Factum infectum fieri nequit: dal reale al virtuale Moltiplicare le prospettive. Se è vero che il virtuale viene da lontano, allora, in prospettiva culturale e conseguentemente formativa, occorre porre molta attenzione a non appiattire la tematica della virtualità su quella delle tecnologie informatiche. La rappresentazione pittorica della realtà e la parola come prerogativa umana testimoniano la straordinaria vicenda culturale del bisogno degli uomini di rappresentare la realtà, di modificarla e perfino di inventarla. E’ quindi opportuno che il docente moltiplichi le prospettive di approccio alla tematica reale/virtuale, e si orienti a proporre sotto una luce nuova questioni classiche, anche apparentemente un po’ ‘polverose’. Dal virtuale al reale e ritorno. Le presentazioni della coppia reale/virtuale si affidano per lo più o ad una rappresentazione statica, cioè per contrapposizione di peculiarità, dei rapporti che intercorrono tra i due membri della coppia, oppure a una rappresentazione dinamica che privilegia il passaggio dal virtuale-potenziale al reale, ossia da ciò che può essere a ciò che è. Nella storia della filosofia però ha trovato posto, in età medievale, una disputa che si pone il problema inverso, cioè il passaggio da ciò che è avvenuto a ciò che, pur potendo avvenire (ed essendo addirittura avvenuto), non è avvenuto (o è stato annullato). Essa conferisce alla trattazione della tematica del reale e del virtuale uno spessore logico e dialettico in grado di riflettersi sull’efficacia dell’insegnamento, evitando la dispersione nella vana curiosità e la fuga delle idee, sempre in agguato quando ci si approssima a questo tipo di temi, per di più attraverso il Web e con un pubblico giovanile già orientato da una precomprensione spesso superficiale e spettacolaristica. A tavola con l’Abate Desiderio. Sulla conciliabilità di ragione e fede e sulla possibilità di ricorrere in questioni di fede alla dialettica, cioè alla scienza della discussione, per mezzo della logica e dell’argomentazione della cosiddetta logica vetus, i filosofi cristiani dell’età medievale tra X e XI secolo si confrontarono duramente, dividendosi in dialettici e antidialettici. Antidialettico fu Pier Damiani (1007-1072), per il quale le arti liberali sono superflue e la filosofia è semmai l’ancella della fede, nel senso che, se utilizzata per le questioni sacre, non deve comunque nutrire pretese di magistero. Infatti l’onnipotenza di Dio è attestata inequivocabilmente dalle Sacre Scritture, ed essa non ammette nessuna limitazione. La ragione umana non può quindi in nessun modo comprenderne il mistero, proprio perché essa è invece limitata. Sull’onnipotenza divina prese corpo una disputa nell’Abbazia di Cassino: a Pier Damiani, a pranzo con l’abate Desiderio, futuro papa con il nome di Vittore III, fu ricordato un giudizio di San Gerolamo secondo il quale Dio, per quanto onnipotente, non può rendere vergine una donna che non lo è più, perché Egli ha una potenza infinita, ma non può far sì che non sia fatto ciò che è fatto (per esempio non può far sì che Roma non sia mai esistita, pur potendo annientarla). Pier Damiani pensa invece Dio come arbitro assoluto di tutto, in grado di sovvertire le leggi della natura e di far sì che ciò che è avvenuto non lo sia, perché Dio non è nel tempo, ma nell’eternità. Dio non volle qualcosa che poi si è realizzato, ma vuole qualcosa che è accaduto. Dio però non vuole e disvuole nello stesso tempo una cosa, perché altrimenti sarebbe un folle, cioè non sarebbe perfetto e quindi non sarebbe Dio. Il terremoto di Lisbona e l’omicidio di Kennedy. Propenso all’uso della dialettica, Anselmo d’Aosta (1033-1109) prende posizione sulla questione del passaggio dal reale al virtuale nella sua classica forma riferita al tempo futuro, dovuta al celebre passo aristotelico sulla battaglia navale (De interpretatione, 9) e detta dei futuri contingenti, cioè eventi che saranno e che possono non essere: se Dio è onnipotente e presciente, come può l’uomo essere libero e quindi responsabile del proprio operato, tanto da meritare premi e punizioni in terra e nell’aldilà? Secondo Anselmo, il fatto che Dio conosce da sempre gli eventi e il loro corso non li rende necessari. Gli eventi sono e restano contingenti, perché Dio sa che una cosa accadrà necessariamente o liberamente (il terremoto di Lisbona o l’omicidio del Presidente Kennedy). Inoltre Anselmo fa pesare la distinzione tra necessità antecedente, che riguarda l’essere, obbligando una cosa ad essere così e non in un altro modo, e necessità seguente, che investe il pensiero e obbliga al rispetto del principio di non contraddizione; la prescienza divina è interessata dalla sola necessità seguente e Dio, essendo nell’eternità, non segue le scansioni del tempo dell’uomo, passato, presente e futuro. L’essere, la legge, la libertà. Secondo Tommaso d’Aquino (1225-1274), il maggiore esponente della Scolastica nel XIII secolo, essenza ed esistenza coincidono solo in Dio, che è causa dell’esistenza delle cose. La distinzione reale tra essenza ed esistenza fa sì che le cose possano essere solo per partecipazione all’essere di Dio, secondo la metafisica platonica e neoplatonica. Solo Dio può far sì che un’essenza potenziale esista reamente come atto d’essere, attraverso la creazione dal nulla. Secondo Tommaso, lo stesso Aristotele era creazionista, nonostante avesse argomentato, erroneamente, ma non irrazionalmente, l’eternità del mondo. Infatti è ammissibile logicamente la creazione eterna che la fede esclude. Se Dio è l’essere, le creature hanno l’essere e questa differenza proclama la trascendenza come peculiarità Dio, contro le posizioni panteistiche di autori come Amalrico di Bene (morto nel 1207) e Davide di Dinant (insegnò a Parigi verso il 1210), che Tommaso combatte perché, richiamandosi a Scoto Eriugena, ritenevano che tutta la realtà fosse Dio. Da un diverso punto di vista, l’esistenza della legge implica, secondo Tommaso, che l’uomo possa seguirla o meno, ovvero che sia libero. Il male è la conseguenza del libero arbitrio umano, nel senso che l’uomo conosce il bene, ma talvolta segue il male, poiché antepone beni minori a beni maggiori, sovvertendo l’ordine divino. Tommaso riafferma così il primato della coscienza in ambito morale, anche nell’interpretazione della nozione di sinderesi intesa come disposizione naturale intuitiva (il termine è una storpiatura del greco syneidesis, ‘intuizione’) dell’anima intellettiva a riconoscere i principi morali, cioè il bene in generale, rimasta intatta nonostante il peccato originale (secondo l’etimologia da synteresis, ‘conservazione’) e che è abito naturale dei principi pratici, come l’intelletto dei principi speculativi. Questa disposizione generale si offre poi nelle singole virtù, concepite come abiti e distinte in intellettuali e morali. Le virtù morali sono cardinali, fondamentali nell’ordine dei beni naturali, e teologali, indispensabili nell’ordine della felicità sovrannaturale. Le prime sono prudenza, coraggio, temperanza e giustizia; le seconde, elargite da Dio, sono fede, speranza e carità. In questo contesto, occorre quindi affrontare anche il problema della compatibilità tra onnipotenza e onniscienza divina e libertà umana. La questione è come, se Dio conosce gli eventi futuri, questi possano rimanere contingenti e non necessari. Se infatti fossero necessari, l’uomo non sarebbe libero né responsabile rispetto al loro accadere. Secondo Tommaso, Dio è eterno e quindi sa il futuro come presente, senza per questo determinarlo. Egli non è tanto previdente (prae-video, vedere prima) quanto provvidente (pro-video). Potenza assoluta e potenza ordinata. Nel XIV secolo, la questione troverà una sottilissima formulazione nella speculazione di Duns Scoto (1265-1308), secondo il quale la Rivelazione attesta che Dio è essenzialmente volontà libera. Questa peculiarità è confermata dalla filosofia in quanto essa perviene alla nozione di Ente infinito, cioè dotato di infiniti attributi, compresa la volontà. La volontà e l’intelletto, entrambi infiniti, sono coestensivi in Dio e tra loro ha senso solo una distinzione logica. La coestensività di intelletto e volontà in Dio attenua il volontarismo di Duns Scoto, cioè il primato che egli assegna alla volontà come attributo divino e peculiarità umana. Tant’è che egli, come altri filosofi cristiani prima di lui, distingue tra potenza divina assoluta, come capacità di portare all’esistenza senza limitazioni e potenza divina ordinata, cioè capacità di portare all’essere secondo un progetto, argomentando però che questa distinzione vale per Dio, ma anche per l’uomo, che infatti può agire di fatto, cioè fuori dalla legge, e di diritto, cioè secondo la legge; Dio può operare, con potenza assoluta, fuori dall’ordine delle cose che la Sua potenza ordinata ha disposto, ma sempre in un quadro razionale, cioè omogeneo all’ordine delle Sue idee e quindi non contraddittorio. Dio avrebbe potuto creare un mondo diverso, ma ha preferito garantire al creato l’ordine e l’armonia delle idee del Suo intelletto, seguendo il principio di non contraddizione. Il primato della volontà è comunque evidente nell’uomo, perché la volontà umana si affranca dagli oggetti cui si rivolge, mentre l’intelletto deve conformarsi al loro essere, per conoscerli. E’ nel caso della volontà buona che il volontarismo umano si lega al volontarismo divino: per l’uomo è buono ciò che Dio vuole . La più alta manifestazione della libertà del volere è la massima virtù cristiana, la carità, cioè l’amore incondizionato e la comunione. La volontà di Dio si manifesta nell’atto contingente della creazione, che avrebbe potuto non essere del tutto e avrebbe potuto essere fuori del tempo, ma che Dio ha voluto che fosse e che fosse nel tempo.