerca che non cessa finché non
giunge a conoscere la natura della causa.
Ora, dal momento che l’intelletto umano, conoscendo la natura di un effetto
creato, arriva a conoscere solo l’esistenza di Dio, la perfezione da esso
conseguita non è tale da raggiungere veramente la causa prima, ma rimane
ancora il desiderio naturale di indagarne la natura. Quindi l’uomo non è
perfettamente felice. Per la felicità perfetta si richiede dunque che l’intelletto
raggiunga l’essenza stessa della causa prima. E così esso avrà la sua
perfezione unendosi a Dio come al suo oggetto, nella qual cosa soltanto si
trova la felicità dell’uomo, come si è visto sopra. […]
In questa vita si può avere una certa partecipazione della felicità, ma non la
vera e perfetta beatitudine. E ciò può essere confermato da due
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
argomentazioni. Primo, partendo dalla nozione stessa universale di felicità.
Infatti la beatitudine, essendo «un bene perfetto ed esauriente», esclude ogni
male e appaga ogni desiderio. Ma in questa vita è impossibile escludere ogni
male. Infatti la vita presente soggiace a molti mali inevitabili: all’ignoranza
dell’intelletto, agli affetti disordinati dell’appetito, ai molteplici malanni del
corpo, come S. Agostino espone con diligenza nel De Civitate Dei [19, 4 ss.]. E
così pure nella vita presente non può essere saziato il desiderio del bene.
Infatti per natura l’uomo desidera il perdurare del bene che possiede, e invece
i beni di questa vita sono transitori: poiché è transitoria la vita stessa, che per
natura desideriamo e che vorremmo far durare in perpetuo, avendo l’uomo
un orrore istintivo della morte. Quindi è impossibile il possesso della
beatitudine nella vita presente. Secondo, considerando ciò in cui
specialmente consiste la beatitudine, cioè la visione dell’essenza divina:
visione che l’uomo non può conseguire in questa vita, come si è dimostrato
nella Prima Parte [q. 12, a. 2]. Per cui risulta evidente
che nessuno in questa vita può acquistare la vera e perfetta beatitudine. […]
L’uomo può acquistare la beatitudine imperfetta, raggiungibile nella vita
presente, come può acquistare le virtù, negli atti delle quali consiste tale
beatitudine, come vedremo in seguito [q. 63]. Ma la perfetta beatitudine
dell’uomo consiste, e lo abbiamo già visto [q. 3, a. 8], nella visione
dell’essenza divina. Ora, vedere Dio per essenza è al disopra della natura non
soltanto dell’uomo, ma di qualsiasi creatura, come fu già dimostrato nella
Prima Parte [q. 12, a. 4]. Infatti la conoscenza naturale di una qualsiasi
creatura segue il modo della sua sostanza, come il De Causis [8] dice a
proposito dell‘Intelligenza [angelica]: «Conosce le cose che sono al disopra e
quelle che sono al disotto di sé secondo il modo della propria sostanza». Ora,
qualsiasi conoscenza che segua il modo di una sostanza creata è inadeguata
alla visione dell’essenza divina, che sorpassa all’infinito ogni sostanza creata.
Quindi né l‘uomo né qualsiasi altra creatura può conseguire l’ultima
beatitudine con le sue capacità naturali. […]
Come si è detto nella Seconda Parte [I-II, q. 110, aa. 3, 4], la grazia considerata
in se stessa perfeziona l’essenza dell’anima, in quanto le comunica una certa
somiglianza con l’essere divino. E come dall’essenza dell’anima derivano le
potenze, così dalla grazia derivano alle potenze dell’anima alcune perfezioni
che vengono dette virtù e doni, e che completano le potenze stesse in ordine ai
loro atti. Ora, i sacramenti sono ordinati a certi effetti speciali, necessari alla
vita cristiana: p. es. il battesimo è destinato a una specie di rigenerazione
spirituale, per cui l’uomo muore ai vizi e diventa membro di Cristo; il quale
effetto è qualcosa di speciale, distinto dagli atti delle potenze dell’anima. E lo
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
stesso si dica degli altri sacramenti. Come dunque le virtù e i doni aggiungono
alla grazia in genere un perfezionamento delle potenze in ordine ai loro atti,
così la grazia sacramentale aggiunge, sia alla grazia in genere che alle virtù e
ai doni, uno specifico aiuto divino per conseguire il fine del sacramento. E in
questo modo la grazia sacramentale aggiunge qualcosa alla grazia delle virtù e
dei doni.
Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, questione 3, articoli 1 e 8;
questione 5, artt. 3 e 5; questione 62, art. 2.
Come la teoria della conoscenza tomistica si fonda sul trascendentale del “vero”, così l’etica
tomistica si incardina sul trascendentale del “bene”. Come abbiamo visto ( Tappa 3), che
ogni essente abbia la proprietà fondamentale del “bene” significa che ogni essente tende al
proprio bene, ovvero a conservare e perfezionare, ossia accrescere, il proprio benessere e
quindi la propria felicità. Ma il bene – e quindi la felicità – di ogni essente varia a seconda
del suo grado ontologico, cioè del genere e della specie cui appartiene.
A differenza di tutti gli altri essenti fisici, che perseguono il proprio bene in base alla
determinazione delle loro “cause seconde” – p.e. esempio un uccello costruisce il proprio
nido o migra in base all’istinto – l’uomo possiede la “volontà”, cioè la capacità di
autodeterminare coscientemente e liberamente il proprio agire. La volontà, che dunque
include il libero arbitrio, è infatti il correlato pratico dell’intelligenza, l’altra faccia della
conoscenza teorica. In altre parole, la razionalità dell’uomo si manifesta, secondo
Tommaso, sia come capacità di conoscere (intelletto) sia come capacità di decidere il
proprio comportamento corporeo (volontà).
In questo quadro, l’etica ha il compito di chiarire qual è il bene proprio dell’uomo e in che
modo ogni individuo umano può conservarlo e perfezionarlo. Il che equivale a dire che per
Tommaso l’etica è la scienza che permette all’uomo di essere davvero libero, stante che per
lui la libertà non è la semplice volontà, che potrebbe anche scegliere il male, ma solo la
volontà che sceglie il bene. In altre parole, la volontà, ossia il libero arbitrio, è condizione
necessaria ma non sufficiente della libertà in senso proprio, che è sempre e solo volere il
perfezionamento del proprio bene e agire di conseguenza.
Ma allora qual è il bene che l’uomo deve perseguire? Nella nostra vita, afferma Tommaso,
abbiamo e vogliamo molti e diversi beni a ognuno dei quali associamo un maggior o minor
grado di felicità. Tutti questi beni sono collegati da rapporti di mezzo/fine. In altre parole, i
beni minori sono mezzi per raggiungere beni maggiori, ossia appunto per accrescere il
proprio benessere/felicità. P.e., mangiare cibi sostanziosi può essere finalizzato a
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
sviluppare le proprie capacità fisiche, lo sviluppo delle proprie capacità fisica a vincere
delle gare sportive, vincere delle gare sportive a diventare famosi e magari anche ricchi, e
così via. Ma se ogni bene è mezzo per raggiungere un bene maggiore, deve esserci un bene
massimo, capace di garantirci la massima felicità, altrimenti il nostro agire sarebbe privo
di un fine ultimo e dunque sarebbe in realtà privo di uno scopo effettivo, cioè senza senso,
se non altro perché non potremmo mai accontentarci e quindi provare un reale e completo
benessere/felicità.
Per Tommaso, di conseguenza, deve esistere un bene sommo, capace di farci godere la
massima felicità, e che, come tale, deve essere il fine ultimo dell’agire umano. Questo bene
sommo è la beatitudine celeste, che scaturisce dalla contemplazione di Dio nella vita
ultraterrena successiva alla morte fisica.
Tuttavia, afferma Tommaso, oltre alla beatitudine celeste, superiore e perfetta, l’uomo ha
anche la possibilità di godere di una beatitudine terrena, imperfetta e inferiore, ma pur
sempre fonte della massima felicità possibile all’interno della dimensione terrena, ossia
durante la vita fisica. Queste due beatitudini non solo non si escludono, ma la seconda,
quella terrena, è condizione e pregustazione della prima, quella celeste.
Pertanto, secondo Tommaso, l’etica è la scienza che ci dice come possiamo raggiungere la
beatitudine terrena, prima, e la beatitudine celeste poi. Usando una metafora, possiamo
dire che per Tommaso l’etica costituisce innanzitutto una bussola, cioè è lo strumento
capace di indicarci con precisione e certezza la direzione – ovvero la “retta via” – da seguire
per raggiungere la nostra meta finale, cioè la beatitudine; ma, in secondo luogo,
sviluppando la stessa metafora, l’etica consiste anche nella individuazione di altri
strumenti di viaggio, p.e. scarpe da cammino piuttosto che, quando necessario,
l’attrezzatura per scalare la parete di un monte. Fuor di metafora, questi ulteriori strumenti
sono le virtù.
Secondo Tommaso, le virtù ci permettono di volere sempre i beni autentici, cioè di
avanzare sempre, senza mai retrocedere o deviare, lungo la retta via che conduce alla
beatitudine.
In particolare, per Tommaso, vi sono sette virtù fondamentali, cioè più importanti di tutte
le altre, di cui tutte le altre sono, per così dire, corollari. Queste virtù supreme sono:
 le 4 virtù cardinali, che mirano alla beatitudine terrena, ma sono al tempo stesso
condizione necessaria di quella ultraterrena;
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
 le 3 virtù teologali, che si riferiscono alla beatitudine ultraterrena ma sono al tempo
stesso indispensabili alla beatitudine terrena, e dunque, come tali, sono le virtù
superiori.
Le 4 virtù cardinali, mezzi per raggiungere la beatitudine, sono:
1. la giustizia, cioè la capacità di essere giusti con gli altri – p.e. nella divisione dei
lavori e dei redditi – capacità che presuppone considerare gli altri uomini uguali;
2. la prudenza (o saggezza), cioè la capacità di ponderare razionalmente la scelta dei
beni, tenendo conto di tutti i pro e i contro di una scelta, ovvero la capacità di
evitare le decisioni affrettate e impulsive;
3. la fortezza (o coraggio), cioè la capacità di tener ferma la scelta di un bene anche se
essa comporta il rischio di subire dei danni psicofisici (p.e. un lavoratore che
denuncia l’inquinamento prodotto dall’azienda per cui lavora sapendo che questo
può comportare il suo licenziamento);
4. la temperanza (o moderazione), cioè la capacità di limitare il soddisfacimento dei
propri bisogni e dei propri desideri materiali (p.e. bere non più di due bicchieri di
vino al giorno, oppure non guardare la televisione più di due ore al giorno).
Le 3 virtù teologali sono:
1. la carità, cioè la capacità di amare gli altri e, quindi, di agire, in modo disinteressato,
per il loro bene;
2. la speranza, cioè la fiducia nella possibilità di raggiungere la beatitudine celeste
perfetta e dunque anche quella terrena imperfetta;
3. la fede, cioè la fiducia nella rivelazione e dunque nell’esistenza di Dio, senza il quale
nessun uomo potrebbe raggiungere la beatitudine celeste, dal momento che questa
consiste nella visione di Dio, e dunque nemmeno quella terrena.
Tra le superiori virtù teologali, la fede è a sua volta la superiore delle virtù, in quanto senza
la fede verrebbe meno il fine ultimo e quindi il senso di tutte le altre. Ma la fede, per
Tommaso, include la sapienza, cioè l’esercizio della razionalità conoscitiva. Infatti, come
abbiamo visto ( Tappa 1), la ragione, in quanto ancilla fidei, è uno strumento
indispensabile di rafforzamento della fede.
Di conseguenza, l’attività conoscitiva secondo Tommaso, è eticamente superiore all’attività
pratica, ovvero la vita teoretica è superiore alla vita attiva. Ciò significa che, per
raggiungere la beatitudine, innanzitutto quella terrena, l’uomo deve dedicare più tempo
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all’attività conoscitiva piuttosto che a quella pratica. Il che, naturalmente, non esclude la
necessità di agire anche praticamente, in particolare di praticare la carità.
Oltre a indicare il fine ultimo e gli strumenti per raggiungerlo, l’etica tomistica asserisce
anche che ogni uomo è dotato di “sinderesi” cioè della coscienza intuitiva dei principi etici,
ossia le virtù, e quindi della capacità di distinguere il bene dal male. Così stando le cose,
sembrerebbe che l’uomo non possa che compiere il bene. Ma allora come mai in realtà gli
uomini spesso compiono il male?
La risposta di Tommaso segue la teoria del male di Agostino. Il male non esiste come tale,
cioè come male assoluto, ma solo come privazione del bene, cioè come male relativo. Il
bene può avere gradi maggiori e minori, corrispondenti a livelli maggiori o minori di
esistenza, perché solo così è possibile la vita di una molteplicità di creature e la loro
armonia complessiva, ovvero il maggior livello totale di bene. Se dunque nel mondo fisico
c’è un alto livello di male, cioè una consistente privazione di bene, ciò è soltanto colpa
dell’uomo, sia per il peccato originale di Adamo ed Eva, che ha incrudelito la natura
affinché punisse l’uomo per il suo primo peccato, sia per i successivi peccati di tutti gli altri
uomini, che sono causa di dolore. E l’uomo ha la possibilità di peccare, da un lato, perché
Dio ha voluto che fosse libero, e dall’altro perché può scegliere come fine del suo agire un
bene inferiore a quello proprio della sua dignità ontologica.
Poiché, per Tommaso, il peccato originale ha guastato la “sinderesi”, esso ha indebolito la
volontà del bene, cosicché l’uomo può scegliere il male. Per questo, secondo Tommaso, il
cammino etico verso il traguardo della beatitudine può essere percorso dall’uomo solo se
egli è aiutato dalla grazia divina. A differenza di Agostino, però, Tommaso attribuisce a Dio
la prescienza ma non la predestinazione: Dio, essendo fuori del tempo e onnisciente,
conosce le libere scelte di ogni uomo ma in alcun modo le determina.
Inoltre per Tommaso l’uomo, nonostante il peccato originale, ovvero benché la sua
sinderesi sia danneggiata, può comunque farne uso e agire parzialmente bene e anzi
riuscire ad agire sempre meglio. Pertanto, è in grado di acquisire dei meriti per le sue
buone azioni e tali meriti favoriscono l’aiuto della grazia divina. Dunque, secondo
Tommaso, la salvezza dell’uomo è prodotta da una cooperazione tra il suo merito e la
grazia divina.
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TAPPA 7
TOMMASO: LO STATO MIGLIORE E’ UNA REPUBBLICA PRESIDENZIALE
Come abbiamo già visto, la legge non è che il dettame della ragione pratica
esistente nel principe che governa una società, o comunità perfetta. Ora, una
volta dimostrato […] che il mondo è retto dalla divina provvidenza, è chiaro
che tutta la comunità dell’universo è governata dalla ragione divina. Perciò il
piano stesso col quale Dio, come principe dell’universo, governa le cose ha
natura di legge. E poiché la mente divina non conosce niente nel tempo,
essendo il suo pensiero eterno, come insegna la Scrittura, codesta legge
dev’essere eterna. […]
Ora, poiché tutte le cose soggette alla divina provvidenza sono regolate e
misurate, come abbiamo visto, dalla legge eterna, è chiaro che tutte
partecipano più o meno della legge eterna, perché dal suo influsso ricevono
un’inclinazione ai propri atti e ai propri fini. Ebbene, tra tutti gli altri esseri la
creatura ragionevole è soggetta in maniera più eccellente alla divina
provvidenza, perché ne partecipa col provvedere a se stessa e ad altri. Perciò
in essa si ha una partecipazione della ragione eterna, da cui deriva
un’inclinazione naturale verso l’atto e il fine dovuto. E codesta partecipazione
della legge eterna nella creatura ragionevole si denomina “legge naturale”.
[…]
Come abbiamo spiegato, la legge è un dettame della ragione pratica. Ora, nella
ragione pratica e in quella teoretica si riscontrano procedimenti analoghi:
infatti l’una e l’altra, come abbiamo visto, partendo da alcuni principi
arrivano a delle conclusioni. Perciò, stando a questa analogia, come in campo
teoretico dal primi principi indimostrabili, naturalmente conosciuti, si
producono in noi le conclusioni delle varie scienze, di cui non abbiamo una
conoscenza innata; così è necessario che la tagione umana, dai precetti della
legge naturale, come da principi universali e indimostrabili, arrivi a disporre
delle cose in manierapiù particolareggiata. E queste particolari disposizioni,
elaborate dalla ragione umana, si chiamano leggi umane […].
Per l’orientamento della nostra vita era necessaria, oltre la legge naturale e
quella umana, una legge divina. E questo per quattro motivi. Primo, perché
l’uomo mediante la legge viene guidato nei suoi atti in ordine all’ultimo fine.
Se egli infatti fosse ordinato solo ad un fine che non supera la capacità delle
facoltà umane, non sarebbe necessario che avesse un orientamento d’ordine
razionale superiore alla legge naturale e alla legge umana positiva che ne
consegue. Ma essendo l’uomo ordinato al fine della beatitudine eterna, la
quale sorpassa, come abbiamo visto sopra, le capacità naturali dell’uomo, era
necessario che egli fosse diretto al suo fine, al di sopra della legge naturale ed
umana, da una legge data espressamente da Dio.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Secondo, perché a proposito degli atti umani ci sono troppo diversità di
valutazione, data l’incertezza dell’umano giudizio, specialmente riguardo ai
fatti contingenti e particolari: e da ciò procedono anche leggi diverse e
contrarie. Perciò, affinché l’uomo potesse sapere senza alcun dubbio quello
che deve fare, od evitare, era necessario che nei suoi atti fosse guidato da una
legge rivelta da Dio, in cui non può esserci errore.
Terzo, perché l’uomo si limita a legiferare su quello che può giudicare. Ora,
l’uomo non puà giudicare degli atti interni, che sono nascosti, ma solo di
quelli esterni e visibili. E tuttavia la perfezione della virtù richiede che l’uomo
sia retto negli uni e negli altri. Quindi la legge umana non poteva reprimere, o
comandare efficacemente gli atti interiori, ma per questo era necessario
l’intervento della legge divina.
Quarto, come nota S. Agostino, la legge umana non è capace di punire e di
proibire tutte le azioni malvagie: poiché se volesse colpirle tutte, verrebbero
eliminati molti beni e sarebbe compromesso il bene comune, necessario
all’umano consorzio. Perciò, affinché nessuna colpa rimanesse impunita, era
necessario l’intervento della legge divina, che proibisce tutti i peccati.
Tommaso d’Aquino, Somma teologica, I-II, Questione 91, articoli 1, 2, 3, 4
Secondo Tommaso, la comunità politica degli uomini, cioè lo Stato, è lo strumento
esteriore dell’etica, cioè della pratica delle virtù finalizzata al raggiungimento della
beatitudine celeste. Come tale, lo Stato si fonda sulla “legge umana”, ossia su un insieme di
regole di comportamento di tipo coercitivo, in quanto basate sulla punizione fisica dei
trasgressori. La “legge umana” (in seguito chiamata “diritto positivo”) è stabilita dalle
diverse comunità umane e pertanto può variare da Stato a Stato e a seconda delle epoche
storiche.
Tuttavia, affinché ogni Stato svolga la sua funzione essenziale, cioè garantire le migliori
condizioni materiali per l’esercizio delle virtù, per Tommaso è necessario che tutte le
differenti “leggi umane” tengano conto di altri tre tipi di leggi di origine divina:
1. la “legge eterna”, che comprende le regole generali in base alle quali Dio ha creato
l’intero mondo fisico – e dunque include i trascendentali e tutte le cause seconde –,
e che coincide con la provvidenza divina, la quale finalizza tutti gli essenti e tutti gli
eventi al raggiungimento del massimo bene;
2. la “legge naturale”, cioè quella parte della legge eterna che riguarda l’agire terreno
dell’uomo, che Dio ha immesso nella ragione umana e che costituisce il fondamento
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
della sinderesi ( Tappa 5): essa pertanto comprende i principi naturali dell’etica
umana, ossia le virtù cardinali, finalizzati alla beatitudine terrena;
3. la “legge divina”, che comprende i dieci comandamenti dell’antico testamento e i
due comandamenti evangelici (amare Dio e amare gli altri), costituisce un
supplemento di regole etiche relative alla vita ultraterrena – le virtù teologali – cioè
finalizzate alla beatitudine celeste.
La legge umana, afferma Tommaso, deve rispecchiare il più possibile la legge naturale,
adattandola alle diverse situazioni sociali, e, in particolare, deve attuare due principi
fondamentali della legge naturale:
 quello della natura collettivistica della specie umana, in virtù del quale l’uomo è un
“animale comunitario”, sia in senso sociale sia in senso politico-statale, e pertanto
non può e non deve vivere in solitudine ma deve convivere con altri uomini;
 quello consequenziale della reciprocità, per il quale ogni individuo umano deve
stabilire con i suoi simili delle relazioni pacifiche e collaborative.
Solo incardinandosi sul principio della reciprocità, infatti, la legge umana può assolvere al
suo compito generale – garantire le migliori condizioni fisiche di vita per favorire
l’esercizio etico – che a sua volta si specifica in tre funzioni complementari:
 promuovere la cooperazione tra gli individui al fine di proteggersi dalle
avversità naturali, di sviluppare l’economia e di conseguire il benessere
materiale;
 impedire che le azioni malvagie di alcuni danneggino anche chi non le
compie, ovvero proteggere gli uomini che seguono il cammino etico dai
crimini degli uomini che non lo seguono;
 aiutare i criminali a ravvedersi e quindi a intraprendere il cammino del bene.
Inoltre, secondo Tommaso, per svolgere questa triplice funzione, lo Stato non deve
contraddire ma nemmeno ricalcare la legge divina. Non la deve contraddire sia perché
alcuni comandamenti divini (p.e. “non ammazzare”) coincidono con i principi della legge
morale sia nel senso che non deve impedire la pratica dei comandamenti religiosi (p.e.
“ricordati di santificare le feste”), ovvero più in generale del culto religioso. Tuttavia, per
Tommaso, lo Stato non deve vietare i comportamenti immorali che danneggiano solo chi li
compie ma non gli altri (p.e. ubriacarsi in solitudine).
In tal caso, infatti, verrebbe annullata la libertà etica, cioè la libera scelta del bene, e
dunque la possibilità stessa del cammino etico. Per lo stesso motivo la legge umana non
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può prescrivere agli uomini i comportamenti religiosi, perché se questi non fossero
liberamente scelti, non produrrebbero alcun merito agli occhi di Dio e dunque non
favorirebbero la salvezza.
Dunque, Tommaso sostiene non solo la separazione tra legge umana e legge divina, ma
anche quella consequenziale tra Stato e Chiesa, ossia tra potere temporale e potere
spirituale, che, dunque, devono essere tra loro autonomi. Tuttavia, poiché lo Stato deve
essere uno strumento del perfezionamento etico-religioso dell’uomo, e quindi il potere
temporale è subordinato a quello spirituale, Tommaso attribuisce alla Chiesa una sorta di
potere di supervisione e controllo sulla condotta etico-religiosa delle autorità statali e, in
caso di gravi trasgressioni, anche il potere di rimuoverle e cambiarle.
Così chiarita la sua concezione generale dello Stato, Tommaso entra nel merito della sua
configurazione specifica, ovvero affronta il problema di quale sia la migliore costituzione
politica. Innanzitutto, secondo Tommaso, i governanti, cioè i detentori del potere statale,
devono governare avendo come unico fine il bene comune di tutti i membri dello Stato e
dunque sulla base del loro consenso.
In secondo luogo, una volta garantito questo criterio fondamentale, per Tommaso sono
forme di governo ugualmente valide sia la monarchia, sia l’aristocrazia, sia la democrazia, e
l’adozione dell’una o dell’altra deve basarsi sulla loro funzionalità rispetto alle
caratteristiche specifiche della popolazione dello Stato.
Tuttavia, benché in un’opera affermi di prediligere la monarchia, perlopiù Tommaso
accorda la propria preferenza, riferendosi implicitamente al contesto europeo del suo
secolo, a una costituzione mista, cioè basata sulla coesistenza e la correlazione di
monarchia, aristocrazia e democrazia. Ciò significa che, secondo Tommaso, la costituzione
statale migliore è quella che prevede:
1. un organo istituzionale monocratico, cioè individuale, detentore del supremo potere
decisionale;
2. un organo istituzionale collegiale ristretto, cioè formato dagli uomini più
competenti ed esperti, detentore del potere esecutivo particolare, cioè di attuazione
specifica delle decisioni;
3. il potere del popolo di eleggere tutte le autorità istituzionali e il diritto di ogni
membro del popolo di candidarsi (ma ancora con l’esclusione delle donne).
In altre parole, Tommaso si avvicina molto a quella che oggi chiamiamo una repubblica
democratica presidenziale. Non solo. Tommaso teorizza anche il diritto alla rivoluzione del
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popolo contro i governanti in tutti i casi in cui essi infrangano la legge naturale, o
contraddicano la legge divina, o ancora impongano un regime tirannico, cioè volto al loro
bene particolare e quindi privo del consenso popolare. Tuttavia, sostiene Tommaso, il
diritto alla rivoluzione, cioè al rovesciamento violento dei governanti, deve essere praticato
con prudenza, ossia solo se è certo che dalla rivoluzione non scaturisca un male peggiore di
quello che la rivoluzione eliminerebbe.
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LO SCRIGNO
GERALD SCHROEDER: LA NATURA POSSIEDE UN’INTELLIGENZA
Una sola coscienza, un’intelligenza che tutto avvolge, pervade l’universo. Le
ricerche scientifiche, quelle che investigano la natura subatomica della
materia, quelle che esplorano la complessità molecolare della biologia e
quelle che indagano il rapporto cervello/mente, ci hanno portato sulla soglia
di una folgorante rivelazione: tutto ciò che esiste è espressione di questa
intelligenza. Nei laboratori la sperimentiamo come informazione che prima si
articola a livello fisico come energia e poi si condensa sotto forma di materia.
Ogni particella, ogni essere, dall’atomo all’essere umano, sembra contenere al
suo interno un livello di informazione, di intelligenza consapevole. Il dilemma
che intendo affrontare in questo libro è: da dove proviene questa intelligenza?
G.L. Schroeder, L’universo sapiente, il Saggiatore, 2002 (2001), p. 9
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VITA DI UN CAPITANO
JOHANNES “MEISTER” ECKHART
Johannes (Giovanni) Eckhart, in seguito encomiasticamente chiamato Meister (maestro)
Eckhart, nacque a Hochheim, vicino a Gotha, nel 1260, figlio di un piccolo nobile.
Adolescente entrò nel convento dei domenicani di Erfurt e in seguito prese i voti e studiò a
Strasburgo e nello studio domenicano di Colonia, dove ebbe come insegnante Alberto
Magno, poco prima della sua morte nel 1280.
Dal 1294 frequentò l’università di Parigi, dove, nel 1302, conseguì la docenza in Teologia e
la esercitò, una prima volta, fino al 1304 e, una seconda volta, dal 1311 al 1313. Tra il 1298 e
il 1311 Eckhart scrisse la sua opera di teologia più organica e complessiva, l’Opera in tre
parti o Trittico, rimasta incompiuta.
Dal 1304 al 1311 fu priore dei domenicani della provincia della Sassonia, nel 1314 divenne
rettore della scuola teologica di Strasburgo e nel 1320 maestro dello studio domenicano di
Colonia dove da giovane aveva seguito le lezioni di Alberto Magno.
Durante la permanenza in Germania dal 1314 al 1326, Eckhart si dedicò alla diffusione
della sua filosofia pronunciando numerose prediche, poi trascritte in Prediche, e scrivendo
i Trattati, opere entrambe in volgare tedesco.
Nel 1326 l’arcivescovo di Colonia avviò contro di lui un processo inquisitoriale accusandolo
di eresia e affidando a due francescani il compito di documentare e argomentare l’accusa.
Gli accusatori francescani gli contestarono come eretiche ben 60 proposizioni tratte dai
suoi scritti. Eckhart, dapprima, replicò loro nello Scritto di difesa, argomentando
l’ortodossia di tutte le tesi contestate; quindi, nel 1327 si recò ad Avignone, dove risiedeva
la curia papale, e si appellò al papa Giovanni XXII. Questi istituì una commissione
giudicatrice che nel 1329 emise la sentenza di condanna di 17 proposizioni, in quanto
effettivamente eretiche, e di altre 11, in quanto sospette di eresia. Tra le prime, l’eternità
del mondo, la nullità delle creature e dell’uomo e la possibilità dell’uomo di identificarsi
con Dio.
Per sua fortuna Eckhart era spirato nel 1328, sottraendosi a un tempo alla lunga attesa
della sentenza, a una possibile ritrattazione e alla pena comunque certa.
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TAPPA 8
ECKHART: DIO E’ “QUIETE DESERTA”, OVVERO IL NULLA
Queste tre parole indicano tre guise di conoscenza. La prima è la conoscenza
sensibile: l’occhio vede lontano le cose che sono fuori di lui. La seconda,
quella dell’intelletto, è molto più alta. Con la terza, si intende una nobile
potenza dell’anima, tanto alta e nobile da cogliere Dio nella nudità della sua
essenza. Questa potenza non ha niente di comune con alcunché; dal nulla essa
fa il qualcosa, ed il tutto. Essa non sa nulla dell’ieri né dell’avantieri, del
domani o del dopodomani, giacché nell’eternità non v’è né ieri né domani, ma
solo l’istante presente: ciò che è stato mille anni fa e ciò che sarà tra mille
anni, è presente, e nello stesso modo lo è quello che sta dall’altra parte del
mare. Questa potenza coglie Dio nella sua nudità. Un testo dice: In lui, con lui,
attraverso lui. In lui, ovvero nel Padre; con lui, ovvero nel Figlio; attraverso
lui, ovvero nello Spirito santo.
Eckhart, Il tempo di Elisabetta si compì
La beatitudine aprì la sua bocca di saggezza e disse: “Beati sono i poveri nello
spirito, loro è il regno dei cieli”.
Tutti gli angeli, e tutti i santi, e tutto ciò che è nato, deve tacere quando parla
questa eterna sapienza del Padre, perché tutta la sapienza degli angeli e di
tutte le creature è un puro nulla di fronte all’abisso senza fondo della sapienza
di Dio. Essa ha detto che i poveri sono beati.
La povertà è di due tipi. V’è una povertà esteriore, che è buona e molto da
lodare nell’uomo che la prende su di sé volontariamente, per amore di nostro
Signore Gesù Cristo, perché egli stesso l’ha praticata sulla terra. Di questa
povertà non voglio dire altro. C’è però un’altra povertà, una povertà interiore,
che è da comprendere in quella parola di nostro Signore che dice: “Beati sono
i poveri nello spirito”. Ora vi prego di essere poveri in tal modo, per poter
capire questo discorso, perché – ve lo dico nella eterna verità – non mi
comprenderete se non vi rendete uguali a questa verità di cui ora vogliamo
parlare. […]
Se ora uno mi chiedesse cosa dunque è un uomo povero che niente vuole,
risponderei così: finché l’uomo ha questo in sé, che è suo volere voler
compiere la dolcissima volontà di Dio, un tale uomo non ha la povertà di cui
vogliamo parlare; infatti egli ha ancora un volere, con cui vuol soddisfare la
volontà di Dio, e questa non è la vera povertà. Se l’uomo deve avere vera
povertà, deve essere così vuoto della propria volontà creata come lo era
quando non esisteva. Perciò io vi dico nella verità eterna: finché avete la
volontà di compiere il volere di Dio, e avete il desiderio dell’eternità e di Dio,
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
voi non siete davvero poveri. Infatti è un vero povero soltanto colui che niente
vuole e niente desidera. Quando ero nella mia causa prima, non avevo alcun
Dio, e là ero causa di me stesso. Nulla volevo, nulla desideravo, perché ero un
puro essere, che conosceva se stesso nella gioia della verità. Allora volevo me
stesso e niente altro; ciò che volevo lo ero, e ciò che ero, lo volevo, e là stavo
libero da Dio e da tutte le cose. Ma quando, per libera decisione, uscii e presi il
mio essere creato, allora ebbi un Dio; infatti, prima che le creature fossero,
Dio non era Dio, ma era quello che era. Quando le creature furono e
ricevettero il loro essere creato, Dio non era Dio in se stesso, ma era Dio nelle
creature. […]
Tutto quello che è mai venuto da Dio è fatto per un puro operare. L’operare
proprio dell’uomo è l’amare e il conoscere. Si pone ora la grossa questione: in
che cosa risiede essenzialmente la beatitudine? Alcuni maestri hanno detto
che essa sta nella conoscenza, altri che sta nell’amore; altri dicono che sta
nella conoscenza e nell’amore e questi dicono meglio. Noi però diciamo che
non sta né nella conoscenza né nell’amore; piuttosto v’è qualcosa nell’anima
da cui fluiscono la conoscenza e l’amore, e questo qualcosa non conosce e non
ama, come invece fanno le potenze dell’anima. Chi conosce questo qualcosa,
sa dove risiede la beatitudine. Esso non ha né un prima né un poi, non attende
nulla che gli capiti, perché non può guadagnare né perdere. Perciò questo
qualcosa è privato anche del sapere che Dio opera in esso; piuttosto esso gode
in se stesso, come fa Dio.
Io dico perciò che l’uomo deve stare così libero e vuoto, da non sapere né
conoscere che Dio opera in lui, ed in questo modo può possedere la povertà.
I maestri dicono che Dio è un essere, un essere dotato di intelletto, che tutto
conosce. Ma io dico: Dio non è né essere né essere dotato di intelletto, e
neppure conosce questo o quello. Perciò Dio è privo di tutte le cose, e perciò è
tutte le cose. Chi deve essere povero nello spirito, deve essere povero in ogni
sapere proprio, in modo da non sapere niente, né di Dio, né delle creature, né
di se stesso. Perciò è necessario che l’uomo desideri di non sapere o conoscere
niente delle opere di Dio. In questo modo l’uomo può essere povero nel
proprio sapere.
Eckhart, Beati i poveri di spirito, perché il regno dei cieli appartiene loro
La filosofia di Eckhart si basa sulle sacre scritture cristiane ma le interpreta attraverso la
tradizione filosofica, in particolare quella neoplatonica, ritenuta anch’essa depositaria di
una conoscenza teologica. In questo senso il suo cardine è la tesi dell’infinitezza e quindi
della trascendenza assoluta di ciò che si denomina – ma impropriamente – Dio.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Consequenzialmente a questa impostazione, Eckhart si richiama al passo dell’Esodo in cui
Dio si rivela a Mosé dichiarando: “Io sono colui che sono”. Secondo Eckhart
quest’affermazione non significa che Dio è l’essere, ma che di Dio non si può dire e pensare
niente, ovvero che non può essere definito, e quindi denominato, in alcun modo. In altre
parole, Eckhart interpreta la famosa frase biblica come un’intenzionale tautologia volta a
negare qualsiasi possibilità di connotare razionalmente l’effettiva identità di Dio, tanto da
arrivare ad affermare che Dio non è Dio, in quanto il Dio che noi uomini possiamo
concepire e nominare è il Dio di noi creature finite, non il Dio in sé che invece è
inconcepibile e innominabile e che, come tale, sarebbe meno improprio appellare
genericamente “divino”.
In questo modo, Eckhart si riallaccia alla tradizione della “teologia negativa” (o “via
apofatica”) e la sviluppa in modo radicale. Egli sostiene, innanzitutto, che Dio è negazione
di qualsiasi determinazione, ovvero che di lui si può dire solo ciò che non è, p.e. non che è
buono ma che non è buono, visto che “è buono” si può dire solo di un essente finito. Ma, in
secondo luogo e soprattutto, Dio è “negazione della negazione” (“negatio negationis”), cioè
anche negazione di ciò che diciamo che non è; ovvero di lui si deve dire, a rigore, che non è
nemmeno ciò che non è. Infatti, affermando che Dio non è x, si affermerebbe
implicitamente che è tutto il resto, cioè k, y, z…, mentre Dio non è nemmeno nessun’altra
cosa. Ciò significa che per Eckhart Dio è la negazione di qualsiasi cosa o caratteristica.
Eckhart giunge così a una conclusione sorprendente: il modo migliore per concepire Dio è
pensare che egli sia il nulla – ovvero, in linguaggio analogico, “quiete deserta” – in quanto
Dio non è niente di tutto ciò che possiamo conoscere. Di conseguenza, Eckhart nega che
Dio sia identificabile con l’essere. Per lui l’essere è proprio delle creature, cioè di ciò che
deriva da Dio e che dunque Dio non è.
Tuttavia, afferma Eckhart, Dio è sì nulla, ma un “nulla superessente”. Con questa
espressione volutamente paradossale, Eckhart vuol dire che Dio per noi è un nulla perché
in realtà in sé è l’infinito tutto. In altre parole, Dio è nulla perché non è né alcuna cosa e
caratteristica finita e nemmeno la totalità delle cose e delle caratteristiche finite. Però,
benché trascenda tutte le cose e le caratteristiche finite, Dio per Eckhart le include tutte. Il
che significa che se è vero che Dio non è essere, e però vero che l’essere è Dio, cioè che Dio
è l’origine dell’essere, ossia di tutte le cose finite in quanto sue creature. In questo senso,
metaforicamente, Eckhart afferma che Dio è la “purezza dell’essere”, ossia la pura potenza
di tutto ciò che esiste.
Ma in cosa consiste questa “purezza dell’essere” e come scaturisce il creato da essa? La
risposta di Eckhart è legata a un ulteriore significato da lui attribuito alla sentenza biblica
“Io sono colui che sono”. Essa, secondo Eckhart, significa anche che Dio è pensiero di se
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
stesso, cioè autocoscienza. Questa interpretazione dell’identità di Dio, sostiene Eckhart, è
ribadita e confermata dalla proposizione iniziale del Vangelo di Giovanni: “In principio era
il Verbo (in greco Lògos)”. In altri termini, Dio per Eckhart è intelletto. Questa tesi non è in
contrasto con quella dell’inconoscibilità di Dio in sé, in quanto Dio è pur sempre un
intelletto infinito e come tale in sé indeterminato, ovvero per noi un nulla. D’altra parte il
pensiero infinito contiene necessariamente il finito, cioè include molteplici determinazioni,
ovvero tutte le creature e le loro proprietà. In questo senso, Eckhart afferma che l’essere
scaturisce dall’intelletto divino, ovvero che la creazione consiste nel pensiero divino delle
creature, cioè nelle idee divine di tutte le cose.
Da ciò discendono la coeternità e la coappartenenza del mondo con Dio: se il creato
coincide con una parte della mente divina, da un lato, il mondo non può che essere eterno
come Dio, dall’altro il mondo non è fuori di Dio ma in Dio stesso. Il questo modo il
pensiero di Eckhart mette capo al “teopantismo”: il mondo è Dio – ovvero tutte le cose
sono in Dio e Dio è in tutte le cose – ma Dio non è il mondo, in quanto Dio è infinitamente
di più del mondo.
A questo punto, la concezione ekhartiana del nulla si ribalta: se dal nostro punto di vista,
ovvero dal punto di vista del finito, Dio è il nulla, in realtà il vero nulla è il creato, in quanto
esso esiste solo perché Dio lo ha tratto dal non-essere, non solo portandolo all’essere ma
anche continuando a mantenerlo nell’essere. In altre parole, di per sé tutte le creature,
uomo compreso, sono niente, in quanto esistono solo perché sono in Dio e Dio è in loro,
ovvero solo perché Dio in ogni istante decide di continuare a prestare loro l’esistenza.
La creazione dunque è permanente, ossia eterna, in quanto non solo non ha un inizio ma
nemmeno una fine. A sua volta, per Eckhart l’eternità della creazione di Dio si fonda sulla
sua essenza amorevole. Infatti Dio, per Eckhart, in quanto è pensiero è amore e in quanto
amore è pensiero, cioè creatività. L’amore – inteso a rigore come superamore, cioè come
amore infinito e quindi inconcepibile – è l’identità di Dio. Dunque la creazione divina è sia
volontaria sia necessaria e né volontaria né necessaria, coerentemente con la tesi
eckhartiana secondo cui Dio può essere concepito solo come “negazione della negazione”.
Nell’ambito del creato, tutte le creature, in quanto esistono solo in Dio, sono altrettante sue
immagini. Eckhart sostiene però che la creatura umana è l’immagine migliore di Dio.
Infatti, sebbene, come tutte le creature, di per sé sia un nulla, l’uomo, per Eckhart, è la
creatura più simile a Dio in quanto Dio lo ha dotato dell’intelletto, ovvero di un’anima
razionale, cioè capace di pensiero autocosciente. L’intelletto umano, naturalmente, è
inferiore a quello divino, in quanto è finito, ovvero è solo una parte dell’infinito intelletto
che Dio è. Tuttavia, secondo Eckhart, poiché intelletto umano e intelletto divino sono
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
consustanziali, cioè condividono la stessa sostanza ovvero sono la stessa cosa, l’intelletto
umano ha la possibilità di coincidere con l’intelletto divino, cioè di infinitizzarsi. In questo
senso, Cristo, Dio che si è fatto uomo, è interpretato da Eckhart come la rivelazione della
possibilità dell’unione dell’uomo e di Dio. In altre parole, l’uomo per Eckhart può
“deificarsi”, cioè farsi Dio. In questo senso si può denominare la filosofia eckhartiana
“antropoteismo” – Dio coincide con l’umanità – o meglio ancora “psicoteismo” – Dio
coincide con l’anima, ossia con l’intelletto, degli uomini.
Ma in che modo l’uomo può giungere alla deificazione? La strada della deificazione,
afferma Eckhart, è un percorso interiore e mistico. Dio infatti è il “fondo” della stessa
anima umana e dunque l’uomo può cercare e avvicinare Dio solo sprofondandosi nella
propria anima, ossia nel proprio intelletto. Ciò significa che per Eckhart Dio è la nostra
stessa più profonda identità e che dunque la ricerca di se stessi e la ricerca di Dio sono
l’una l’altra faccia dell’altra. Ma per arrivare al fondo di noi stessi, cioè a Dio, secondo
Eckhart, occorre un lungo e difficile cammino. Esso può essere intrapreso e condotto a
termine solo seguendo due indicazioni cruciali:
 il distacco, cioè la povertà esteriore, materiale;
 e lo svuotamento, cioè la povertà interiore, spirituale.
Per distacco Eckhart intende l’abbandono di ogni possesso e del desiderio stesso del
possesso di beni materiali, di poteri politici e di successi sociali (la fama artistica, la gloria
militare, ecc.). Tuttavia, Eckhart distingue tra desiderio di possesso e fruizione e non
propugna l’ascetismo, ovvero ammette la possibilità di usufruire in modo misurato dei beni
materiali essenziali. L’importante per lui è che l’uomo non si attacchi ai beni materiali,
ossia che non se ne renda dipendente, in modo tale da non essere soggetto ad ansie,
angosce, affanni e patimenti, del tutto insensati perché relativi a beni e ad aspettative che
non realizzano l’essenza dell’uomo e quindi non lo rendono davvero felice.
Per svuotamento, invece, Eckhart intende il raggiungimento della piena consapevolezza
dei limiti del nostro io, cioè della nostra stessa conoscenza e delle nostre stesse virtù etiche,
e quindi lo spogliarsi del nostro stesso io, di tutte le nostre presunte doti interiori, a favore
di una totale nudità spirituale. In tal senso il culmine dello svuotamento, secondo Eckhart,
è la rinuncia allo stesso desiderio di possesso di Dio, cioè alla nostra volontà di unirci a lui.
Infatti, afferma Eckhart, il processo di deificazione non è un volere qualcosa, e nemmeno
un volere la volontà di Dio, ma un lasciarsi andare a Dio, un non-volere la sua volontà. In
altre parole, svuotarsi significa abbandonare ogni volere autonomo per abbandonarsi
all’inconcepibile volere divino.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
L’uomo che segue il cammino che porta alla deificazione, secondo Eckhart, diventa sempre
più uno “spirito libero”, cioè sceglie e agisce sempre più in modo davvero libero. Ma la vera
libertà coincide con la giustizia, per cui lo spirito libero è anche il giusto, l’uomo che agisce
veramente bene, in quanto sempre più non è lui che agisce ma è la volontà divina che
agisce in lui e lui diventa sempre più parte della giustizia divina stessa.
In questo senso, per Eckhart le azioni buone che l’uomo può compiere sono solo quelle che
Dio stesso compie attraverso di lui e dunque le uniche e fondamentali azioni buone per
l’uomo sono il distacco e lo svuotamento. Grazie a queste due azioni, lo spirito libero per
Eckhart può arrivare alla beatitudine perfetta già su questa terra. Egli, infatti, giunto
all’apice del suo cammino di deificazione, si unisce misticamente con Dio e dunque si
autocontempla come Dio godendo della sua stessa infinita beatitudine.
Ma allora per Eckhart l’uomo diventa uguale a Dio? La risposta è no, in quanto, proprio
perché basato sull’abbandono a Dio, il cammino mistico della deificazione per Eckhart è
un’azione di Dio stesso.
In altre parole, l’uomo può unire la scintilla del suo intelletto al fuoco dell’intelletto divino
solo perché usufruisce della grazia di Dio. E’ Dio, e solo Dio, che gli permette di deificarsi.
In questo senso, secondo Eckhart, rimane una distinzione ontologica intrascendibile tra
Dio e l’uomo: Dio è tale per se stesso, l’uomo può diventare Dio solo per la volontà e
l’azione di Dio.
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VITA DI UN CAPITANO
WILLIAM OF OCKHAM
William of Ockham, ovvero Guglielmo d’Ockham, nacque tra il 1280 e il 1290 ad Ockham,
oggi Guildford, città inglese del Surrey, non molti chilometri a sud-ovest di Londra. Entrò
giovanissimo nell’ordine francescano e studiò ad Oxford fino al conseguimento della
licentia docendi in Teologia. Tuttavia, a causa delle sue idee innovative, esposte nel suo
Commento ai quattro libri di Sentenze di Pietro Lombardo, fu osteggiato dalle autorità
universitarie e non riuscì a ottenere una cattedra.
Forse fu per questo che Ockham venne chiamato Venerabilis Interceptor, “venerabile
iniziatore”, in quanto aveva potuto solo iniziare la carriera universitaria ma non
proseguirla. Di certo, l’appellativo in seguito fu usato come riconoscimento dell’originalità
della sua filosofia. D’altra parte, Ockham si guadagnò anche l’epiteto di Doctor Invincibilis,
in omaggio alla sua capacità argomentativa. Se i cattedratici di Oxford fossero anche stati
disponibili a chiudere un occhio sulle idee di Ockham, sicuramente non gli poterono
perdonare di essere dialetticamente più valente di loro.
Però, nonostante l’emarginazione universitaria, Ockham non si diede per vinto e si dedicò
alla scrittura di molte altre opere (Questioni relative ai libri dei fisici, sette Quodlibeta, un
Commento alla Fisica di Aristotele, Expositio aurea super artem veterem) e soprattutto
iniziò il suo lavoro più importante, la Summa totius logicae.
Ma, intorno al 1323, il cancelliere dell’Università di Oxford, John Lutterell, che già si era
opposto all’assegnazione di una cattedra a Ockham, lo denunciò per eresia al papa
Giovanni XXII. In seguito alla denuncia, Ockham fu convocato dal papa ad Avignone, dove
dal 1309 risiedeva la curia pontificia, e dove gli furono contestate 56 proposizioni eretiche.
Benché sottoposto a un processo inquisitoriale, che durò tre anni, Ockham finì di scrivere
la Summa totius logicae e compose alcune opere teologiche, tra cui spicca il Trattato della
predestinazione e della prescienza divina.
Ad Avignone, Ockham conobbe Michele da Cesena, il superiore dell’ordine francescano,
anch’egli convocato dal Papa perché sospettato di eresia. L’ultimo capitolo generale
dell’ordine, infatti, aveva stabilito che i francescani, in ossequio alla regola evangelica della
povertà, non dovevano accettare, né come singoli né come associazione, la proprietà di
alcun bene. Il papato, invece, considerava eretica la tesi che il Vangelo imponesse la
povertà al clero. Data la convergenza delle loro idee, Ockham e Michele da Cesena
strinsero una salda amicizia e, nel 1328, quando la commissione papale emise la sentenza
di condanna per eresia ai danni di Ockham, insieme organizzarono e attuarono la fuga da
Avignone per mettersi sotto la protezione dell’imperatore Ludovico il Bavaro, in lotta con il
papato.
Ockham trascorse, così, l’ultima parte della sua vita a Monaco di Baviera, dove continuò la
sua battaglia contro il tentativo di Giovanni XXII di normalizzare l’ordine francescano e
scrisse le sue opere politiche: Otto questioni circa il potere del papa, Breve discorso sul
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governo tirannico, Dialogo, Trattato sul potere degli imperatori e del papa. Queste opere
sarebbero state una delle fonti della formazione di Martin Lutero e avrebbero fortemente
contribuito alla teoria luterana della separazione tra Stato e Chiesa e della superiorità dello
Stato rispetto alla Chiesa per tutto ciò che concerne l’organizzazione della vita terrena.
Morì tra il 1347 e il 1349, vittima della pandemia di peste che falcidiò circa un terzo della
popolazione europea e segnò l’inizio della fine della civiltà medievale. Nel 1349 il nuovo
papa Clemente VI revocò la condanna di eresia contro Ockham.
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TAPPA 9
OCKHAM: C’E’ UN ABISSO TRA DIO E IL MONDO
Ci si domanda se Dio può fare alcune cose che non fa né farà.
[…] Circa la presente questione si deve anzitutto supporre che Dio è causa
efficiente delle cose; in secondo luogo, si deve stabilire se con la ragione
naturale si può dimostrare che Dio è causa efficiente libera e non è causa
naturale; in terzo luogo si deve vedere se questa sia una verità di fede; in
quarto luogo, in base alle precedenti soluzioni, si risponderà alla questione.
[…] Riguardo a questo articolo, affermo che non si può dimostrare con la
ragione naturale che Dio è una causa libera delle cose, perché non si può
escludere la validità dell’argomentazione che rileva che, come dalla
perfezione del sole naturalmente derivano molteplici effetti, così dalla
perfezione dell’entità divina derivano molteplici entità che non potrebbero
essere diversamente.
Riguardo al secondo articolo, affermo che si deve ammettere per fede che Dio
è causa che opera liberamente, perché si deve credere che Dio può causare in
modo immediato e totale tutte le realtà producibili. Qualora Dio fosse una
causa naturale, o produrrebbe tutte le cose simultaneamente o non ne
produrrebbe nessuna; entrambe queste soluzioni risultano false in base
all’evidenza. E’ perciò evidentemente falso che Dio sia causa naturale delle
realtà che sono da lui distinte.
Da queste risposte consegue la soluzione della questione: Dio può fare alcune
cose che non fa, perché la causa libera che agisce in modo contingente può
operare diversamente da come opera; siccome Dio è una causa siffatta,
dunque ecc. Parimenti: Dio può produrre anime all’infinito, perché non si
deve mai arrestare a un certo numero; tuttavia non produrrà anime
all’infinito, bensì secondo un numero determinato. […]
Circa la distinzione 44, domando se Dio possa fare un mondo migliore del
mondo attuale.
[…] Riguardo a tale questione, in primo luogo si deve vedere che cosa si
intende con il termine “mondo”; in secondo luogo che cosa si intende con il
termine “migliore”; in terzo luogo si risponderà alla questione.
Circa il primo punto dico che “mondo” può avere due accezioni: talora mondo
è preso per significare tutto l’insieme delle diverse cose create, si tratti di
sostanze oppure di accidenti; altre volte mondo è preso per significare un
intero composto o aggregato di molte cose contenute sotto un unico corpo,
compreso questo corpo contenente. Ciò può avvenire o in riferimento
puntuale alle parti che sono le sostanze, oppure indifferentemente in
riferimento alle sostanze e agli accidenti.
578
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Nella presente questione “mondo” va preso in modo puntuale, come un unico
universo quasi che risultasse dalla composizione di parti che sono le sostanze,
e non includendo gli accidenti delle sostanze.
Circa il secondo punto dico che una cosa può essere migliore di un’altra o per
la bontà essenziale e sostanziale, o per la bontà accidentale.
Riguardo alla questione, occorre in primo luogo vedere se Dio può fare un
mondo migliore di questo nella bontà essenziale o sostanziale, distinto
specificamente dal mondo attuale; in secondo luogo, occorre vedere se Dio
può fare un mondo migliore distinto solo numericamente dall’attuale; in terzo
luogo, se Dio può fare un mondo migliore nella bontà accidentale.
Riguardo al primo problema, è controversa la soluzione da abbracciare.
Infatti, se si sostiene la tesi per cui Dio può creare una sostanza più perfetta di
qualsiasi sostanza creata, e ciò all’infinito, così come può aumentare una
qualità che riceve all’infinito, in modo che non si debba fissare un limite, si
deve anche sostenere di conseguenza che Dio può fare un mondo migliore
specificamente distinto, perché può creare altre sostanze individuali
specificamente distinte, migliori di quelle che sono attualmente create.
Qualora invece si sostenga che ci si deve arrestare in questo ordine, in modo
che si conceda il darsi della sostanza più perfetta che Dio può creare, è più
difficile dare una risposta esente da dubbi.
[…] Riguardo al secondo problema, affermo che Dio può fare un mondo
migliore di quello attuale, distinto da questo solo numericamente. La ragione
di ciò sta nella possibilità che Dio ha di produrre un numero infinito di
individui della stessa specie di quelli attualmente esistenti. Di conseguenza
Dio può produrre un numero di individui corrispondente al numero degli
individui attualmente prodotti ed anche un numero superiore a quello attuale
e a quello delle loro specie. Siccome Dio non è costretto a produrli in questo
mondo, dunque li potrebbe produrre al di fuori da questo mondo e mediante
tali individui formare un mondo diverso, esattamente come mediante quelli
già creati ha formato il mondo attuale.
Ockham, Commento ai quattro libri di Sentenze - Ordinatio, distinzioni 43-44
Il movente della filosofia occamista è la distruzione della metafisica tomistica. Pur
salvaguardando la trascendenza e l’inconoscibilità di Dio in quanto essere infinito,
Tommaso aveva sostenuto la conoscibilità di Dio in quanto causa prima del cosmo fisico e
la connessione necessaria, in base a una scala gerarchica, tra la razionalità di Dio, le cause
seconde (trascendentali, generi, specie) e tutti i singoli essenti. Di conseguenza, per
Tommaso, l’ordine razionale del mondo rispecchia fedelmente la razionalità divina. Il che
579
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
significa che Dio ha creato solo questo mondo e che avrebbe potuto crearlo solo in base
all’ordine razionale che esso effettivamente ha.
Secondo Ockham, invece, esistono solo Dio, da un lato, e i singoli essenti, dall’altro. In
altre parole, Ockham nega l’esistenza delle cause seconde, cioè dei trascendentali (uno,
vero, bene, bello), dei generi e delle specie. Tra Dio e il mondo, per Ockham, si spalanca
l’abisso della differenza ontologica infinita tra l’essere (il creatore) e gli esistenti (le
creature). Di conseguenza non sussiste alcuna connessione necessaria tra la razionalità
divina e l’ordine del mondo, ovvero Dio potrebbe aver creato altri mondi con differenti
ordini razionali in quanto l’ordine razionale del nostro mondo non rispecchia l’intera
razionalità divina, la quale, in quanto infinita, è inesauribile.
Ma qual è l’argomento razionale che sostiene questa dirompente tesi di Ockham? Dai
filosofi successivi esso fu metaforicamente chiamato il “rasoio di Ockham” per enfatizzarne
la tagliente efficacia. Fuor di metafora, l’argomento razionale di Ockham è da lui stesso
così formulato: “Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem”, ossia “non si devono
accrescere gli essenti oltre lo stretto necessario”. Questa proposizione significa che ogni
spiegazione della realtà che pretenda di essere razionale deve far ricorso al minor numero
di concetti possibile. In altri termini, secondo Ockham, la conoscenza razionale della
realtà, in quanto riconduzione della molteplicità all’unità, deve rispettare necessariamente
il requisito della semplicità.
In questo senso, Ockham sostiene anche che nemmeno nel pensiero divino sussistono le
essenze generali – cioè i generi e le specie – delle cose, ma solo infiniti modelli razionali
individuali di ogni singola cosa. Dio pertanto ha creato solo essenti individuali, dando
direttamente l’esistenza a ognuno dei singoli modelli razionali da lui pensati. Così armato
del suo “rasoio”, Ockham taglia ed elimina trascendentali, generi e specie, in quanto, a suo
parere, il mondo fisico si spiega altrettanto razionalmente, e anzi ancora meglio, senza
ricorrere ad essi.
Tuttavia, il taglio della metafisica tomistica, operato da Ockham, ha un’ulteriore
motivazione, forse ancor più importante della prima, una motivazione squisitamente
teologica: esaltare la trascendenza e l’inconoscibilità di Dio per evitare la sua riduzione alla
razionalità dell’uomo. Riallacciandosi alla tradizione neoplatonica, Ockham sostiene,
infatti, che Dio è sì razionale, ma che la sua è una razionalità infinita, che dunque non può
essere tradotta nei concetti limitati della ragione umana. In questo senso, ogni pretesa
filosofica di conoscere e definire la razionalità divina sfocia nel suo travisamento.
Pertanto, secondo Ockham, Dio deve essere concepito solo come volontà onnipotente e
assolutamente libera non vincolata ad alcun criterio della nostra razionalità. In altri
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
termini, per Ockham non è vero che Dio vuole (solo) ciò che è razionale, al contrario è vero
che (tutto) ciò che Dio vuole è razionale. Qual è la differenza? Enorme: nel primo caso la
razionalità vincola la volontà, e dunque l’azione, di Dio, quasi come fosse una legge
superiore allo stesso Dio; nel secondo caso, la volontà, e dunque l’azione, di Dio non ha
alcun vincolo, è totalmente arbitraria, e la superiorità di Dio è assoluta.
E’ chiaro che questa concezione teologica ha una conseguenza dirompente sul rapporto tra
fede e ragione: tra di esse, infatti, per Ockham si spalanca lo stesso abisso che esiste tra Dio
e il mondo fisico. In altre parole, la fede è del tutto indipendente dalla ragione e viceversa.
Infatti, se Dio è volontà assoluta, ovvero se la razionalità divina, in quanto infinita, è
inattingibile all’uomo, la ragione non può in alcun modo conoscere Dio. E nemmeno potrà
risalire dal mondo a Dio in quanto causa prima, perché identificare, seppur parzialmente,
Dio con la causa prima del mondo significa comunque ridurre e quindi deformare la
razionalità divina, ovvero negare la libertà assoluta di Dio.
In questa prospettiva, Ockham ammette la validità dell’argomentazione a posteriori che
risale dal mondo alla necessità dell’esistenza di una causa prima. Tuttavia, secondo lui,
l’esistenza di una causa prima del mondo non ha nulla a che vedere con l’esistenza di Dio,
perché Dio non si può ridurre a una “causa prima”. Ciò significa che la ragione non può
argomentare in alcun modo l’esistenza di Dio, né con argomenti a priori né con argomenti
a posteriori. Pertanto, asserisce Ockham, a Dio si può giungere solo in base alla fede,
ovvero alla lettura e alla meditazione della sacra scrittura e soprattutto alla messa in
pratica dei suoi precetti morali e religiosi.
E la ragione allora come deve essere usata? Ockham risponde che la ragione è uno
strumento che Dio ha dato all’uomo per conoscere la realtà naturale nella sua contingenza
allo scopo pratico di rendere più confortevole la sua condizione materiale. Riguardo a Dio,
tutto quello che la ragione può attestare è che alcune delle caratteristiche divine che la
rivelazione svela, per esempio l’onnipotenza, sono possibili, data la mancanza di prove
contrarie e di ragionamenti che le confutino. Ma argomentare razionalmente che non si
può escludere che Dio sia onnipotente non significa argomentare che egli sia onnipotente.
Da questa concezione del rapporto fede/ragione discende una rivoluzionaria conseguenza.
Data la completa separazione dei loro rispettivi oggetti, cioè Dio e la natura, la fede non
può e non deve interferire con la conoscenza razionale e viceversa, ovvero la teologia non
può contraddire, e quindi proibire, nessuna tesi filosofica e, a sua volta, la filosofia non può
contestare alcuna tesi teologica.
In questo modo Ockham ritiene di aver raggiunto due obiettivi fondamentali:
1. ristabilire la superiorità della fede nell’ambito della vita religiosa;
581
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
2. liberare la ricerca scientifica da ogni vincolo e limite di tipo religioso.
E’ evidente che così Ockham tronca il presupposto non solo della Scolastica, ma anche
della Patristica, ossia della filosofia cristiana. Questa, infatti, si impernia sulla tesi
agostiniana secondo cui la ragione può corroborare la fede, cioè confermare razionalmente
almeno alcune verità rivelate. Ma se la ragione non ha nulla a che vedere con la fede è
chiaro che viene meno la possibilità stessa di una filosofia cristiana.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 10
OCKHAM: GLI UNIVERSALI SONO SEGNI MENTALI E LINGUISTICI
Riguardo a un incomplesso19 ci può essere una duplice conoscenza: una può
essere detta astrattiva, l’altra intuitiva. […]
Si deve tuttavia sapere che la conoscenza astrattiva è di due tipi: c’è una
conoscenza astrattiva in rapporto a qualche cosa di astratto da molte cose
singolari, e la conoscenza astrattiva così intesa coincide con la conoscenza di
un universale, che si può astrarre da più cose, di cui si parlerà in seguito […].
C’è un altro tipo di conoscenza astrattiva, quella che prescinde dall’esistenza e
dalla non esistenza e dalle altre condizioni che si accompagnano come
accidenti contingenti di una cosa o che di essa si predicano. Non si verifica che
con la conoscenza intuitiva sia colto qualcosa che non è conosciuto con quella
astrattiva, ma la stessa identica cosa è colta interamente e sotto ogni
medesimo rispetto da entrambe le conoscenze.
La distinzione fra di esse è la seguente: la conoscenza intuitiva di una cosa è
quella conoscenza in virtù della quale si può sapere se una cosa esiste o non
esiste, di modo che, se una cosa esiste, subito l’intelletto la giudica esistente e
conosce con evidenza che essa è, a meno che non ne sia impedito
dall’imperfezione di quella conoscenza. Allo stesso modo se si desse una
conoscenza intuitiva perfetta, che per virtù dell’onnipotenza di Dio si
conserva anche quando la cosa non esiste, in forza di quella conoscenza
incomplessa l’intelletto saprebbe con evidenza che quella cosa non esiste.
Parimenti, la conoscenza intuitiva è tale che, quando si conoscono due cose di
cui l’una inerisca all’altra, o dista dall’altra spazialmente, o ha qualche
relazione con l’altra, in forza di tale conoscenza incomplessa di quelle cose si
sa immediatamente se la cosa inerisce o non inerisce, se dista o non dista, e lo
stesso circa le altre verità contingenti (a meno che quella conoscenza non sia
troppo debole o non ci siano altri impedimenti). Per esempio: se Socrate è
realmente bianco, è chiamata conoscenza intuitiva quella conoscenza di
Socrate e della bianchezza in virtù della quale io so con evidenza che Socrate è
bianco. E in generale si chiama conoscenza intuitiva ogni conoscenza
incomplessa del termine o dei termini (oppure: della cosa o delle cose) in
virtù della quale si può conoscere una qualche verità contingente, soprattutto
riguardante il presente.
Si chiama invece astrattiva quella conoscenza in virtù della quale non si può
sapere con evidenza di una cosa contingente se esiste o non esiste. In questo
senso, la conoscenza astrattiva prescinde dall’esistenza e dalla non esistenza,
19
Una parola singola, ovvero un singolo concetto, al di fuori di una proposizione. P.e., “cane”.
583
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
poiché per mezzo di essa non si può sapere con evidenza di una cosa esistente
che esiste, né di una cosa non esistente che non esiste, in opposto alla
conoscenza intuitiva. Similmente, mediante la conoscenza astrattiva non si
conosce nessuna verità contingente, soprattutto circa il presente. Questo si
può chiaramente desumere dal fatto che quando in loro assenza si conoscono
Socrate e la bianchezza, in virtù di tale notizia incomplessa non si può
conoscere che Socrate esiste o non esiste, né che è bianco o che non è bianco,
né che dista o meno da un certo luogo, e così a proposito delle altre verità
contingenti.
Ockham, Commento ai quattro libri di Sentenze - Ordinatio,
Prologo, Questione 1, articolo 1
“Singolare” può avere due accezioni: in una prima accezione, singolare
significa tutto ciò che è una cosa sola e non è più cose. […]
Nella seconda accezione, singolare è ciò che è una cosa sola e non più cose, né
è atto a significare più cose. In questo senso nessun universale è singolare, dal
momento che ogni universale è per natura segno di più cose. […]
Si deve pertanto dire che qualsiasi universale è una cosa singolare, ed è
universale solo riguardo al suo significato, in quanto è segno di più cose. […]
Allo stesso modo il concetto mentale è detto universale perché è un segno che
si predica di più cose, mentre è detto singolare in quanto è una cosa sola e non
più cose. In verità si deve sapere che l’universale è duplice: c’è un universale
per natura, ossia che per sua natura è un segno predicabile di più cose, allo
stesso modo in cui il fumo per sua natura significa il fuoco, il lamento
dell’ammalato il dolore e il riso la gioia interiore. In questo senso solo un
concetto della mente può essere universale, mentre nessuna sostanza o
accidente extramentali sono degli universali cosiffatti. Nella mia trattazione
intenderò l’universale secondo questa accezione.
Il secondo tipo di universale è quello che deriva da un’istituzione
convenzionale: in questo modo un termine proferito oralmente, pur essendo
una qualità numericamente una è universale, perché è un segno istituito
convenzionalmente per significare più cose. Come una parola può essere
detta comune, così può essere detta universale: questo non le deriva però
dalla sua natura, ma dalla convenzione di coloro che l’hanno istituita.
Ockham, Summa totius logicae, I, 14
Come abbiamo visto, per Ockham Dio ha creato solo cose individuali. In altre parole,
esistono solo cose singole, mai cose collettive. Sulla base di questa ontologia rigorosamente
individualistica, Ockham suddivide la conoscenza umana in due tipi:
584
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
1. la conoscenza intuitiva;
2. la conoscenza astrattiva.
La conoscenza intuitiva è la denominazione che Ockham dà alla conoscenza sensibile per
evidenziare che una sensazione è un’intuizione, cioè il rispecchiamento immediato, e
quindi dotato di evidenza veritativa, di un oggetto reale, cioè esterno alla mente. Tuttavia,
la conoscenza intuitiva non è solo ricettiva, in quanto presuppone l’attenzione, cioè una
disposizione attiva della coscienza, ad afferrare l’oggetto. In questo senso, la sensibilità,
per Ockham, non è separata dall’intelletto, il quale anzi partecipa all’intuizione sensibile e
la giudica, decretando l’esistenza dell’oggetto sentito. Poiché esistono solo individui, la
conoscenza intuitiva è sempre singolare – cioè conosce sempre e unicamente qualcosa di
unico e irripetibile – ed è il solo tipo di conoscenza che ci permette di accertare l’esistenza
di qualcosa, cioè di un essente e delle sue proprietà. P.e., è unicamente in base alla
conoscenza intuitiva che io posso sapere che esiste il Monte Bianco, che è alto 4810 metri,
che sta tra la Valle d’Aosta e l’Alta Savoia, che la sua cima è innevata, ecc.
La conoscenza astrattiva è, invece, il nome con cui Ockham designa la conoscenza
razionale (o intellettiva) per rimarcare che essa deriva da quella intuitiva e che i suoi
oggetti non sono reali ma solamente mentali, cioè interni alla mente. La conoscenza
razionale, infatti, conosce gli oggetti reali astraendo dalla loro esistenza, cioè ne studia le
proprietà e i rapporti indipendentemente dal fatto che esistano. Gli oggetti mentali della
conoscenza razionale possono essere:
 singolari, ovvero immagini di sensazioni passate che l’intelletto è in grado di
conservare con la memoria e di “rivedere” dentro di sé;
 universali, ovvero concetti e termini generali – p.e. “metalli” o “formiche” – che
l’intelletto usa per organizzare le sensazioni in modo economico e funzionale, p.e.
giudicando che “il Monte Bianco è un monte di natura granitica”.
Ma, se gli oggetti della conoscenza razionale sono puramente mentali, come possono avere
un valore conoscitivo? La risposta è semplice nel caso degli oggetti razionali singolari, in
quanto sono copie degli oggetti reali. Più complessa, ma ben più interessante, la risposta
che Ockham dà, invece, a proposito degli oggetti universali, a maggior ragione perché
costituiscono una parte fondamentale della conoscenza. Secondo Ockham, gli universali
non possono essere copie degli oggetti reali, dal momento che esistono solo essenti
singolari, ovvero che non esiste alcun essente generale (p.e. la specie umana). Tuttavia, gli
universali sono segni di un certo insieme di oggetti reali, cioè non sono qualcosa in se
stessi, ma meri rappresentanti di qualcos’altro che differisce da loro, cioè gli essenti
individuali.
585
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
In questo senso Ockham chiama gli universali “intenzioni” (dal latino in-tendere, cioè
tendere verso, rimandare a, riferirsi a), per significare che il loro contenuto conoscitivo
consiste esclusivamente nel loro rinviare agli oggetti reali individuali, cioè appunto nella
loro “intenzionalità”. Egli, inoltre, distingue le intenzioni in:
 intenzioni prime, quando sono segni diretti di oggetti reali, p.e. “uomo”, “ferro”,
“aquila”;
 intenzioni seconde, quando sono segni di segni, cioè segni indiretti degli oggetti
reali, p.e. “mammifero”, “metalli”, “animali”, “viventi”, ma anche “genere”, “specie”,
“sostantivo”, “contraddizione”.
Per chiarire ancor meglio il valore conoscitivo degli universali, Ockham li definisce anche
“supposizioni” (dal latino sub-ponere, cioè porre sopra, mettere una cosa al posto di
un’altra, stare per qualcos’altro) per ribadire che gli universali rappresentano qualcosa di
diverso da loro, cioè degli essenti individuali. A questo proposito, Ockham distingue anche
tre modalità di supposizione:
1. la supposizione “personale”, che si ha quando l’universale “suppone”, cioè
rappresenta, gli oggetti cui è intenzionato, come nella proposizione “ogni uomo è un
animale”, in cui “uomo” si riferisce a tutti i singoli uomini;
2. la supposizione “semplice”, che si ha quando l’universale suppone la propria
funzione logica, come nell’asserto “l’uomo è una specie”, in cui “uomo” sta per “il
concetto di uomo”;
3. la supposizione “materiale”, che si ha quando l’universale suppone la propria
funzione linguistica, come nell’enunciato “uomo ha quattro lettere”, in cui “uomo”
intenziona “la parola uomo”.
Ma qual è il rapporto che connette gli universali come segni agli oggetti individuali che
rappresentano? Ockham risponde distinguendo:
 segni logici, cioè i concetti in quanto contenuti del pensiero;
 segni linguistici, cioè i termini in quanto insiemi di suoni (se detti) o di tratti
grafici (se scritti).
Gli universali, secondo Ockham, sono in primo luogo concetti, cioè rappresentazioni
mentali di insiemi di essenti singolari, come il concetto di “cane”, che intenziona tutti i
singoli cani delle diverse razze, dagli alani ai chihuahua. I concetti, per Ockham, sono segni
“naturali”, in quanto si formano spontaneamente nel nostro intelletto in seguito alla
conoscenza intuitiva. Più precisamente, i concetti sono la registrazione mentale della
somiglianza che intercorre tra alcuni oggetti reali. In altre parole, gli essenti individuali
intenzionati da un concetto sono simili tra loro – per esempio Socrate, Aspasia, Ipazia,
Giulio Cesare, Anita Garibaldi, Mario Rossi, ecc., in riferimento al concetto di “uomo”. A
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
differenza delle sensazioni, però, i concetti non rispecchiano la realtà esterna, ma
intrattengono un rapporto di corrispondenza biunivoca con essa. Essi, afferma Ockham, si
relazionano agli individui reali allo stesso modo in cui il fumo si rapporta al fuoco, il
lamento dell’ammalato al suo dolore e il riso alla gioia. In questo senso i concetti sono
universali anche nel senso che sono comuni a tutti gli uomini; ovvero per Ockham tutti gli
uomini condividono gli stessi segni logici, pensano in un medesimo linguaggio mentale.
In secondo luogo, gli universali, continua Ockham, sono segni linguistici, cioè parole (orali
o scritte), come p.e. il termine “cane” o il termine “uomo”. In quanto tali, i segni linguistici
sono strettamente collegati ai rispettivi concetti – p.e. la parola “cane” al concetto di cane –
ma a differenza dei concetti la loro origine non è naturale ma convenzionale e dunque essi
non sono uguali per tutti gli uomini.
Ciò significa che, secondo Ockham, i termini del linguaggio sono stati forgiati
artificialmente e in modo arbitrario da diversi gruppi umani, tanto è vero che esistono
diverse lingue, e dunque diversi segni linguistici per lo stesso concetto, p.e. “dog”, “chien”,
“hund”, “cane”, ecc., per il concetto di cane. Pertanto, tra i segni linguistici e i rispettivi
oggetti individuali reali vi è una corrispondenza univoca e non necessaria, in quanto i segni
linguistici sono fungibili, cioè sostituibili a piacere.
In questo modo, nell’ambito della disputa sugli universali, Ockham si schiera decisamente
a favore dei nominalisti. Egli, infatti, come si è visto, esclude con nettezza che gli universali
abbiano un qualsiasi genere di esistenza reale. Tuttavia, egli afferma che sono “flatus
vocis” solo in quanto segni linguistici, mentre come segni logici ne asserisce l’esistenza
mentale. In tal senso Ockham è classificabile più precisamente come un nominalista
concettualista.
Sia come segni logici sia come segni linguistici, comunque, la corrispondenza degli
universali alle cose reali, secondo Ockham, è funzionale alla conoscenza. In altre parole il
senso dei segni logici e linguistici è quello di fungere da strumenti conoscitivi. In che
modo? Che funzioni svolgono? Essi hanno, innanzitutto, una funzione abbreviativa e
semplificativa.
In questo senso potremmo paragonare gli universali alle sigle: così come pensare/dire
“ONU” mi risparmia la fatica e il tempo di pensare/dire “Organizzazione delle Nazioni
Unite”, allo stesso modo pensare/dire “uomo” mi risparmia la fatica – ben più pesante – e
il tempo – assai più lungo – di pensare/dire tutti i singoli uomini (quantomeno tutti quelli
che conosco). A sua volta, la funzione abbreviativo-semplificativa rende possibile
un’ulteriore funzione, quella di relazionamento degli essenti individuali, volta a cercare e a
delineare un possibile ordine complessivo della realtà.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
In conclusione appare chiaro e netto che la teoria della conoscenza di Ockham si
caratterizza come un radicale empirismo. Infatti, secondo lui, possiamo conoscere solo il
contenuto delle nostre sensazioni:
 o ciò che osserviamo direttamente con i nostri sensi (conoscenza intuitiva);
 o ciò che si riferisce indirettamente a ciò che osserviamo direttamente con i sensi
(conoscenza astrattiva).
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 11
OCKHAM: LA SCIENZA DEVE ESSERE PROBABILISTICA E PLURALISTICA
L’età passata ha prodotto e allevato moltissimi filosofi, insigni per sapienza,
che rischiarano come fulgidi luminari con lo splendore della scienza coloro
che sono accecati dalla caligine dell’ignoranza. Ma fra gli altri filosofi il più
dotto appare Aristotele, famosissimo per la sua non piccola né disprezzabile
dottrina, il quale, avendo esplorato quasi con occhi di lince, i più profondi
segreti della natura, rivelò ai posteri le recondite verità della filosofia
naturale. […]
Certamente, quantunque quest’uomo abbia trovato molte e grandi cose con
l’aiuto di Dio, tuttavia mescolò, impedito dalla condizione umana, alcuni
errori alla verità. Perciò nessuno mi ascriva le opinioni che debbo esporre,
poiché non mi propongo di riferire ciò che io penso secondo la verità
cattolica, ma ciò che ritengo che questo filosofo abbia pensato o avrebbe
dovuto pensare, a mio parere, secondo i suoi principi. E’ lecito, senza pericolo
alcuno dell’anima, avere opinioni diverse e contrarie attorno al pensiero di
qualcuno, purché non sia un autore della Sacra Scrittura. E in questo caso un
errore non è una colpa. Ché, anzi, in un tale giudizio, è riservata a ciascuno
libertà di giudizio senza pericolo alcuno.
Ockham, Esposizione degli otto libri della Fisica, Prologo,
in Il problema della scienza, a cura di A. Siclari, Padova, 1969
Aristotele usa infine il termine-concetto di scientia in una quinta accezione,
assumendo e definendo scientia come insieme (collectio) di innumeri atti di
conoscenza distinti di natura e aventi tutti riferimento o ad un unico oggetto
o a vari oggetti fra loro connessi in un ordine sistematico.
E’ in questa (quinta) accezione che si dice che la Fisica è (una) scientia; che la
Matematica è (una) scientia; che la Metafisica è (una) scientia.
Da tutto quanto si è detto fin qui si impongono alcune conclusioni.
La prima conclusione è questa: la s c i e n t i a Metafisica (o la scientia
Matematica o la scientia Fisica) nella accezione aristotelica, alla luce di
quanto detto non costituisce una scientia nel senso in cui u n a è questa
bianchezza, e nel senso in cui uno è – e uno si dice – questo uomo o questo
asino; e dopo quanto si è detto non è difficile mostrare che propriamente non
esiste unità (organica) né di quella che viene chiamata la scientia Metafisica,
né di quella che viene chiamata la scientia Matematica, né di quella che viene
chiamata la scientia Fisica. Mostriamolo con una prima considerazione.
Quel che viene chiamata la scienza Metafisica è in effetti un insieme
(collectio) di molte proposizioni. Ora, esiste un rapporto di autonomia tale fra
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
di esse che, nello stesso momento, posso essere in errore a riguardo di una di
esse (chiamiamola A) e invece nella verità a riguardo di un’altra (che
chiameremo B). Orbene, l’errore riguardo ad A e, per contro, la
contemporanea conoscenza scientifica di B non sono fra loro incompatibili:
tant’è vero che si possono dare nello stesso momento. Questo significa anche
che la conoscenza scientifica di A e la conoscenza scientifica di B non sono
connesse e in relazione l’una con l’altra e non sono nemmeno della stessa
natura o tipo o strato di scientia. Ma se è così non sono una scientia, non
realizzano una unità di scientia, essendo appunto due distinti e non-connessi
tipi o strati di scientia.
Almeno per un caso siffatto la Metafisica non è e non ha unità-di-Scientia. Ma
lo stesso si può mostrare per la Fisica e la Matematica.
Ockham, Esposizione degli otto libri della Fisica,
in Il problema della scienza, a cura di A. Siclari, Padova, 1969
La concezione della scienza naturale (cioè della fisica) di Ockham poggia su tre
presupposti, tutti conseguenti alla sua concezione di Dio come volontà infinita:
1. la contingenza del mondo fisico, ossia il fatto che esso, in quanto creato da Dio, è
così, ma sarebbe potuto e in ogni momento potrebbe essere diverso da com’è;
2. la rasatura, cioè l’eliminazione degli universali metafisici (trascendentali, generi,
specie) operata dal principio di economicità conoscitiva detto “rasoio di Okham” (“è
superfluo fare con molte cose ciò che si può fare con poche”);
3. una teoria della conoscenza di stampo radicalmente empirista, cioè basata sulla tesi
che gli oggetti reali della conoscenza sono solo individui conoscibili soltanto
attraverso le sensazioni.
Da questi tre presupposti, per Ockham, derivano altrettanti caratteri fondamentali della
scienza:
 la scienza deve essere osservativa (experimentalis, in latino), cioè fondarsi
sull’esperienza sensibile;
 la scienza deve essere innanzitutto e soprattutto descrittiva, cioè deve registrare
fedelmente le proprietà delle cose naturali e lo svolgimento dei fenomeni naturali;
 la scienza deve essere anche e secondariamente esplicativa ma in modo pluralistico
e possibilistico, cioè deve cercare di spiegare i fenomeni naturali in base a leggi
generali fermo restando, però, che esse non sono necessarie ma solo possibili e che
dunque sono ammissibili più teorie esplicative non solo della natura nella sua
totalità ma anche anche di uno stesso singolo fenomeno naturale (p.e. la pioggia).
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Quali sono le motivazioni e le implicazioni di questi tre requisiti fondamentali della
scienza? Riguardo al primo, Ockham risponde che la scienza è conoscenza vera e che la
verità è la corrispondenza tra le proposizioni – orali o scritte – che costituiscono la
conoscenza astrattiva (o razionale), e le singole sensazioni che costituiscono la conoscenza
intuitiva (o sensibile).
P.e., “Socrate è un uomo” è una conoscenza vera se, e solo se, la conoscenza intuitiva ha
accertato che esiste un individuo di nome Socrate e che tale individuo ha le proprietà
tipiche degli altri individui umani, cioè somiglia agli altri uomini.
Per quanto riguarda il secondo requisito, il carattere descrittivo della scienza per Ockham
deriva da un altro fondamentale “taglio” operato dal suo affilato “rasoio”, quello della
concezione aristotelica della sostanza (o essenza) fatta propria dal tomismo. Aristotele
aveva distinto tra “sostanze prime” – ossia i singoli essenti individuali – e le “sostanze
seconde”, cioè le forme universali (animale, mammifero, roditore, ecc.). Ockham recidendo
le “sostanze seconde”, cioè i generi e le specie, pur usando il termine “sostanza” per
indicare una cosa singolare realmente esistente, priva tale termine di ogni implicazione
essenzialistico-metafisica.
In altre parole, per Ockham non è possibile accertare che gli essenti posseggano un’essenza
puramente razionale, e quindi non percepibile dai sensi. Egli, infatti, argomenta che noi
possiamo conoscere le singole cose solo come insiemi di molteplici proprietà non come
qualcosa di unitario che starebbe al di là delle loro proprietà e ne costituirebbe il
fondamento. P.e., noi conosciamo il colore, il peso, l’odore, la lunghezza, ecc., di una rosa,
dunque conosciamo una serie di caratteristiche, ma non conosciamo la rosa intesa come
una cosa unitaria. Possiamo supporre, secondo Ockham, che quelle caratteristiche
appartengano a una cosa unitaria, ma di questa cosa unitaria non abbiamo alcuna
conoscenza intuitiva, quindi non abbiamo alcuna certezza che esista. Da questa
argomentazione occamiana derivano due conseguenze fondamentali per la scienza:
1. la conoscenza degli oggetti e dei fenomeni naturali è sempre parziale, incompleta;
2. la scienza non deve cercare cosa sono le cose in sé, ossia le essenze delle cose, ma
deve descrivere il mondo naturale come appare, cioè mettere a fuoco quali proprietà
hanno gli essenti e come si svolgono gli eventi.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Per ciò che concerne il terzo requisito, quello della spiegazione scientifica, Ockham usa
ancora una volta il suo rasoio – cioè la sua tecnica confutativa basata sul principio di
economicità – per abbattere altri due principi metafisici aristotelico-tomistici che
costituivano il fondamento della conoscibilità dell’ordine razionale del mondo, ovvero delle
leggi universali e necessarie della natura: la causalità efficiente e la causalità finalistica.
Ockham nega, innanzitutto, che il rapporto di causa ed effetto sia conoscitivamente certo.
Infatti, ciò che chiamamo causa e ciò che chiamiamo effetto sono in realtà due fenomeni
singolari, separati e differenti, che come tali non mostrano alcun collegamento necessario e
univoco tra loro. In questo senso è impossibile dedurre un effetto da una causa o indurre
una causa da un effetto. Tuttavia, è possibile constatare intuitivamente, cioè sulla base
dell’esperienza sensibile, che una certa cosa agisce su un’altra, p.e. che un fuoco brucia un
ciocco di legno. Ma questo rapporto causale è pur sempre un evento singolare, che
possiamo conoscere solo in base a una sensazione diretta e non possiamo estendere in
modo certo a ciò che non constatiamo direttamente. Tanto è vero, argomenta Ockham, che
spesso lo stesso evento è prodotto da cause diverse, p.e. un incendio può essere prodotto
dal calore solare, o da un fulmine o dalle scintille di due pietre focaie.
In secondo luogo, quanto alla causalità finale, ovvero all’ordine finalistico del mondo,
Ockham argomenta che essa è assurda e inutile. Assurda, perché è indefinibile quale sia il
presunto fine di un evento – p.e. di un incendio che bruci un bosco; inutile perché ogni
evento si spiega in modo esauriente in base alla osservazione della sua causa effettiva, p.e.
un fulmine. Dunque, come non è possibile stabilire conoscitivamente dei legami causali
necessari tra tutte le cose, ovvero un ordine causale globale del mondo, per ragioni
analoghe è impossibile dimostrare in modo certo un legame finalistico tra tutte le cose,
ovvero un ordine finalistico complessivo del mondo.
Ma se, in base all’esperienza, non è possibile accertare rapporti universali né di causa ed
effetto né di mezzo e fine, ovvero se la conoscenza umana non è in grado di rinvenire con
certezza un ordine necessario del mondo, allora come può la scienza costruire teorie
esplicative della natura, ossia spiegare i fenomeni naturali in base a leggi razionali? La
risposta di Ockham è che può riuscirvi, seppur in modo parziale e relativo, a patto che
rinunci alla pretesa metafisica di elaborare una teoria unica e assoluta.
In altre parole, afferma Ockham, nessuna scienza – né la metafisica, né la matematica, né
la fisica – può costituirsi come un sistema ipotetico-deduttivo, cioè elaborare una teoria
basata su un principio unico dal quale sono deducibili in modo consequenziale le leggi
universali e necessarie del mondo. In alternativa, la scienza può e deve essere anche un
insieme parzialmente correlato di una pluralità di principi e leggi, strettamente connessi
all’esperienza sensibile e dunque sempre particolari e solo possibili. In questo senso, la
scienza può comprendere più teorie di spiegazione della realtà, alternative e concorrenti.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
In base a queste sue concezioni, possiamo definire quella di Ockham un’epistemologia
della modestia, cioè una filosofia della scienza basata sulla consapevolezza dei limiti della
conoscenza scientifica e della portata unicamente possibilistica delle sue teorie.
Coerentemente con la sua epistemologia della modestia, Ockham irrompe nel dibattito
scientifico della sua epoca e confuta l’univocità e la certezza delle principali tesi scientifiche
di matrice tomistica: 1) l’unicità e la finitezza del cosmo, 2) la sua origine nel tempo, 3) la
sua bipartizione in regione celeste e regione terrestre; 4) la causazione esterna del moto.
A proposito della tesi dell’unicità del cosmo, Ockham, in primo luogo, smonta l’argomento
aristotelico – secondo cui, poiché il centro dello spazio non può che essere unico, le “Terre”
di altri mondi non potrebbero che coincidere con la nostra Terra –, argomentando che
possono esistere molti spazi diversi, con caratteristiche e centri propri, comprendenti altri
e differenti astri; in secondo luogo, consequenzialmente, confuta la finitezza del cosmo,
argomentando che è plausibile che Dio, essendo infinito e onnipotente, abbia creato una
quantità infinita di materia e di conseguenza uno spazio infinito e infiniti mondi.
Riguardo la tesi dell’origine del mondo nel tempo, Ockham confuta l’argomento tomistico
– secondo cui, se il mondo fosse eterno, ossia non avesse un inizio temporale, il numero
delle rivoluzioni dei pianeti sarebbe un infinito attuale, ovvero un concetto assurdo perché
impensabile – asserendo che, poiché alle precedenti si aggiunge sempre una nuova
rivoluzione, in realtà il numero di tutte le rivoluzioni compiute in un dato istante è un
infinito potenziale, cioè un numero finito che però continua a crescere illimitatamente.
Per ciò che concerne la tesi della divisione del cosmo in due regioni, quella celeste
incorruttibile e quella terrestre corruttibile, caratterizzate da elementi e caratteristiche
differenti, Ockham argomenta che niente di fisico è davvero incorruttibile, poiché Dio
potrebbe annientarlo in qualsiasi momento; inoltre, egli brandisce ancora una volta il suo
“rasoio”, sostenendo che i quattro elementi terrestri (terra, aria, acqua, fuoco) sono più che
sufficienti a spiegare anche i fenomeni celesti, senza bisogno di dover introdurre un quinto
elemento, cioè l’etere.
Infine, in relazione alla teoria del moto, Ockham confuta l’assolutezza della spiegazione
aristotelica, secondo cui la causa del moto di un corpo è sempre esterna al corpo stesso,
sostenendo che l’anima umana e gli angeli sono causa interna dei propri moti e
ugualmente i corpi in caduta, dal momento che il loro moto è dovuto al loro peso. Inoltre,
Ockham mette anche in dubbio la spiegazione aristotelico-tomistica dei moti dei
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“proiettili”, cioè dei corpi lanciati in aria dalla forza umana o da qualche macchina (una
balestra o una catapulta). Secondo Aristotele, i proiettili non cadono subito verso il basso
non appena si separano dalla loro causa motrice (il braccio umano o una macchina) perché
sono “rimbalzati” dall’aria; Ockham afferma, invece, che questo accade perché la causa
motrice conferisce al proiettile un impulso interno che esso conserva per un certo tempo.
Va tenuto ben presente che Ockham, in omaggio alla epistemologia della modestia, non
pretende affatto che la sua confutazione delle tesi avversarie equivalga a una dimostrazione
dell’unicità e della necessità delle proprie (cadendo così nella fallacia ad ignorantiam).
Ockham è consapevole, e lo dichiara apertamente, di aver argomentato soltanto che le tesi
della fisica aristotelico-tomistica non sono dimostrabili in modo necessario, cioè che non
sono certe, ma solo possibili, e di conseguenza che non si può escludere che tesi alternative
siano vere, anche se, ugualmente, non è certo che lo siano.
Cionondimeno, le argomentazioni scientifiche di Ockham – che sintetizzano e ottimizzano
le critiche alla fisica aristotelica di molti filosofi cristiani precedenti a partire da Filopono
( L’orizzonte scientifico del Medioevo) – ebbero un effetto rivoluzionario sulla scienza
tardomedievale e diedero un notevole contributo alla formazione delle condizioni culturali
che resero possibile la nascita della scienza moderna.
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TAPPA 12
OCKHAM: LA CHIESA DEVE ESSERE COMUNITARIA E POVERA
Sappiate dunque (e sappiano tutti i cristiani) che rimasi quasi quattro interi
anni ad Avignone prima di conoscere che colui che ivi presiedeva20 era in
corso nella eretica pravità. Perché nn volendo con leggerezza credere che una
persona costituita in sì grande ufficio potesse definire che le eresie sono da
ammettersi, non mi curai né di leggere né di avere le sue costituzioni ereticali.
Ma poi offertasi l’occasione, poiché il superiore lo comandava, lessi e studiai
con diligenza le tre Costituzioni o piuttosto eretiche destituzioni, ossia Ad
conditorem, Cum inter e Quia quorundam. Nelle quali trovai palesemente
molte cose eretiche, erronee, stolte, ridicole, fantastiche, insane e
diffamatorie, contrarie ed avverse alla fede ortodossa, ai buoni costumi, alla
ragione naturale, alla certa esperienza ed alla carità fraterna, delle quali cose
ho stimato di inserirne alcune in questa lettera.
Quindi il primo errore che bisogna notare, contenuto nella costituzione Ad
conditorem, è: che l’espropriazione dei frati, con la quale col voto di povertà
si spogliano dei beni, non ha alcun valore per la perfezione se rimane la stessa
sollecitudine per le cose temporali che esisteva prima. Donde segue con
evidenza che, se i frati dopo la professione sono ugualmente solleciti dei beni
temporali come lo furono al tempo del noviziato, il loro voto di povertà non
può giovare in nulla alla perfezione. E così sembra che questi manifestamente
cada nell’errore di coloro che dicono che l’opera buona fatta col voto non è più
meritoria di quella fatta senza voto […]. La seconda asserzione ivi contenuta
è: che i frati per la mancanza della proprietà riservata alla Chiesa romana non
sono più poveri di quanto lo sarebbero se avessero gli stessi beni con quel
dominio di cui dicono di essere privi. Da ciò sembra seguire che l’Ordine
invano ed inutilmente ha rinunziato al dominio di tutti i beni temporali
riservato alla Chiesa romana. E tuttavia questa asserzione è contraria alla
divina scrittura ed alla ragione naturale, come in più opere si dimostra con
evidenza.
[…]
La quarta asserzione è: che l’uso di fatto dei beni, consumabili con l’uso, non
può essere separato dalla proprietà o dal dominio, donde segue che i frati
tutte le volte che si servono di beni consumabili con l’uso hanno la proprietà o
il dominio degli stessi, almeno in comune. Questa asserzione ripugna
apertamente alla divina scrittura, alla ragione naturale ed alla esperienza.
20
Papa Giovanni XXII.
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Infatti vediamo i ladri e gli assassini e altri servirsi di questi beni senza
dominio e proprietà; benché alcuni lecitamente e altri illecitamente.
Ockham, Lettera ai frati minori,
in G. Ockham, Filosofia, teologia e politica, a cura di A. Coccia, Andò, Palermo
La legge cristiana non è così oppressiva come era la legge mosaica. Ma se il
papa per comando e ordinazione di Cristo avesse una pienezza di potere tale
che gli fosse lecito di diritto, senza alcuna eccezione, tanto nelle cose
temporali quanto nelle spirituali, tutto ciò che non è contrario alla legge
divina e al diritto naturale, allora la legge di Cristo sarebbe spaventosamente
e incomparabilmente più oppressiva della legge antica. Tutti i cristiani,
infatti, tanto gli imperatori e i re quanto gli altri a loro soggetti, sarebbero
servi del papa secondo la più stretta accezione del termine “servo”, perché
mai vi fu alcuno, né vi sarà, che di diritto possa avere maggior potere su ogni
uomo di chi può su di esso ogni cosa che non è contraria al diritto naturale e
al diritto divino. Il papa dunque potrebbe di diritto privare il re di Francia o
qualunque altro re del suo regno, senza una colpa o una ragione, così come un
signore, senza ragione e senza colpa, può togliere a un suo servo una cosa che
gli aveva concesso; il che è assurdo. Se avesse tale pienezza di potere tanto
nelle cose temporali quanto nelle spirituali, il papa potrebbe anche imporre ai
cristiani riti esteriori più numerosi e gravosi di quelli della legge antica;
pertanto in nessun modo la legge evangelica sarebbe legge di libertà, bensì di
insopportabile servitù.
Ockham, Breve discorso sul governo tirannico, libro II, cap. 3
Benché […] Dio si serva della mediazione del papa per l’istituzione di molte
autorità ecclesiastiche, quelle secolari – vale a dire l’autorità imperiale, quella
del re e dei principi – sono stabilite da Lui senza che intervenga il pontefice,
ma solo attraverso il potere elettivo degli uomini, conferito loro da Dio e non
dal papa. Ad assegnare il potere regale non è pertanto il pontefice, bensì Dio,
attraverso il popolo, il quale riceve da Lui la facoltà di scegliersi un sovrano
che governi avendo come fine il bene comune.
Ockham, Può un principe, cap. IV
L’etica e la politica di Ockham sono incardinate sul primato della libertà individuale. A
livello etico, Okham sostiene che l’agire umano dipende unicamente dalla volontà di ogni
individuo, la quale è del tutto autonoma dall’intelletto. In altre parole, secondo Ockham, la
volontà può tanto seguire le indicazioni della ragione umana quanto contraddirle, il che
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significa che la libertà pratica dell’uomo è assoluta. Essa per Ockham è attestata in modo
evidente dall’esperienza immediata che ogni uomo ha di se stesso ogni volta che prende
una decisione.
Da questo volontarismo etico Ockham trae l’impossibilità di un’etica razionale. A suo
parere, infatti, il fine ultimo dell’agire umano – cioè la felicità intesa come bene massimo –
non è un principio naturale insito nell’uomo, come è comprovato dal fatto che molti
uomini non perseguono il bene massimo, sia perché non ritengono possa esistere sia
perché si accontentano di gradi inferiori di bene.
Così argomentata l’impossibilità di un’etica razionale, Ockham sostiene che l’unica etica
possibile è quella cristiana, ossia l’etica fondata sulla fede nei comandamenti e nelle altre
prescrizioni pratiche che Dio ha rivelato agli uomini nella sacra scrittura biblica. In questo
senso, per Ockham, il principio fondamentale dell’etica è l’amore per Dio e il fine ultimo
dell’agire umano il bene infinito, cioè la visione beatifica di Dio. Ma se l’etica deriva da Dio,
è chiaro che il criterio dell’etica – cioè il bene – non può che travalicare la ragione umana.
Infatti, afferma provocatoriamente Ockham, Dio avrebbe anche potuto comandarci di
odiarlo e in quel caso odiare Dio sarebbe stato agire bene. Insomma, per Ockham non è
vero che Dio vuole e fa il bene, bensì è vero che ciò che Dio vuole e fa è bene, solo in quanto
è lui a volerlo e a farlo. In altri termini, il bene è stabilito dalla assoluta volontà divina,
incomprensibile per la ragione umana. Ma soprattutto Ockham, richiamandosi al Vangelo
di Giovanni (“La verità vi farà liberi”), afferma che l’etica cristiana, in quanto è fondata
sulla fede, cioè su un atto di volontà, non può essere coercitiva, bensì può essere solamente
il frutto di una libera scelta individuale.
Tuttavia, secondo Ockham, se il suo principio e il suo fine ultimo non possono essere
razionalmente fondati, l’etica cristiana può e deve far uso della razionalità per definire i
modi di attuazione del primo e i mezzi per il raggiungimento del secondo. In altre parole,
l’intelletto umano deve essere uno strumento dell’etica cristiana, ovvero deve dedurre dai
suoi principi generali le regole specifiche per la loro attuazione.
Se in tal modo Ockham valorizza, ai fini della salvezza, le opere buone e quindi il merito
dell’uomo, egli attribuisce comunque alla grazia divina il ruolo preponderante per la
salvazione individuale. D’altra parte, anche in questo caso, Ockham afferma con forza che i
criteri in base ai quali Dio assegna la sua grazia sono imperscrutabili e dunque nessuno
può escludere che Dio salvi anche chi non segue l’etica cristiana ma si limita a rispettare le
regole della ragione naturale, ovvero rispetta gli altri uomini.
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Anche sul piano politico, Ockham si fa assertore della libertà individuale. Premesso che lo
Stato è una necessità imposta dall’incattivimento degli uomini dovuto al peccato originale,
e che ha il compito di garantire una pacifica convivenza tra gli uomini, Ockham,
richiamandosi a Paolo da Tarso (Epistola ai romani), afferma che le autorità politiche
sono volute da Dio.
D’altra parte egli sostiene anche che la volontà di Dio in campo politico si manifesta
attraverso il popolo. In altre parole, secondo Ockham, i governi statali devono basarsi sul
consenso dei governati, devono rispettare il loro diritto naturale alla libertà individuale e
possono quindi essere legittimamente rovesciati dai governati se non lo fanno.
Su queste basi, Ockham si pronuncia a favore della separazione tra lo Stato e la Chiesa, a
ragione della differenza delle loro funzioni, l’una terrena e l’altra ultraterrena. Ockham, di
conseguenza, confuta la tesi ierocratica della “pienezza dei poteri” del papa, ossia della
supremazia del papato sull’imperatore e su ogni altra autorità politica. Egli argomenta che
l’impero medievale, in quanto erede dell’impero romano, ovvero dello Stato per
antonomasia, è nato, per volontà divina, prima della Chiesa e del tutto indipendentemente
da essa e che pertanto non le è in alcun modo subordinato.
Semmai è la Chiesa che deve sottostare alle leggi dello Stato, sempre che lo Stato sia
legittimo, cioè sia basato sul consenso popolare e rispetti i diritti individuali. Inoltre,
argomenta ancora Ockham, il Vangelo attesta che Cristo ha rifiutato ogni potere politico
per dedicarsi unicamente alla sua missione spirituale e pertanto, come suo vicario, il papa
non può esercitare alcun potere politico ma deve svolgere unicamente una fuzione
spirituale.
Ma soprattutto Ockham confuta la legittimità del potere monarchico papale all’interno
della Chiesa stessa e, di conseguenza, ribalta l’intera concezione medievale della Chiesa
come istituzione gerarchica. Secondo Ockham, infatti, in base al Nuovo Testamento, la
chiesa deve essere concepita e vissuta semplicemente come la comunità paritetica di tutti i
cristiani, passati e presenti, e il Papa e i vescovi devono essere considerati autorità
unicamente culturali e organizzative.
Infatti solo la chiesa come comunità storica dei credenti, in perenne discussione e in
continua evoluzione, è infallibile, in quanto incarnazione dello Spirito Santo, mentre non
sono infallibili né il Papa né il concilio dei vescovi, i quali, pertanto, non hanno alcun titolo
per imporre tesi dottrinali o precetti comportamentali, ma possono solo proporli.
Insomma, continua Ockham, le autorità eccclesiastiche, a differenza dello Stato, devono
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svolgere solo una funzione di istruzione ed educazione e dunque non possono disporre di
alcun potere costrittivo, ovvero non possono obbligare con la forza gli uomini, fedeli e non,
a obbedire alla legge divina, che deve essere seguita invece solo per libera scelta
individuale.
In questa prospettiva, Ockham non esita ad accusare di eresia papa e vescovi che si
arrogano ed esercitano un potere coercitivo e a denunciare il tradimento della sua missione
da parte della Chiesa istituzionalizzata. In alternativa egli propugna un ritorno alla chiesa
originaria dei primi secoli dopo Cristo, una chiesa “perfetta” perché era appunto una libera
comunità di fedeli del tutto priva di poteri e anche di beni materiali. In questo senso, per
Ockham la vera chiesa deve essere anche povera, ossia deve rinunciare a qualsiasi
proprietà, così come indicato dall’esempio di Cristo e dei suoi discepoli nel Vangelo.
Poiché il papa aveva dichiarato eretica questa tesi, argomentando che Dio aveva dato ad
Adamo ed Eva, e quindi a tutti gli uomini, la proprietà della Terra, Ockham elabora una
teoria della proprietà destinata a esercitare una forte influenza sulla filosofia politica
successiva. Egli sostiene che nell’Eden, prima del peccato originale, Dio ha concesso ad
Adamo ed Eva solo l’usufrutto in comune della Terra, mentre il diritto alla proprietà
privata è una regola della ragione naturale che Dio ha conferito all’umanità dopo la
cacciata dall’Eden per difendere gli uomini retti dalla smania di possesso e di dominio dei
malvagi. Dunque, il diritto alla proprietà privata non rientra nella legge divina, bensì solo
nella legge umana e, pertanto, rinunciarvi per Ockham non solo non è in contrasto con
l’etica cristiana ma anzi ne costituisce il coronamento.
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